Vita nello Spirito

Mercoledì, 17 Ottobre 2007 01:43

La vita spirituale del battezzato (Enzo Bianchi)

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di Enzo Bianchi

I. Premessa

I.1 Tra la spiritualità e le spiritualità

Trentacinque anni fa Louis Bouyer, nel suo libro Introduzione alla vita spirituale, denunciava alcune deviazioni della spiritualità in ambiente cattolico: lo psicologismo, cioè la riduzione della vita spirituale ad alcuni stati di coscienza; poi la tendenza verso il sincretismo, che implica la sostanziale omologazione dell’esperienza religiosa ovunque si manifesti; e infine la frammentazione della spiritualità in spiritualità (al plurale) esageratamente specializzate. Questo terzo depauperamento della spiritualità lo possiamo perciò chiamare la «specializzazione delle spiritualità» 1.

I decenni trascorsi fino ai nostri giorni confermano l’analisi di Bouyer che oggi deve essere aggiornata nel senso di un aggravamento e incancrenimento di quelle tendenze, e anche di una loro articolazione. Lo psicologismo assume ormai svariati connotati: dall’istanza di igiene, liberazione e de-contaminazione della psiche umana all’interno dei movimenti terapeutici fino alle tecniche di meditazione centrate sull’”io” del soggetto e finalizzate a esso. Il rischio è quello di ridurre la vita spirituale, che ha come sua origine, suo centro e suo fine Gesù Cristo Signore e che è apertura alla relazione con lui sotto la guida normante e creativa della Parola di Dio e dello Spirito santo, a un ripiegamento autistico e narcisistico su di sé, a via psicologica di pacificazione del proprio cuore e della propria mente. In questa via la finalità data al soggetto è la sua stessa soggettività: la spiritualità diventa un cercare se stesso, la pace con sé, l’autosufficienza, più che un cercare l’altro e un aprirsi all’Altro che ci cerca. Dio, alla luce di questa lente deformante, non è più il Dio personale rivelato da Gesù Cristo che esige l’uscita da sé in vista del coinvolgimento della propria vita nell’avventura della relazione di amore con il Signore e i fratelli, ma si confonde con uno stato di benessere in sé, di autoappagamento e con un atteggiamento benevolo e generoso verso gli altri. Dobbiamo avere il coraggio di fare questa lettura: sentiamo ripetere che Dio è tornato, ma è un Dio che si stempera in religioni. Si potrebbe dire che ormai l’aria che respiriamo è segnata da questa idea: «religione sì, Cristo, Dio personale no».

La tendenza sincretista ha anch’essa fatto passi da gigante sfruttando il clima culturale di pluralismo radicale il cui esito ultimo è una sostanziale indifferenza (in senso etimologico) tra le più svariate esperienze religiose. Il relativismo, la crisi di autorità dell’istituzione-chiesa (la sua incapacità di rendere socialmente operative le proprie indicazioni), il soggettivismo che si è svincolato da ogni legame con la tradizione hanno prodotto forme religiose e atteggiamenti spirituali “babelici”: transreligiosità, doppie appartenenze teorizzate, disinvolta assunzione di elementi eterogenei rispetto alla “propria” tradizione religiosa e spirituale. Così si esprime, con amaro humour, Paul Valadier: «un pizzico di islam, un altro di giudaismo, qualche briciola di cristianesimo, un dito di nirvana, con la possibilità di tutte le combinazioni, o anche la confezione di un paganesimo su misura»2.

E’ ovvio che la configurazione progressivamente sempre più multirazziale, multiculturale e multi-religiosa della nostra società favorisce e popolarizza questo atteggiamento, diversamente elitario e intellettuale, così come fa anche nascere reazioni di rigetto per un ripiegamento rigido in un’identità confessionale stabilita e non intaccabile. Ma, evangelicamente, questa nuova situazione sociale-culturale va assunta come occasione e appello per riscoprire le autentiche sorgenti della spiritualità cristiana e abbeverarsi a esse.

Quanto alla specializzazione delle .spiritualità, essa ha conosciuto una vera esplosione. Dalle spiritualità benedettina e francescana, gesuitica e carmelitana..., a quella del clero secolare («concepita espressamente per dargli la possibilità di non essere in debito con i diversi ordini religiosi» 3), a quella del laico (successiva al Vaticano II) a sua volta ormai degenerata in una visione corporativa e parcellizzante che ha dato origine alle «spiritualità degli sposati», delle varie professioni, dai medici ai giornalisti e così via4. E il fenomeno delle cosiddette «spiritualità del genitivo». Fenomeno di distinzione tra varie forme di vita cristiana assolutamente ingiustificabile in un contesto culturale e sociale non cristiano quale quello attuale, segnato dalla fuoriuscita dal regime di cristianità, e che inoltre dimentica che «ciò che definisce la spiritualità cristiana non è la distinzione, naturale o no, di questo o quel cristiano o di questo o quel gruppo di cristiani, ma “una sola fede, un solo battesimo, un solo Signore, un unico Spirito, un unico Dio salvatore di tutti” (cf Ef 4,5-6)». Prosegue il padre Bouyer: «Indubbiamente, lo stesso Spirito che agisce in tutti deve chiedere agli uni e agli altri di compiere diverse funzioni nell’unico corpo di Cristo, e pertanto la stessa spiritualità deve avere diverse applicazioni. Ma non per questo si potrebbe parlare di “diverse spiritualità cristiane” senza tener sempre presente che esse, se sono effettivamente cristiane, differiscono solo sul piano relativamente esteriore e secondario delle applicazioni, mentre l’essenza della spiritualità cristiana veramente cattolica rimane una e inalterabile»6. Questa proliferazione delle spiritualità assomiglia piuttosto a una disgregazione della spiritualità: questo fenomeno infatti risponde all’errore per cui l’attenzione del soggetto credente, invece di restare aperto sull’oggetto vivificante e salvifico del proprio credo, ricade sul soggetto stesso e provoca una ricerca di identità non a partire dal centro essenziale e unificante della propria vita, ma attraverso l’individuazione e la creazione di distinzioni rispetto ad altri soggetti credenti. Si rischia così di smarrire il senso della fondamentale simplicitas della spiritualità cristiana connessa alla vocazione universale alla santità (Lc 39-40), l’essenziale complementarietà delle differenti forme di realizzazione dell’unica vocazione alla santità7 e soprattutto il fondamento: Gesù Cristo che è lo stesso, ieri, oggi e sempre!

I. 2 Chiesa e / o spiritualità: due realtà separate?

Se è vero che oggi è pressante una domanda di spiritualità, è altrettanto vero che essa è mischiata a fenomeni ambigui di «rinascita del sacro» e, soprattutto, che si manifesta in un clima che rischia di proporre risposte inquinate da dominanti mondane. L’individualismo imperante e la correlativa individualizzazione del credere che fa dell’adesione religiosa sempre più una scelta individuale fatta attingendo dalle bancarelle del mercato dei simboli religiosi; il relativismo; la crisi della fede in un mondo in cui il cristianesimo non è più un discorso autoevidente e fatica a trovare una sua vivibilità; l’insignificanza in cui è caduta gran parte del linguaggio e della gestualità che tradizionalmente esprimono la fede (liturgia, catechesi ecc.)... Tutti questi fenomeni vanno messi in conto nel momento in cui ci si mette a parlare della spiritualità cristiana perché essa non è costruzione teorica o astratta, ma riguarda proprio il vissuto e la vivibilità della fede in un dato tempo e spazio. Con questi (e altri) fenomeni dunque si incontra (e si scontra) il cristiano che vuole vivere l’evangelo nella sua vita e nella sua storia. La spiritualità cristiana non può che essere il tentativo di articolare “l’evangelo eterno” (Ap 14,6) all’interno di coordinate spazio-temporali precise, di vivere nel tempo attuale la sequela del Cristo che «è lo stesso ieri, oggi e sempre» (Eb 13,8). E il modo in cui questo incontro/scontro viene articolato che può far scaturire la profezia del cristiano. Ora, se è vero che l’esperienza spirituale è sempre «definita culturalmente»8, cioè relativa e interna a un momento culturale e a una situazione globale, è anche vero che essa può, a misura della sua evangelicità, divenire segno, provocare rotture, inoculare diastasi nella società, esercitare una funzione critica e un ministero profetico nella chiesa stessa e nel mondo. La vitalità di un’esperienza spirituale diviene capacità di esprimere tale esperienza con un linguaggio nuovo, non ripetitivo né formale. Ma un novum che non è attinente al contenuto, bensì alla vitalità e creatività con cui un contenuto antico è reso nuovo, con cui l’esperienza cristiana è sentita e ripercorsa nell’oggi!9

Queste annotazioni sono pertinenti al nostro argomento in quanto ci rinviano alla situazione in cui il cristiano si trova a “vivere” la propria fede oggi, dunque a esprimere la propria spiritualità: una situazione di omologazione e dunque, di scarsa visibilità, che induce una crisi di identità e di appartenenza che spesso trova sbocco nell’adesione a un movimento, nell’ingresso in un gruppo, o addirittura a una setta, dunque uno spazio ristretto, fortemente motivato, e che spesso lascia spazio e dà risposte a quel bisogno di spiritualità a cui proprio gli ambienti ecclesiali tradizionali di trasmissione della fede sembrano incapaci di andare incontro. Si pone qui il problema più grave, a mio avviso, e che tocca soprattutto la responsabilità dei presbiteri proprio per quanto attiene alla spiritualità del battezzato oggi. E cioè la distanza instauratasi fra spazio ecclesiale e spiritualità, fra esperienza ecclesiale ed esperienza spirituale, fino al punto da poter essere sentiti da molti come spazi non solo non coincidenti, ma alternativi e addirittura antagonisti fra loro. Perché la parrocchia rinnovi il suo compito di trasmissione della fede e di iniziazione alla vita nello Spirito occorre saper leggere con lucidità la situazione in cui essa si trova immersa.

Non possiamo eludere alcune domande: perché i cristiani ormai faticano a trovare all’interno delle parrocchie il posto in cui imparare a pregare, a condurre la lotta spirituale, il luogo in cui poter usufruire di un accompagnamento o di una paternità spirituale? Poco per volta avviene una divaricazione tra la spiritualità - assicurata dai centri non parrocchiali - e la parrocchia, sempre più tentata di ridurre la fede a un piano sociale o etico. Allora la parrocchia diventa un luogo in cui non è più esperita la relazione personale con il Signore Gesù, in cui la sovrastima dell’impegno sociale, caritativo e assistenziale diventa una dimensione totalizzante ed esauriente del vivere cristiano. Questi fenomeni tradiscono l’adagiarsi della predicazione e della pastorale ai dettami mondani dell’attivismo, della produttività e dell’efficienza e sono il parto di una chiesa che si sta talmente burocratizzando da autorizzare la domanda se sa ancora lasciare spazio all’azione dello Spirito.

In questo contesto, è triste confessarlo, ma avviene, proprio gli spazi parrocchiali si dimostrano a volte restii, sospettosi, e infine contrari a far spazio a esperienze di vita spirituale, a cammini di preghiera e di conoscenza della fede, a ricerche di un approfondimento umano e spirituale. «La pastorale ha finito, con l’interiorizzare l’idea che l’esperienza religiosa corrisponde soprattutto a un impegno nel mondo piuttosto che all’accesso a una relazione personale con Dio, nella chiesa, grazie alla rivelazione biblica. Il fatto religioso, la vita spirituale; sono stati minimizzati per essere trasformati in morale sociale, anzi, in ideologia. In questo contesto è senz’altro difficile riconoscere l’originalità della fede cristiana, che può ormai confondersi con qualunque altra pratica al servizio della società. L’importante è amare gli altri, far dei servizi, essere tolleranti. Una volta onorati questi valori evangelici, perché mai volgersi verso Dio per lui stesso, quando egli serve semplicemente quale equivalente simbolico di una relazione altruista?»10. «A forza di farsi quotidiana e semplice custode dell’etica, la chiesa ha finito con il disinteressarsi troppo di conservare ai fedeli il beneficio di “orientamenti” o di indicazioni per la loro vita non soltanto temporale»”. Quest’immersione nel “penultimo” ha portato la chiesa a mettere tra parentesi “le cose ultime”, a lasciare in penombra le parole più significative e proprie del suo messaggio, sì che ormai l’uomo in cerca di vita spirituale rischia di essere deluso da essa. Ed essa si trova come sguarnita e impotente di fronte alla «viscerale intensità dell’angoscia spirituale d’oggi»’2.

«Non è forse vero che persino nella stessa chiesa si dimentica troppo spesso che vincere la morte e morire alla carne sono, per l’esempio e la grazia del Cristo, promesse della rivelazione cristiana?... E come se la chiesa, trascinata dal flusso della sua storia e dall’illusorio torrente del movimento della storia, per pudore del mistero o irresolutezza di fronte ad esso, lasciasse un po’ in penombra i punti fermi più esistenziali del suo insegnamento»13. Su questo sfondo la vita spirituale nella chiesa emerge come diritto-dovere del credente e dell’intero corpo ecclesiale.

E qui si deve porre la domanda: sanno essere le parrocchie questo soggetto tradente la vita spirituale? Questo spazio di esperienza della conoscenza di Dio? Sanno essere una memoria quotidianamente rinnovata della vocazione alla santità rivolta a ciascun battezzato? Sanno essere luogo di iniziazione alla preghiera e al discernimento? Sanno cioè accompagnare il battezzato nella sua crescita fornendogli gli strumenti e le armi per la vita spirituale, cioè per inverare quotidianamente il suo battesimo?

Appare inoltre urgente il compito di riandare alle sorgenti della spiritualità cristiana con un intento di semplificazione ed essenzializzazione per riproporre oggi la spiritualità cristiana, ridandole la sua qualità cristologica.

II Il battesimo: ingresso nella vita spirituale

Janua vitae spiritualis queste parole, che si leggono all’ingresso di alcuni antichi battisteri, definiscono il battesimo come l’inizio, l’introduzione nella vita spirituale. Significato analogo ha l’espressione Fons vitae. E la vita spirituale a cui dà accesso il battesimo è la vita cristiana tout court, la vita cristiana come esistenza nella fede, nella speranza, nella carità retta dall’alleanza con il Signore. Parlare di spiritualità del battezzato significa pertanto parlare di spiritualità del cristiano: «è il battesimo vissuto che fa il cristiano»14 è che invera la sostanziale equivalenza fra battesimo, vita cristiana e santità. In questo senso occorre riscoprire che «il battesimo, è una figura decisiva, oggettiva ed ecclesiale della fede. Se essere battezzati è per principio credere, si può dire inversamente che credere è, sempre per principio, essere battezzati. È nel battesimo.., che la fede prende la sua forma fondamentale» 15 .

Occorrerebbe riscoprire questa coscienza battesimale (forse assopita dall’assuefazione all’unica forma del battesimo dei bambini) che è costitutiva del volto della chiesa e del credente e ne impregna e orienta la vita spirituale. E’ dal battesimo che discende il primato della fede nella vita spirituale come tensione a rimanere nell’adesione al Cristo Gesù di cui ci si è rivestiti nel battesimo. Non è forse il battesimo un morire con Cristo, un essere sepolti con lui e un rinascere con lui a vita nuova? E dal battesimo che la vita spirituale del cristiano riceve la sua costitutiva dimensione pasquale che la configura quale quotidiana partecipazione alla morte di Cristo per vivere da conrisorti con lui in novità di vita; è dal battesimo, impartito «nel nome del Padre, del Figlio, dello Spirito santo» (Mt 28,19), che l’esistenza cristiana riceve il suo orientamento trinitario: ad Patrem, per Christum, in Spiritu Sancto. Che è la stessa dinamica che regge la preghiera cristiana. E il battesimo in cui è inscritta la vocazione del cristiano, che configura l’esistenza cristiana come vita in stato di conversione e che impegna il credente nella quotidiana lotta contro gli idoli e la mondanità. E’ il battesimo che, incorporando a Cristo, innesta il battezzato anche nel corpo di Cristo che è la chiesa (cf Ef, 1,22-23; CoI ,18; 1Cor 12,13) e strutturacomunitariamente/ ecclesialmente la sua esistenza. La vita del cristiano sarà dunque, essenzialmente, martyrìa, testimonianza battesimale: infatti «implendum est opere quod celebratum est sacramento»16.

III. La vita spirituale del battezzato, oggi

Ricordata brevemente la ricchezza insita nel battesimo come configurazione a Cristo morto, sepolto, risorto, si tratta ora di abbozzare un quadro che traduca nell’oggi, nel vissuto, la densità spirituale da esso dischiusa.

III.1 Il primato della fede

Il battesimo è sacramentum fidei 17. La fede ha pertanto un’identità battesimale. La liturgia battesimale - dunque la lex orandi che è lex credendi e lex vivendi - esprime al tempo stesso una professione di fede e un impegno della fede: ciò che è celebratodev’essere creduto e vissuto. Solo se il cristiano, assume questa priorità della fede come trave portante della propria vita spirituale potrà immettersi in un cammino che sia anche di vivificazione umana e spirituale che sfugga a quel malessere radicato con cui i cristiani esprimono la loro difficoltà ricorrente e saliente: la scissione, la dicotomia, l’incapacità di fare armonica sintesi fra temporale e spirituale, “sacro” e “profano”, preghiera e vita, tradizione e innovazione, personale e comunitario ecc. Sicché essi, oltre a trovarsi scissi in se stessi, si vedono sempre separati fra conservatori (o reazionari) e innovatori, fra cultori dello “spirituale” e fautori dell’immersione nel sociale e così via... La catechesi battesimale paolina parla del battesimo come adesione al Cristo: «battezzati in Cristo, voi avete rivestito Cristo» (Ga13,27). La liturgia battesimale bizantina sottolinea questa relazione personale con il Cristo che arriva a improntare di sé tutta quanta l’esistenza del credente come vita «in Christo Jesu». Tale liturgia comporta questo dialogo fra celebrante e candidato al battesimo:

«- Ti unisci al Cristo? - Mi unisco a lui. - Ti sei unito al Cristo? - Mi sono unito a lui.- Credi in lui?

- Credo in lui come mio Signore e mio Dio».

Il battezzato trova cioè la sua identità profonda nel Cristo, venendo così liberato da ricerche di identità tanto ansiose quanto sterili perché guidate da un occhio rivolto a sé più che al Signore. Ricerche tanto zelanti quanto, spesso, senza discernimento, e perciò esposte al rischio di sfociare in risposte “forti”, “integriste”, più “arroganti” che “fiere”, perché non contente della forza insita nell’umiltà evangelica e nella debolezza e stoltezza della croce! Il battezzato oggi dev’essere anzitutto un credente, perché questa è l’unica opera che gli è veramente richiesta: «“Che cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio?”. Gesù rispose: “Questa è l’opera di Dio: credere in colui che egli ha mandato”» (Gv 6,28-29). Dal “che fare?” al “credere”, dalle molte “opere” all’unica e fondamentale «opera»: la fede! Ne consegue, a livello di vita spirituale del credente, che la relazione personale con Gesù, il Cristo, il Figlio di Dio, è criterio decisivo di appartenenza alla chiesa di Dio. Criterio che passa inevitabilmente in secondo piano quando la chiesa si struttura su criteri “altri” e si dà finalità “altre” rispetto a questo unum necessarium, rispetto al ministero di vivere e trasmettere la fede in Gesù, unico Signore e “Salvatore del mondo” (Gv 4,42; 1Gv 4,14).

Chi è il cristiano? La lapidaria risposta di Pietro è un inesauribile programma di vita: il cristiano è «colui che ama il Signore Gesù, pur senza averlo visto; e senza vederlo crede in lui, aderisce a lui» (cf 1Pt 1,8). Questo il nome del battezzato: christianus! Compito della spiritualità oggi è ridare pregnanza alle parole della fede, farne delle espressioni veridiche, non dei veicoli di ipocrisia o dei paraventi di un’identità incrinata 18. La fine delle ideologie e delle parole mistificanti la realtà deve insegnare anche ai cristiani a ritrovate l’etimologia delle loro parole per declinarle nell’oggi: riconciliare significante e significato, questa l’operazione ermeneutica oggi necessaria che passa attraverso un’inevitabile semplificazione ed essenzializzazione. Che passa attraverso il ritorno alle radici, alla sorgente unificante e che salva dalla disperante frammentazione che è tra le principali cause dell’odierna angoscia spirituale. Per il cristiano questa operazione comporta il ritrovare il proprio nome - christianus, di Cristo appunto - e, dopo averlo liberato dalle incrostazioni che a volte lo hanno appesantito e deformato, il riandare a ciò che esso significa e implica elementarmente: cioè il riferimento vitale e fondante, mediante la fede, a Cristo, la cui unicità ridiviene costantemente, mediante la stessa fede, contemporaneità. E questo nella convinzione che nel nome è insita la vocazione e, quindi, l’identità.

III. 2 La centralità della parola di Dio

Il primato della fede significa concretamente, per il battezzato, l’accordare uno spazio centrale alla parola di Dio nella propria vita. L’ascolto della parola di Dio nella Scrittura attraverso la lectio divina pone il credente in quotidiano contatto con la fonte stessa della spiritualità cristiana che non può che essere una spiritualità biblica celebrata nella liturgia e vissuta nel quotidiano. La Bibbia, sacramento che contiene e trasmette la parola di Dio a chi la accosta nella fede che attraverso di essa è Dio che ci parla e ci «viene incontro con sovrabbondanza d’amore» (Dv 21) per stipulare l’alleanza, immette il credente nella conoscenza, non intellettuale ma coinvolgente e dinamica, di «Gesù, il Cristo, il Figlio di Dio» (Gv 20,31). E’ questa conoscenza di fede che libera la spiritualità cristiana delle pastoie del soggettivismo, del sentimentalismo e dell’emozionalismo in cui la si fa spesso cadere e che la tiene oggettivamente ancorata a Gesù «autore e compitore della fede» (Eb 12,2). Un cristiano adulto, dalla fede matura, non può oggi sottrarsi alla fatica e alla gioia dell’assiduità con la Scrittura: questa infatti non deve beneficiare solo «coloro che sanno», ma raggiungere «tutti coloro che vivono»». La Bibbia è infatti per tutti i battezzati, non per i soli «addetti ai lavori». Recepire la centralità della parola di Dio nell’itinerario di fede, come voluto dal Concilio Vaticano II, significa dunque intraprendere la lettura spirituale della Scrittura19, assumere la lectio divina come arte dell’incontro personale con il Signore20. La parola di Dio incontrata e accolta nella lectio divina personale, nella celebrazione eucaristica e nelle liturgie della Parola, nello scambio fraterno nei gruppi biblici diviene così l’anima della spiritualità del battezzato e la realtà unificante vita personale e incontro fraterno, preghiera personale e comunitaria, liturgia e vita.

Possiamo dire che l’attuale momento ecclesiale è spiritualmente caratterizzato dalla valorizzazione della parola di Dio e dalla scoperta dell’altro (i temi etici, la solidarietà, il rispetto delle differenze e dei diversi ecc.). Il cristiano è chiamato a tenere insieme questi due poli che si sintetizzano nella carità, nell’agape. La parola di Dio è sacramento dell’amore del Padre per noi che diviene comando di amare rivolto a noi: «Tu amerai» (Lv 19,18; Mc 12,30.31 ecc.). E l’altro è per noi un costante appello all’amore; è il «fratello per cui Cristo è morto» (1Cor 8,1 1) e verso il quale noi abbiamo «il debito dell’amore» (Rm 13,8). La vita spirituale tende alla santità e il contenuto della santità è la carità (Lg 42): l’amore di Dio e dei fratelli, atto indissolubilmente unico e unitario. Separare parola di Dio e volto dell’altro, come oggi avviene a causa di una pastorale che, avendo smarrito le proprie radici, il proprio significato e la propria pregnanza, ha assunto i modi e le forme dell’assistenza sociale e si esaurisce in un attivismo caritativo, significa ancora una volta tradire quell’arte dell’unificazione a cui ci chiama la vita spirituale cristiana.

Mosso dalla fede e dall’obbedienza alla Parola il battezzato saprà discernere il volto di Cristo nella Scrittura e nel fratello e tenderà dunque a un’unificazione del proprio essere nella carità. L’assunzione convinta della centralità della parola di Dio plasma il battezzato anzitutto come uomo di ascolto, educandolo a quell’uscita da sé e apertura all’Altro che è movimento umano-spirituale fondamentale. Grazie a esso ci si apre alla chiamata che il Padre ci rivolge e si accoglie il dono dello Spirito che diviene il maestro interiore che guida i passi della nostra esistenza verso la conformazione al Figlio.

III. 3 La vita teologale e la preghiera

Il battezzato vive la sua vocazione a «divenire partecipe della natura divina» (2Pt 1,4) vivendo quotidianamente la sua “umanizzazione”: «Non sono che un uomo, un mortale» (cf At 10,26;14,15) è la sua quotidiana confessione. Così come sua confessione quotidiana è il riconoscimento del proprio peccato (cf 1Gv 1,8-10) e della propria incapacità naturale a pregare: «Lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché noi non sappiamo neppure che cosa sia conveniente domandare nella preghiera, ma è lo Spirito che intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili» (Rm 8,26). La preghiera del battezzato è partecipazione alla vita trinitaria, accoglienza e custodia in sé della vita divina, è relazione con il Padre creatore, con il Figlio redentore, con lo Spirito santificatore. Ma come far diventare, far entrare nel vissuto esistenziale queste che sembrano formule teologiche lontane dal reale?

Come ricordavamo, la struttura della preghiera cristiana è trinitaria: al Padre, per mezzo del Figlio, nello Spirito santo. Questa struttura trova una corrispondenza nella vita teologale che è vita di fede, di carità, di speranza. Fede nel Dio Padre e Creatore che precede e fonda la nostra esistenza, carità manifestata a noi nel Cristo morto e risorto che ci ha resi capaci di amarci «come lui ci ha amati» (cf Gv 13,34; 15,12); .speranza della nostra santificazione, della comunione piena con Dio nel Regno a cui ci trascina lo Spirito santo. Ma la fede si alimenta con la preghiera; la carità scissa dalla fede è assistenzialismo; la speranza senza la fede è ideologia o utopia. La preghiera allora, e sottolineo con vigore la preghiera personale, è ineliminabile dalla vita cristiana: questa diventa inconcepibile senza la preghiera e la preghiera è al cuore della vita teologale, come ci mostra il testo di Gd20-21: «Carissimi, edificatevi sulla vostra santissima fede, pregate nello Spirito santo, conservatevi nell’amore di Dio attendendo la misericordia del Signore nostro Gesù Cristo». La preghiera è l’elemento connettivo tra fede, speranza e carità (l”amore di Dio” di cui si parla è quello che i cristiani devono testimoniare) ed è spazio di esperienza della vita trinitaria: nello Spirito santo, a Dio, per mezzo del Signore Gesù Cristo.

La vita cristiana non può reggersi senza preghiera personale! E la sola partecipazione a un culto pubblico, a una liturgia comunitaria, o addirittura alla messa come unica forma di preghiera, scissa dall’incontro a tu per tu con il Signore, non può che divenire pura “scena” e arriverà forzatamente a demotivarsi da sé. La vita spirituale esige che una parte del tempo, dunque della vita, sia offerto al Signore. Affinché sia reale la ricerca di relazione con lui. La preghiera - ascolto della Parola è risposta orante ad essa e poi nei momenti del mattino e della sera - è questo sacrificio del tempo per il Signore. E’ un concreto «perdere la vita per il Signore» (cf Mc 8,35) e sta all’interno delle esigenze della sequela Christi richieste a ogni battezzato. Oggi la vita spirituale vive un difficile rapporto e confronto con il tempo, sicché, per esempio, sono particolarmente difficili la fedeltà e la perseveranza; dobbiamo confessare di non avere un rapporto armonico con il tempo anzi, di essere idolatri che «non hanno tempo»…. Ebbene, il credente deve cogliere la struttura anche umana e temporale della vita teologale come esistenza radicata in una storia, in un passato da cui si è preceduti e su cui si è innestati e grazie a cui ci si protende verso il futuro e si danno frutti nell’oggi. E la stessa struttura della preghiera: quel canovaccio normativo della preghiera cristiana che è il Padre nostro porta il credente a scoprirsi creatura preceduta (dunque fondata e limitata al tempo stesso) dal «Padre che è nei cieli»; lo conduce a confessarsi peccatore, bisognoso del perdono di Dio («rimetti a noi i nostri debiti»); lo guida a sentirsi chiamato alla comunione piena con Dio («venga il tuo regno») e con i fratelli («Padre nostro»). Il radicamento e la saldezza che la fede stabile dona alla persona sono anche la base del suo volgersi al futuro con speranza e gli consentono di fare dell’oggi un tempo fecondo, un tempo reso evento di relazione, di incontro e di carità.

La preghiera e la vita teologale si innestano dunque su una vita umana senza rinnegarla, ma orientandola. Credo che sia importante che oggi si recuperi questa dimensione anche umana della vita spirituale: la venuta del Cristo è anche per «insegnarci a vivere con sobrietà» (Tt 2,12).

La vita spirituale del cristiano oggi richiede da parte di tutti noi una vera e propria revisione. Si tratta di andare di nuovo all’essenziale della vita spirituale e di dare quel fondamento che è Gesù Cristo. Senza di questo, rischieremo di vivere in un mondo con una domanda forte di spiritualità ma che va alla deriva e che finirà per trovare risposte sempre più extracristiane. Soltanto se siamo capaci di ricentrare la spiritualità su Cristo, su di lui come il Signore, il Figlio di Dio, colui che ci salva e ci ha insegnato a vivere umanamente e ad andare al Padre nella sua sequela, allora noi saremo anche capaci di avere una spiritualità eloquente per quanti cercano vie dello spirito in questo mondo segnato dall’asfissia spirituale.

LA VITA SPIRITUALE DEL BATTEZZATO

Vorrei fornire ora anche alcune tracce di riflessione sulla centralità cristologica della vita del presbitero. Sono consapevole di affrontare temi di importanza capitale, che meriterebbero uno sviluppo ben più ampio; ritengo tuttavia che questa traccia - da me a lungo meditata in vista di un ritiro che ho tenuto recentemente ai professori, ai padri spirituali e ai rettori dei seminari della diocesi di Milano - abbia una sua validità.

Sappiamo bene che il polo cristologico e quello ecclesiologico sono i poli classici, sia nella teologia che nella spiritualità, quando si tratta di delineare la spiritualità del presbitero. Sappiamo anche che tenere insieme questi due poli è operazione difficile e delicata: se si accentua il polo cristologico fino ad assolutizzarlo, si finisce per configurare il presbitero essenzialmente come rappresentante di Cristo entro e di fronte alla comunità ecclesiale. Di questa accentuazione è segno emblematico la Mediator Dei: in essa è detto che il presbitero «personam gerit Domini Jesu Christi», rappresenta Cristo; si afferma che egli accede all’altare come ministro di Cristo, inferiore a Cristo ma superiore al popolo. Questa è un’accentuazione esclusiva del polo cristologico, che tuttavia non è sufficiente a definire il ministero e neppure a tracciare la spiritualità del presbitero.

D’altro canto, il rischio dell’accentuazione unilaterale del polo ecclesiologico è il sociologismo, con la conseguente riduzione o evacuazione del ministero. L’evacuazione non avviene soltanto a opera di quanti propugnavano, anni fa, la cosiddetta «chiesa di base», sostenendo un ministero che «viene dal basso», ma è causata anche, al di là delle intenzioni, dalla più recente insistenza nel propugnare una chiesa «tutta ministeriale», che provoca confusione e ambiguità nella connessione tra il ministero, i carismi e le diaconie.

Per tenere in equilibrio i due poli, l’unica via è la concezione cristologica della chiesa stessa. Il mistero della chiesa non ha nessuna consistenza se non nella relazione a Cristo, relazione suscitata dallo Spirito santo che compagina i credenti come assemblea e nello stesso tempo guida questa assemblea tramite dei ministri. Ecco allora il problema emergente oggi: in una chiesa tutta corresponsabile della missione (che è ben altra cosa da «tutta ministeriale») ogni cristiano, secondo il dono ricevuto, rappresenta Cristo; ogni carisma infatti si configura a Cristo, e dunque alla sua diaconia, secondo un particolare profilo. Ecco perché tutta la chiesa è corresponsabile della missione, ma la chiesa non è «tutta ministeriale».

In questo senso, quando si parla di rappresentanza di Cristo da parte dei presbiteri, è necessaria una puntuale specificazione. Si deve dire che il presbitero ha una rappresentanza presidenziale di Cristo: tutti i cristiani infatti possono rappresentare Cristo, ma la rappresentanza presidenziale è propria del presbitero; rappresentanza presidenziale non solo della comunità, ma di quella corresponsabilità comunionale della missione di cui dicevo prima. Allora il presbitero non “prolunga” (infelice espressione) la presenza di Cristo nella sua chiesa, non è neanche colui che rappresenta Cristo in senso generico, ma è al servizio della presenza di Cristo permanente tra gli uomini e rappresenta Cristo nella sua qualità di inviato dal Padre e di pastore delle pecore, cioè nella sua rappresentanza presidenziale.

Credo che si debba stare tutti molto attenti se non si vuole rischiare di evacuare il ministero presbiterale sotto la spinta di una sorta di “eccitazione” laicale: invece di promuovere veramente la vita spirituale del cristiano si finisce solo per enfatizzare delle forme corporative che non trovano nessun fondamento né biblico né nella grande tradizione. Ecco perché il Card. Ratzinger nella sua relazione al sinodo dei vescovi sui presbiteri nel 1990 (indubbiamente il miglior testo di quella assise) ha chiesto di comprendere il presbiterato a partite dalla missione del Figlio, inviato dal Padre. Gli apostoli sono infatti gli inviati del Figlio e il loro ministero si viene configurando come un ministero sacerdotale che costituisce una novità assoluta rispetto all’Antico Testamento. Tra il ministero presbiterale nella chiesa e il sacerdozio dell’Antico Testamento non c’è possibilità dì continuità: ministero voluto da Cristo, esso è totalmente e radicalmente nuovo.

Fatte queste premesse, veniamo ora a quelli che per me sono i loci cristologici su cui verificare la figura presbiterale.

1. Per il presbitero, Cristo resta colui che lo ha chiamato. Il «non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi» (Gv 15,16) deve diventare un fondamento della vita presbiterale: nei vangeli il racconto della vocazione apostolica vuole offrire un modello alla vocazione che si sarebbe reiterata nella storia. Ecco perché la vocazione presbiterale sarà sempre il convergere di una chiamata interiore dello Spirito verso una funzione specifica (cf 1Tm 3,1) che va vissuta come parola pronunciata da Gesù, parola di cui si è certi. Su questo fondamento della chiamata di Cristo si inserisce l’azione della chiesa che constata le attitudini al ministero (cf 1Tm 3,2-7) e le conferma.

Questa fede nella chiamata di Cristo va costantemente rinnovata: la vita spirituale dipende dal rapporto personale tra il presbitero e Cristo, un rapporto in cui c’è costante ascolto e costante riaffermazione di un amen definitivo all’Amen eterno. Non vanno forse in questa direzione le raccomandazioni ai presbiteri che troviamo nelle lettere pastorali? Paolo non richiama forse costantemente le esigenze della vocazione e la necessità di assumerla nella preghiera, di ricordarsi di essa, di tender grazie per essa?

Strettamente connessa con il ricordo della chiamata di Cristo è la dimensione totalizzante della risposta del chiamato: il primo passo è «abbandonare tutto». Sì, lasciare, abbandonare tutto per seguire Gesù è il preliminare ineludibile della vocazione apostolica. L’invito di Gesù così come è esplicitato dai sinottici - «lasciare casa, famiglia, campi....» (cf Me 10,29) - significa concretamente l’abbandono, in nome del ministero, delle tre realtà che costituiscono l’uomo: la terra (che rappresenta ciò che precede totalmente l’uomo), la famiglia (che rappresenta l’ambiente in cui l’uomo è nato e in cui ha legami affettivi) e il lavoro (ciò che l’uomo fa, produce con le sue mani o le sue capacità). E’ significativo notare come la terra sia abbandonata per il regno che viene, la famiglia per una nuova famiglia (il centuplo promesso in fratelli, sorelle, madri che sono coloro, dice Mt 12,50, che «fanno la volontà del Padre che è nei cieli»), mentre il lavoro viene per così dire “convertito” da pescatori a pescatori di uomini. Questo dato dell’abbandono totale richiesto, nonostante oggi si tenda per svariati motivi ad attenuarlo e sfumarlo, resta, secondo il Nuovo Testamento, un’esigenza radicale.

2. Come ulteriore conseguenza di questo stretto rapporto tra vita presbiterale e chiamata di Cristo bisogna ricordare che Gesù stesso ha voluto una visibilità e una permanenza dell’apostolo. In Mc 3,14 e paralleli, Gesù, a un certo punto del suo cammino, sceglie i dodici tra i discepoli che lui aveva chiamati e che, su questa chiamata, erano stati capaci di abbandonare tutto per seguirlo. Gesù «distingue» alcuni tra i discepoli, tra i chiamati; l’espressione greca è rude e nasconde un semitismo: «fece i dodici». Li istituì lui stesso, da solo, senza consultarsi con nessuno: è una decisione sovrana di Gesù. E li «fece» perché «stessero con lui»: espressione che indica un’assiduità, una comunione di vita costantemente rinnovata. 

Allora il presbitero deve ricordarsi non solo che la chiamata viene da Gesù e implica l’abbandono di ogni cosa, ma anche che essa richiede un coinvolgimento totale della propria vita con quella del Signore. Gesù ha avuto altri discepoli, anch’essi molto amati - si pensi a Marta, Maria e Lazzaro -, ma non a tutti ha chiesto di seguirlo fisicamente sulle strada delle Galilea e della Giudea, non a tutti ha chiesto di «stare con lui». Pietro amerà ricordare questo particolare, dicendo di sé e degli altri undici: «noi siamo entrati e usciti con lui» (At 1,21), semitismo per indicare una comunione di vita nel quotidiano. Questa compagnia, questa assiduità significa ascoltare la sua Parola, pregare con lui, essere coinvolti nella sua vita. È quanto Giovanni sintetizza nella stupenda promessa di Gesù: «Voglio che dove sono io, là sia anche il mio servo» (Gv 12,26), essere là dove è Gesù. Allora, per rappresentare Gesù a livello presidenziale, cioè per svolgere il ministero presbiterale, occorrono fedeltà e perseveranza, è necessario aver fatto e fare ogni giorno il cammino con Gesù, colui che precede i suoi quale radunatore dei figli di Dio dispersi.

3. Cristo è anche colui che invia: i dodici diventano “apostoli”, inviati. E questo invio, secondo il Nuovo Testamento, ha anche una dimensione comunitaria che troppo spesso è stata dimenticata nella storia della chiesa: gli apostoli sono inviati a predicare «a due a due» (cf Mc 6,7), e anche Paolo è accompagnato da Silvano o da Barnaba. Lo stesso autore della Prima lettera di Pietro, scrivendo alla fine dell’età apostolica e registrando la presenza dei “presbiteri”, si qualifica come presbitero” (1Pt 5,1), a indicare che ormai il ministero è sempre condiviso, la missione è ormai opera solidale. Non si tratta di monacalizzare il presbiterato con forme di vita comunitaria mutuate dal monachesimo, ma non si può tacere che un presbiterato privato della comunionalità è una ferita inferta alla vocazione così come delineata nel Nuovo Testamento: presbiteri lo si è “insieme”.

4. Quando un discepolo della scuola giovannea porta a termine l’opera del suo maestro, redigendo il capitolo 21 del Vangelo secondo Giovanni, ci offre una pagina straordinaria che fornisce elementi fondamentali per discernere chi è colui che il Signore lascia a guidare il suo gregge. In quella pagina, Pietro esordisce dicendo: «Vado a pescare», indicando così la dimensione missionaria del suo ministero. Ma, una volta tornato a riva trova il Signore risorto che gli comanda a tre riprese di «pascere le mie pecore». Il pescatore deve anche pascere? Sì, perché ormai, nella chiesa nascente, la figura presidenziale della chiesa viveva di questi due momenti: quello missionario e quello pastorale. Del resto, quale presbitero può sentirsi pastore senza essere missionario e quale può sentirsi missionario senza essere pastore? E all’interno di questo duplice movimento che il presbitero sperimenta il proprio essere chiamato da Cristo per essere apostolo, inviato e, nel contempo, per guidare come pastore una comunità che già è stata convocata.

Conclusione

Il presbitero deve trovare la sua spiritualità cristocentrica in ciò che fa di lui un presbitero. Non è solo la carità pastorale a determinare la sua spiritualità, come non lo è la carità diocesana: sono tutte formule legate a un bisogno di declinare «le spiritualità del genitivo». La spiritualità presbiterale deve nascere, crescere, essere confermata da quello che i presbiteri fanno in verità, cioè dall’essere i rappresentanti di Cristo nella sua funzione presidenziale, dall’essere apostoli, dall’essere pastori costantemente chiamati a un’assiduità con lui. Giovanni Moioli, che ha meditato a lungo sulla figura del presbitero, diceva: «Permettetemi un paradosso: la vita sacerdotale è vita cristiana, sì o no? E’ vita cristiana nella misura in cui percorre il cammino della spiritualità del battezzato; e il presbitero si sente battezzato, ma costantemente sente che la sua vocazione è anche quella di rappresentare Cristo nella presidenza della chiesa».

Non aggiungerei altro: sono linee molto schematiche, che non si attardano in vie sterili, e che possono aiutare i presbiteri a ritrovare la loro identità. Credo che il presbitero diventi sempre più fedelmente presbitero di Gesù Cristo proprio esercitando il ministero.

Note

(1) Cf. L. Bouyer, Introduzione alla vita spirituale, Borla, Torino 1965 (ed. fr. 19601), pp. 3-37

(2) P. Valadier, La chiesa chiamata in giudizio Cattolicesimo e società moderna, Queriniana, Brescia 1989, p. 75.

(3) L. Bouyer, Introduzione, p. 35.

(4) F. Esposito nella voce Giornalista del Nuovo dizionario di spiritualità, usa l’espressione «la spiritualità del giornalista» (cf Nuovo dizionario di spiritualità , a cura di S. De Fiores e T. Goffi, EP, Roma 1979, p. 724).

(5) L. Bouyer, Introduzione, p. 36.

(6) L. Bouyer, Introduzione, p. 36 (corsivo nostro).

(7) Cf. G. F. Nrambilla, Un itinerario spirituale per i giovani?, in “La rivista del cloro italiano” 7-8 (1991), pp. 508-525, sottolineatura delle “specificazioni” finisce per dimenticare l’essenziale complementarietà e dialettica delle vocazioni e degli stati di vita nella chiesa, così che questi non possono essere illuminati se non nel loro reciproco rapporto» (p. 508).

(8) B.M.-J. Herskovitis, Les beses de l’anthropologie culturelle, Paris 1952, p. 17.

(9) Cf il denso articolo di M. De Certeau, Culture e spiritualità, om Concilium” 6 (1966) pp. 60-86.

(10) T. Anatrella, Psicologie des religione de la mére, in “Christus” 154 (1992) p. 243.

(11) A. Dupront, Il presente cattolico, Potenza della religione latenza del religioso, Bollati Boringhieri, Torino 1993, p. 96.

(12) A. Dupront, Il presente, p. 97.

(13) A. Dupront, Il presente, p. 80.

(14) In AA.VV., La nascita dell’uomo nuovo. Problematica pastorale del battesimo,O.R., Milano 1970, p. 108

(15) H. Bourgeois, Teologia catecumenale. A proposito della “nuova” evangelizzazione, Queriniana, Brescia 1993, p. 59.

(16) Leone Magno, De Passione Domini Sermo XIX, 4, SC 74, p. 119.

(17) Ambrogio, De Spiritu Sancto I, 3,42; Agostino, Epist. 98,9,10; Concilio di Trwnto, Sessio VI, c. 7.

(18) Cf. M. De Certeau, Expérience chrétienne et langages de la foi, in « Christus » 46 (1965).

(19) Cf. E. Bianchi, La lettura spirituale della Scrittura oggi, in AA. VV., L’esegesi cristiana oggi, PIEMME, Casale Monferrasto 1991, pp. 215-277.

(20) Cf. E. Bianchi, Pregare la Parola. Introduzione alla lectio Divina, Gribaudi, Torino 199011 .

 

Letto 4320 volte Ultima modifica il Sabato, 23 Ottobre 2010 23:11
Fausto Ferrari

Religioso Marista
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