Alla fine, il dottore riconosce di aver appreso la lezione: il prossimo di chi subì l'aggressione e la rapina fu «colui che ebbe compassione di lui», cioè seppe rovesciare l'asse delle distanze consolidate fra vicino e lontano. Il messaggio è chiaro: la legge dona la vita se riusciamo a trasformare la massima distanza in una massima vicinanza. Perché "prossimo" è il superlativo di "vicino", non dimentichiamolo. Per far questo, l'io deve decentrarsi, abbandonare i propri sentieri, rinunciare a ogni alibi che ci consiglia di stare alla larga dall'altro o, al massimo, di aspettare che bussi alla nostra porta. Approssimarsi è voce del veto "avvicinarsi", non "lasciarsi avvicinare". La riduzione della distanza esige però uno slancio del cuore, frutto di una generosità immediata, che non si lascia depistare dai retropensieri sottili della convenienza, mascherandoli con elucubrazioni legalistiche. A volte, solo il cuore riesce a scorgere quello che gli occhi non vogliono vedere.
La Prima Lettera di Pietro, che ci accompagna nel cammino verso il IV Convegno ecclesiale, può aiutarci ulteriormente: essa assegna ai cristiani lo statuto paradossale di "eletti" e nello stesso tempo di "stranieri e pellegrini". L’elezione divina mette in cammino, introducendo un "altrove" nel modo consueto di abitare il mondo, presupposto di quella doppia cittadinanza sulla quale tanto si eserciterà il pensiero dei Padri della Chiesa. Basterebbe ricordare Agostino, il quale riprende e rilancia la lezione paolina, ricordando che la condizione dell'uomo nuovo, inaugurata dalla sequela di Cristo, non abolisce la comune appartenenza alla condizione di «uomo vecchio»: dunque non due diversi perimetri sociali, distinti fra vicini e lontani, ma il dono di una duplicità antropologica, che accomuna il cristiano, finché è pellegrino, a ogni altro essere umano, invitando a usare con grande cautela la categoria del "lontano". Si potrebbe ribadire quest'idea ricordando il grande insegnamento della Gcudium et spes: «Dominus finis est humanae historiae» (n. 45). La salvezza portata da Cristo è la meta finale di tutta la storia umana, s'intreccia con essa, si attua in essa. Non ci sono, dunque, due umanità parallele, né due storie parallele, ma un'unica umanità e un'unica storia, dentro la quale accade un evento straordinario e rigenerante, rispetto al quale - questa volta sì - gli uomini possono dividersi.
Nel dibattito ricorrente sui "vicini"' e i "lontani" nella Chiesa è opportuno, forse, ripartire da qui. Nello smarrimento del dottore della legge possiamo leggere anche uno smarrimento tipico del nostro tempo: non sappiamo più chi è il nostro prossimo, quando non sappiamo più farci prossimo. Per il cristiano che ha occupato a lungo il centro della scena, la possibilità di misurare gli "altri" con il metro unilaterale della loro distanza può essere una tentazione sempre più anacronistica, ma non meno insidiosa per una pastorale statica e attendista, che rischia di non saper più rispondere alla domanda: «Chi è il mio prossimo?».
In realtà, il modo migliore per interrogarci sui "lontani" è chiederci se e fino a che punto siamo noi a esserci allontanati: da quello strato originario della nostra comune umanità, segnata da un desiderio incancellabile di felicità e di salvezza, che Cristo ha redento e restituito in pienezza alla nostra storia ferita dal peccato. Per liberarci dal nervosismo poco evangelico di chi si sente minoranza emarginata e nostalgica, occorre dunque interrogarci intorno al paradosso della nostra prossimità mancata. Si potrebbe scoprire, allora, che per farsi prossimo occorre reimparare ogni volta a ridurre le distanze: prima di tutto da noi stessi, poiché se il dislivello fra uomo vecchio e uomo nuovo assomiglia pericolosamente a una voragine attraversabile solo con passerelle superficiali e traballanti, quello che chiamiamo prossimo ci sarà sempre più estraneo e lontano.
(da Jesus, gennaio 2006, p. 74)