Duemila anni di storia del cristianesimo dovrebbero aver insegnato un cosa. Contrariamente alle altre religioni monoteiste, il Vangelo rifiuta ogni dualismo, non ammette distinzione tra corpo e spirito, non accetta che in nome di qualunque spiritualità un credente si trinceri dentro una dimensione puramente morale per astrarsi, quasi fosse una religione pagana, dai domini del mondo e della fisicità. Un cristiano non dice di “avere” il corpo ma, invece, testimonia il proprio corpo.
Verbo fatto carne il corpo diventa patrimonio comune di Dio e dell’uomo. Nel nostro corpo traspare il “tu” con il quale Dio interpella ogni essere umano. Nel piano della salvezza operata da Cristo il corpo che noi siamo è la nostra iscrizione originaria nel senso della vita. Ciò che è inalienabilmente nostro non viene da noi e ci rinvia, innanzitutto, all’incontro tra i due corpi che hanno dato alla luce il nostro. E rinvia anche al Dio creatore e signore del corpo. Quello che abbiamo ricevuto è anche costruito da noi e dai nostri incontri, dagli altri e dagli eventi. E i credenti lo costruiscono anche con Dio perché, nella fede, vogliono rispondere al precetto con il quale San Paolo li invita a «glorificare Dio nel proprio corpo». E poiché nulla di ciò che è spirituale avviene se non nella nostra carne, Giovanni Paolo II ha ricordato più volte che «il Creatore ha assegnato all’uomo come compito il corpo».
Un compito che non conosce stagioni, che non ammette standard fisici o psichici, che abbraccia ogni forma di vita umana dal concepimento fino alla morte. E anche quest’ultima è dà intendersi in modo puramente metaforico visto che la fede cristiana, fondata su Colui che ha vinto la morte, è certa della resurrezione anche della nostra carne.
Non esiste nessuna prigione corporale per chi riesce a guardare la propria vita con gli occhi aperti del Vangelo. Come diceva San Francesco, le stagioni della nostra esistenza sono fratelli, sorelle, madri. Certo, tutto questo domanda uno sforzo continuo di attribuzione di senso e di significato a tutte le luci e a tutte le ombre che riempiono i nostri giorni e le nostre notti.
Ma che ogni creatura è preziosa agli occhi di Dio è qualcosa che il Vangelo ci dice con molta forza e molta convinzione. E. allora perché non convincerci che anche il nostro corpo deve essere “prezioso”, sempre, anche ai nostri occhi?
Filippo Di Giacomo
(da L’Ancora, dicembre 2006)
Io sono un corpo
L’incarnazione, il cuore del cristianesimo, il mistero ricordato a Natale ma celebrato dai battezzati in ogni istante della propria vita, afferma che Dio incontra l’uomo nel corpo e che il corpo è l’unica via per incontrare Dio. “Il fine di tutto l’agire di Dio”, ha scritto il teologo Friederich Oetinger, è la “corporeità”. E vivere l’obbedienza a Dio significa, per un cristiano, obbedire al proprio corpo. «Noi siamo stati santificati per mezzo dell’offerta del corpo di Cristo», insegna l’autore della lettera agli Ebrei. Il quale, al capitolo 10 della stessa lettera, prega Dio dicendo: «Tu non hai voluto né sacrificio né offerta per i peccati, un corpo invece mi hai preparato». L’incontro con le specie eucaristiche avviene tutt’ora con il riconoscimento del “Corpo di Cristo”. Cioè del modo di essere del Risorto di fronte alla nostra storia e a quella di tutto il creato. Il corpo è il nostro modo di essere al mondo. Per questo dobbiamo imparare ad abitarlo in tutta la sua potenzialità relazionale. Cristo ci ha salvati per insegnarci a plasmare la nostra vita con l’amore e il dono di noi stessi attraverso il corpo