Assonanze e affinità di un'antropologia teologica
La ricerca del «principio»
nelle catechesi di Giovanni Paolo II sull’amore umano
e lo stato originario in Hans Urs von Balthasar
di P. Loris Maria Tommasini o.c.s.o.
Introduzione
Per questo mio lavoro mi sono concentrato sul primo ciclo delle catechesi di Giovanni Paolo II (II Principio) accostandole ad una parte del libro di Hans Urs von Balthasar sugli stati di vita del cristiano. Non sarà un vero e proprio confronto analitico o comparativo: non è questo il luogo adatto e non vi sarebbe spazio per farlo in maniera soddisfacente e completa.
Presento solo delle sintesi del pensiero dei due autori in modo da permettere di scoprire le assonanze, le affinità teologiche e di linguaggio che a mio avviso sono molto evidenti.
Sappiamo che Hans Urs von Balthasar era uno dei teologi preferiti di Giovanni Paolo Il, da lui nominato cardinale per i suoi meriti teologici.
Non sono in grado di mostrare se ci sia una diretta dipendenza tra le due opere, ma è evidente la risonanza della teologia di von Balthasar nei testi del Papa. Mi riferirò in particolare alla «preistoria teologica» (Catechesi 1-1V), che von Balthasar chiama «stato originario».
1. La ricerca del «principio» nelle catechesi di Giovanni Paolo II sull’amore umano
Il ciclo delle catechesi di Giovanni Paolo li sviluppa un insegnamento sull’amore umano nel mistero divino attraverso un’antropologia teologica sull’uomo e la donna e la loro comunione di vita. Come sintesi mi servirò di uno stralcio dell’introduzione scritta dal Cardinale Angelo Scola alla prima parte delle catechesi:
«Lo scopo del primo ciclo del presente volume è la ricerca del principio.
Il principio è individuato anzitutto, mediante il commento a Mt 19,3 ss. (riferisce del dialogo tra Cristo e i farisei sul matrimonio e sulla sua indissolubilità), con i due racconti della creazione contenuti nel Libro della Genesi.
Gen 1,1-2, è il primo racconto detto elohista, posteriore nella redazione al secondo Gen 2,5-25, detto jahvista, più compiutamente comprensibile, tenendo conto anche di Gen 3-4,1.
L’analisi articolata dei due racconti ne mostra l’obiettiva corrispondenza, che si distende per tutta la prima parte del volume. Il secondo racconto, il più antico, possiede un andamento per così dire soggettivo, psicologico, in cui per la prima volta si documenta una certa autocomprensione e coscienza umana. Ad esso corrisponde l’andamento oggettivo del primo racconto, più recente, che ha un impianto teologico, cui si connettono precise implicazioni metafisiche ed etiche.
Il principio coincide allora con la vita dell’uomo, originario dalla creazione fino al peccato originale. Anzi esso si illumina definitivamente proprio in relazione con il peccato originale, come fattore discriminante le due situazioni originarie, tra loro ben distinte, quella di innocenza originaria (status naturae integrae) e quello di peccaminosità originaria (status naturae lapsae). In questa ottica il richiamo di Cristo appare come un invito, carico di conseguenze etiche, a riconoscere l’esistenza di una continuità essenziale tra lo stato storico di peccato, proprio dell’uomo di ogni tempo, e quello, in un certo senso preistorico, di innocenza. Per quanto sia grave la rottura consumatasi nel peccato di origine, è impossibile capire l’uomo storico senza radicarlo nella sua preistoria teologica rivelata.
D’altra parte nel principio cui Cristo fa riferimento è obiettivamente implicata la redenzione. Nel testo jahvista l’uomo, dopo la rottura è collocato nella prospettiva redentiva del Protoevangelo (cf. Gen 3,15). Paolo la esprime nel celebre passaggio di Rm 8,23 in cui coglie l’anelito dell’uomo alla redenzione del proprio corpo».
2. Dallo stato originario allo stato finale in Hans Urs von Balthasar2
Il testo di von Balthasar cui faccio riferimento è la sezione intitolata Dallo stato originario allo stato finale, che costituisce la prima parte del libro in questione intitolata lo sfondo.
La ricerca del «principio» ha delle profonde conseguenze sull’esistenza dell’uomo. Questo è quanto von Balthasar ha ampiamente sviluppato in modo sistematico. Nel suo testo, egli mostra la diversità e complementarietà degli stati di vita all’interno del popolo di Dio, proprio a partire da quanto accaduto nello stato originario.
2.1. Creazione e servizio
Per sapere dove l’uomo ha da stare e dove ottiene stabilità ci si deve chiedere dove Dio lo ha collocato (Cf. Gen 1,26-27: «E Dio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano su/la terra”. Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò»; Gen 2, 7: «allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente»).
«Il Signore Dio prese l’uomo e io pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse»3.
Secondo la sua destinazione, l’uomo è ciò che vi è di più alto (immagine e somiglianza di Dio); secondo la sua provenienza è ciò che vi è di più basso (plasmato dalla polvere del suolo). Così l’uomo nel suo primo stato è una doppia distanza: da Dio e dal nulla. Poiché l’uomo origina dal nulla, nella sua pur così grande somiglianza con l’immagine originaria mantiene sempre l’ineliminabile e ancor più grande dissomiglianza rispetto a Dio. L’uomo resta qualcosa di sempre altro rispetto a Dio e non è Dio. Solo rispettando questa distanza creaturale, l’uomo può partecipare all’autonomia, unicità, personalità e libertà del creatore. Se due amanti volessero tentare di possedersi l’un l’altro al punto di fondersi l’un con l’altro, se ciò fosse possibile, l’amore verrebbe annientato. L’amante per poter mettere in atto il movimento dell’amore abbisogna della non rimuovibile stabilità del suo proprio essere.
Immagine e somiglianza significa sottolineatura della distanza, affinché diventando essa ben visibile si evidenzi tanto maggiormente l’unicità dell’immagine originaria.
La creatura è presa e collocata a servizio dell’amore e questo fonda il suo stato originario.
La creatura non è essa stessa l’amore, poiché Dio è l’Amore. Essa è una natura che sta a servizio dell’amore. La destinazione dell’amore acquista per l’uomo la forma di un servizio. Ed è in questo che è alla base del concetto di stato di vita.
2.2. Grazia e missione
Il servizio alla sua vocazione imposta originariamente da Dio, di amare Dio e il prossimo, fonda lo stato umano come stato della grazia, in cui l’uomo è stato da Dio posto e deve rimanere. Un incarico, come un compito da eseguire nell’autonomia dall’archetipo (Dio) e per il quale è stato provvisto di mezzi e poteri.
Occorre guardare al Figlio e alla sua missione. Per capire come amare bisogna guardare al Figlio e alla sua obbedienza d’amore. Solo così l’uomo comprende la sua vocazione.
L’uomo è sostenuto dall’azione e dalla contemplazione. L’azione è la missione, come un compito da portare avanti. La contemplazione è la medesima missione, in quanto l’uomo può comprendere ed eseguire questo incarico tenendo fisso il suo sguardo e il suo pensiero nella volontà di Dio come già il Figlio.
Ciò significa che lo stato originario è uno stato di preghiera. Questo atto di riconoscimento della sovranità di Dio sta alla radice di azione e contemplazione che sono dunque inseparabili. Se l’uomo afferra la sua missione prega sempre, che si trovi nell’azione o nella contemplazione.
La preghiera è vera solo là dove l’uomo svolge la sua missione (Cf. Mt 7, 21: «Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli»). L’essere collocati nella volontà di Dio è la realtà originaria che sta prima di tutto il resto, che lo condiziona e lo fonda.
Missione a gloria di Dio: se gli uomini intraprendono sin da principio la loro vita sotto il punto di vista della missione a gloria di Dio, non ci sarebbe nessun problema esistenziale.
2.3. L’uomo dell’eden
La separazione degli stati di vita non era prevista nella creazione originaria, come non lo era l’ordine visibile della Chiesa. Questa demarcazione è legata con lo stato della redenzione, che presuppone lo stato della caduta, del peccato. Partendo dallo stato originario come stato dell’uomo pensato, voluto e creato originariamente da Dio, deve poter venir dedotto e rischiarato alla fine quello stato posteriore che proviene esso pure da Dio. Gli stati posteriori, ognuno alla sua maniera, devono rispecchiare qualcosa di quella idea che Dio volle sin dall’inizio realizzare con la creazione dell’uomo.
Guardare indietro allo stato di Adamo nella posizione in cui Dio l’aveva posto. Tre caratteristiche:
• assenza di pudore (Cf. Gen 2,25: «Ora tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna»);
• esistenza senza morte (Cf. Rm 5,12: «Quindi, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato»);
• uomo senza conoscenza del bene e del male.
Noi solo difficilmente vediamo in questi tre aspetti qualcosa di positivo, poiché ne abbiamo un’esperienza diversa.
L’uomo in Eden ha la libertà piena su tutta la terra, a patto che questa libertà perseveri nella piena obbedienza a Dio, riferendosi a Lui come il centro di tutte le cose. La conoscenza e la vita l’uomo non deve prenderle da sé, ma riceverle da Dio.
2.3.1
Nell’Eden, l’uomo stava nell’obbedienza a Dio e da questa obbedienza dipendevail fatto che egli regnava libero e sovrano sulla terra intera. Questo non era affatto come un’oppressione data dal divieto di Dio: questa è piuttosto l’insinuazione del serpente (Cf. Gen 3,1-5: «Il serpente era la più astuta di tutte le bestie selvatiche fatte dal Signore Dio. Egli disse alla donna: “È vero che Dio ha detto: Non dovete mangiare di nessun albero del giardino?’ Rispose la donna al serpente: “Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti morirete”. Ma il serpente disse alla donna: “Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male”»). La libertà di Adamo ed Eva era protetta dalla loro obbedienza. Era come un rapporto di fede — fiducia totale. Essi conoscevano solo il bene e il male rimaneva loro nascosto. Essi vivevano nel fuoco dell’amore. Non vivevano ancora nella tiepidezza e nell’indifferenza di bene e male, punto in cui diventa possibile la decisione tra questi due.
2.3.2
In questo imprevisto evidenziarsi della loro nudità, nell’attimo in cui essi acquistano la conoscenza del bene e del male sta la chiave per il secondo problema: l’insorgere del pudore.
«Ora tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna»4.
Solo quando si infranse l’obbedienza di fede a Dio si accorsero di essere nudi.
Come le forze dell’anima a causa del peccato si emanciparono infelicemente dall’obbedienza di fede amante, così le possibilità del corpo si svincolarono dalla fecondità dell’amore, che a sua volta era stato stravolto dalla disobbedienza, e si impossessarono con violenza dell’amore sessuale. Solo a causa di ciò sorge una differenza tra verginità e fecondità. La verginità di Eva non sarebbe stata minacciata, all’interno dell’Eden, dalla sua maternità. Solo un’immagine può ricondurci dal nostro mondo decaduto verso la forma perduta della fecondità originaria: la Vergine Maria, al contempo vergine e madre.
Adamo ed Eva vivono nella completa verginità al punto che non conoscono nemmeno la concupiscenza. Nell’Eden, verginità non significa rinuncia, ma pienezza dell’amore, forma perfetta di fecondità.
Il peccato manda in frantumi l’ordine originario e gli istinti del corpo fuoriescono nudi e crudi dai velami dell’anima: questo porta alla nascita del pudore. Né l’istinto, né il pudore sono cattivi. È cattivo il disordine che lascia uscire gli istinti e rende necessario il pudore corporale come risposta a ciò. Il pudore c’era soltanto, sinora, nella forma del tutto incosciente dell’innocenza; poiché il peccato ha distrutto l’innocenza dell’anima, esso trapassa nella forma del vergognarsi. Così il rapporto immanente tra corpo e anima resta nell’uomo lo specchio esatto del rapporto trascendente dell’anima con Dio.
2.3.3
L’uomo come creatura è un essere finito: finitezza aperta a Dio. Questa finitezza è segnata dalla morte. Con questa maledizione, che punisce la cupidigia, gli uomini vengono condannati a ciò che si erano presi da sé: alla proprietà personale. Prima del peccato, non si preoccupavano di arraffare per sé, essi vivevano in uno stato che era contemporaneamente perfetta ricchezza e perfetta povertà.
La proprietà privata, la ragione critica, la libertà di scelta, il sentimento del pudore non sono qualcosa di cattivo, ma appartengono all’esistenza tipica del dopo la caduta del peccato.
Nessuno è più libero di colui che obbedisce a Dio; nessuno è più fecondo di colui che è casto; nessuno è più ricco di chi non vuol possedere niente in proprio.
Nello stato originario i tre atteggiamenti d’amore non significano in alcun modo rinuncia; essi sono piuttosto l’espressione di un amore che possiede in sé ogni ricchezza, ogni benedizione, ogni pienezza. Chi invece vuole accaparrarsi la benedizione senza l’atteggiamento di obbedienza, castità e povertà, riceverà in cambio la maledizione.
2.4. Il cielo
Dio non congeda l’uomo dall’Eden gettandolo nella disperazione. Verrà «Una» che muterà in benedizione la maledizione di Eva. Maria, nella perfetta obbedienza del suo si, spegnerà ciò che la bramosa disobbedienza di Eva ha acceso. Poiché l’uomo soggiacque alla tentazione, deve ritrovare per strade più lunghe l’accesso allo stato finale, che partendo dallo stato originario sarebbe stato più vicino e privo di fatica.
L’anticamera del cielo è rinunciare ad ogni volontà propria, ad ogni ricerca di sé e autonomia personale che si contrappone come istanza autosufficiente alla volontà di Dio.
Nel cielo la verginità dell’Eden ritroverà il suo compimento, fecondità primariamente spirituale e solo secondariamente sessuale.
Così il cielo sarà da ultimo anche la perfetta povertà. «Quella fredda parola di mio e tuo» (Giovanni Crisostomo), là non ci sarà più, poiché tutto sarà comune a tutti. Nel cielo si dona e si riceve tutto gratis. Così lo stato finale nel cielo sarà il compimento dello stato originario dell’Eden.
Nel piano originario di Dio gli stati di vita che la Chiesa oggi conosce non avrebbero avuto bisogno di differenziarsi staccandosi dalla sua unità.
Povertà, verginità e obbedienza non sarebbero stati in opposizione alcuna rispetto a ricchezza, fecondità e libertà, ma sarebbero stati invece la loro più valida espressione e nel compimento del cielo la loro definitiva conferma. Così l’uomo avrebbe potuto adempiere la sua prima destinazione: la destinazione all’amore; povertà, verginità e obbedienza sarebbero state solamente le tre forme in cui si sarebbe manifestata la piena figura del suo amore.
3. Conclusioni
3.1
Il contesto e le finalità delle catechesi di Giovanni Paolo Il e quello dell’opera di Hans Urs von Balthasar sono differenti. Cosa li accomuna? Una visione antropologica e teologica fondata a partire dal dato biblico, attraverso una meditazione teologico-sapienziale che va scoprendo nuovi livelli interpretativi.
Comune è la ricerca di un principio teologico fondante che abbia delle ricadute esistenziali e personali sull’ethos della vita del credente.
Il Papa mostra questa continuità essenziale tra stato storico del peccato e stato preistorico di innocenza.
Von Balthasar tratteggia un vero e proprio affresco storico-salvifico completando il quadro in tutte le sue implicazioni che interessano il popolo di Dio (stati di vita del cristiano) fino all’ultima conseguenza del comune destino dello stato finale: il cielo a cui tutti sono chiamati. In questo contesto, ampio spazio è dato alla vita religiosa caratterizzata dai tre voti, Per von Balthasar, l’amore perfetto5 — offerta di sé senza condizione 6 —, a cui tutti sono chiamati, ha la forma interna del voto, mentre il raggiungimento della carità perfetta nello stato di vita dei religiosi7 si esprime istituzionalmente anche attraverso la forma esterna della professione pubblica dei voti8.
La vita religiosa riporta, fin da ora, come anticipazione profetica, allo stato delle origini. Stato delle origini (arkhé) e stato finale (éskhaton) vengono così a ricongiungersi. Il cielo, come stato finale, èla pienezza dello stato originario dell’Eden, dove «Dio sarà tutto in tutti» (cf. i Cor 5, 28). La vita religiosa è profezia escatologica di ciò a cui tutti sono chiamati nel tempo e per l’eternità come insegna il Concilio Vaticano Il:
«La vita religiosa manifesta chiaramente e fa comprendere l’intima natura della vocazione cristiana»9
«La professione dei consigli evangelici meglio manifesta a tutti i credenti i beni celesti già presenti in questo tempo, meglio testimonia l’esistenza di una vita nuova ed eterna»10
DIO TRINITA’ D’AMORE STATO DEL CIELO
quello finale
CREAZIONE Progetto originario Immagine e somiglianza | ADAMO Chiamato a servire Dio Obbedendo alla Sua volontà | STATO DELL’EDEN Obbedienza-povertà-verginità Libertà-ricchezza-fecondità |
PECCATO ORIGINALE L’uomo deforma Incapacace di amare | Disobbedienza Superbia-concupiscenza autonomia | STATO DELLA CADUTA Morte-pudore-conoscenza del bene e del male |
REDENZIONE Cristo riforma Mistero pasquale | CRISTO Obbediente-vergine-povero | STATO DELLA REDENZIONE Figli nel figlio-conformi all’immagine del Figlio Battesimo |
CHIESA | STATI DI VITA DEL CRISTIANO | |
Sacramento di salvezza | Comandamento dell’amore perfetto | |
STATO DEI CONSIGLI EVANGELICI | ||
Castità povertà obbedienza |
Dio unico amore-unica ricchezza-unica volontà
valore escatologico, anticipazione
del cielo
RITORNO AL PADRE IN CRISTO E NELLO SPIRITO SANTO
«La vita religiosa manifesta chiaramente e fa comprendere l’intima natura della vocazione cristiana» (AG 18)
« La professione dei consigli meglio manifesta a tutti i credenti i beni celesti già presenti in questo tempo, meglio testimonia l’esistenza di una vita nuova ed eterna» (LO 44).
li cielo, come stato finale, è la pienezza dello stato originario dell’Eden, dove «Dio sarà tutto in tutti» (cf. 1Cm 15,28).
lo presento questo insegnamento teologico ai giovani professi come introduzione e significato della consacrazione della vita monastico religiosa e dei voti.
Tutto ciò è un forte stimolo dal punto di vista esistenziale e spirituale, perché mostra dove Dio ci ha collocati: la bontà, la bellezza e verità del nostro genere di vita che si fa compito e missione, nella Chiesa e nel mondo, attraverso una luminosa testimonianza dei beni futuri.
Nella mia esperienza di formatore, dal punto di vista pedagogico, posso dire che questa potente visione teologica può aiutare a focalizzare l’identità della nostra vocazione monastica e a nutrire ed accrescere il desiderio della sequela radicale, propria del nostro stato di vita, che deve a Gesù Cristo giungere all’amore perfetto che ci rende sempre somiglianti.
* Monaco dell’ Abbazia Trappista, Frattocchie, Roma
NOTE
lo creò. Catechesi sull’amore umano, Città Nuova — Libreria Editrice Vaticana, Roma — Città del Vaticano 1985, Introduzione al primo ciclo, p. 27(2) Cf. Hans Urs von Balthasar, Gli stati di vista del cristiano, Jaka Book, Milano 1985, Parte prima: Lo sfondo. B. Dallo stato originario allo stato finale, pp. 61-110.
(3) Gen. 2,15.
(4) Gen 2. 25; Cf. Gen 3, 8-11: «Poi udirono il Signore Dio che passeggiava nel giardino alla brezza del giorno e l’uomo con sua moglie si nascosero dal Signore Dio, in mezzo agli alberi del giardino. Ma il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: “Dove sei?”. Rispose: “Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto”».
(5) Mt 22,34-40: «Allora i farisei, udito che egli avevo chiuso la bocca ai sadducei, si riunirono insieme e uno di loro, un dottore della legge, lo interrogò per metterlo alla prova: “Maestro, qual è il più grande comandamento della legge? “. Gli rispose: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tua come te stesso. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti”»; cf. Gv 15, 12-14: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amari. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando».
(6) IGNAZIO DI LOYOLA, Esercizi spirituali, n. 231, citato in von BALTHASAR, Op. cit., Parte prima: Lo sfondo, A, La vocazione all’amore, 4. Amore e voti, p. 54. Ne proponiamo la versione tratta dal volume IGNAZIO Dl LOYOLA, Esercizi spirituali, a cura (traduzione, introduzione e note) di P. Pietro Schiavone SJ, San Paolo, Cinisello Balsamo 1995, pp. 307-309: «l’amore consiste nella comunicazione reciproca, cioè nel dare e comunicare l’amante all’amato quello che ha, o di quello che ha o può, e cosi, a sua volta l’amato all’amante».(7) Cf. Perfectae Caritatis, I.
(8) VON BALTHASAR, Op. Cit., Parte Prima: Lo sfondo. A. La vocazione all’amore, pp. 21-59.
(9) Ad Gentes, 18.
(10) Lumen Gentium, 44.