I Dossier

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Lunedì, 29 Ottobre 2007 20:57

L’unità dell'amore (Giovanni Vannucci)

L’unità dell'amore

di Giovanni Vannucci


Cristo ha portato la Legge alla sua perfetta maturazione dischiudendo alla coscienza l’immenso orizzonte in cui l’amore di Dio, l’Invisibile, e del prossimo, il Visibile, si unificano in un’unica espressione nel cuore dell’uomo. «Ama il Signore tuo Dio con tutto te stesso; ama il prossimo tuo come te stesso» (Mt 22, 37-39). Al comandamento e, in conseguenza, all’impulso di Cristo, il cuore umano oppone due formidabili resistenze: «l’egoismo», nelle sue molteplici sfumature, e «la grettezza morale», cioè la mancanza di generosità nelle piccole e grandi cose.

L’egoismo è il primo nemico dell’amor di Dio, chi ama appassionatamente se stesso non può logicamente amare Dio: chi ama cerca sempre cosa può dare all’amato; l’egoista si domanda sempre cosa può ancora ricevere. L’amore verso l’Invisibile è un amore del tutto altruista. Chi ama Dio vuole unicamente piacere a Lui solo, per piacere a Dio niente è mai troppo duro da compiere, troppo amaro da sacrificare, e dona se stesso totalmente, senza mezze misure, senza meschine preoccupazioni. Per lui amare è tutto, che importa se il suo amore sarà corrisposto o meno? Egli è pago d’amare con tutto il cuore, con tutte le sue capacità; a questa divina ebbrezza mai arriverà l’egoista, in lui la preoccupazione di se stesso ostacolerà ogni slancio. In lui l’amore di Dio diverrà timore; la volontà di ascesa si trasformerà in ricerca di meriti; il pentimento delle colpe commesse si muterà in penosa attrizione di rimorso, causata dalla paura; l’Iddio misericordioso diverrà il Dio tremendo; l’egoista, misurando sul suo metro lo stesso Dio, verrà a trovarsi nelle condizioni di antagonista; per l’egoista una sola via è possibile: quella del più nero pessimismo e scetticismo. Ripiegato su se stesso, non pecca, ma solo per non rischiare, perciò non acquisisce neppure del merito. Potrà osservare tutti i dieci comandamenti di Mosè, ma gli sarà impossibile aprirsi al comandamento dell’amore, perché il suo cuore è colmo solo della preoccupazione di sé.

Infinite sono le sfumature dell’egoismo: si nascondono in ogni crepa della coscienza, si valgono di ogni farisaica impostura; chi ama sa scoprirle in se stesso e spietatamente le distrugge. Una delle più pericolose maschere dell’egoismo è il vittimismo. Chi passa il tempo a compiangersi, chi va in cerca di motivi di malcontento, chi si sente il centro d’attrazione di ogni possibile disgrazia, non raggiungerà mai l’amore. Per lui non esiste alcuna possibilità di volo; ripiegato in se stesso, autoirrorantesi di lacrime, si ritiene oggetto dell’universale interesse e non capisce come la vita lo sorpassi in corsa.

Se l’egoismo si oppone all’amor di Dio, la grettezza morale si oppone a quello del prossimo: «Ama il prossimo tuo come te stesso». La farisaica domanda sorge subito: «Chi è il mio prossimo?». L’egoista è anche gretto, ingeneroso, non può amare Dio, perché troppo occupato ad amare se stesso; non può amare il prossimo suo, perché non ha prossimo. Chiuso nella torre di avorio delle sue personali preoccupazioni, può giungere alla falsa generosità dell’elemosina, traendo da essa un piacere, ma non perché senta il bisogno del prossimo come un suo bisogno, come una diretta relazione di Carne e di Charitas. Il gretto può essere formalmente virtuoso, austero puritano, ipocritamente religioso, non solo per la stima che gli altri possono avere di lui, ma per un suo interiore compiacimento. A lui sono ignote tutte le generosità, le coraggiose imprese, tutti i rischi.

L’uomo è chiamato ad attuare l’amore, non il timore. Amore giocondo verso l’invisibile Iddio, senza sottigliezze metafisiche, amore grato per ogni cosa bella, per ogni cosa buona, amore sereno e fiducioso, paziente e generoso verso tutte le forme di vita, non esclusa la propria, considerata come una potenza spirituale in ascesa; amore forte e coraggioso che trae dalle avversità l’alimento per la sua nutrizione e per il suo sviluppo; amore naturale che non costa sforzo, che non si esaurisce nel dare, ma trae dalla sua stessa grandezza sempre nuovi doni. L’uomo si matura sotto il raggio dell’amore, come il frutto sotto quello del sole. Il «siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli» non è più un poetico dolcissimo comandamento, ma diviene un semplice modo di essere nella vita.

se stesso. Quando l’uomo avrà fatto dell’amore verso Dio e dell’amore per il prossimo un solo amore, l’umanità realizzerà se stessa nella pienezza della Luce.

Ogni amore che non saldi i due amori in un solo amore è limitante, soffocante e null’altro è se non amore di sé. Quando diciamo d’amare e, in nome di quest’amore, violiamo la personalità dell’altro, consumiamo solo una rapina, anche se col beneplacito del rapinato. Afferriamo per le ali la farfalla, invece di contemplarla, con amore, libera sui fiori; imprigioniamo in gabbie, non importa se d’oro, gli usignoli creati per la dolcezza delle notti. La prima lettera dell’amore si chiama «libertà»; Dio amandoci ci dona questa libertà, totalmente; ci dà tutto, si affida a noi senza difesa, non ci impone il suo amore, lo mette alla nostra portata, attendendo che impariamo a viverlo per la nostra gioia e la gioia di tutti gli esseri.

La conoscenza di tutte le conoscenze, la chiave di tutte le chiavi è questa: conoscere nel proprio mistero il mistero che tortura l’anima del fratello che ci siede accanto; fare della tortura del nostro fratello la nostra tortura, fare della gioia del nostro fratello la nostra gioia. Allora la divina realtà dell’amore trionfante irradierà le coscienze, non vi sarà più né mio né tuo, né padrone né servo, né oppresso né oppressore, non vi sarà più il male perché il male è uno solo: quello che soffre l’altro e che tu, per nessuna cosa al mondo, vorresti causare né causerai.

(Giovanni Vannucci, «L’unità dell’amore» in Risveglio della coscienza, Sotto il Monte, ed. CENS, 1984, 30a domenica del tempo ordinario - Anno A, pp. 180-182).
Spiritualità e liturgia, Oriente e Occidente:
nel tempo, nell'eternità

di Tomàs Spidlìk







Durante il concilio Vaticano II, un osservatore venuto dall’Oriente fu accompagnato per Roma da un esperto occidentale, per fare la conoscenza delle opere pastorali. È naturale che in tali occasioni si sia tentati di vantarsi, almeno modestamente. Venne quindi un’ugualmente modesta reazione dall’altra parte: «Anche voi aspettate la venuta di Gesù Cristo, o volete anticipatamente fare tutto già qui a Roma?».

In modo meno grazioso, ma come una seria obiezione, sentiamo lo stesso rimprovero dai teologi orientali: i latini non pregano «maranatha», «Vieni Signore Gesù» (Ap 22,20), ma temono il dies irae, calamitatis et miseriae. Pur ammettendo la serietà della questione, dobbiamo tuttavia fin dall’inizio mettere in guardia che la sua formulazione non è tanto semplice. Sia in Occidente sia in Oriente si manifestano diverse tendenze contraddittorie.l

Le diverse posizioni escatologiche

Assai vicini alla posizione orientale sembrano i protestanti che si rifanno a Karl Barth. Il primato nella vita spirituale spetta alla fede. Essa si esercita nel tempo e ci prepara alle realtà sperate, che però rimangono trascendenti, al di là del tempo. Il regno escatologico non si costruisce nel presente: «In questo tempo qua, cioè nella successione degli avvenimenti, in ciò che chiamiamo storia, la Chiesa non ha niente da aspettare».2 In tal senso, poteva scrivere un altro protestante: «Non vi è un progresso nel corso della storia né dal punto di vista morale, né dal punto di vista sociale, né dal punto di vista spirituale. Esistono, certamente, progressi tecnici, ma è soltanto in questo dominio che esistono dei miglioramenti. In tutti gli altri settori dell’attività umana vi sono dei cambiamenti, dei passi in avanti (nel senso di un’evoluzione), ma nessun miglioramento nel vero senso».3

È naturale che anche fra i protestanti si siano levate varie voci contro una posizione così radicale. Lo testimoniano le discussioni che ci furono durante la seconda assemblea del Consiglio ecumenico delle Chiese a Evanston (USA 1954; ndr). Parecchi giudicarono il precedente atteggiamento troppo pessimistico, perché sembrava non tener conto «dell’opera attuale dello Spirito Santo nelle Chiese e nel mondo» e non vedere i concreti segni visibili della nostra speranza già attorno a noi.4

A questa tendenza dei protestanti, che sosteneva una rottura fra la vita presente e quella futura, già a prima vista si opponeva l’insegnamento cattolico sui «meriti», cioè sulla dipendenza della vita futura dalla condotta terrena. Eppure, anche fra i cattolici, c’era una corrente, chiamata «teologia escatologica», opposta alla «teologia dell’incarnazione».5

Nello spirito della teologia escatologica di L. Bouyer,6 la vita spirituale dev’essere tutta concentrata sulla venuta gloriosa di Cristo negli ultimi giorni del mondo. Bisogna prestare attenzione alla condanna del mondo e alla vittoria sopra il male per mezzo della croce. Questo è stato lo scopo dell’incarnazione di Cristo, e questo dev’essere quindi anche lo scopo principale della vita cristiana di ogni giorno, piuttosto che sognare una conquista del mondo presente.

Teologi rinomati come G. Thils, D. Dubarle e molti altri professano al contrario la teologia dell’incarnazione nel senso seguente: il male esiste ancora nel mondo, ma è già vinto; la croce di Cristo è inseparabile dalla risurrezione ed è la vista della risurrezione che deve condurre i nostri sforzi positivi per salvare la vita del mondo e tutti i suoi valori. Era la tendenza appoggiata fortemente da Teilhard de Chardin.

Degli orientali ortodossi citiamo, per il momento, soltanto ciò che viene presentato come tipicamente caratteristico per la spiritualità russa.7 A. von Harnack considera la Chiesa russa come l’esempio di una religione dell’aldilà, che «tocca appena terra con i piedi» e vuole gioire della «pregustazione della vita celeste».8 Soprattutto l’ala estrema del raskol, i cristiani senza pope, voleva rendere il popolo libero, senza impedimenti, tutto rivolto ai fini ultimi.9 A causa di questo, essi hanno manifestato una resistenza eccezionale alla sofferenza.

Una lunga serie di motivi ha contribuito a formare questa mentalità escatologica. N. Berdjaev propone i suoi: «Nella vita dei popoli, in generale, ci sono due miti che possono diventare dinamici: il mito delle origini e il mito della fine. Presso i russi ha dominato il secondo: il mito escatologico». Il XIX secolo è esemplare a questo proposito. Vi ritroviamo una ricerca appassionata del progresso, della rivoluzione mondiale, del socialismo (un escatologismo profano) e, allo stesso tempo, una coscienza profondamente acuta della vanità, della malvagità, della meschinità che questo progresso, questa civiltà e questa rivoluzione danno.10

Un’altra ragione, proposta questa volta da S. Bulgakov, è il carattere storico del pensiero russo, per il quale lo scopo della storia è di superare la storia e riflettere il trascendente.11 La terza ragione può essere compresa a partire dall’atteggiamento verso la verità. Se la verità è sentita come viva, allora la maniera della sua conoscenza sarà l’incontro con una persona, la persona di Cristo, la sola verità in pienezza. «La visione faccia a faccia – scrive V. Lossky – è una comunione per così dire esistenziale con Cristo, in cui ciascuno trova la pienezza, conoscendo Dio personalmente ed essendo personalmente conosciuto da Dio».12

La prima sorgente di tali opposizioni

Osservando la varietà di questi diversi escatologismi, ci chiediamo come si possa trovare un giusto equilibrio, una sintesi coerente. Ma è davvero necessario cercarla? Sarà forse meglio ammettere con V. Solov’ëv che tutte queste tendenze provengono da un falso presupposto: la divisione in due mondi, che non è cristiana anche se può sembrarlo. È un’affermazione insolita, coraggiosa. Ma mi viene in mente di comparare, in questo contesto, Solov’ëv con il grande filosofo ebreo Filone di Alessandria. Questi, studiando le brillanti riflessioni dei filosofi antichi su Dio, concluse che essi sono tutti «atei», perché non conoscono il Theos della Bibbia. Fu all’inizio della nostra era. E oggi?

Il nostro Credo cristiano comincia con la giusta professione: «Credo in un solo Dio Padre, creatore del cielo e della terra». E lo stesso simbolo di fede termina con un’altra professione: «Credo nella vita eterna». Purtroppo, l’antico errore si ripete qui: i suoi interpreti non avvertono a sufficienza che il senso cristiano della vita eterna è essenzialmente diverso dalle attese escatologiche predicate altrove. Da una tale confusione come possiamo aspettare un’escatologia autentica? Proviamo quindi a seguire la riflessione di Solov’ëv, come è proposta nel suo opuscolo Fondamenti spirituali della vita.13

La risurrezione, problema personale di Solov’ëv

Per seguire più facilmente le sue riflessioni, dividiamole schematicamente secondo il loro contenuto.

1. Il male domina nel mondo. Il pensatore lo ha scoperto progressivamente nella sua vita. Proveniva da una famiglia devota, ma frequentando l’università ha perso la fede perché vi si insegnavano le teorie darwinistiche. Dice scherzando: le bestie antidiluviane insegnate dalla teoria evoluzionista hanno avuto la meglio sul «catechismo antidiluviano» della mia nonna. Constatiamo che il male si manifesta dovunque, è universale. Un sasso respinge un altro sasso, un animale mangia un altro animale, e tra gli uomini uno trova il suo posto nella vita grazie alla morte degli altri. Aiutano poco le prediche sulla carità. La vita esige il combattimento e i combattimenti causano la morte, considerata come «unica vera giustizia».

2. L’esistenza del bene. Dopo la prima constatazione pessimistica, facciamo però anche una diversa esperienza: se ci fosse solo il male, il mondo non esisterebbe. Dunque, ci deve essere anche il bene. Come si manifesta? Prima di Darwin, che insegnava la lotta per la vita, il grande naturalista svedese Linneo aveva scoperto nella natura ciò che chiama entelecheia. Egli aveva osservato che uno si offre per far vivere un altro: vediamo, ad esempio, che le foglie di un albero cadono perché il frutto ha bisogno di sole, che la mano protegge l’occhio, che la mamma si offre per il bambino... Queste offerte generose salvano la vita nella natura.

Da ciò si è formato il principio della condotta morale umana: l’egoismo è male, il bene è sacrificarsi per gli altri. In questo senso educhiamo già i bambini. Quando uno muore per la patria gli si fa un monumento: «Qui un soldato è morto per la patria», «Qui un medico è morto curando i malati» ecc. Ma nonostante i grandi elogi di tali atti eroici sorgono anche dubbi: quanti sacrifici si fanno per le istituzioni pubbliche, ma gli stati sono forse diventati migliori? Assomigliano alla divinità Moloch che mangiava i propri figli. Un uomo onesto si chiede: ho il diritto di sacrificare un altro per vivere bene, onorare i soldati che sono morti in guerra perché io possa godere della pace? Dostoevskij ne I fratelli Karamazov fa dire a Ivan: «Io rifiuterei di andare in paradiso se costasse una sola lacrima di un povero bambino». Perché esigere sacrifici degli altri per vivere? La conclusione che ne segue è che la morale laica non è capace di risolvere il problema del male.

3. La soluzione religiosa ci viene in aiuto. Tutte le religioni concordano in questa fede fondamentale: nella vita presente non esiste la giustizia, ma in futuro, dopo la morte, entreremo nella vita eterna, nella quale si troverà la giusta ricompensa per ogni bene. Si direbbe che questa consolazione religiosa possa venire accettata con soddisfazione da tutti gli uomini. Ma succede una cosa strana: parecchi la disprezzano o cercano di ignorarla, soprattutto più fra gli uomini che fra le donne. Forse la ragione è anche psicologica. La donna per secoli è stata abituata a faticare per ciò che passa: preparare un cibo che è subito consumato, pulire cose che saranno di nuovo sporcate, e così via. L’uomo invece, quando fa una cosa, pensa: «Voglio che questo rimanga». Le promesse religiose non attirano la maggioranza della gente. Ed è giusto così: la vita presente è mia, perché sacrificarla per un’altra?

4. La novità cristiana. Riflettendo su questi problemi, Solov’ëv cadde di nuovo nei dubbi. Cercò di rendersi conto di che cosa si possa trovare di nuovo nel cristianesimo. Osserviamo la vita di Gesù Cristo stesso. Egli ha offerto la sua vita per gli altri, è quindi un grande eroe dell’umanità; è passato da questa vita e ora siede alla destra del Padre, e lo stesso promette a coloro che osservano i suoi comandamenti. Si può credere che vi sia un elemento davvero nuovo rispetto alle altre religioni? Può darsi che l’idea di paradiso che ci forniscono gli autori cristiani sia più nobile delle immaginazioni degli altri, ma la sostanza rimane sempre la stessa.

Si tratta di obiezioni così gravi che Solov’ëv stesso non sapeva come risolverle. Cominciò a studiare le religioni, era in pericolo di perdere di nuovo la fede pensando: perché siamo così orgogliosi noi cristiani, se lo scopo della nostra religione è uguale a quello che propongono gli altri? Ma alla fine trovò la risposta giusta: si convertì proprio come il Faust di Goethe, quando suonavano le campane di Pasqua. Il che significa: Cristo dopo la morte non è entrato in un’altra vita, ma è ritornato nella stessa sua vita, ha divinizzato la vita che aveva prima. Questo fatto è una totale novità rispetto a tutte le religioni. Se Cristo non fosse risorto dai morti, la nostra religione sarebbe vana, dice san Paolo (cf. Gal 2,20).

Concludendo, possiamo dire che la fede nella risurrezione è il messaggio decisivo per gli uomini che vivono nel mondo. È la professione di una sola vita, che è eterna. Ciò però si armonizza poco con le prediche che sentiamo nelle nostre chiese, che ci vogliono commuovere con le bellezze del cielo riservate alle anime separate dal corpo. Pur credendo nella risurrezione dei corpi, non riescono a dirci che cosa questo significhi per la vita presente. Come allora comprenderla? Elenchiamo le diverse opinioni.

La vita nel tempo infinito?

La visione beata delle anime separate dal corpo nel cielo è stata oggetto di molte discussioni. Ma è più facile immaginarsela della vita dell’uomo risorto nel corpo. Essa, come pare, suppone un dinamismo evolutivo, che si realizza nel tempo. Perciò l’immaginazione popolare si rappresenta l’eternità come un tempo infinitamente lungo, un tempo senza timori che si possa fermare, che tutto passi. Ciò deve consolare i beati e, al contrario, incutere un salutare timore a quelli che sono sul cammino della perdizione.

Non solo per la gente del popolo, ma anche per i teologi è difficile conciliare il concetto di un inferno «infinitamente lungo» con l’infinita misericordia di Dio. Ma anche il paradiso, se si vuole immaginare in questa maniera, non soddisfa. Secondo una leggenda proveniente dalla Moravia, un monaco si poneva la domanda: come mai i santi nel paradiso non si annoiano di cantare «Santo, santo...» per tutta l’eternità? Cadde durante una passeggiata nel bosco, si addormentò per cent’anni, ma sognò che tutto questo sarebbe durato solo il tempo di un «Santo, santo». Così avrebbe compreso che per Dio «cent’anni sono come un momento» (cf. Sal 89,4). Va da sé che una soluzione così illusoria non può soddisfare.

L’eternità opposta al tempo

Il pensiero primitivo non crede che il tempo come tale possa cessare. È considerato di sua natura infinito. Perciò lo si è divinizzato come «dio Chronos», che mangia i suoi figli, cioè distrugge tutto ciò che nel tempo è nato. Il simbolo della vita allora è una ruota, che «gira e rigira» (Qo 1,6), o un serpente che si morde la coda. Fu la mitologia greca a insinuare la vittoria su questa tirannia della durata eterna. Zeus, destinato a diventare dio supremo, uccise il padre Chronos e fondò il regno olimpico. È un’allusione vaga a ciò che la filosofia greca doveva esprimere in concetti. Qui Eraclito pianse che «tutto passa e niente rimane» (panta rei). Al contrario, Parmenide dichiarò che ogni movimento è illusione e che la vera realtà è immutabile, quindi eterna.

Anche la filosofia greca classica ha definito il tempo per mezzo del movimento (numerus motus secundum prius et posterius), ma lo stesso Platone identificò la vera realtà con le idee immutabili, e quindi eterne. Dato che fra i due modi di vivere non c’è conciliazione, la porta che conduce l’uomo dalla vita di questo mondo all’eternita è la morte. Se Platone definì la vera filosofia «studio della morte», la morte stessa sarebbe un bene. Ciò è evidentemente anti-cristiano.

Se si trasferiscono queste considerazioni nell’antropologia cristiana, anche qui il passaggio alla vita eterna per mezzo della morte apparirà come cessazione di ogni movimento. Lo illustra un’icona del monte Sinai: la scala del paradiso. I monaci vi salgono. Sui gradini inferiori i monaci sono assai movimentati, più sono in alto più sono tranquilli, e quello che sta sul gradino più alto è del tutto immobile.

Questa concezione aiuta a rispondere alle obiezioni formulate precedentemente, evita la difficoltà con la lunga durata dell’inferno o le gioie del paradiso, non vi è pensabile per i dannati una «conversione» dopo la morte né la possibilità di peccare per i beati; la felicità eterna svuota ogni desiderio che spingerebbe a cambiare (satiato desiderio cessat appetitus). Il concetto dell’eternità in questo senso sembra solido. Nondimeno, sorge un dubbio: nel caso di un uomo vivente con il corpo, destinato a risorgere, questa immutabilità può essere ancora chiamata «vita»? Non sarebbe piuttosto una specie di museo per le statue?

Soluzione cristologica

Non ci si può quindi aspettare che i ragionamenti umani risolvano il problema proposto. Ma non offrono una risposta adatta neanche le religioni. Credono nella vita eterna, ma il confine della morte separa radicalmente questa dalla vita presente. Nel cristianesimo, al contrario, incontriamo un’essenziale novità. Cristo, nato sotto il regno dell’imperatore Augusto e morto sotto Ponzio Pilato, visse come uomo una vita collocata nello spazio e sviluppatasi nel dinamismo del tempo, ma inseparabilmente unita al Verbo di Dio.

Tutta la sua personalità con tutte le sue azioni partecipò all’eternità di Dio. La sua carne umana è divina, divina ed eterna è quindi anche la sua natività, i misteri della sua vita terrena, la morte, la risurrezione. Nella sua persona, il tempo e l’eternità si uniscono. Gesù «ha vissuto» con i discepoli, ma anche ha promesso «Io sono con voi» (Mt 28,20). San Paolo è sicuro che egli vive in lui (Gal 2,20), non solo secondo la sua divinità, ma come Cristo, Dio-Uomo.

La storia di Israele cominciò con la scala di Giacobbe, la discesa degli angeli (cf. Gen 28). In tutta la storia sacra, Dio scende fra il suo popolo e negli ultimi tempi scese in Gesù Cristo. Dunque, Gesù Cristo è colui nel quale la vita divina – che è eterna – scende nella vita umana – che è nel tempo –. La Chiesa deve fare ciò che è scritto: «Fate questo in memoria di me», nel suo ricordo, perché il ricordo fa rivivere ciò che è passato. Già da un punto di vista psicologico, la memoria rende la cosa ricordata in qualche modo presente. Gli stoici dicevano che l’uomo è ciò che ricorda, e l’amnesia, la perdita della memoria, significa la perdita della persona. Ricordare il passato, fare del passato un presente, come quelli che stanno morendo e dicono di vedere tutta la loro vita davanti agli occhi, questo è umano.

Nella nostra messa questo ricordo è sacramentale, il che significa che nel ricordo divino quello che Dio pensa esiste. Dunque, nella messa, tutti i misteri di Cristo sono qui, sono eterni, non li vediamo ancora ma sono eterni. E cosa ricordiamo? Non solo Gesù Cristo, ma tutto il suo corpo mistico: quindi ricordiamo i martiri, i santi, i confessori – nella messa orientale si ricordano anche i concili –, e tutto passa nell’eternità. I maroniti si chiedono: quando è avvenuta la risurrezione? Rispondono: nell’ora terza nel pomeriggio del Venerdì santo. E quando si è rivelata? Rispondono: la domenica mattina. La domenica è la rivelazione di ciò che esiste, noi viviamo il Sabato santo, tutto è già presente, tutto è qui, soltanto che non lo vediamo ancora, solo lo crediamo.

Presenza anamnetica nella liturgia

La presenza di Cristo nella Chiesa è universale, ma in modo particolare si manifesta nell’anamnesi liturgica. Ogni ricordo rende presente in modo psicologico il passato. Il ricordo liturgico è sacramentale, possiede una forza divino-umana che rende il passato realmente presente. Perciò S. Bulgakov parla del «realismo dei riti» e B. Bobrinskoy del loro «carattere eucaristico», in modo che nelle Chiese Cristo veramente nasce a Natale e durante la Pasqua veramente risorge.14

In questo contesto è inserita anche la vita di noi tutti singoli. Lo illustra un passaggio tratto dalla vita di una santa suora. Essa curava una malata che aveva il cancro nel volto, tutti la evitavano. La suora le disse: «Pregate». La malata rispose: «Se Dio esistesse, io non sarei qui». Però dopo un mese quella stessa malata disse: «Dio deve esistere». «E come siete arrivata a questa conclusione?», chiese la suora. «Quel bene che fate per me non può andare perduto».

Allora il migliore termine con il quale possiamo esprimere la nostra speranza è simbolico: l’eterna liturgia. La verità fondamentale del cristianesimo è il ritorno a tutta la vita. Dunque, niente di buono può essere perduto e deve acquistare il valore eterno. Questa è l’eternità che ci consola, l’eternità della persona e del bene che ha fatto.

Ciò che abbiamo detto si può leggere simbolicamente espresso nel film Nostalgia di A. Tarkovskij. Qual è il contenuto? Un profugo da un paese totalitario viene in Italia, una metafora di un viaggio dalla terra in paradiso. È incantato, quante belle cose da vedere! Ma dopo un po’ sbadiglia e dice: «Come mi annoia vedere sempre belle cose!». Se la felicità eterna fosse soltanto un lungo tempo, non si risolverebbe niente. Allora il nostro eroe va in giro e vede sul Campidoglio un fanatico che si versa addosso della benzina e si accende a suon di musica. Muore per qualche ideale, per una cosa eterna, ciò che i russi chiamano la «falsa eternità» delle idee astratte. Per il fanatico del film, morire per un ideale vale l’eternità. La gente lo attornia, ci sono i carabinieri che guardano sbalorditi e c’è un cane che abbaia terribilmente. Il cane è un simbolo della vita, e il suo abbaiare solleva la domanda: si può dare la vita per una cosa astratta? La vita è concreta, perciò anche l’eroe del film rimane colpito dall’abbaiare del cane.

Allora che cosa deve fare? Il profugo va ancora in giro e incontra una processione di donne che portano la statua della Madonna e cantano: sono simbolo del cammino verso l’eternità. Egli chiede a una di queste vecchiette: «Che cosa si può fare qui?». E quella: «Mettiti in ginocchio». Come a dire: con la testa non ci arriverai, è un mistero che Dio deve rivelarti. Questo mistero infatti glielo mostra un «sacro pazzo», un jurodivyj, come se ne conoscono tanti nella spiritualità russa. Gli offre una piccola candela – la fede – e con questa fede il profugo ripassa tutta la sua vita. Il film si conclude con la scena del protagonista che muore in una chiesa aperta ai quattro lati e vede come tutto ciò che ha vissuto sta ritornando, dalla gioventù fino al presente. Si vive «l’eterna memoria», l’anamnesi liturgica di tutto ciò che si è vissuto in corrispondenza con la vocazione particolare di ognuno che parte della vocazione cosmica umana.15

Il sentimento religioso innato nel cuore dell’uomo ha condotto i popoli, secondo Solov’ëv, ad attribuire agli dèi il governo del mondo, e così i cesari romani, che credevano di governare tutta la terra abitata (oikoumene), pretendevano per sé gli onori divini. Ma ogni uomo in Cristo è re e signore della terra. Perciò deve chiedersi: quale posto l’azione divina riserva all’uomo nel governo della natura inferiore?

La responsabilità dell’uomo in rapporto alla creazione è espressa da san Giovanni Crisostomo in termini fortemente semitici: «Il monarca è necessario ai sudditi e i sudditi al monarca, come la testa ai piedi».16 Dio, che è artefice e artigiano del mondo, nel paradiso comandò ad Adamo di coltivare la terra. Questa vocazione, sviluppata dai padri della Chiesa, è stata specificata sotto diversi aspetti particolari dai sociologi russi. Secondo P. Florenskij, ad esempio, l’ideale dell’ascesi cristiana non è il disprezzo del mondo, bensì la sua gioiosa accettazione, che mira a farlo diventare più ricco elevandolo a un livello superiore, fino alla pienezza di una vita trasfigurata.17

Concreatore del cosmo

Il primo oggetto della creatività umana è la propria persona e la sua crescita. Ma, insieme con la crescita spirituale dell’anima, cresce anche lo spazio in cui l’uomo vive, che è come un prolungamento del suo corpo e che gli è dato da Dio per realizzarsi. Lo osserviamo anche dal punto di vista naturale nella creatività tecnica tanto sviluppata attraverso i secoli. Nel suo libro La filosofia dell’opera comune, Fedorov si oppone alla filosofia vista come «passiva contemplazione del mondo», e propone una «filosofia dell’azione». La sua tesi principale è la seguente: l’idea non è soggettiva, né solamente oggettiva, essa è proiettiva, cioè conoscere il mondo è dominarlo, trasformarlo, creare.18 Si trovano echi del suo entusiasmo in Solov’ëv, Berdjaev e altri.19

Ci domandiamo quale sia la misura di questa creatività umana. Il desiderio è enorme, ma d’altra parte sentiamo la nostra impotenza e debolezza davanti alle forze cosmiche. Allora la nostra attività nel cosmo sembra essere limitata a modesti adattamenti. Il mondo sembra come una casa prestataci per la nostra breve dimora sulla terra, nella quale possiamo permetterci piccoli aggiustamenti.

I predicatori quaresimali ammoniscono di non occuparci troppo del «diversivo provvisorio» (caupona huius mundi quae ruit) e di pensare piuttosto al momento in cui dovremo abbandonare tutto. È senza dubbio una meditazione utile per guarire la mente invasa da preoccupazioni vane e inutili. Tuttavia, esprime solo un aspetto parziale. Una tale concezione minimalistica non può essere applicata al «primogenito degli uomini», a Cristo, per mezzo del quale è stato creato tutto ciò che è nel mondo. E se l’uomo unisce la sua attività con Cristo, anche il suo effetto nel cosmo sarà inaspettatamente superiore alla sua naturale debolezza umana. Perciò i padri, nella loro polemica contro il fatalismo, insistono sulla responsabilità dell’uomo per la sorte del mondo intero. Al loro seguito Solov’ëv20 parla quasi al modo degli ecologisti moderni, affermando che la «cosmologia spirituale» deve precedere il tema della «giustizia sociale».21

Questa cooperazione mostra vari aspetti. Enumeriamone i principali, già indicati dai padri antichi: purificare e santificare il mondo; i russi amano aggiungere: cristificare e vivificare il mondo, condurlo alla bellezza divinizzata.

Purificare e santificare il mondo

Secondo la terminologia dei padri, la responsabilità verso il cosmo consiste nella sua purificazione22 dalle forze maligne.23 A causa della malvagità degli uomini, la terra è maledetta.24 «Essa sarà di nuovo incorruttibile grazie a noi», dice Crisostomo.25 I russi, a causa della loro relazione personale con la terra, hanno una sorta di complesso di colpa verso essa.26 Esiste dunque un «peccato cosmico» nel quale siamo implicati.27

Proprio perché il peccato ci riguarda, possiamo purificare la terra. Bulgakov parla di liberare la terra dalla sua forza «magica». Nei suoi rapporti con il mondo, «l’uomo è caduto nella tentazione del "magico", sperando di raggiungere il possesso del mondo attraverso mezzi esterni, non spirituali». Il mondo resiste agli sforzi dell’uomo per possederlo, e la mancanza di armonia tra l’uomo e il mondo conduce alla necessità del lavoro e dell’attività economica che ha il «carattere della magia grigia», «riunendo in se stessa in un intreccio inestricabile la magia nera e bianca, le potenze della luce e delle tenebre, dell’essere e del non essere».28 Il testo esprime una profonda osservazione. Nelle superstizioni di carattere «magico» si manifesta la tendenza ad attribuire alla materia le forze che sono proprie della persona. Il peccato «spersonalizza» le nostre relazioni con il mondo. Senza rendercene troppo conto, aspettiamo dagli oggetti del mondo gli effetti che si possono ottenere solo dalla relazione personale con Dio. Così si arriva a un paradosso: gli scienziati atei combattono la vera religione come superstizione e in realtà talvolta cadono in una superstizione vera e propria.

L’aspetto positivo della purificazione è la santificazione.29 L’ascesi cristiana vuole che il mondo sia più ricco attraverso un’elevazione verso un livello superiore di vita trasfigurata, «teofanica».30 L’espressione iconografica di questo pensiero è l’immagine della pentecoste, con la figura del «re cosmo» che, in prigione, gioisce per la venuta dello Spirito Santo sugli apostoli. Secondo i Versi spirituali dei cantici popolari russi, il mondo desidera tornare alla propria natura spirituale, perché la sua origine è la forza dello Spirito Santo.31 Solov’ëv chiama questa trasfigurazione del cosmo «teurgica». Nelle Vite dei santi, il mondo si manifesta allo stato paradisiaco. Il ritorno alla sua natura spirituale è evocato attraverso l’obbedienza degli animali selvaggi agli uomini santi. Numerosi esempi si trovano nei racconti biografici dei padri e, tra i russi, Serafino di Sarov, al quale un orso selvaggio portava il miele, può essere preso come esempio.

L’aspetto cristologico32 della cosmologia dei padri sviluppava la realtà di Cristo come Logos-Parola, come legge universale di tutte le creature. Solov’ëv riprende lo stesso pensiero in modo dinamico, unendolo con il moderno evoluzionismo. È arrivato a mostrare magistralmente come tutto il processo cosmico, tutta l’evoluzione della natura, dai primi elementi alla coscienza umana, il lungo processo della storia universale, tutto tenda verso il Dio-Uomo, verso il Cristo incarnato e il Cristo cosmico.33

In questo contesto, si possono distinguere quattro grandi fasi dell’evoluzione cosmica: 1) dalla prima materia alla prima cellula viva; 2) dalla prima vita all’homo sapiens; 3) dal primo uomo all’Uomo-Dio, Cristo incarnato in un preciso momento storico; 4) dal Cristo storico al Cristo universale. Dato che noi viviamo ora nella quarta fase, la nostra cooperazione riprende la funzione della madre di Dio, di Maria. Infatti, come ha detto già Origene, ogni anima cristiana deve far incarnare Cristo nel mondo in cui vive.34

Vivificare il cosmo35

Cristo è la legge del mondo e Cristo è la vita. Tutto ciò che partecipa a lui è vivificato. Lo sviluppo, talvolta assai suggestivo, di questa idea si può dire tipicamente russo. I russi considerano il cosmo come un organismo vivo.36 In modo più conforme alla tradizione patristica lo esprime la seguente considerazione. La santità è la vita. Se l’uomo santifica il mondo, lo «vivifica» collaborando con lo Spirito che è zoopoion, vivificante. Purtroppo la società tecnica fa dimenticare questa vocazione dell’uomo. Le scienze tecniche pongono la macchina tra l’uomo e la natura e spezzano il legame interiore fra l’uomo e il cosmo.

Berdjaev37 afferma questo e invita i cristiani a unirsi all’opera comune, destinata a superare le forze cosmiche che producono la morte e a ristabilire la vita universale: «Se essi non creano un regno di lavoro cristianamente spiritualizzato, se non superano il dualismo della ragione teorica e della ragione pratica, del lavoro intellettuale e del lavoro fisico, non ci sarà affatto la vita cristiana».

Invece di fare conclusioni di ciò su cui abbiamo ragionato in forma teorica, preferisco illustrarle con la riflessione di un altro russo. Il grande poeta e pensatore russo V. Ivanov ha finito la sua vita ricca di contatti culturali a Roma, insegnando e scrivendo. I suoi occhi restavano sempre aperti alle bellezze dell’arte e proiettava in esse le sue meditazioni religiose. In questo senso egli scoprì una relazione spirituale fra tre capolavori della pittura rinascimentale italiana: il Giudizio finale di Michelangelo nella Cappella sistina, la Trasfigurazione sul monte Tabor di Raffaello nei Musei vaticani e L’ultima cena di Leonardo da Vinci a Milano.

La statura di Cristo nell’affresco di Michelangelo esprime quest’attitudine: «Via, lontano da me, maledetti, voi tutti che operate il male!» (cf. Mt 25,41). È ciò che Ivanov chiama mistica «anarchica», di negazione. Non è proprio Cristo, ma l’anima di un giovane idealista, il quale, scoprendo il male del mondo, pensa di poterlo sconfiggere. Tale è anche la mistica buddhista, che cerca di distruggere in un nirvana tutto ciò che non è assoluto.

Dopo un periodo di giovinezza «anarchica», coloro che amano la bellezza giungono alla mistica «della speranza», espressa da Raffaello nella Trasfigurazione: è la visione del mondo futuro, spirituale, vissuta nella fuga sul monte per dimenticare i mali e le sofferenze presenti. Infine, l’ultimo grado dell’attitudine mistica si contempla nella Cena di Leonardo da Vinci: Gesù inclina la testa per dire «sì» a tutto ciò che viene dalla provvidenza del Padre, anche al tradimento di Giuda. Ma nello stesso tempo offre il pane di vita, istituisce l’eucaristia, sacramento di vita. Con ciò tutto è trasformato, ogni bellezza desiderata è già presente.

Ivanov conclude: «Noi vediamo qui la sofferenza del mondo, ma anche l’oro della coppa e, attraverso le finestre strette, penetra l’azzurro della sera. La bellezza di questa pace d’azzurro discende nel triclinio del sacrificio».38Beata pacis visio.

Note

l Cf. T. Spidlík, L’idea russa. Un’altra visione dell’uomo, Lipa, Roma 1995, 239ss.

2 K. Barth, Credo, Paris 1936, 154.

3 J. Ellul, «Sur le pessimisme chrétien», in Fois et vie (1954), 170.

4 Cf. The Evanston Report, London 1954, 70; EO 5/87ss.

5 J. Malevez, «Deux théologies catholiques de l’histoire», in Bijdragen 10(1949), 225-240.

6 «Christianisme et théologie», in La vie intellectuelle, t. 16, ottobre 1948, 6-38.

7 Spidlík, L’idea russa, 239ss.

8 Cf. E. Benz, Die Ostkirche im Lichte der protestantischen Geschichtsschreibung von der Reformation bis zur Gegenwart, München 1952, 253.

9 N. Berdjaev, L’idée russe, Paris 1969, 22; trad. it. L’idea russa: i problemi fondamentali del pensiero russo, Mursia, Milano 1992.

10 Ivi, 40.

11 S. Bulgakov, Agnec Bozij. O Bogocelovecestve, Paris 1933, 191ss.

12 V. Lossky, Vision de Dieu, Neuchatel 1962, 140.

13 V. Solov’ëv, Duchovnye osnovy iizni (1882-1884), Soéinenija III, Bruxelles 1966, trad. it. Fondamenti spirituali della vita, Roma, Lipa 1998.

14 Cf. T. Spidlík, La preghiera secondo la tradizione dell’Oriente cristiano, Lipa, Roma 2002, 142.

15 Spidlík, L’idea russa, 217ss.

16 Giovanni Crisostomo, In 1 ad Timotheum 4,2, PG 62,523.

17 Cf. N.O. Losskij, Histoire de la philosophie russe, Paris 1954, 193.

18 V Zen’kovskij, Istoria russkoj filosofii, II, Paris 1950, 137ss.

19 Spidlík, L’idea russa, 228ss.

20 Ivi, 225ss.

21 V. Solov’ëv, Ctenija o Bogocelovecestve, Socinenija III, 1966, 130.

22 Spidlík, L’idea russa, 225ss.

23 T. Spidlik, La spiritualité de l’Orient chrétien, Orientalia christiana, Roma 1978, 141.

24 Giovanni Crisostomo, In Gen., Hom. 27, 4, PG 53, 244.

25 Id., In Rom., Hom. 14, 5, PG 60, 530.

26 G. Fedotov, Stichy duchovnye, Paris 1935, 85ss.

27 S. Frank, Svet vo t’me, Paris 1949, 198.

28 S. Bulgakov, Agnec Bozij. O Bogocelovecestve, Paris 1933, 180ss.

29 Spidlík, L’idea russa, 226ss.

30 Losskij, Histoire de la philosophie russe, 193.

31 Fedotov, Stichy duchovnye, 25.

32 Spidlík, L’idea russa, 231ss.

33 Solov’ëv, Duchovnye osnovy iizni, Socinenija III, 365ss.

34 Cf. Origene, Fragm. in Mt 281, GCS 12, 126.

35 Spidlík, L’idea russa, 230ss.

36 Ivi, 221ss.

37 N. Berdjaev, L’homme et la machine, Paris 1933, 48.

38 V. Ivanov, Opere, vol. III, Bruxelles 1979, 86.

6. Sacerdozio battesimale
e ministeriale
di Marino Qualizza

1. Il popolo sacerdotale dell’Antica e Nuova Alleanza

È giusto parlare del popolo sacerdotale delle due Alleanze, per indicare al contempo una continuità ed un superamento. Allo stesso modo, del tutto pertinente, parliamo di una Chiesa che non sorge all’improvviso con Gesù Cristo, ma è preparata già nell’antica alleanza. Il primo riferimento biblico fondante e previo ad ogni discorso è Es 19,1-9. Lì c’è la premessa ed il punto di partenza per la teologia sul popolo sacerdotale. Ed è interessante notare, fin dall’inizio, che si parla di ‘popolo’ sacerdotale. Lo stesso avverrà anche nel NT. Tuttavia lo sviluppo successivo metterà in ombra questa verità elementare per concentrare quasi tutta l’attenzione sulla classe sacerdotale. Ha senz’altro il suo posto ed il suo ruolo, ma non deve oscurare quello più universale del popolo sacerdotale.


1.a. Un popolo sacerdotale con l’alleanza

Così leggiamo in Esodo 19, 1-9: “Il terzo mese dall’uscita dei figli d’Israele dalla terra d’Egitto, in quel giorno, arrivarono al deserto del Sinai. Partirono da Refidim e arrivarono al deserto del Sinai, dove si accamparono. Israele si accampò di fronte al monte. Mosè salì verso Dio. Il Signore lo chiamò dalla montagna, dicendo:”Così parlerai alla casa di Giacobbe e annuncerai ai figli d’Israele:’Voi avete visto quello che ho fatto all’Egitto: vi ho portato su ali di aquile e vi ho condotto da me. E ora, se ascoltate la mia voce e osservate la mia alleanza, sarete mia proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra. Voi sarete per me un regno di sacerdoti, una nazione santa’. Queste cose le dirai ai figli d’Israele”. Mosè andò a convocare gli anziani del popolo ed espose loro tutte quelle cose che il Signore gli aveva ordinato. Tutto il popolo, insieme, rispose dicendo:”Tutto quello che il Signore ha detto, noi lo faremo”. Mosè riportò le parole del popolo al Signore”.

La celebrazione dell’alleanza viene descritta nel capitolo 24, ma qui è già considerata un fatto compiuto e la base della scelta da parte di Dio. Ora essere ‘proprietà’ di Dio e ‘regno’ di sacerdoti e ‘nazione’ santa, dice una stessa cosa: un rapporto del tutto speciale con il Signore, dove valgono non i termini di possesso, ma di affetto. In realtà, Israele è proprietà di Dio, nel senso che egli la considera sua, in termini di affetto, come il padre dice al figlio : ‘mio figlio’. Nella stessa linea corrono le altre due espressioni, ma acquistano un significato più dinamico o missionario. Infatti questo popolo sacerdotale svolge un ruolo di mediazione con gli altri popoli, ad analogia di quanto Mosè fa all’interno del suo popolo. E così quando si parla di ‘nazione santa’ si pensa non tanto ad una qualità astratta e spiritualizzata, quando invece al compito di testimonianza che Israele è chiamato a svolgere verso i popoli vicini. È anche la convinzione che traspare dal libro di Tobia:”Celebratelo, Israeliti, davanti alle nazioni, perché egli vi ha disperso in mezzo ad esse, e qui vi ha fatto vedere la sua grandezza” (13, 3-4).

 

1.b. Riconfermato con la nuova alleanza

Sulla base di questa convinzione, continua nel NT il discorso sul popolo sacerdotale. Ci limitiamo a presentare solo alcuni testi, perché possiamo vedere la continuità in un servizio e la sua novità, costituita dall’evento di Gesù Cristo. Il primo testo solenne che la tradizione apostolica legata a Pietro, ci ha tramandato, è il brano classico di 1Pt, 2,4-10. E’ singolare il fatto che esso risulta a sua volta, di citazioni, la più importante delle quali è il testo dell’Esodo sopra citato. La lettera di Pietro può essere considerata come una omelia pasquale, in cui vengono richiamate le linee essenziali della salvezza operata da Cristo e il nuovo statuto dei battezzati, resi partecipi della giustizia di Dio. A questi il testo si rivolge richiamando la loro nuova dignità.

“Avvicinandovi a lui, la pietra vivente scartata dagli uomini ma scelta da Dio e di valore, siete costruiti anche voi come pietre viventi in edificio spirituale per formare un organismo sacerdotale santo, che offra sacrifici spirituali bene accetti a Dio per mezzo di Gesù Cristo. Per questo si trova nella Scrittura: Ecco, pongo in Sion una pietra scelta, angolare, di valore, e chi crede in essa non rimarrà confuso. Il valore è per voi che credete; per coloro che non credono, la pietra scartata dai costruttori è diventata la pietra angolare, sasso d’inciampo e pietra di scandalo. Essi inciampano disobbedendo alla parola e a questo inciampo sono destinati. Ma voi siete una stirpe scelta, un organismo sacerdotale, regale, un popolo santo, un popolo destinato ad essere posseduto da Dio, così da annunziare pubblicamente le opere degne di colui che dalle tenebre vi chiamò alla sua luce meravigliosa, voi che un tempo eravate non-popolo, ora invece siete popolo di Dio, eravate non beneficati dalla bontà divina, ora invece siete beneficati”.

 

1.c. Lo statuto del nuovo popolo

Possiamo dire che qui abbiamo una specie di statuto generale dell’essere e dell’agire del nuovo popolo di Dio. L’essere è descritto da ciò che i battezzati sono divenuti per mezzo di Cristo, appunto il popolo sacerdotale. Questo evento non è un fatto pacifico, perché è il risultato della passione di Cristo, del suo rifiuto, della sua morte. Il richiamo al dramma della pasqua è esplicito e forte, per dire che l’inserimento in Cristo non è una cosa scontata, ma frutto di lotta e di fatica. I cristiani non possono dimenticare la loro origine dalla pasqua di Cristo. Del resto anche la nascita del primo popolo sacerdotale era avvenuta nel travaglio dell’Esodo e delle peripezie conseguenti. Ma poi ciò che resta ed è decisivo è la nuova dignità acquisita.

Questo nuovo popolo ha due compiti ben precisi e distinti. Il primo consiste nell’offrire sacrifici spirituali, a Dio bene accetti. Non si precisa in che cosa consistano, forse si dà per noto ai lettori che cosa ciò significhi. Comunque c’è un aggettivo importante che può orientare in modo sicuro: si tratta di sacrifici ‘spirituali’, celebrati cioè nello Spirito Santo. Non è difficile vedere in questo termine il superamento dell’apparato sacrificale del tempio antico e la designazione del nuovo sacrificio di Cristo, comprensibile solo nello Spirito di Dio. Tutto l’argomento viene ripreso ed analizzato in modo esauriente nella lettera agli Ebrei.

 

 

1.d. Identità e missione

Il secondo compito è l’annuncio al mondo di quanto Dio ha fatto con il suo popolo: il passaggio dalle tenebre alla luce, il passaggio dalla morte alla vita. E’ in breve l’annuncio del Vangelo nel segno della nuova vita ricevuta in dono. Quanto sia superata la sola ed univoca dimensione cerimoniale della liturgia cristiana è del tutto perspicuo nel nostro testo, ed è altresì annotata la necessità per il nuovo popolo sacerdotale di non limitarsi ad una fede che non conosca annuncio, nel fatto stesso che è vissuta dinanzi al mondo e a beneficio del mondo.

Nel libro dell’Apocalisse abbiamo altri due passaggi significativi sul nostro tema. Gesù Cristo “ha fatto di noi un regno di sacerdoti per il suo Dio e Padre” (1,6). Tu o Cristo, “Acquistasti per Dio con il tuo sangue uomini di ogni tribù e lingua e popolo e nazione, ne facesti per il nostro Dio un regno di sacerdoti e regneranno sulla terra!” (5,9-10). Qui è evidenziato in modo molto più forte che nel testo precedente l’opera di Gesù Cristo, anche in considerazione dell’impostazione dell’Apocalisse. Ma è del tutto chiaro che in ogni testo del NT quando si parla di qualcosa in riferimento alla nuova condizione dei redenti, l’accentuazione dell’opera di Cristo è particolarmente forte, perché da esso e su di essa tutto consiste e sta.

 

1.e. Riscoprire l’identità del popolo di Dio oggi

Da questa sintetica presentazione possiamo fare due brevi considerazioni conclusive. La prima è che nel corso dei secoli si è persa la prospettiva di questo popolo sacerdotale, a vantaggio di una impostazione più clericale, che ha raggiunto il suo vertice all’inizio del secondo millennio. Questa sfasatura ha arrecato i suoi danni, che sono all’origine neanche tanto nascosta anche della contestazione luterana del modello ecclesiale del suo tempo. La seconda consiste nel ricuperare il senso di questo popolo sacerdotale, composto dai battezzati, in vista di una rinnovata coscienza dell’essere Chiesa e della sua missione nel mondo.

5. La comunità in cammino
verso il Regno

di Marino Qualizza


6. L'eucarestia fa la Chiesa e la Chiesa fa l'eucarestia

Nel maggio del 1983 la Conferenza Episcopale Italiana pubblicò un documento pastorale dal titolo Eucarestia, comunione e comunità. Esso aveva lo scopo di orientare l’impegno della Chiesa italiana per gli anni ottanta proprio sul tema della comunione. Come abbiamo visto nel capitolo precedente, la comunione nasce in modo speciale dall’Eucarestia. Da essa prende vita e forma la Chiesa, che a sua volta è chiamata a celebrare l’Eucarestia, rendendo così presente l’azione salvifica di Cristo. Nel numero 61 di questo documento vengono ripresi i temi di cui stiamo parlando nei termini seguenti: “Non si può essere Chiesa senza l’Eucarestia. Non si può fare Eucarestia senza fare Chiesa. Non si può mangiare il Pane eucaristico senza fare comunione nella Chiesa. Queste affermazioni, che raccolgono l’esperienza viva e la tensione costante della comunità cristiana di ogni tempo, riconducono a interrogarci, nell’oggi, sulla nostra fede, per verificare la reale portata di questo vincolo indissolubile tra Chiesa ed Eucarestia. Molti cristiani vivono senza Eucarestia; altri fanno l’Eucarestia ma non fanno Chiesa; altri ancora celebrano l’Eucarestia nella Chiesa, ma non vivono la coerenza dell’Eucarestia. Una autentica comunità ecclesiale, che voglia vivere la comunione, pone al suo centro l’Eucarestia e dall’Eucarestia assume forma, criterio e stile di vita: l’Eucarestia è la vita, ed è la scuola dei discepoli di Gesù.”.

Il testo citato ripropone il titolo di questo capitolo e mette in luce la circolarità dinamica che esiste tra l’Eucarestia e la Chiesa. Il primato va all’Eucarestia, perché essa fa la Chiesa. L’affermazione non va presa in senso giuridico o autoritativo, ma in senso sacramentale, perché in essa agisce il Cristo risorto. È dunque da Lui che prende forma e vita la Chiesa di oggi e di sempre. Essa non vive di vita propria né vive staccata da Cristo. Il costante riferimento a Lui determina la sua identità, come aveva detto in modo splendido il Concilio Vaticano II nel 1° paragrafo della Costituzione Lumen Gentium .
Ma se la Chiesa riceve la sua vita da Cristo, essa a sua volta lo rende presente, attuale, nel mondo d’oggi. Una volta ricevuta forza ed energia da Cristo, la Chiesa celebra l’Eucarestia, che è sintesi e somma della salvezza. Ciò che è importante nella celebrazione dell’Eucarestia è questa duplice consapevolezza, con il conseguente impegno di non limitarsi alla cerimonia in sé ma di rendere attivo nella vita il contenuto della celebrazione, che consiste nella comunione con il Cristo e con i fratelli, come il testo della CEI ha richiamato. Nel 1972, a Udine, nel mese di settembre, fu celebrato il 18° Congresso Eucaristico Nazionale, che vide anche la partecipazione di Papa Paolo VI. Il tema generale del Congresso era Eucarestia e comunità locale. Ma il sottotitolo e – per certi versi – il cuore stesso del Congresso era proprio la circolarità di Chiesa ed Eucarestia nel senso indicato dal titolo del nostro capitolo. Superate le difficoltà iniziali, soprattutto in fase preparatoria, e anche certe dissonanze dei relatori nella settimana conclusiva, il tema si è rivelato particolarmente fruttuoso ed efficace nel far prendere coscienza alle comunità locali dell’importanza della celebrazione eucaristica oltre l’aspetto cerimoniale e devozionale che le aveva caratterizzate per lungo tempo. Un’indicazione particolarmente autorevole per dar vita alle comunità ecclesiali ci viene dal testo paolino di 1Corinzi 11,23 – 27. È il caso di riprodurlo interamente, perché ci dà le linee generali di come intendere la pluralità di una vita comunitaria: “Io, ho ricevuto dal Signore quello che vi ho trasmesso: che il Signore Gesù, nella notte in cui fu tradito, prese del pane e, reso grazie, lo spezzò e disse: «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me».Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice dicendo: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, tutte le volte che ne berrete, in memoria di me». Quindi tutte le volte che voi mangiate questo pane e bevete a questo calice, annunziate la morte del Signore, finché egli venga.
Perciò chiunque mangia il pane o beve al calice del Signore indegnamente, è reo del corpo e del sangue del Signore.”. Il testo paolino è una delle quattro testimonianze sulla istituzione dell’Eucarestia. In ordine di tempo è la prima. Ma è già collegata alla tradizione ecclesiale. Paolo infatti annota scrupolosamente di aver trasmesso ai cristiani di Corinto quanto egli a sua volta aveva ricevuto riguardo al Signore. La testimonianza di Paolo non si fonda direttamente su una rivelazione ricevuta da Cristo Signore ma sulla trasmissione ecclesiale.

Ciò è di somma importanza, perché ci aiuta a comprendere che la tradizione non è un corpo morto, ma è la vita stessa della Chiesa, che diventa tale soprattutto nella celebrazione dell’Eucarestia. Questa poi è contemporaneamente comunione con il Cristo e comunione con la Chiesa. Paolo ce ne dà conferma nei versetti iniziali del testo sull’Eucarestia, precisamente dal verso 17. Egli biasima il comportamento dei Corinzi, perché non avevano messo in pratica il significato dell’Eucarestia, che dalla comunione con il Cristo doveva portare alla comunione con i fratelli. Ciò non avveniva a Corinto. A tal proposito abbiamo un testo ancora più significativo in 1 Corinti 10, 16 -17, dove viene messa in luce l’efficacia dell’Eucarestia come composizione di un corpo solo: “ Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è comunione con il sangue di Cristo? Il pane che spezziamo, non è comunione con il corpo di Cristo? Essendo uno solo il pane, noi siamo un corpo solo sebbene in molti, poiché partecipiamo tutti dello stesso pane.”. Se la partecipazione all’unico pane e all’unico calice fa dei molti un corpo solo, ciò significa che l’unità ecclesiale suscitata dall’eucarestia deve manifestarsi nella vita quotidiana ben oltre i tempi e gli spazi di una cerimonia, per quanto solenne. Forse non è improprio parlare di una dimensione sociale e “politica” dell’Eucarestia. Essa infatti non può ridursi ad una cerimonia, ma deve rinnovare ed ispirare la vita laddove essa si svolge. In realtà questo è avvenuto lungo tutti i secoli della storia cristiana, anche quando il collegamento teologico non era percepito con l’evidenza che i testi biblici e la teologia attuale mettono in luce. Data però la rinnovata coscienza che la riflessione di oggi ha suscitato, i cristiani non possono sfuggire ai nuovi impegni, anche gioiosi, che l’Eucarestia suscita e chiede. Viverla in questi termini vuol dire anche riscoprire e rilanciare l’attualità del Vangelo per il nostro tempo.

Negli ambienti sacerdotali dei leviti viene prodotto il documento che sta alla base del Deuteronomio, in cui si prevede la centralizzazione del culto a Gerusalemme.

Venerdì, 26 Ottobre 2007 02:36

Lourdunathan Yesumarian (Djénane Kareh Tager)

Lourdunathan Yesumarian

di Djénane Kareh Tager

Il nostro incontro è fissato a Parigi, nella hall del CCFD (Comitato cattolico contro la fame e per lo sviluppo) che ha fatto arrivare padre Lourdunathan Yesumarian dalla sua India nativa per partecipare all’incontro nazionale del Comitato. Non c’è molta gente, questo pomeriggio, nella hall. Il prete mi viene incontro, scortato dall’addetto stampa, che lo presenta: "Padre Lourdunathan". Qualche secondo di silenzio. Lui incalza: "Sono un dalit". Mormoro un vago "sì". E lui insiste: "Un intoccabile". Gli tendo la mano. Lui la stringe, sorride. In questo preciso momento, ho come l'impressione che un muro di ghiaccio sia andato in frantumi…
"Intoccabile", questo gesuita, ma avvocato specializzato in diritto internazionale e portabandiera del movimento dalit, lo è nel senso proprio del termine. Così come lo sono duecentocinquanta milioni di suoi compatrioti indiani nati nella casta dei senza casta, degli impuri, degli "intoccabili", appunto. Esseri che le altre caste esitano a definire umani. E ai quali l’India non applica le carte e le altre convenzioni nazionali che affermano l’uguaglianza degli esseri umani, in particolare la Carta dei diritti dell’uomo, anche se sono state ratificate dal loro Paese.
Cerco di capire perché. "È semplice, spiega il gesuita. Secondo la mitologia indù, la casta dei bramini è nata dalla testa del Dio creatore, quella dei guerrieri dalla sua spalla, altre caste dal suo ventre o dai suoi piedi. Noi, i dalit, non siamo nati da Dio. Non siamo niente". Ovviamente mi sento obbligata a ricordare al padre Lourdunathan che egli è cattolico. Che dovrebbe quindi, secondo la logica, non sentirsi toccato da questo mito. La sua risposta è agghiacciante: "La religione è un vestito che si può cambiare. La casta è una pelle. Si nasce con la propria pelle, si muore con lei". E poi, soprattutto, si vive con lei nel quotidiano, come lo dimostra la sua storia personale…
"Sono l'ultimo di una famiglia di otto figli. Una famiglia di dalit, cattolica da tempo. Sono nato nel 1955, in un piccolo villaggio del Tamil Nadu, Stato del sud dell'India. Mio padre è morto quando avevo tre anni, mia madre ha lavorato duro per crescerci. Ho sempre saputo di essere un intoccabile, anche se la parola non era mai pronunciata apertamente. Ero alto come un soldo di cacio ma già sapevo che davanti alla drogheria dovevo stare nella coda riservata ai dalit. Attingere acqua alla fontana dei dalit. Sedermi a scuola o in chiesa sui banchi riservati ai dalit. Giocare solo con i dalit. Un giorno ho osato chiedere perché. La risposta di mia madre non si è fatta attendere: "Vuoi farti ammazzare?".
"Ho continuato gli studi, mia madre e i miei fratelli maggiori desideravano che diventassi prete. Sono sempre stato il primo della mia classe: era il minimo che potessi fare di fronte ai sacrifici che facevano per me. A diciannove anni mi sono presentato per entrare nel seminario della mia diocesi. Avevo bei voti, una forte motivazione. Ma sono stato rifiutato: ero un dalit, rischiavo di infangare o almeno di perturbare gli altri giovani che, come me, volevano consacrare la loro vita al servizio di Dio. Il Dio cristiano, del quale tutti siamo figli, e che ci ama tutti nello stesso modo. Avrei potuto voltare le spalle a quella religione che non mi voleva a causa della mia casta. Riconosco di essere un tignoso: dovevo assolutamente raccogliere la sfida. E lottare, dall'interno, contro quel sistema".
"Ho fatto domanda in altre diocesi, in altre congregazioni. I gesuiti hanno accettato di accogliermi. Mia madre mi ha accompagnato fino all'autobus per la città: due giorni di cammino sotto un sole cocente. Camminava con la testa scoperta, come una dalit. Evitavamo con cura di incrociare l'ombra di un bramino. Sa, l'ombra che facciamo quando c'è il sole. Schiacciandola con i nostri piedi, avremmo infangato un individuo di una casta superiore… Quando sono salito sull'autobus, mia madre mi ha detto: "Non voglio niente da te. Consacra tutte le tue forze ad aiutare i nostri". È l'unica volta in cui l'ho sentita fare allusione al sistema delle caste. Eppure ha dovuto soffrire la discriminazione, piangere vedendo i suoi figli considerati come impuri…".

Imporre le mani, quindi toccare

Lourdunathan è stato ordinato. Da un vescovo che ha accettato di procedere alla cerimonia di imposizione delle mani - che implica di toccare l'intoccabile, cosa alla quale non tutti i gerarchi cattolici indiani acconsentono automaticamente. Anche se testardo, è stato obbligato a piegarsi ad alcune regole. Per esempio, concelebrare la messa quando è fuori dalla sua parrocchia, in modo che i fedeli delle caste superiori possano ricevere la comunione da un prete della loro casta. Inumare i morti dalit nei cimiteri che sono loro riservati - altri cimiteri accolgono i non dalit. Ammettere - tollerare, precisa - che un prete che accoglie un omologo dalit nella sua parrocchia, per celebrare una messa, proceda in seguito ad una purificazione del calice insudiciato dalle mani impure.
Tutto questo è niente, dice, rispetto alle atrocità commesse nei confronti dei fuori casta, che siano indù, buddisti, sikh o cristiani. Padre Lourdunathan indica le cifre, implacabili: ogni giorno, in India, cinque dalit sono uccisi e cinquanta case dalit bruciate. Ogni ora, cinque donne dalit sono violentate - le relazioni sessuali non obbediscono alle leggi delle caste. Sono in seguito spesso uccise dai loro familiari, per lavare l'onore. "E tutto questo perché i dalit vogliono liberarsi dalla loro condizione. Essere considerati come umani. Più reclamiamo i nostri diritti, più la repressione è violenta. I nostri aggressori sono generalmente rilasciati senza processo".
Fuori dall'India, la discriminazione continua. Lourdunathan si ricorda del suo primo viaggio all'estero. Era in Francia, due anni fa. Una famiglia indiana cattolica lo aveva invitato a cena. Poi gli ha proposto di continuare la serata dai vicini, anche loro indiani, "per pregare tutti insieme". Per la strada, i suoi ospiti - che ignoravano di avere a che fare con un dalit - hanno cercato di rassicurarlo: "Non tema, i nostri vicini sono di alta casta". Senza dire una parola, il prete ha fatto dietro front e se ne è andato.

In prigione quattro volte
Le sue attitudini oratorie le esercita in India. Fra gli otto vescovi cattolici dalit - su un totale di 170 vescovi indiani -, quattro sono stati consacrati a causa della lotta portata avanti tamburo battente da questo gesuita che chiedeva alto e forte la loro ordinazione, al punto di mettere in imbarazzo tutta la gerarchia. Una lotta che l'ha portato quattro volte in prigione. La sua voce ha risuonato talmente forte che i gesuiti hanno finito coll'adottare "l'opzione preferenziale per i dalit" - del resto sono i gesuiti che, a partire dal 1970, hanno favorito il movimento di liberazione dalit. Si è abituato a difendere le cause perse, a vedere i processi trascinarsi per anni. Per esempio quello che riguarda una chiesa cattolica, chiusa da quando i parrocchiani dalit hanno chiesto di potersi sedere su qualsiasi panca - e non solo su quelle riservate. Cinque anni fa. Il vescovo del luogo, appartenente alla casta dei bramini, non ha alzato un dito.
Dalle autorità, i dalit non hanno niente da aspettarsi. Soprattutto se sono cristiani: in questo caso non beneficiano più della legge delle quote che riserva una certa percentuale di funzioni (o di posti a scuola o all'università) ai dalit. "La legge indiana non ha mai abolito il sistema delle caste, ricorda padre Lourdunathan. Ha semplicemente abolito l'intoccabilità - che tuttavia continua a perpetuarsi nella pratica". Perché non se ne parla mai nei cenacoli internazionali? "La parola indiana è stata a lungo confiscata dalle alte caste, che avevano accesso al sapere e alle funzioni superiori. I governi indiani successivi hanno, dal canto loro, considerato che la questione dei dalit era un affare interno. Visto che il mercato indiano è gigantesco, tutti gli altri paesi chiudono gli occhi. Per fare un paragone, il mercato sudafricano ai tempi dell'apartheid era molto più limitato, e il boicottaggio del Sudafrica non aveva sconvolto l'economia mondiale. Tuttavia il nostro sistema è più temibile di un apartheid. Perché la sua essenza stessa è religiosa: nasce dall'induismo e dall'induismo è giustificato".
Padre Lourdunathan continuerà la sua lotta. A rischio di ritrovarsi in prigione. "Non ho niente da perdere, tutto da guadagnare. Perché diavolo dovrei tacere?".



(da Adista, n, 14, 15 febbraio 2003. Questo articolo è comparso sul mensile francese Actualités des religions, gennaio 2003)

Pluralismo è più di tolleranza; il pluralismo è il riconoscimento che nessun uomo e nessuna cultura ha accesso alla totalità dell’esperienza umana, che nessuno di noi dal suo punto di vista può abbracciare tutto il reale (Raimon Panikkar).

Testimone e profeta del nostro tempo

Attualità di don Primo Mazzolari

di Sebastiano Cesca



LE TRACCE, L'EREDITA', L'ISOLAMENTO

A 40 anni dalla scomparsa del suo eccezionale "curato di campagna", Bozzolo, un paesino agricolo della bassa mantovana di 4000 anime, conserva ancora segni significativi della presenza di don Primo Mazzolari. Il visitatore che arriva nella chiesa principale del paese, la bella parrocchiale dedicata a S. Pietro, trova in testa alla navata destra una lastra tombale che reca semplicemente scritto PRIMO MAZZOLARI - SACERDOTE e due date: quella del battesimo (1890) e quella della morte (1959). Addossato al muro c'è il nudo bassorilievo ovale di un ramoscello d'ulivo innestato su un tronco. A pochi metri di distanza, oltre la sacrestia, si trova lo studio, ove per 27 anni dal '32 al '59, don Primo ha letto, meditato e scritto, attorniato da cumuli di carte e libri.
Oggi quei libri sono raccolti ed ordinati nella biblioteca della "Fondazione P. Mazzolari", sempre in Bozzolo, in un edificio ad essa dedicato ove sono sistematicamente catalogati anche i testi di centinaia d'articoli, saggi, discorsi prodotti lungo oltre un quarantennio d'intensa attività pastorale ed intellettuale. La Fondazione, costituita nel 1985 con decreto del presidente della Repubblica, è guidata da un comitato scientifico composto da docenti universitari, in prevalenza storici, sociologi e pubblicisti, fra i quali si segnalano G. Campanini, M.Guasco, A.Bergamaschi ed altri. Semestralmente è pubblicata, ormai da 10 anni, la rivista "IMPEGNO - Rassegna di religione, attualità e cultura", che si prefigge di presentare, analizzare, studiare il messaggio mazzolariano con il contributo, anzitutto, dei componenti del comitato scientifico, ma anche di giovani studiosi: oltre una settantina di laureandi ha attinto alla documentazione raccolta a Bozzolo per i lavori di tesi.
La Fondazione cura anche la pubblicazione di QUADERNI di documentazione che raccoglie testi d'articoli apparsi su giornali e riviste; inoltre mantiene i rapporti con gli editori che pubblicano le opere postume di don Primo.
Si tratta complessivamente di un lavoro non indifferente se si considera che i 20 volumi pubblicati tra il '32 e il '58 sono stati seguiti da altrettante opere postume tra il '60 e il '91. Si tenga conto, poi, che solo sul "Nuovo Cittadino" di Genova sono apparsi 67 articoli tra il '37 e il '49! Si tratta quindi di un'ingente mole di materiale che ben si presta ad analisi e connessioni con l'intensa produzione saggistica e letteraria francese di quegli anni (Maritain, Mounier, De Lubac, Bernanos, Mauriac...). Don Primo leggeva correntemente il francese ed anche il tedesco, così superava i limiti di un isolamento che il regime fascista riservava ai suoi oppositori. Egli, infatti, avversò decisamente il fascismo fin dal '25; nel '31 fu oggetto di un attentato - tre colpi di rivoltella sparati nella notte contro la finestra, dopo averlo chiamato - a Cicognara (MN), iniziale destinazione come parroco prima di Bozzolo.
Anche la cultura letteraria ufficiale lo ignorò per lungo tempo, ma fu soprattutto l'isolamento nella Chiesa che tanto amava - e dalla quale mai si allontanò nonostante i sospetti, i richiami e i provvedimenti - a costargli un'indicibile pena. Disse di sé stesso: "Pronto all'obbedienza, ma con la schiena diritta".

Ma prima di chiederci chi fu don Mazzolari, che cosa ci ha lasciato, lasciatemi dire di un altro segno della sua presenza colto a Bozzolo: la profonda emozione che ho avvertito nella sua chiesa quando ho ascoltato dal suo attuale successore - don Giovanni - un'omelia che echeggiava nei toni di voce, nell'essenzialità dei temi evangelici (si trattava del perdono nella vita di coppia durante una cerimonia nuziale), nella fine sensibilità psicologica, non solo lo stile, ma soprattutto l'anima, la passione apostolica di don Primo.

LA PRIMA CONTESTAZIONE E UN GIORNALE SCOMODO

Avevo conosciuto don Mazzolari attraverso il suo quindicinale "ADESSO" negli anni dell'università. Erano gli anni caldi della prima contestazione cattolica in impaziente attesa del rinnovamento conciliare che sarebbe sopravvenuto solo una decina d'anni dopo; ed era il tempo in cui Mario V. Rossi era presidente della Gioventù Cattolica - ex-GIAC - e don Arturo Paoli assistente centrale: entrambi, unitamente ad altri dirigenti del movimento - interpretando un certo disagio della "base" - si opponevano alle operazioni para-politiche di L. Gedda (fondatore e gestore incontrastato dei "comitati civici") che sostenevano l'alleanza coi fascisti nelle elezioni comunali di Roma (1951). Ma Gedda godeva di larghe approvazioni curiali e politiche, cosicché la sua linea risultò vincente ancora per un decennio. Naturalmente M. V. Rossi, don A. Paoli ed altri dirigenti centrali furono dimissionati. Molti "reduci" da quella battaglia si ritrovavano idealmente sulle pagine di "ADESSO", il giornale fondato nel 1949 da don Mazzolari che aveva fatta sua la frase del grande teologo svizzero Karl Barth "un cristiano con la Bibbia in una mano e nel cuore, e nell'altra il giornale" per esprimere un'attiva partecipazione ai processi culturali e agli avvenimenti del suo mondo. Il quindicinale aveva ripreso le pubblicazioni nel novembre del '51 dopo sei mesi di sospensione su richiesta del card. Schuster sollecitato dal S. Ufficio; ma poi lo stesso cardinale revocò la sospensione affermando che " il quindicinale fa del bene ai cattolici".
"ADESSO" era un foglio che si rivolgeva a chi avvertiva la necessità di una formazione socio-politica autenticamente cristiana e don Primo profondeva tutta la sua passione evangelica nel cogliere i limiti e le contraddizioni di un potere che si diceva cristiano, ma l'accezione era strumentale e trionfalistica. Quelli erano " gli anni dell'onnipotenza" democristiana, ma anche i tempi in cui René Voillaume pubblicava "COME LORO" (il titolo originale, ben più significativo, era "Au coeur des masses"), il testo della spiritualità dei Piccoli Fratelli di Ch. De Foucald, fra i quali sarebbero presto approdati Carlo Carretto (predecessore di M. V. Rossi alla guida della GIAC) e Arturo Paoli: anche questi sacrifici incruenti erano nel solco di quanto avveniva a Bozzolo.
Il piccolo gregge che si ritrovava attorno ad "ADESSO" viveva una vita sempre difficile. Mazzolari, infatti, come ha detto molto bene L. F. Riffato "inseguiva il sogno di una società autenticamente cristiana, pacifica, libera e solidale: una radicale rivoluzione sociale cristiana. Non un partito". Evidentemente il "sistema" non poteva accettarlo; a fatica lo tollerava. In questo contesto si sono prodotti gli undici richiami della Chiesa gerarchica a don Mazzolari, soprattutto per "ADESSO", che continuava ad essere un foglio di frontiera sul piano religioso e sociale; sul piano politico inseguiva tenacemente il centro-sinistra, un tabù per quell'epoca.

LA MISSIONE A MILANO

Ma i tempi dell'intransigenza (politica e dottrinale) stavano lentamente tramontando; di lì a poco. Alle soglie del Concilio, le opinioni su don Primo si sarebbero capovolte: "ha avuto ragione troppo presto", "ha anticipato i tempi del Vaticano II", che avrebbe recepito i suoi messaggi fondamentali. In realtà don Primo è stato non solo un pastore fedele al Vangelo, un educatore dei piccoli e degli adulti, un appassionato difensore dei deboli e dei valori democratici, un tenace cercatore di pace attraverso la comprensione delle ragioni altrui, un prete di vedute ecumeniche quando l'ecumene era ridotto ad un ambito ristretto; è stato un oratore affascinante ed anche un tenace polemista, un insistente annunciatore delle sue più profonde convinzioni, ma è stato soprattutto un "profeta degno di fede "(Sir. 36, 18).
Il futuro Paolo VI, allora arcivescovo di Milano, riconobbe nel 1957 a P.Mazzolari, D.M. Turoldo, E. Balducci, N. Fabretti, C. Del Piaz ed altri ancora, un'acuta capacità di discernimento, di cogliere i segni dei tempi, di saper dialogare col mondo contemporaneo: e li invitò tutti alla grande Missione cittadina. Per don Primo, come scrisse nel suo diario, "fu di grande consolazione la fiducia inattesa" espressa dall'invito di mons. Pignedoli a nome dell'arcivescovo.
Nel novembre di quell'anno ero divenuto fedele ambrosiano da pochi mesi; l'andare ad ascoltare don Mazzolari nell'ambito della Missione in via Torino, nella chiesa-tempio di S. Sebastiano, era impossibile; la folla traboccava in strada... A Bozzolo ho ritrovato i temi (le registrazioni!) di quegli incontri: sono titoli che esprimono tutta la sensibilità e la passione missionaria di don Primo: "La sofferenza nella Chiesa", "Il tuo volto, Signore, io cerco", "Il mistero dell'ingiustizia", "Il mistero del dolore","Zaccheo", "Il Padre nostro".
Un altro vertice don Primo lo toccò nell'omelia del giovedì Santo 1958, un anno prima di morire; parlò di "Nostro fratello Giuda", sul filo di una speranza che va oltre ogni limite perché fondata su un Amore sconfinato di cui egli riusciva a farci percepire l'incommensurabilità.Ma solo ascoltando le parole di don Primo si può comprendere che sorta di prete fosse:
"Io credo che se in questi giorni di Missione avessimo avuto il coraggio di aprire certe pagine del Vangelo (le voci che parlano del Padre), di ripetere certe parole, io credo che il primo a chiudere il libro sarebbe stato questo povero prete, che finora non ha avuto il coraggio di aprire con franchezza estrema, con spudorata chiarezza. Forse, vedete, la nostra Missione avrebbe un significato tremendo, qualcheduno di voi direbbe aggressivo.
E del resto, miei cari fratelli, se una verità non ha il coraggio di aggredire, vale a dire se non diventa una passione,se non ci crocifigge..."
"Quello che importa, per la mia fede e la vostra, se avete la forza di credere, è che il Figlio di Dio ci dà il volto del Padre, ci dà la misura umana della carità, perché altrimenti noi non saremmo riusciti ad accoglierla, ad accettarla ...Perché non dovete dimenticare che il mistero dell'incarnazione rappresenta l'"occupazione" dell'Amore, una delle più inimmaginabili maniere di occupare il mondo da parte di Dio...".
Ma non basta cercare il Padre: "Se noi non riusciamo, attraverso il Padre, a sentire il "fratello", niente conta. Se non troviamo il fratello, anche il volto del Padre non esiste più. Ed è qui, vedete, dove comincia la Missione. Voi direte qui comincia l'aggressività. Può anche darsi. Io però userei un'altra parola, userei la parola impegno. E' qui, vedete, la prova della nostra fede. E' qui la prova se il Padre ha una consistenza, ha una realtà... Chi è mio fratello?C'è la parabola,una di quelle parabole che non si possono leggere se non in ginocchio: la parabola del Samaritano. Tutti,tutti... E' qui, o miei cari, dove comincia la difficoltà d'essere cristiani".
Nel tradimento di questo rapporto di fratellanza ha origine il mistero del male e dell'ingiustizia: "La nostra implacabilità non viene, molte volte, da quello che è il senso o l'esigenza della giustizia; viene da un'attenuazione, o da un oscuramento di quello che è il senso della paternità, e se volete - per quello che riguarda noi, non per quello che riguarda Dio - della corresponsabilità...Non abbiamo mai misurato quello che c'è di nostro nel male. Ad un certo momento abbiamo l'impressione che sia fuori di noi, che non ci riguardi,che la nostra mano non l'abbia mai toccato: ma non c'è nessuna manifestazione del male, non c'è nessuna ingiustizia, o miei cari fratelli, non c'è nessun delitto che non porti una piena corresponsabilità... Cuore paterno, corresponsabilità fraterna: in fondo quando gridiamo, se abbiamo il coraggio di gridare, ricordatevi che in quel momento ci dimentichiamo che l'accusato siamo noi".
E infine le parole che attingono alle profondità della coscienza della propria ostinazione cristiana: "La storia che mantiene viva nella coscienza degli uomini il senso della giustizia, e che soprattutto dà forza alla coscienza è la parola del profeta, è la parola del resistente cristiano, del resistente umano, che non bada al costo della verità. Perché voi lo sapete, la verità non la si mette al mondo facilmente: costa tremendamente".

LA RIABILITAZIONE

Fece in tempo don Primo, prima di morire, - due mesi prima che l'ictus cerebrale lo colpisse durante la messa domenicale del 5 aprile '59 - ad ascoltare da Giovanni XXIII quella riabilitazione totale che coinvolgeva direttamente la sua persona e con lui quanti avevano atteso e invocato la stagione conciliare. Disse, in quella udienza indimenticabile, il "Papa buono": "Ecco la tromba dello Spirito Santo in terra mantovana". E il giorno dopo don Primo scrisse sul suo diario: "Ho dimenticato tutto!".
Don Primo, invece, non fu dimenticato dai successori di Giovanni XXIII; infatti, 11 anni dopo la sua scomparsa, Paolo VI, testimone sofferente di tante vicende curiali, diceva con lucidissima chiarezza ed altrettanto evidente pena:" Non era sempre possibile condividere le sue posizioni: don Primo camminava avanti con un passo troppo lungo e, spesso, non gli si poteva tener dietro; e così ha sofferto lui ed abbiamo sofferto noi. E' il destino dei profeti". Ed è quasi incredibile che Papa Luciani, nel suo pontificato di soli 30 giorni, abbia trovato modo di dire di lui :"Don Primo fu un uomo leale, un cristiano vero, un prete che cammina con Dio, sincero ed ardente. Un pastore che conosce il soffrire e vede lontano. Il suo giornale era la bandiera dei poveri, una bandiera pulita, tutto cuore, mente e passione evangelica".

L'EREDITA' SPIRITUALE.

Ma cosa ci resta di don Mazzolari? Dov'è la sua attualità?
Ci ha aiutato molto,durante la nostra visita a Bozzolo, il presidente della Fondazione don Giuseppe Giussani, a cogliere sinteticamente l'eredità spirituale di don Primo.
Qui,però, non posso non dire grazie all'Associazione "G. Lazzati" che ha avuto la felice idea di organizzare la visita a Bozzolo e di offrire tanti stimoli attraverso i ricordi incrociati dei presidenti dell'Associazione, della Fondazione e del suo segretario.
Ricordava don Giussani:

1. Il primato della Parola di Dio.
Il Concilio Vaticano II accoglierà questa intuizione, sviluppandola in profondità, nella costituzione "Dei Verbum", a suggello di un lungo percorso denso di studi, ricerche e prodigioso lavoro, ma anche di contrasti ed opposizioni all'inizio del secolo. Uomo di sofferta e profonda spiritualità don Primo disse:" Il Signore ha una maniera di fare e di dire che dà le vertigini perché Egli è la Parola che congiunge le vette dell'infinita misericordia con gli abissi della nostra sconfinata miseria".

2. La teologia della Croce.
Don Primo ha sperimentato di persona sofferenze pungenti, anche se incruenti, e la spiritualità che maturò fu davvero cristologica, centrata sul Crocifisso. Scriveva al card. Montini nel gennaio del '59 dopo altre drammatiche tensioni: "Nel 1954 mi fu tolta la parola e la penna per un "filocomunismo" che nessuno ha mai potuto provare, perché smentito dai fatti. Fui condannato senza essere interrogato nè prima nè poi, sotto banco e senza termine. Se non fosse intervenuta Vostra Eminenza,con una bontà di cui vi sarò sempre riconoscente, chiamandomi alla Missione di Milano, nessuno, e comincio dal mio Vescovo che avrebbe potuto spendere una parola per un suo vecchio prete, si sarebbe accorto che non si può condannare a vita un prete che ha sempre voluto bene alla Chiesa più che a sè stesso".
Ha scritto lapidariamente qualche anno fa "Civiltà Cattolica": "Mazzolari ha il diritto di essere inserito fra quelli che hanno fatto della loro vita una testimonianza eroica, talvolta anche clamorosa, di Cristo e del Vangelo".
Nei momenti di suprema asperità don Primo attingeva alla sua capacità contemplativa ; quando fu sospeso "ADESSO" scrisse :" Tutto è speranza perché tutto è fatica; tutto è grazia, anche il morire; tutto è testimonianza, anche il silenzio, soprattutto il silenzio. Chi vive con i poveri da quando è nato e si dà attorno per fermare la loro diserzione dalla Chiesa, può sbagliare nel por mano ai rimedi. La Madonna avrà misericordia di un vecchio prete che è riprovato senza misericordia". Amarezza, coscienza della giusta battaglia e speranza si fondono in alta spiritualità.

3. Una ecclesiologia ecumenica.
L'insegnamento della " Lumen gentium" e le aperture ecumeniche dei recenti pontificati,da Giovanni XXIII a Giovanni Paolo II, hanno forti anticipazioni nelle intuizioni ecumeniche di don Mazzolari mutuate dalla Scrittura al di fuori - o meglio, oltre - l'ecclesiologia ufficiale del tempo, e dai contatti coltivati con pastori protestanti; in quegli anni simili aperture erano viste come indice di debole ortodossia.

4. La corresponsabilità dei cristiani laici.
E' stata largamente accolta nelle costituzioni conciliari " Gaudium et spes" e " Lumen gentium" per quanto riguarda, rispettivamente, gli aspetti "ad extra" e " ad intra" la cittadella ecclesiale. Su questi temi don Primo trovò grande sintonia con G. Lazzati che fece della promozione laicale un "leitmotiv" della sua alta testimonianza. E' significativo che don Mazzolari abbia collaborato col quotidiano cattolico milanese "L'Italia" quando Lazzati faceva parte della direzione del giornale. La stessa fondazione di "ADESSO" - e le battaglie condotte per la sua sopravvivenza - avvenne per realizzare una palestra di quella formazione socio-politica che doveva preludere all'assunzione diretta di responsabilità sociali da parte di laici evangelicamente ispirati.
Non dimentica la parrocchia don Primo e segue attentamente l'involuzione che - a suo parere - stava avvenendo nell'organizzazione laicale dell'Azione Cattolica; si legge su "ADESSO" del 1958:" L'invito del Pontefice ai laici perché escano dal loro stato di minorità è sistematicamente dimenticato proprio da coloro che dovrebbero esserne i più fedeli interpreti: clero ed Azione Cattolica".
Vivendo intensamente l'esperienza parrocchiale e scrivendone ripetutamente, fa della parrocchia la "casa dell'anima" e la vede "come base di un rinnovamento della vita religiosa". Essa è la cellula della Chiesa. Al suo interno vanno superati i pericoli di clericalizzazione del laicato che paventa come una sterilizzazione del tessuto ecclesiale. Scriveva: "Dalla parrocchia devono transitare le grandi correnti del vivere moderno, non dico senza controllo, ma senza pagare pedaggi umilianti e immeritati".
Nel 1938 don Primo pubblicava una cinquantina di pagine sul problema dei "lontani" dedicandole "Alle anime sofferenti e audaci". Non piacque il titolo e ancor meno i motivi che a parecchi parvero temerari. Vent'anni dopo si teneva presso l'Università Cattolica la settimana nazionale d'aggiornamento pastorale dedicata a "La comunità cristiana e i lontani" e l'analisi di vent'anni prima ("L'animo di colui che se ne va"- "Il metodo di conquista"- "Verso il mondo dei lontani" - "Il compito dell'intelligenza") fu considerata ancora attuale.
La preoccupazione per i cosiddetti "lontani" e lo sforzo di ricerca di un dialogo con essi fu una costante nella riflessione di don Primo, come testimoniano le pagine di "ADESSO".

5. La scelta dei poveri
fu in realtà, per don Primo, una condivisione delle condizioni di vita dei suoi parrocchiani, in gran parte agricoltori. Egli conobbe bene le condizioni di povertà del bracciantato agricolo fra le due guerre e reclamò ripetutamente e a gran voce maggior giustizia sociale per coloro che conservavano sempre la dignità di persone anche nell'indigenza. In questo "milieu" nacque e si sviluppò la sua grande passione sociale e politica sempre illuminata dalla Parola rivelata. Com'è noto, buona parte della "Gaudium et spes" affronta queste complesse tematiche che hanno indotto molte Chiese locali - come le comunità latino-americane - alla scelta radicale a favore dei poveri; analogo, rivoluzionario passo è stato compiuto da Ordini, Congregazioni, Istituti, Famiglie religiose sia di lunga tradizione (si pensi ai Gesuiti) che di più recente costituzione. Scriveva don Primo: " Occorre un grande amore per comprendere i poveri, per rinunciare a giudicarli. Dove non c'è amore il di più non c'è; dove c'è tanto amore tutto è di più, anche la propria vita. Chi ha poca carità vede pochi poveri; chi ha molta carità vede molti poveri; chi non ha nessuna carità non vede nessuno. Per impedire ai poveri di disperare basterà la parola pazienza? Senza una carità folle non si salva il mondo. Il mondo attende una nuova Pentecoste".

6. L'utopia della pace: " Pace nostra ostinazione".
Quante volte sono apparse queste tre parole sulle pagine di "ADESSO"! Tuttavia è singolare il percorso intellettuale e spirituale che don Primo fece a riguardo. Fu cappellano militare nella 1° guerra mondiale, interventista convinto, inizialmente persuaso che i travagli dell'umanità potessero essere risolti con lo scontro armato. Così pensando pagava un debito alla cultura ufficiale post-risorgimentale che permeava le nostre scuole e che vedeva nel compimento dell'unità un imperativo categorico. Ma gli bastò l'esperienza sul fronte e fra i reduci nel primo dopo-guerra e,successivamente, il dover respirare l'atmosfera falsa e bellicosa della prepotenza fascista, ed ancora, l'avventura della 2° guerra mondiale, per arrivare a condannare ogni guerra e scrivere, nel 1955, quel "Tu non uccidere" che fu per lungo tempo una delle più forti prese di posizione antimilitaristiche. Scriveva: "Per un cristiano il far morire è il colmo dell'atrocità. Ove comincia l'errore, l'iniquità, cessa la santità del dovere...incomincia un altro dovere: disobbedire all'uomo per rimanere fedeli a Dio".

7. L'orizzonte planetario.
Don Primo anche se vive tutta la sua vita confinato fisicamente entro il mondo agricolo della "bassa" padana, spiritualmente vive - anzi, anticipa con le sue intuizioni - la stagione nuova della Chiesa "percorrendo le strade di un paese, ma quel paese è uno spicchio di universo". Lungi da lui un'ottica provinciale,percepisce l'accorciarsi delle distanze sotto la spinta delle nuove vie di comunicazione e dello sviluppo di processi decisionali sovraregionali sempre più interconnessi, anche se tutt'altro che unitari. E' l'intuizione del " villaggio globale",dell'"uomo planetario" come dirà vent'anni dopo p. E. Balducci che investigherà a fondo questi temi con altro approccio ed altre finalità. In Mazzolari la prospettiva d'impegno è locale, mentre l'orizzonte intellettuale e spirituale è globale: un'ottica che è pressoché coincidente con quella dell'Associazione " G. Lazzati".
E' una notazione che dice, anche da questo versante, l'attualità di don Primo. Per cui il nostro andare a Bozzolo è stato - oltre che una riscoperta - un segno di gratitudine verso colui che è stato, ed è tuttora, punto di riferimento per chi fa della fede cristiana un impegno di vita.

L'OPINIONE DELLO STORICO E IL SUGGELLO DEL CARD. C. M. MARTINI

Molti storici hanno studiato, e stanno ancora vagliando, l'opera di don Mazzolari nei suoi molteplici aspetti. Don Lorenzo Bedeschi, storico all'università di Urbino, ha riferito di recente (1990) sull'attività giornalistica di don Primo, come si è manifestata sulle pagine del suo giornale. Riportiamo le conclusioni di quel lavoro come le ha espresse G. Vaggi, primo direttore del giornale: "ADESSO" ha rappresentato senza dubbio una voce originale ed inconsueta, voce impastata di passione cristiana e civile, di laicità schietta e di dialogo con le sinistre, di ostinato pacifismo e di sofferta lealtà evangelica. La pur cospicua componente polemica con quelli di casa non esauriva affatto la posizione di Mazzolari, benché abbia avuto una parte importante come parte critica nella linea di "ADESSO".
Vi si legava indissolubilmente una parte costruttiva che nella chiesa preconciliare diventava il vero nocciolo di aggregazione ideale per quanti non si riconoscevano nè nell'anticomunismo borghese,nè nell'associazionismo cattolico integrista,poichè cercavano un servizio responsabilmente libero. Suo grande assillo era di allarmare e di inquietare onde impedire la chiusura del mondo cattolico e delle sue meravigliose forze in un ghetto di marca clericale e falangista, senza alcun pregiudizio ed avversione per chicchessia, senza alcuna condanna dell'uomo onesto e sincero". Dopo le solenni parole di ben tre pontefici su Mazzolari -sopra riportate anche se datate- vi è stato molto di recente (aprile '99) il ricordo del card. C.M. Martini che appare come il commosso suggello di un vescovo alla tormentata vita di un prete idealmente suo: "Non ho avuto occasione di conoscere personalmente il parroco di Bozzolo. Ho però potuto cogliere qualcosa della sua statura di cristiano e di prete, leggendo alcuni suoi libri e numerosi articoli di "ADESSO". Don Primo fu profeta coraggioso e obbediente, che fece del Vangelo il cuore del suo ministero. Capace di scrutare i segni dei tempi, condivise le sofferenze e le speranze della gente, amò i poveri, rispettò gli increduli, ricercò ed amò i lontani, visse la tolleranza come imitazione dell'agire di Dio. Quello di Mazzolari è un messaggio prezioso anche per l'oggi".

(da Impegno cristiano, dicembre 1999, anno XIX n° 42)

Ahimsa: il sentiero della nonviolenza
di Thich Nhat Hanh



La parola sanscrita ahimsa, tradotta normalmente con 'nonviolenza' vuol dire letteralmente non danneggiare o anche innocuita'. Per praticare ahimsa, occorre innanzi tutto averne fatto esperienza interiore. In ognuno di noi sono presenti in una certa misura sia la violenza sia la nonviolenza. In base alla nostra condizione d'esistenza, la risposta alle situazioni sara' piu' o meno nonviolenta. Per esempio, potremmo anche essere orgogliosi di essere vegetariani, ma dovremmo in ogni caso renderci conto che l'acqua nella quale bolliamo le verdure contiene molti piccolissimi microrganismi.

Non possiamo essere completamente nonviolenti, ma col nostro essere vegetariani andiamo in direzione della nonviolenza. Se vogliamo andare a nord, possiamo usare la stella polare come punto di riferimento, ma non riusciremo mai a raggiungerla. Il nostro sforzo consiste unicamente nel muoverci in quella direzione. Chiunque puo' praticare la nonviolenza, anche i soldati. Alcuni generali dell'esercito, per esempio, conducono le operazioni militari in modo da evitare di uccidere persone innocenti: si tratta di un tipo di nonviolenza. Se dividiamo la realta' in due settori, quello violento e quello nonviolento, e ci schieriamo da un lato attaccando l'altro, il mondo non conoscera' mai la pace. Saremo sempre disposti ad accusare e condannare chi riteniamo responsabile delle guerre e delle ingiustizie sociali, senza riconoscere il livello di violenza presente in noi stessi. Se vogliamo che il nostro intervento sia efficace siamo tenuti a lavorare su noi stessi e a collaborare con chi condanniamo. Non porta mai a niente alzare una staccionata e allontanare chi consideriamo un nemico, persino se si tratta di qualcuno che agisce con violenza. Dobbiamo avvicinarlo con il cuore pieno di amore e fare del nostro meglio per suscitare in lui la pratica della nonviolenza. Non avremo mai successo se operiamo per la pace spinti dalla rabbia.

La pace non e' un fine. Non si puo' ottenerla con l'uso di mezzi non pacifici. Nel protestare contro una guerra, possiamo darci l'aria di essere una persona pacifica, un vero rappresentante della pace, ma questa nostra presunzione non sempre corrisponde alla realta'. Osservando in profondita', ci accorgiamo che le radici della guerra sono presenti nel nostro stile di vita privo di consapevolezza. Non abbiamo seminato a sufficienza la pace e la comprensione in noi stessi e negli altri, e quindi siamo corresponsabili: "Giacche' io sono stato in questo modo, ora loro si comportano in quel modo". Nella via dell'interessere troviamo un approccio piu' olistico: "Questo e' cosi' perche' quello e' cosi'". È questa la via della comprensione e dell'amore. Sulla base di questa comprensione, possiamo vedere con chiarezza e permettere al nostro governo di vedere con chiarezza. Poi possiamo partecipare a una dimostrazione e proclamare: "La guerra e' ingiusta, distruttiva e non e' degna di una grande nazione quale la nostra". Cio' e' assai piu' utile di un atteggiamento caratterizzato da una condanna rabbiosa del prossimo. La rabbia fa sempre peggiorare le cose. Sappiamo come scrivere lettere di vibrata protesta, ma dobbiamo anche imparare a scrivere al nostro presidente e ai nostri rappresentanti lettere con un grado di comprensione e un tipo di linguaggio che possano essere apprezzati. Se non ne siamo capaci, le nostre lettere potrebbero essere tutte cestinate, e non dare alcun contributo alla causa della pace.

Amare vuol dire comprendere. Non possiamo esprimere il nostro amore a qualcuno se non riusciamo a comprenderlo. Se non capiamo il nostro presidente o i membri del parlamento non saremo capaci di indirizzargli una lettera d'amore. Chiunque e' felice di poter leggere una buona lettera nella quale condividiamo le nostre intuizioni e la nostra comprensione. Ricevendo una lettera di quel genere, il destinatario si sente capito e presta attenzione alle nostre raccomandazioni. Potreste credere che si possa cambiare il mondo eleggendo un nuovo presidente, ma il governo non e' che un riflesso della societa', a sua volta e' riflesso della nostra coscienza. Per produrre un cambiamento sostanziale, siamo noi, i membri della societa', che dobbiamo trasformarci. Se aspiriamo a una vera pace, dobbiamo dimostrare amore e comprensione cosicche' i responsabili delle decisioni politiche possano imparare da noi. Tutti noi, compresi i pacifisti, custodiamo del dolore nel cuore. Ci sentiamo arrabbiati e frustrati e non troviamo mai nessuno che sia in grado di capire la nostra sofferenza. Nell'iconografia buddhista, c'e' un bodhisattva chiamato Avalokitesvara che possiede mille braccia e mille mani, e ha un occhio nel palmo di ogni mano. Le mille mani rappresentano l'azione, e l'occhio in ogni mano rappresenta la comprensione. Comprendendo una situazione o una persona, qualsiasi azione sara' d'aiuto e non causera' ulteriore sofferenza. Con un occhio nel palmo della mano, saprete sempre come praticare la vera nonviolenza. Immaginate cosa accadrebbe se anche ognuna delle nostre parole avesse un occhio. Per un artista e' facile dipingere un occhio nella mano, ma come mettere un occhio anche nelle nostre parole? Prima di dire qualcosa, dobbiamo renderci conto di cio' che stiamo per dire e della persona alla quale sono dirette quelle parole. Con l'occhio della comprensione eviteremo di pronunciare parole che finirebbero per far soffrire l'altro. Accusare e discutere sono forme di violenza. Se mentre parliamo soffriamo molto, le nostre parole saranno cariche d'amarezza, e non potranno aiutare nessuno. Dobbiamo imparare a calmarci e a diventare un fiore prima di parlare. È questa l'arte della parola amorevole.

Anche l'ascolto costituisce una pratica profonda. Il bodhisattva Avalokitesvara ha un grande talento per l'ascolto. Il suo nome in cinese significa 'ascoltare i lamenti del mondo'. Per comprendere la sofferenza degli altri dobbiamo saper ascoltare. Per far cio' dobbiamo svuotarci e lasciar spazio in modo da poter ascoltare con piena attenzione. Se inspiriamo ed espiriamo per rinfrescarci e svuotarci, saremo in grado di sedere con calma e ascoltare la persona che sta soffrendo. Chi sta soffrendo ha bisogno di qualcuno che ascolti con concentrazione senza giudicare o reagire. Se non trova nessuno disposto a farlo nella propria famiglia, potrebbe recarsi da uno psicoterapeuta. Con il solo ascolto profondo alleviamo gia' un bel po' di sofferenza. Questa e' una pratica di pace molto importante. L'ascolto e' fondamentale sia nelle nostre famiglie sia nella nostra comunita'. Dobbiamo ascoltare chiunque, specialmente le persone che consideriamo nemici. Se dimostriamo la nostra capacita' di ascolto e comprensione, chi ci sta di fronte sara' a sua volta disposto ad ascoltarci, e avremo una possibilita' di esprimergli il nostro dolore. È l'inizio della guarigione. Il pensiero e' alla base di ogni cosa. Dovremmo disporre un occhio di consapevolezza in ognuno dei nostri pensieri. Senza una corretta comprensione di una situazione o di una persona, i pensieri possono risultare fuorvianti e creare confusione, disperazione, rabbia oppure odio. Il compito piu' importante consiste nello sviluppo di una corretta comprensione. Se guardiamo in profondita' nella natura dell'interessere, se vediamo che tutte le cose 'inter-sono', non abbiamo piu' motivo per rimproverare, discutere e uccidere, e diventiamo amici di tutti gli esseri.

Abbiamo cosi' analizzato i tre campi dell'azione: il corpo, la parola e la mente. Oltre a cio', c'e' la non-azione, che spesso e' piu' importante dell'azione. Pur non facendo nulla, possiamo talvolta rendere le cose piu' agevoli semplicemente in virtu' della nostra presenza pacifica. Se una piccola imbarcazione si trova nel bel mezzo di una tempesta, e qualcuno resta calmo e stabile, gli altri non si faranno prendere dal panico, e sara' piu' facile che l'imbarcazione non faccia naufragio. Ci sono molte circostanze nelle quali la non-azione puo' essere molto efficace. Un albero non fa nient'altro che respirare, ondeggia i rami e le foglie e cerca di mantenersi fresco. Pero', se non ci fossero gli alberi non ci saremmo neppure noi uomini. Il non-agire degli alberi e' fondamentale per il nostro benessere. Se possiamo imparare a vivere prendendo esempio dagli alberi, mantenendoci cioe' vitali e solidi, calmi e pacifici, anche se non facciamo molte altre cose, gli altri trarranno beneficio dalla nostra non-azione, dalla nostra mera presenza.

Possiamo praticare la non-azione anche nell'ambito dell'uso della parola. Le parole possono creare comprensione e accettazione reciproca, ma possono anche causare sofferenza agli altri. A volte e' meglio non dire nulla. Questo libro tratta l'azione sociale nonviolenta, ma e' opportuno discutere anche la non-azione nonviolenta. Per chi desidera realmente aiutare il mondo, la pratica della non-azione e' essenziale. Naturalmente, la stessa non-azione talvolta puo' risultare dannosa. Se qualcuno ha bisogno del nostro aiuto e ci tiriamo indietro, potremmo farlo morire. Se per esempio un monaco vedesse una donna che sta annegando e non volesse aiutarla a causa dei voti che gli impediscono di toccarla, violerebbe il piu' importante principio della vita. La nostra non-azione di fronte all'ingiustizia sociale puo' causare ulteriori danni. Quando c'e' bisogno che facciamo o diciamo qualcosa e rifiutiamo di intervenire, possiamo renderci responsabili di un'uccisione proprio grazie alla nostra non-azione o al nostro silenzio. Per praticare ahimsa dobbiamo innanzi tutto imparare i metodi per trattare pacificamente noi stessi. Se in noi stessi c'e' vera armonia, sapremo anche come intervenire con i familiari, gli amici, i colleghi. Le tecniche sono sempre secondarie. La cosa piu' importante e' trasformarsi in ahimsa, cosicche' quando ci troviamo in determinate circostanze, evitiamo di causare altra sofferenza.

Per praticare ahimsa dobbiamo saper inviare delicatezza, gentilezza amorevole, compassione, gioia ed equanimita' ai nostri corpi, alle nostre sensazioni e agli altri. La vera pace deve fondarsi sull'intuizione e sulla comprensione, e per procedere in questa direzione e' necessario praticare una profonda riflessione, osservando in profondita' ogni atto e ogni pensiero della nostra vita quotidiana. Con la consapevolezza, e cioe' con la pratica della pace, possiamo iniziare a trasformare le guerre presenti in noi stessi. Per far cio' esistono tecniche ben precise. Una di queste e' la respirazione consapevole. Ogni qual volta ci sentiamo arrabbiati, possiamo interrompere le nostre attivita', astenerci dal dire qualsiasi cosa e inspirare ed espirare diverse volte, consapevoli di ogni inspirazione e di ogni espirazione. Se ci sentiamo ancora tesi, possiamo fare una meditazione camminata, mantenendo contemporaneamente l'attenzione sui nostri lenti passi e sul respiro.

Coltivando la pace interiore creiamo la pace nella societa'. Dipende da noi. Praticare la pace interiore vuol dire ridurre le guerre in corso tra le nostre sensazioni o tra le nostre percezioni, in modo da poter creare un'atmosfera di pace anche con gli altri, compresi i membri della nostra famiglia. Mi viene spesso chiesto: "Cosa fai se stai praticando l'amore e la pazienza e qualcuno irrompe in casa tua e cerca di rapire tua figlia o uccidere tuo marito? Come bisognerebbe comportarsi? È meglio sparare a quella persona o agire in modo nonviolento?". La risposta dipende dalle condizioni del proprio essere. Se si e' preparati, e' possibile reagire in modo calmo e intelligente, nel modo piu' nonviolento possibile. Per essere pronti ad agire in quel modo, con intelligenza e nonviolenza, occorre pero' essersi esercitati in precedenza. Potrebbero volerci dieci anni, forse anche di piu'. Se aspettate la situazione d'emergenza, potrebbe essere troppo tardi per porsi questa domanda. Una risposta schematica sarebbe del tutto superficiale. Nel momento decisivo, anche se sapete che la nonviolenza e' migliore della violenza, se tutto cio' non e' che una comprensione intellettuale, se non lo sentite con tutto il vostro essere, non riuscirete a reagire in modo nonviolento.

La paura e la rabbia presenti in voi vi impediranno di agire nel modo piu' nonviolento possibile. Per prevenire la guerra, per fermare in tempo la prossima crisi, dobbiamo cominciare subito. Quando e' scoppiata una guerra o ci troviamo nel bel mezzo di una situazione critica, e' gia' troppo tardi. Se noi e i nostri figli pratichiamo ahimsa nella nostra vita quotidiana, se impariamo a seminare la pace e la riconciliazione nel nostri cuori e nelle nostre menti, potremo davvero iniziare a creare la pace e cosi' facendo saremo in grado di prevenire la prossima guerra. Se poi, nonostante i nostri sforzi, arrivera' un'altra guerra, sapremo di aver fatto del nostro meglio. Sono sufficienti dieci anni per prepararci e preparare la nazione a evitare un'altra guerra? Quanto tempo ci vuole per respirare in consapevolezza, per sorridere e per essere pienamente presenti in ogni istante? Il nostre vero nemico e' la dimenticanza. Nutrendo la consapevolezza ogni giorno e innaffiando i semi della pace in noi stessi e nelle persone che ci circondano, avremo buone possibilita' di impedire la prossima guerra e di disinnescare la prossima crisi.

(da L'amore e l'azione, Ubaldini, Roma)

Invecchiare con sapienza

di Card. Aloísio Lorscheider

Il giorno in cui nasciamo, cominciamo a invecchiare. Il tempo passa; solo l’eternità non passa. Il tempo che ci è dato deve essere impiegato bene per il servizio di Dio e del prossimo. Anche l’età anziana è chiamata a portare i suoi frutti.
Il cardinale Aloisio Lorscheider, ofm, arcivescovo emerito di Aparecida (Brasile), giunto ormai all’età di 82 anni, essendo nato l’8 ottobre 1924, riflette sul significato dell’età anziana, proponendo alcuni spunti che qui riprendiamo.

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