I Dossier

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Zwingli e Lutero: l'impossibile intesa

di Marco Galloni



Lutero? Più cattolico del papa, almeno secondo il punto di vista di Ulrich Zwingli, il teologo svizzero (1484 – 1531) che con il riformatore di Eisleben ebbe profonde divergenze sulla concezione dell’Eucaristia, culminate con il faccia a faccia di Marburg nel 1529. È quanto emerso venerdì 20 aprile 2007 durante il sesto appuntamento degli Incontri Celimontani di quest’anno, organizzati presso il monastero camaldolese di San Gregorio al Celio in Roma. Titolo dell’incontro: “Esperienza corporea dello spirito ed esperienza spirituale del corpo alla luce della teologia eucaristica della fede riformata”. Relatore il teologo e pastore valdese Paolo Ricca, moderatore dom Guido Innocenzo Gargano, priore del monastero.

Le tre obiezioni di Zwingli

La via cristiana alla salvezza, questa l’opinione di Gargano, passa necessariamente attraverso la carne: è attraverso la carne che si arriva a Dio. Una visione che Lutero, con ogni probabilità, non avrebbe avuto difficoltà a condividere. Non così Zwingli, secondo Paolo Ricca: per Zwingli noi uomini dell’era moderna viviamo nel tempo dello spirito, non più dell’incarnazione. Se Lutero è teologo dell’incarnazione, Zwingli lo è dell’ascensione. Secondo quest’ultimo il pane della cena eucaristica non “è” il corpo di Cristo ma “significa” il corpo di Cristo, mentre per Lutero l’”est” va inteso letteralmente, grammaticalmente: il pane “è” il corpo di Cristo. A Lutero avrebbe fatto peraltro gioco la concezione zwingliana, per combattere la dottrina della transustanziazione. Ma, dice il teologo tedesco, il testo è troppo forte, quasi perentorio: “est”, “è”! Entrambi i teologi affermano una presenza reale, ma mentre per Lutero si può parlare di corporeità dello spirito, per Zwingli è più opportuno ragionare in termini di spiritualità del corpo. La visione di Zwingli è sintetizzata nelle tre obiezioni che egli muove all’idea di una presenza corporea di Cristo nel pane eucaristico. Prima obiezione: l’”absurditas”, tale presenza è a ssurda, inconcepibile. Seconda obiezione: “nulla necessitas”, si tratta di una presenza non necessaria. Terza obiezione: la presenza corporea è addirittura sconveniente, indegna di un Dio che è comunque spirito.

Le risposte di Lutero

Alla prima obiezione Lutero risponde che molte sono le cose inconcepibili e inspiegabili nella creazione, eppure non a ssurde: l’anima, per esempio, che nessuno ha mai visto né sa esattamente cosa sia. E poi la voce, che è solo un soffio. O il piccolo seme che si trasforma in pianta. Eppure tutte queste cose esistono realmente, accadono. Cos’è questo pane che diventa corpo? È uno dei tanti miracoli che Dio opera. Possiamo riconoscere Dio ovunque, il creato è pieno di Lui: nulla è così grande che Dio non sia ancora più grande, nulla è così piccolo che Dio non sia ancora più piccolo, nulla è così stretto che Dio non sia ancora più stretto, nulla è così largo che Dio non sia ancora più largo... Alla seconda obiezione di Zwingli, Lutero risponde in modo sbrigativo: chi sei tu per insegnare a Dio cosa è necessario? Quasi scontata la risposta alla terza obiezione: il vero onore di Dio è proprio l’incarnazione, l’abbassamento; ciò non soltanto non è sconveniente ma esalta l’onore di Dio. Zwingli, dichiara Lutero, vuole riportarci all’Antico Testamento, al tempo delle teofanie, delle ombre, mentre il Nuovo Testamento è il tempo della presenza reale, corporea di Dio. Al contrario di quanto generalmente si crede, Lutero è un accanito sostenitore della presenza del corpo di Cristo nell’Eucaristia, al punto che Zwingli arriva ad accusarlo di cattolicesimo latente: “Tu parli come quelli di Roma, sei rimasto uno di loro”.

Il pane-corpo

Ma se Lutero è un sostenitore della presenza reale, egli è nello stesso tempo nemico dichiarato della transustanziazione, che secondo lui è un cedimento alle esigenze della ragione, un tentativo di spiegare razionalmente le cose di Dio. La ragione umana, invece, dovrebbe soltanto ricevere le cose di Dio, non spiegarle. Nemmeno Zwingli crede nella transustanziazione, come abbiamo visto, ma in modo diverso da quello di Lutero: i due, potremmo dire, sono divisi nella divisione, in disaccordo su ciò che li pone in disaccordo con la chiesa di Roma. Se per transustanziazione la dottrina cattolica intende “il mutamento della sostanza del pane e del vino nella sostanza del corpo e del sangue di Cristo, resi in tal modo presenti sotto il permanere delle apparenti realtà sensibili del pane e del vino” (Karl Rahner ed Herbert Vorgrimler: “Dizionario di Teologia”), per Zwingli il corpo non c’è proprio. È sul Golgota. O meglio, in cielo alla destra del Padre. Per Lutero, al contrario, c’è vero pane e vero corpo insieme, al punto che il teologo tedesco arriva a coniare espressamente la parola composta “leibsbrot”, pane-corpo. Questa è la ragione, ricordava Ricca, per cui nella chiesa luterana non si pratica la conservazione dell’ostia, che presuppone la localizzazione: per i luterani c’è presenza reale ma non localizzazione.

La trans-significazione di Zwingli

Zwingli non manca di replicare alle contro-obiezioni di Lutero, ribadendo ancora una volta che l’”est” significa il corpo di Cristo ma non è il corpo di Cristo. A titolo di cronaca ricordiamo che tale posizione non è propria di Zwingli: la si può trovare già in Wycliffe, il fondatore dei lollardi. Per rafforzare la seconda obiezione, quella della “nulla necessitas”, Zwingli si rifà a un passo del Vangelo di Giovanni (Gv 6,63): “È lo Spirito che vivifica, la carne non giova a nulla”. Quanto all’accusa mossa da Lutero, secondo la quale Zwingli proporrebbe un ritorno all’Antico Testamento, al tempo delle teofanie, il teologo svizzero risponde risentito: “Non è vero che voglio tornare all’Antico Testamento. E poi anche il Nuovo Testamento è pieno di figure, di ombre, di parabole, di metafore”. In realtà, sostiene Paolo Ricca, Zwingli opera una trans-significazione: egli considera la cena eucaristica come la memoria della croce che prende corpo. Una memoria non come la intendiamo noi, come semplice ricordo, ma nel senso biblico, ebraico del termine “ziqqaron”, una memoria esistenziale, un’esperienza, un rivivere l’evento. L’ebreo che celebra la Pasqua non dice: “Mi ricordo di quando i miei antenati erano schiavi in Egitto”. Dice: “Mi ricordo di quando io ero schiavo nel paese d’Egitto”. Il contenzioso tra Lutero e Zwingli, sottolineava in conclusione dom Innocenzo Gargano, riporta per certi versi alla mente il conflitto tra nestoriani e monofisiti: nella teologia di Zwingli il rischio di monofisismo è concreto. Lutero e Zwingli, come si accennava all’inizio, non riuscirono a trovare un accordo: con il colloquio di Marburg fallì di fatto anche il progetto di una coalizione protestante. Il che non significa che i cristiani di tutte le confessioni e i credenti in genere debbano disperare nella possibilità di un incontro ecumenico autentico e profondo. Noi siamo di Cristo, ricordava Paolo Ricca citando 1 Corinzi 3,23, ma Cristo non è nostro. È il salvatore del mondo, non solo dei cristiani. L’”extra Ecclesiam nulla salus” può diventare così, in senso a ssai più ampio, “extra Christum nulla salus”.

Qualche domanda

Parabole estratte dal “Parabolario”
di Galando di Reigny

a cura di Sr. Giovanna Grazioli

Alcuni fratelli si recano da un padre spirituale desiderando ciascuno ricevere da lui una risposta alle loro domande.

9 A. I denti rotti del diavolo

1. La prima domanda: «Perché il salmista dice: “Hai spezzato i denti ai peccatori”a? Come si può affermare ciò, quando i peccatori hanno tutti i loro denti, e sani, mentre molti religiosi anziani sono sdentati al punto di poter mangiare appena il loro pane b?».

L’altro rispose: «Un uomo aveva un cane dalle reazioni immediate, in altre parole mordeva gli ospiti o gli sconosciuti prima di abbaiare: il padrone gli spezzò i denti affinché, se in seguito avesse morso qualcuno, non avrebbe potuto fargli del male.

Allo stesso modo, perché il diavolo non potesse nuocerci troppo coi morsi delle sue suggestioni improvvise e nascoste, il Signore ci ha insegnato ad opporre ai morsi del desiderio carnale, l’astinenza, a quello dell’orgoglio, l’umiltà; infine ad ogni vizio la virtù corrispondente. Con questo mezzo i morsi diabolici sono stati grandemente neutralizzati.

Vedi un fratello in collera che vuol litigare? Rispondigli dolcemente, e così hai «rotto i denti» della collera.

Il tuo spirito ti porta alle stelle, ti eleva sopra degli altri? Pensa che devi morire, che sarai presto polvere, che sarai sottoposto al giudizio divino, che avrai dei debiti da scontare, che sarai giudicato con severità; cosi avrai spezzato i denti dell’orgoglio.

2. Diciamo ancora come i denti dei peccatori saranno spezzati. Capita spesso che un secolare che ha commesso colpe criminali che trapassano come tanti denti del diavolo e che è stato per lungo tempo trattenuto nelle fauci di questo cerbero furibondo, sia visitato dalla grazia di Dio che tende a strapparlo dai denti del diavolo. Ma il nemico funesto non vuole lasciarlo andare cosi facilmente: o meglio non soffre affatto di disserrare i denti che ha piantato nelle sfortunate membra, come è naturale da parte di chi ha messo in opera tanto zelo e pena per custodire la sua preda, quanto il fatto che la credeva già in suo potere e diceva in se stesso che nessuno più l’avrebbe reclamata o gliela avrebbe strappata.

Ora il Signore libera con forza e potenza il peccatore che grida verso di Lui, secondo le parole “ha fatto uscire i prigionieri con forza”c, e ancora “verrà uno più forte di lui che li vincerà” d, ecc. Così si dice del diavolo che i suoi denti sono spezzati, comparandolo ad un essere al quale non si potrebbe far mollare ciò che avesse afferrato fra i denti senza romperlo.

3. Quando ci liberiamo dai peccati più importanti e più gravi, “il Signore spezza i molari dei leoni”e; quando si tratta di colpe più lievi o di poca importanza, egli “frantuma i denti dei peccatori”. O meglio, poiché i molari sono più nascosti dei denti davanti, il Signore frantuma i molari in quanto mi purifica “dalle mie colpe nascoste” f; quando si tratta di colpe commesse apertamente, Egli rompe i denti1. Dato che i molari sono più grossi dei denti davanti è giusto dire che essi rappresentano i peccati nascosti, Il fratello che pecca si corregge spesso più velocemente da una colpa evidente che da una colpa nascosta. Anche tu, rompi i denti del peccatore quando rifiuti di ascoltare il falso fratello g che ti invita al male.

Tale suggestione è un latrato, un morso di cane, una ferita dell’anima. E come mai ogni volta che ti suggerisce questo genere di cose non ottiene nulla, non può farti alcun male, se non perché ha i denti spezzati?».

9 B. Fede, speranza e carità

1. La seconda domanda: «Perché l’Apostolo dice: “Esse sono tre, la fede, la speranza e la carità; ma più grande di tutte è la carità?”a Perché le enuncia in questo ordine e mette l’ultima al di sopra delle altre?».

Rispose il Padre spirituale: «Quando un agricoltore ha messo tutte le sue cure nel piantare una vigna e si è preoccupato a coltivarla, è certamente gioioso quando col tempo la vede fiorire nei giorni primaverili e infine è felicissimo quando in autunno la vede portare frutto.

Ora la vigna di Dio, piantata dalla fede, fiorisce con la speranza e dà i suoi frutti nella carità. Se dunque la fede è una cosa gioiosa, la speranza la supera e la carità ne è sovrana.

Piantare una vigna! Ecco che non sempre dura; la bellezza dei fiori è passeggera; ma vuoi sapere di che natura è il frutto della carità? Ascolta il Signore: «E che voi portiate frutto, dice, e che il vostro frutto rimanga” b Questa piantagione che è la fede appassisce, i fiori della speranza cadono, ma la carità non sparirà mai c.

E di fatti noi soffriamo molto nel piantare e anche durante la fioritura non riceviamo ancora niente, fino alla raccolta dei frutti dove possiamo riempire gioiosi le nostre dispense.

2 . La carità riempie il granaio del cielo, perché la fede e la speranza non salgono fin là.

La nostra carità germina qui in basso, si alza dal basso della terra del nostro cuore; ma la sua cima penetra i cieli e il suo frutto ci mette in compagnia degli angeli. Tu non puoi salire fino al cielo se non per mezzo dell’albero della carità. A meno di piantare qui la carità, non potrai cogliere i frutti lassù. Ma quando seminerai una semente di carità nel giardino del tuo cuore, guardati dall’invidia, la peggiore delle erbe cattive. È soprattutto l’invidia che distrugge il germe della carità, soffoca tutti i suoi germogli d e la sradica fino alla radice.

Nutri la carità, ordina in te la carità e in modo da amare per prima le persone della tua casa, i tuoi compagni, poi le altre persone a te più intime, in terzo luogo i tuoi vicini e le persone del vicinato, in quarto luogo ugualmente coloro che abitano più lontani ma non ti sono sconosciuti, in quinto luogo gli stranieri e le persone sconosciute, ed infine perfino i tuoi nemici.

3. D’altronde l’Apostolo ha enunciato le tre virtù in quest’ordine, sia perché se non credi non puoi sperare i beni celesti e se non speri di raggiungerli un giorno non potrai infiammarti d’amore per essi; sia perché il percorso evangelicof che dobbiamo costruire nel nostro cuore ha per fondamento la fede, si eleva ben in alto con la speranza e termina con la carità; sia perché la fede ci insegna la via da seguire, la speranza ci mostra da lontano il luogo verso il quale ci dirigiamo g la carità ci fa giungere; sia perché la fede ispira a chi è caduto di rialzarsi, la speranza lo conforta fintanto che si rialza, la carità nasconde i suoi peccati h. In breve, la fede ci fa nascere, la speranza ci fa crescere, la carità ci rende perfetti 1.

La fede ci purifica, la speranza ci rallegra, la carità ci santifica. La fede ci distingue dai miscredenti, la speranza ci eleva verso le altezze, la carità ci unisce a Dio stesso. La fede ci fa cristiani, la speranza tutto ci dona, la carità ci rende figli di Dio. La fede scaccia l’errore, la speranza bandisce la disperazione, la carità scaccia il timorei».

9 C. La correzione moderata

1. Il terzo disse: «Chi è più in errore: colui che riprende troppo duramente le persone che peccano, o colui che lo fa fiaccamente?».

L’altro rispose: «Una volta avevo due vicini; la carità li spingeva spesso ad invitarmi a pranzo, e sia l’uno che l’altro mi offrivano da bere del vino accuratamente aromatizzato con miele e a ssenzio. Tuttavia uno di loro metteva quasi sempre in questa bevanda più miele e meno a ssenzio; l’altro invece ci metteva sempre meno miele e più a ssenzio di quello che richiedeva. L’uno e l’altro mi causavano un disgusto.

Tuttavia come la bevanda troppo dolce mi era meno nauseante dell’altra troppo amara, così una correzione più dolce è preferibile ad una più dura. Certamente, è bene talvolta avere in sé il rigore del vino, ma è meglio abbondare delle dolcezze del latte, come è scritto: poiché le tue tenerezze sono meglio del vino a. Infatti se bisogna versare del vino e dell’olio b su una ferita, si mette sempre più olio che vino; se si mischiano queste due sostanze, l’olio galleggia sempre1.

E se capitasse al tuo cuoco di superare la misura nel condimento dei legumi, sopporteresti meglio più olio che troppo sale».

2. Ahl Quale abbondanza di olio metteva nei cibi che ci preparava quel buon cuoco venuto in questo mondo c non per essere servito ma per servire d !

Vedi, ti prego e osserva Colui che dispose tutte le cose con dolcezza», che corregge dolcemente gli Apostoli che si contendono il primo posto f.

Egli accoglie la peccatrice in lacrime ai suoi piedi, l’assolve, la rinvia in pace g la giustifica persino, sia davanti a Simone il lebbroso h, sia davanti a Giuda figlio di Simone, l’lscariota l, sia davanti a Marta, la sua stessa sorella jk. Libera la donna adultera che gli conducono e la mette al sicuro non condannandola

Guarda Pietro che lo rinnega l . Persino sulla croce promette il Paradiso al ladrone m, intercede presso il Padre per i giudei n, a sua madre che piange, cerca un altro figlio che prenda il suo posto o. Dopo la sua morte e la sua risurrezione, va a trovare i suoi discepoli che non lo credevano risuscitato, li saluta, li saluta ancora, mette a nudo il suo costato q, li forma di nuovo ad avere fede, invita Tommaso a toccarlo r, se ne va e ritorna più volte, esortandoli ed istruendoli spesso s. Infine li conduce fuori, li benedice, ascende al cielo t.

3. Ah! Il «buon padrone dell’albergo» che offre dei banchetti così dolci e gustosi! Vuoi gustarli anche tu? Cerca di fare esperienza di ciò che dico. Avvicinati, entra anche tu al refettorio dell’Evangelo. Vi troverai quattro tavoli guarniti di delizie così numerose e così abbondanti che non saprai cosa prendere: quello è buono, quell’altro è migliore!

Si, veramente, se in primo luogo andrai alla tavola di Matteo - per non dire di tutto il resto -,cosa vi potrai trova-re di bene, di dolce, di morale, di edificazione che non contenga il sermone del Signore sulla montagna u?.

Poi quando avrai scrutato a fondo e per ordine gli altri due tavoli e avrai visto le meraviglie che vi sono servite, penserai che niente di meglio può trovarsi sotto il cielo.

Per ultimo ti si presenterà la tavola di Giovanni. La vedrai carica di cibi divini di una nobiltà tale che tutto ciò che avevi visto in precedenza ti sembrerà poca cosa. Cosa proverai infine quando giungerai alla Cena del Signore e percorrerai con lo sguardo l’abbondanza grondante, lo scorrere abbondante delle Parole divine v? In verità potrai esclamare con Paolo: O profondità della ricchezza della saggezza e della scienza di Dio! w»

9 D. L’Ispirazione divina

1. La quarta domanda: «Perché il Signore dice nell’Evangelo che Lui e Suo Padre verranno da chi osserva i suoi comandamenti e faranno la loro dimora presso di lui a, quando comunque nessuno può osservarli a meno che Dio non venga prima a visitarlo con una ispirazione divina.

L’altro rispose: «Un ricco allevò nella sua casa, per amore di Dio, un ragazzino povero e di modeste condizioni. Quando quest’ultimo giunse all’età adulta, il ricco gli disse: “Ho deciso di darti una piccola somma di denaro affinché tu la faccia fruttare, aumentandola a tuo profitto, alle seguenti condizioni: se la farai fruttare con sagacità te ne darò un’altra più grande; altrimenti pensa che questa sarà l’ultima”.

Ora, quando il giovane ebbe gestito questo denaro con prudenza, il suo padrone di casa aggiunse un’altra somma più considerevole alla prima; e quando vide che anche questa era ugualmente ben amministrata, lo gratificò con abbondanti ricchezze.

2. Così il Signore prima ci accorda un soffio leggero della Sua grazia, e se questa prima grazia non è stata vana in noi b, ci arricchirà in seguito di una benedizione molto più abbondante: la Sua venuta e quella di Suo Padre. E se facciamo fruttare bene e diligentemente la larghezza dei suoi doni, ci accorderà ancora di più i doni della sua liberalità; tanto più noi risponderemo convenientemente e con sagacia ai suoi doni, tanto più Lui ci arricchirà di più grandi.

E se noi non cesseremo di meritare il Suo bene, Lui non cesserà mai di farci del bene, e non ci sarà mai fine al nostro progresso spirituale quotidiano né alle Sue costanti e sovrabbondanti ricompense».

9 E. La bellezza spirituale

1. La quinta domanda: «Perché una certa persona dice di lei: sono bruna, ma sono beIIa a? Se è nera, come può essere bella? e se è bella, come è nera?»

Ma l’altro rispose: «Un giorno un uomo andò a raccogliere more con un bambino. Ma le more non erano tutte mature e non avevano dunque tutte lo stesso colore; le une erano nere, le altre verdi o rosse, Il bambino, credendo e dicendo in cuor suo b che tutto ciò che è nero è spregevole e da rifiutare, non raccoglieva che le more rosse e verdi, mentre il suo compagno non raccoglieva che le nere.

2. Anche tu, non credere che tutto ciò che è nero sia mediocre e senza valore: al contrario, molte cose sono migliori tanto più sono nere! Pensa per esempio alle lettere incise in un libro: più sono nere, più sono nitide. Rossicce o giallastre sarebbero meno leggibili. L’uva in autunno, o le more in questione sopra, sono tanto più gustose da mangiare tanto più sono nere; se gli restano delle tracce di giallo o di verde, ci sembrano già meno buone.

Lo stesso vale nel campo spirituale; alcune virtù sono, in qualche modo, nere. Sembrano brutte e vergognose agli stolti, mentre i saggi le prediligono e le stimano. Tali sono la povertà volontaria, una pazienza tranquilla, l’umiltà religiosa.

Chiunque è capace di comprenderle e di riconoscerle, è adulto nell’intelletto, è perfetto nel discernimento. Ma chiunque è incapace di apprezzare tali realtà è un bambino nel giudizio c (1)e dallo spirito povero. Lascia da parte le more buone e mature per cogliere quelle verdi Ogni anima santa che per amore di Dio ha in sé quelle belle nerezze può dire con ragione: sono bruna, ma sono bella! d,»

9 F. L’uomo che grida con una voce non sua

La sesta domanda: «Perché il salmista dice: con la mia voce ho gridato al signore a? Infatti chi mai grida o parla con una voce non sua?».

L’altro rispose (A): «Vi era un vecchio al quale l’età aveva fatto perdere quasi completamente la vista. Aveva un figlio unico e molto caro, che faceva spesso delle corse di qua e di là per procurar loro il necessario. Un ragazzo che abitava nelle vicinanze spiava la sua a ssenza per andare a trovare il padre e, fingendo di essere suo figlio, gli domandava tutti i regali che voleva. Dato che possedeva una capacità d’imitazione e sapeva dare differenti timbri alla sua voce, prese la voce del figlio e ripeteva spesso il nome del padre con un tono affettuoso: così otteneva immediatamente ciò che domandava.

Lo stesso Dio cerca di ascoltare la voce di suo figlio e prova piacere nell’ascoltarlo. Una voce di figlio, dico, non di mercenario: la voce di colui che erediterà con Lui, non di colui che non dimorerà mai nella sua casa b. Ma non possiamo prenderci gioco di Dio c né ingannarlo come si è potuto abusare del vecchio. Se dunque vuoi avere una vera voce di figlio, bisogna che tu sia veramente figlio.

2. Una voce di vero figlio è una voce umile e semplice che esprime il dono di sé, voce in armonia con lo spirito (1), voce che confermi le opere. Una voce di vero figlio non cerca di vendicarsi dei suoi nemici, perchè suo padre fa piovere sui giusti e sugli ingiusti d; non domanda i beni terreni dati ai mercenari, ma attende quelli del cielo riservati ai figli. Una voce di vero figlio è una voce di operatore di pace», perché questi saranno chiamati figli di Dio f. Una voce di vero figlio parla spesso di opere di misericordia; perché il suo Padre Celeste è misericordioso g. È una voce lamentosa e gemente, come è scritto: la voce della tortora si è fatta sentire nella nostra campagna h. Allorché questa voce pronuncia il nome di Padre, l’amore del Padre occupa subito il cuore. Quando invoca il nome del Signore i, anche lo spirito porta in sé la reverenza dovuta al Signore.

Se per caso - non sia mai! - un giorno la mia malizia mi facesse essere figlio del diavolo e schiavo del peccato k qualora dicessi Padre nostro l o cantassi Signore, mio Signoro m, non griderei con la mia stessa voce; prenderei in prestito quella di un altro. Peccatore, usurperei ciò che spetta al giusto, e non impetrerei con la fiducia di essere esaudito, ma con la confusione per la mia cattiva coscienza.

3. Invece, Davide, che fu sempre buono e santo, dice giustamente: con la mia voce ho gridato al Signore, mi ha esaudito dal Suo monte Santo n. Come se dicesse: “Poiché grido al Signore con la mia solita voce, voce che Egli conosce bene, che sempre gradisce, ho fiducia di essere esaudito”.

E se dico della mia preghiera che essa grida, è perchè proferendola dal profondo della mia anima, la spando davanti a Dio in uno slancio spirituale.

Quanto al fatto che dico di essere stato esaudito (B) qualora gridassi, per così dire, dalla cima di una montagna (C), come se non dovessi essere ugualmente esaudito gridando da una valle, o come se Dio, che dimora in cielo, sente meglio coloro che gridano da una montagna piuttosto di coloro che gridano da una valle perché i primi sarebbero più vicini a Lui dei secondi, ma è vero che più tu sarai vicino a Lui, più velocemente sarai esaudito; e più sarai lontano da Lui, più ti sarà difficile ottenere ciò che domandi.

Così come la vicinanza o la lontananza si misurano in termini di luogo quando si tratta di noi, nel caso di Dio si valutano in termini di meriti perché è sicuramente per tali meriti che ci avviciniamo o o ci allontaniamo da Dio».

Note

GALANDO DE Reigny, Parabolaire, a cura di C. Friedlander, Sources Chrétiennes n.378, Les Editions du Cerf, Paris 1992.

aSal 3,8 // b Gen 3,19.

c Sal 67,7 // d Lc 11,26 // e Sal 57,7

f Sal 18,13

1 Vedi GREGORIO MAGNO: «Si designa per molari le insidie nascoste del diavolo, per denti, l’adempimento alla scoperta della colpa. Molari e denti di cui il salmista ha scritto “Ma Dio spezzerà i denti nella loro bocca, il Signore romperà i molari dei leoni”» (Mor. XIX, 26,47: PL 76,128 A).

g 2 Cor 11,26; Gal 2,4

a 1 Cor 13,13 // b Gv 15,16 // e 2 Cor 13,8.

d Gb 31,12 // e Ct 2,4// f Lc 14,28

g Eb 11,13; Gen 22.9 // h 1 Pt 4,8.

1 II tema della carità ordinata è stata legata agli autori spirituali del XII secolo dagli scritti di Origene sul Cantico: Hom. Cant. 2,8 (SC 37 bis, p. 128-130); in Cant. 3 (PG 13, 155D -160B). Le tre virtù teologali sono considerate come tre tappe dello sviluppo in noi di una stessa realtà che è la vita di Dio. Cf. GUILLAUME DE SAINT-THIERRY. La formazione dell’uomo religioso consiste nell’educazione morale; la sua via è l’amore divino. Vinto dalla fede, partorito nella speranza, questo amore riceve dalla carità, ossia dallo Spirito Santo, la sua forma e la sua vitalità» (Epist.169-170: SC 223, p. 278).

i 1 Gv 4,18.

a Ct. 1.1 // b Lc 10,34.

1 Comparare con S. Agostino: «L’olio versato nell’acqua sale al di sopra dell’acqua; l’acqua versata sull’olio scende al di sotto dell’olio: sono trattenuti dal loro peso e cercano il luogo che gli è proprio. Le cose che non sono al loro posto si agitano; ma quando trovano il loro posto restano ferme. Il mio peso, è il mio amore; in qualunque luogo io sia portato, è Lui che mi porta». (Conf. 13,9; trad. J. Trabucco, t. 2, Parigi 1937, P. 319).

c Gv 11,27; 9,39 // d Mt 20,28 II e Sap 8,1

f Cf. Lc 22,24-29 // g Lc 7,37 1 // h Cf. Mc14,3s.

i Cf. Gv 12,14s // j Cf. Lc 10,38 // k Cf. Gv 8,3s.

l Cf. Lc 22,61 // m Cf. Lc 23,43 Il n Cf. Le 23.34

o Cf. Gv 19,26 s. Il p Cf. Mc 16,14

q Cf. Gv 20,20-21 // rCf. Gv20,27; Lc 24-39

s Cf. At 1,3; Lc 24,27.44-49 // t Cf. Lc 24,50-51.

u Cf. Mt 5-7 // v Cf. Gv 13-17 // w Rm 11,33.

a Gv 14,23 // b 1 Cor 15,10.

a Ct 1,4 /I b Lc 11,38

c Cor 14,20 // dCt 1,4

(1)L’espressione «bambino nel giudizio» la si ritrova nel Lib. Prov. 85 e 98. Designa per Galand l’immaturità spirituale. Ct. C. Friedlander, “Galland de Reigny e la semplicita”, Coll. Cist. 41 , 1979, p41.

a Sal 3,5 // b Gv 8,35 // c Gal 6,7

(A) Ogni parte di un coltello non taglia, ma tutte sono utili o decorative. Così ogni elemento di una parabola non è necessariamente carica di sottigliezze allegoriche; ma tutto completa o perfeziona la composizione del testo affinché la trama del racconto possa tenersi. Quando si costruisce una casa, si fanno spesso dei lavori che mirano ad abbellire l’edificio piuttosto che a rispondere ad una necessità pratica. È’ nello stesso modo che dobbiamo comprendere i dettagli di questa parabola.

(1) Cfr. RB 19,7: «Quando cominciamo a salmodiare, facciamo in modo che il nostro spirito concordi con la nostra voce».

d Mt 5,45 // e Cfr. Gc 3,17 // Mt 5,9 // g Lc 6,36

h Ct 2,12 // i Gl 2,32

j Cfr. .At 2,21 // k Gv 8,34 // l Mt 6,9// m Sal 8,2

n Sal 3,5 // o Cfr. Sal 22,6 // p Cfr. Sal 72,27

(B) Si tratta di Davide

(C) «Mi ha risposto dal Suo monte santo» (Sal 3,5).

Martedì, 13 Novembre 2007 00:03

Pontefice o vescovo di Roma? (Marco Ronconi)

Un tema non solo nominalistico

Pontefice o vescovo di Roma?

di Marco Ronconi

I nomi con cui chiamiamo le cose sono una cosa affascinante. La Chiesa cristiana ha da sempre dedicato enormi energie (e non poco sangue) al come dire (invocare, spiegare, indicare, evocare, definire...) le cose che le sono state affidate. Su come si può (e non può) «dire Dio» sono stati necessari secoli - e prezzi molto alti - per arrivare a parole come «una natura in tre persone», o «vero Dio e vero uomo». Per decidere con quali nomi ci si deve (o non deve) rivolgere a Maria, fu convocato addirittura un Concilio ecumenico, nel 431. Sui nomi con cui spiegare la presenza di Cristo nell’Eucaristia (transustanziazione? Transignificazione?...), la comunione ecclesiale si è spezzata. Talvolta, specialmente quando i prezzi diventano così alti, si è tentati (anche saltuariamente) di risolvere i problemi considerandoli come puri “nominalismi”; non sempre. tuttavia, le questioni dei nomi con cui chiamiamo le cose si riducono a mere questioni accademiche. Non è la stessa cosa, ad esempio, pregare invocando un «Padre che è nei cieli» o contemplando I’«Essere perfettissimo», o supplicando il «Figlio di Dio Crocifisso». Allo stesso modo, non è la stessa presa di coscienza che porta ad affidarsi a un «fratello nella fede» o a un «altro Cristo». Ancora, dire «chi è un cristiano» (e chi di conseguenza non lo è) o «cos’è la Chiesa» (e di conseguenza cosa non è), non è questione per pochi viziati dal lusso del pensiero.

Anche nel campo del linguaggio, il Vaticano Il operò un profondo aggiornamento,dalla liturgia alla teologia. Espressioni come «sacerdozio comune» o «Chiesa come mistero e comunione» (che se non nuove, sicuramente avevano trovato in Lumen gentium un contesto diverso dal passato recente), sono così potenti che don Giuseppe Dossetti affermava già nel 1966: «Non importa che una generazione o due possano eventualmente procedere a un impiego larghissimamente nominalista di tutte queste realtà, o che alcuni possano addirittura usare queste parole unicamente per frodarne i contenuti; questi nomi, che non sono solo dei nomi, camminano; da molti sono presi sul serio, hanno aperto possibilità di ricerca che prima non si intravedevano nemmeno lontanamente e soprattutto creano in realtà e nel profondo, la possibilità - dico la possibilità perché l’attualità dipende poi da molte cose - di un costume nuovo, di uno spirito nuovo, di un’anima nuova nella Chiesa».

Molti ragionamenti sarebbero a questo punto possibili. Vorrei introdurne uno, forse più marginale ma curioso, sui nomi con cui chiamare il «Papa di Roma» («Pastore della Chiesa universale»? «Servo dei servi di Dio»? «Sua Santità»? «Patriarca d’Occidente»?..). Nel 1970, la Commissione teologica internazionale aveva ad esempio sconsigliato l’uso di alcuni di questi titoli che, pur appartenendo alla tradizione, potevano dare luogo a fraintendimenti. Ne parlò anche Yves Congar in un articolo tanto succinto quanto interessante. «Papa» e «Santo Padre», ad esempio, sono i titoli giudicati più adatti: il primo condivide la stessa etimologia di «papà» ed entrambi nascono (anche se in periodi diversi), come forme di vicinanza affettiva alla figura del vescovo. Al proposito. è interessante ricordare che solo dall’XI secolo «Papa», «Pontefice» e «Vostra Santità», sono esclusiva del vescovo di Roma. Altrettanto da preferirsi sono «vescovo di Roma» e «successore di Pietro», molto usati dai grandi padri latini del V secolo. «Vicario/successore di Pietro», in particolare, è da preferirsi nettamente a «vicario di Cristo», che più di altri può dare origine a confusione. Nell’antichità, infatti, «vicari di Cristo» erano tutti coloro che nella loro azione potevano rendersi trasparenti dell’azione trascendente del Salvatore: vescovi e sacerdoti, ma anche re e imperatori. In varie epoche, molti autorevoli autori hanno messo in guardia sulla confusione tra un titolo di encomio e un titolo giuridico, quasi che il Papa fosse «Dio in terra» e che la sua autorità non derivasse dal presiedere alla cattedra di Pietro! Il Vaticano I, che certo non fu un concilio antipapale, riservò il titolo di «vicario di Cristo» a ogni vescovo, compreso ovviamente quello di Roma. Per motivi analoghi, è sconsigliato dire che il Papa è il «capo della Chiesa»: affermazione non pienamente scorretta, ma che può generare esagerazioni pericolose: il capo della Chiesa in senso stretto è solo Cristo! Per questo. quando si voglia usare tale titolo, si consiglia di seguire l’esempio di Lumen gentium, che parla di «capo visibile della Chiesa», e di «capo del collegio episcopale». Abbastanza sconsigliato infine, è anche chiamare il Papa «Sommo Pontefice» o peggio ancora «Pontefice Massimo», come era d’uso frequente nell’iconografia barocca. Al proposito, ancora Congar cita un aneddoto interessante: non solo «Pontefice» era un titolo tipico della latinità pagana, ma una delle prime volte di cui ne abbiamo notizia è da Tertulliano che ironizza contro un vescovo un po’ arrogante che pretende di essere chiamato «pontefice massimo, cioè vescovo dei vescovi!».

Martin Lutero (1483 – 1546)

di Anne-Cécile Huprelle

Appassionato, angosciato, intellettuale accanito, predicatore impetuoso, l’uomo della Riforma protestante produsse anche alcuni scritti ingiuriosi per i suoi nemici, in contraddizione con l’innegabile spiritualità della sua opera. Il suo obbiettivo: ricollocare il sacro nell’unica relazione di fiducia fra Dio e l’uomo.

Martin Lutero nasce il 10 novembre 1483 a Eisleben in Germania. Molto dotato per gli studi, suo padre, operatore minerario, lo spinge, dopo la maturità, verso studi di diritto. Secondo Lutero, il suo destino avrebbe avuto una svolta in una notte del 1505. Sorpreso da un violento uragano, vede giunta la sua ultima ora: prega allora sant’Anna per chiedere la grazia, in cambio della quale sarebbe divenuto monaco. Qualche tempo dopo entra nel convento degli Eremiti di sant’Agostino di Erfurt. Considerando la sua esperienza come una chiamata di Dio, comincia a riflettere seriamente sulla morte e sulla salvezza. Le sue angosce ricorrenti tradiscono una sensibilità esasperata, quella di un uomo che dubita per sé, come per i fratelli, di fronte al giudice divino.

È ordinato sacerdote a 24 anni, poi diviene insegnante all’università di Wittenberg, pur imponendosi una vita di ascesi e di mortificazione. Vuole credere che la sua vocazione e la sua pietà lo faranno giungere al paradiso. Ma le sue azioni meritorie lo sono anche davanti a Dio? Lutero non è mai in pace. Cosciente della sua inclinazione verso il male, si sente indegno di essere sacerdote, un intermediario consacrato.

Trova liberazione nella Bibbia, in particolare nella lettera di Paolo ai Romani: “Il giusto vivrà per la fede”: secondo la sua interpretazione, se l’uomo crede nel Vangelo è salvo. Dio non sarebbe dunque quel giudice vendicatore che la Chiesa insegna; al contrario sarebbe misericordioso. Anche se l’uomo fosse peccatore per tutta la vita, l’amore e la giustizia di Dio sono doni che Cristo ha ottenuto per lui sulla croce. La religione non è una legge schiavizzante, è una fede liberatrice. Questa scoperta è vitale per Lutero. Da quel momento non cesserà di farne la chiave di lettura dei Vangeli. Liberato dalla preoccupazione individuale della salvezza, il cristiano può darsi a una vita in seno a una comunità non gerarchizzata, dove ciascuno vuole essere libero servo del Cristo.

Traffico di indulgenze

La questione delle indulgenze spinge la teologia luterana a uscire dalle mura dell’università. Nell’ottobre 1517, levandosi contro il traffico delle indulgenze i cui guadagni dovevano servire per la metà alla ricostruzione della basilica di san Pietro a Roma, mette in discussione 95 tesi che contengono l’essenziale delle sue convinzioni. Al principio Lutero non ha la pretesa di riformare la Chiesa: propone delle piste di riflessione per ritornare a una fede spoglia da ogni convenzione. La reticenza papale darà tutta un’altra dimensione a quel che per il momento non è che una disputa teologica.

Accusato di eresia durante un processo di tre anni, continua la redazione di rapporti e continua a provocare il papa, come quando brucia sulla pubblica piazza la bolla papale della sua scomunica. Nella dieta di Worms del 1521 è messo al bando dall’Impero da parte di Carlo V. Ma troppo tardi:la polemica ormai è partita, le tesi di Lutero infiammano la cristianità di Germania e firmano l’atto di nascita della Riforma.

Fra' Lutero impegna una polemica nazionale fra i teologi come fra i cristiani più modesti, grazie a un “media” di scelta, la stampa, e quello dei predicanti che proclamano il Vangelo a suo modo. Si rifugia dal suo amico e protettore Federico di Sassonia, nel suo castello di Wartburg. Seguono anni di produzione intensa, in cui Lutero, per nulla intimidito dal suo esilio forzato, approfondisce la sua dottrina, preoccupato di riconfigurare il rapporto uomo – Dio e renderlo comprensibile: traduce il Nuovo Testamento in tedesco e mette a punto i Grandi scritti riformatori – il Papato di Roma, appello alla nobiltà cristiana della nazione tedesca, Preludio sulla cattività babilonese della Chiesa, Trattato della libertà cristiana. Vi si ritrovano in maniera coerente e sviluppata le questioni concernenti la salvezza dell’uomo, la pratica della religione e la comunità dei credenti.

Per Lutero non c’è differenza di natura fra il prete e il laico. Con il “sacerdozio universale” il laico acquista una posizione centrale nella Chiesa, luogo di comunione spirituale fra gli uomini. Per lui i sacramenti, oltre il battesimo e la cena, sono inutili, come anche la gerarchia clericale, la supremazia del papa e del concilio. Infine egli nega il carattere definitivo dei voti monastici e i pratica non è più l’ascesi a fungere da modello della vita cristiana, ma la famiglia. Tutte queste idee sono coerenti con la sua esperienza personale, poiché, rinunciando alla vita monastica, sposa Caterina de Bora, un ex-monaca che gli dà sei figli.

Nel 1522 Lutero rientra infine a Wittemberg, quando la Riforma si è allargata: monaci hanno lasciato il convento, principi si sono riformati per prendere, fra gli altri, la loro distanza dal papato… La Riforma prende un colore politico e spinge principi e contadini a prendere posizione nella questione religiosa. Sorpassato dai suoi discepoli, come Thomas Müntzer, Ulrich Zwungli e Andrea Carlstadt, che reclamano una radicalizzazione del movimento, egli si mette dalla parte dei principi contro i contadini in rivolta, rifiutando di alleare la Riforma a rivoluzioni sociali.

Si rende conto allora che la Riforma deve essere organizzata più solidamente. Modifica il suo messaggio, dando impulso al “luteranesimo”, religione del popolo, dotata di princìpi e di istituzioni ecclesiastiche. Nel 1529 scrive due catechismi e fissa un nuovo culto tedesco. L’anno seguente accetta la Confessione di Augusta, redatta da Filippo Melantone, che giustifica la fede luterana. Fino alla morte rimane a Wittemberg, città che diviene per i suoi discepoli la “contro-Roma” e dove mette in pratica il suo talento pastorale. Scrive anche dei canti religiosi che sono per lui i trasmettitori privilegiati della parola.

Discorsi conviviali

Invecchiando, deluso dalla piega che prende la Riforma, moltiplica le crisi di angoscia e si mostra sempre più virulento, anzi grossolano, contro il papa, gli ebrei, il diavolo. I suoi Discorsi conviviali, aneddoti raccolti dai suoi amici (più di 7.000 a partire dal 1529), lo attestano. Il pastore Lutero, a cui piace invitare alla sua tavola ogni sorta di persone, fa delle battute salaci per far colpo sul suo uditorio, ama il buon vino e dimostra una allegria comunicativa in società. Si occupa anche di decorare il suo studio con caricature incise su legno. Una di esse avrebbe rappresentato il papa, “l'anticristo”, che cavalca una scrofa o portato via del diavolo. Questo diavolo di cui Lutero afferma che è venuto di persona a fargli visita per rimettere in causa il suo impegno personale.

Lutero, l'uomo dal carattere tutto d'un pezzo, non fa concessioni su quel che è o su quel che produce. Rispondendo all'attesa di certi cristiani, creando un nuovo linguaggio teologico, è intimamente legato all'evoluzione intellettuale e religiosa dell'Occidente. Contemporaneo dell'Umanesimo, Lutero rifiuta di appartenere a questa filosofia. E tuttavia ritornare alla fonte, toccare la stessa essenza della fede, cercare una verità trascendente non è forse, in fondo, concepire l'uomo come il punto di partenza di ogni riflessione?

(in Le monde des religions, 17, pp. 44-45)

Lunedì, 12 Novembre 2007 23:24

I Salmi: la poesia della preghiera

I salmi sono poesia; da questa semplice affermazione scaturiscono grandi conseguenze. Certo è difficile racchiudere la poesia in una definizione stretta; eppure la differenza tra poesia e prosa è palese.

Il fallimento del progetto di Dio

Gn 3-11 e le «strutture di peccato»

di Gaetano Castello


Proponiamo una lettura dei capitoli 3-11 della Genesi tra i più noti della letteratura biblica, cogliendo alcuni interessi spunti sul dilagare del peccato nel mondo e la sua tendenza ad organizzarsi in «strutture di peccato». Si tratta solo di «spunti» offerti come contributo per una riflessione avvertita, non solo dai credenti, come necessaria ed urgente.

Introduzione

Gn 1-11 costituisce nel suo insieme la grande introduzione alla storia di Israele che, secondo la narrazione biblica, ebbe le sue remote origini nella chiamata di Abramo (Gn 12,1-3). Tesi generale di quei capitoli è che il progressivo allontanamento dell’uomo da dio pone le basi per una alleanza particolare, quella con Abramo, preludio all’Alleanza del Sinai. Si danno insomma le motivazioni per comprendere come mai Dio abbia eletto un popolo proponendogli una alleanza e vivendo con esso un rapporto privilegiato. Questa impostazione deriva dall’intento stesso dei compositori e dei redattori del racconto come risulta dall’osservazione attenta dei due documenti fondamentali che, composti in epoche diverse, sono stati poi raccolti insieme a formare l’attuale narrazione. In ognuno dei due antichi documenti, ricostruiti attraverso l’ausilio della critica letteraria, si intravede questo motivo di fondo benché espresso in maniera diversa.

Gli antichi documenti, detti «Jahvista» e «Sacerdotale», si sono serviti, a loro volta di un materiale preesistente, la cui origine è da ricercare nell’ambiente del vicino oriente antico; si tratta prevalentemente dei cosidetti «miti delle origini», racconti in cui si tentava di chiarire il senso della vita, della morte, dei problemi umani a partire da situazioni archetipe, «originarie». È una maniera pre-scientifica e pre-filosofica, ma non per questo meno vera, di affrontare le grandi domande dell’esistenza.

1. Il peccato come scelta dell’uomo

Proprio dal confronto con miti del vicino oriente antico si coglie il messaggio particolare di cui il testo biblico è portatore: il peccato, in Gn 3-11, non è frutto di una lotta mitica tra gli dei; la miseria e il caos che regnano in tante situazioni umane non vengono attribuiti semplicemente ad una vicenda svoltasi fuori del tempo, su di un piano diverso da quello umano, il piano della divinità. Non si proiettano, insomma, sulle vicende umane le conseguenze di vicende divine. Il campo viene sgombrato da una delle principali componenti dei miti delle origini: quanto di peccaminoso e di disordinato vi è nella storia umana, dipende dalle scelte dell’uomo, ‘ādām.

L’equilibrio Dio-uomo-natura, descritto nel suo insieme dai primi due capitoli della Genesi, è messo in discussione dall’atteggiamento dell’uomo e della donna chiamati, perchè immagine di Dio, ad esercitare la loro responsabilità nel gestire armonicamente quel rapporto. In Gn 3-11 si descrive il dilagare del peccato nella vita umana a causa del rifiuto da parte dell’uomo di vivere responsabilmente i rapporti col suo creatore, provocando, nel contempo, rapporti squilibrati degli uomini tra loro e con la natura. Questo motivo centrale, su cui la tradizione ebraica e cristiana ha continuamente riflettuto a partire dal concetto di peccato e di responsabilità «personali», ha un risvolto non meno importante rappresentato dal dilagare del peccato nell’organizzazione stessa della vita umana, nella civilizzazione del mondo e nella cultura. È l’altra faccia di quella eredità del peccato di cui parla S. Paolo (Rm 5,12-14).

2. L’istinto del «mangiare»

La caduta di Adamo ed Eva (Gn 3), originata dalla trasgressione dell’ordine divino di non mangiare i frutti dell’albero della conoscenza del bene e del male, viene rappresentata significativamente dall’atto quotidiano e vitale del «mangiare». Il verbo ‘ākal, che ricorre insistentemente nella narrazione, scandisce le varie fasi della storia del primo peccato dell’uomo. Richiamati dalla voce del serpente, Adamo ed Eva rinunciano a gestire responsabilmente la propria libertà escludendo dall’orizzonte della scelta il creatore e il suo divieto. Si tratta del trionfo dell’istinto che però finisce per compromettere non solo i rapporti tra gli uomini ed il creatore ma anche i rapporti dei due tra loro e con il creato. L’albero della conoscenza, come tutto il resto, viene ordinato semplicemente a soddisfare l’istinto del mangiare, un istinto non negativo in se stesso (2,16) ma da controllare perché non si trasformasse nell’incontrollabile spinta a «divorare» indistintamente quanto si presentava deisderabile. La prima conseguenza del gesto viene annotata con poche ma significative parole nel v. 7: Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture.

Con una conclusione che in parte rende ragione alle promesse del serpente «si aprirono loro gli occhi», si mette immediatamente in evidenza la scoperta della nudità che, diversamente da un’interpretazione di tipo sessuale spesso associata alla nudità ed allo stesso peccato originale, indica la vulnerabilità. Si tratta qui di una conoscenza non individuale ma sociale. Il bisogno di protezione dell’uno nei confronti dell’altro ha ragione di essere proprio per quanto accadrà nella seconda scena del racconto (3,8-13) in cui l’uomo scaricherà la sua responsabilità sulla donna e questa sul serpente.

Il bisogno di coprirsi di fronte all’altro diventa bisogno di nascondersi davanti a Dio: Ma il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: «Dove sei?». Rispose: «Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto» (3,9-10).

Il testo indica come effetto primario della trasgressione non tanto il sentimento più ovvio del rimorso, della colpa, quanto il percepire l’altro come potenziale nemico avvertendo la propria vulnerabilità.

Alla descrizione della caduta (vv. 1-7) e all’indagine divina (vv. 8-13), segue la terza scena (vv. 14-19), la sentenza di Dio, in cui con le maledizioni divine si evidenziano le conseguenze della trasgressione. Si osservi innanzitutto che la maledizione di Dio è relativa esclusivamente al serpente ed al suolo mentre per l’uomo e la donna si esplicitano le conseguenze frutto della nuova situazione creatasi: rapporto di dominazione tra l’uomo e la donna (v. 16), e disarmonia tra l’uomo e la terra (vv. 17-19):

Alla donna disse: «Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà». All’uomo disse: «Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell’albero, di cui ti avevo comandato: Non ne devi mangiare, maledetto sia il suolo per casa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba campestre. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai!».

La scelta di farsi guidare dall’istinto del mangiare ha come effetto immediato la configurazione di nuovi rapporti. Il bisogno di coprirsi risponde, come conseguenza del peccato, all’appetito del serpente di colui che mangia. L’altro è non più ‘ezer «aiuto», «alleato» (2,18) ma il possibile aggressore. Tale conseguenza si rende evidente nel tipo di rapporto che si configura tra la donna e l’uomo al v. 16: «... Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà». Il termine ebraico te šûqāh tradotto con «istinto», è da intendere come desiderio di impadronirsi di una persona. Il dominio (radice ebraica YRD) che nel primo capitolo si riferiva alla superiorità dell’uomo sulle altre specie viventi (1,26.28), entra nel rapporto uomo-donna rendendo ambigua la stessa struttura familiare come vissuta nei secoli ed esperita in molti casi anche oggi.

La seconda alterazione avviene tra l’uomo ‘ādām e la terra ‘ādāmāh da cui l’uomo è stato tratto e a cui è destinato. Il rapporto con la terra, precedentemente descritto nei termini pacifici del 1coltivatore e custodire» (2,15), diventa teso. Vi è quasi una resistenza della terra nell’offrire all’uomo i suoi frutti, un uomo guidato dall’istinto del mangiare, di appropriarsi di ciò che stimola il suo appetito. Ritroveremo questa problematica al termine del racconto del diluvio, in cui si registra la trasformazione ormai avvenuta nel rapporto tra l’uomo e il mondo animale, un rapporto connotato dal timore e terrore del bestiame nei confronti dell’uomo (9,1-4).

Il peccato, la rinuncia ad esercitare la responsabilità di fronte all’Altro , al Creatore, ha generato una alterazione dei rapporti uomo-donna e uomo-natura attraverso il dominio dell’istinto del «mangiare», di impossessarsi di ciò che appare «buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile» (3,6). Siamo qui all’origine non solo del peccato dell’uomo come singolo individuo, ma all’origine di un modo sbagliato di stabile i rapporti tra le persone e con il mondo. È a partire da questa logica che la prassi di dominio dell’uomo sulla donna, finisce per assumere una funzione strutturale, trasmessa cioè dalle istituzioni culturali, economiche, religiose, dai comportamenti sociali. Il racconto della Genesi con il suo invito a meditare sull’«origine» dell’umanità, tende a stimolare una rinnovata coscienza del rapporto autentico tra uomo e donna, e più generalmente tra le persone, per fondare una prassi di vita critica rispetto ai presupposto stessi delle «strutture» umane.

L’atteggiamento «divoratore» nei confronti della terra richiederà degli interventi limitativi di Dio (9,4), laddove non è risultato sufficiente l’appello alla responsabilità. Si tratta anche qui di una logica che fonda una prassi generatrice di «strutture di peccato», atteggiamenti che cioè si strutturano nell’agire sociale, nella cultura tanto da non tendere più immediatamente percepibile la responsabilità del singolo. Proprio nello squilibrio tra l’uomo e la natura, nell’atteggiamento «divoratore» non del singolo ma di modi di organizzare la società e di soddisfare i suoi crescenti bisogni, si assume oggi, drammaticamente, la consapevolezza di come il peccato dell’uomo «divoratore» abbia assunto dimensioni sovra-personali, appunto «strutturali».

3. Il dilagare della violenza

Due testi in particolare ci aiutano ad approfondire la nostra ricerca: la storia di Caino e della sua discendenza e la storia del diluvio.

La narrazione famosa del primo omicidio della storia, che non a caso si configura come fratricidio mettendo in luce la comune «origine» degli uomini, viene solitamente considerata nel suo valore esemplare, e non senza ragione, per la descrizione della dinamica della violenza nel rapporto tra gli uomini su cui si è riflettuto solitamente a partire dalla responsabilità personale. Ma la storia di Caino, il personaggio principale della narrazione, continua con la storia della generazione che con lui ha inizio: Ora Caino si unì alla moglie che concepì e partorì Enoch; poi divenne costruttore di una città, che chiamò Enoch, dal nome del figlio. A Enoch nacque Irad... e Metusaél generò Lamech. Lamech si prese due mogli: una chiamata Ada e l’altra chiamata Zilla. Ada partorì Iabal: egli fu il padre di quanti abitano sotto le tende presso il bestiame. Il fratello di questi si chiamava Iubal: egli fu il padre di tutti i suonatori di cetra e di flauto. Zilla a sua volta partorì Tubalkàin, il fabbro, padre di quanti lavorano il rame e il ferro (4,17-22).

Caino è il costruttore della prima città, posto cioè alla base della società umana. Non solo. Viene espressamente detto dal testo che dalla sua discendenza ha origine, nel suo complesso, la civiltà umana e la sua ossatura economica: la vita pastorale (4,20), la musica (4,21), la metallurgia (4,22). Tutta la civiltà porta il peso della colpa di Caino.

Non a caso padre di coloro che si specializzeranno nelle diverse arti è Lamech, discendente di Caino, di cui viene proposto il modo di pensare, la logica del suo comportamento, attraverso un canto, il secondo della Bibbia dopo quello della gioia di Adamo per la creazione di Eva (2,23):

Lamech disse alle mogli:
«Ada e Zilla, ascoltate la mia voce;
mogli di Lamech, porgete l’orecchio al mio dire:
Ho ucciso un uomo per mia scalfittura
E un ragazzo per un mio livido.
Sette volte sarà vendicato Caino
Ma Lamech settantasette» (4,23-24)

La logica che guida l’agire dell’uomo nella società che da Caino è nata è quella espressa da Lamech nel suo orgoglioso canto della violenza (Ho ucciso per una scalfittura e per un livido) moltiplicata (settantasette colte).

È utile considerare, sia pure brevemente, le principali caratteristiche dell’omicidio commesso da Caino, in cui si ritrovano le scelte che hanno per così dire ispirato, sostenuto, al di là di Caino stesso il dilagare la violenza.

La narrazione della vicenda offre poche informazioni sui personaggi, vengono messe però in risalto le differenze che caratterizzano i due «fratelli»:

Poi (Eva) partorì ancora suo fratello Abele. Ora Abele era pastore di greggi e Caino lavoratore del suolo (4,2).

Dopo un certo tempo, Caino offrì frutti del suolo in sacrificio al Signore; anche Abele offrì primogeniti del suo gregge e il loro grasso... (4,3-4).

La prima differenza è culturale. Indicando i due diversi lavori il testo richiama la distanza esistente tra il mondo agricolo e quello pastorale, due occupazioni dietro le quali si configura una diversa organizzazione della vita.

La seconda differenza, che scaturisce immediatamente dalla prima, è cultuale: l’offerta caratterizza il tipo di culto, diverso evidentemente nelle due culture, quella agricola e quella pastorale.

Il dramma ha inizio proprio da questa differenza tra «fratelli», una differenza messa in evidenza nella diversa accoglienza dell’offerta da parte di Dio. Da sempre la domanda sul motivo che Dio avrebbe avuto per prediligere un’offerta e non l’altra, è stata al centro dell’attenzione dei lettori. Il testo non si preoccupa di offrire una motivazione convincente, indica invece con chiarezza il punto di partenza della vicenda: la differenza. E in ultima analisi è proprio questa «differenza» non accettata che crea la crisi di fronte alla quale Dio interviene stimolando Caino alla riflessione, a prendere le distanze rispetto al pericolo di cedere ad un comportamento istintivo, tendente a eliminare la differenza (4,6-8).

AI rifiuto della differenza fa seguito, nella dinamica innescatasi in Caino, il rifiuto della responsabilità che nasce direttamente dal suo essere il «fratello». Non a caso il termine «fratello» è ripetuto sette volte nei versetti 1-11 tanto da costituire il filo conduttore del testo. Nella sua risposta Caino non solo mente dicendo di non sapere dove sia Abele, ma giustifica la menzogna rifiutando la responsabilità che deriva dall'esserne «fratello», una responsabilità molto più sentita in un tempo in cui l'istituto familiare costituiva il riferimento principale se non esclusivo per la sicurezza dell'individuo di fronte ad un mondo minaccioso ed agli inconvenienti della vita. Rifiuto della differenza e rifiuto della responsabilità di «fratello» costituiscono, in maniera diversa, i due momenti tragici che motivano e giustificano il primo gesto violento dell'umanità. Con Lamech, come abbiamo visto, questa logica della violenza viene posta esplicitamente alla base di un agire che viene ad iscriversi, benché non deterministicamente, nello stesso sviluppo della società umana.

L 'alterazione prodotta dall'azione di Caino viene segnalata sia nella conclusione del testo con il nuovo tipo di rapporto che si stabilisce tra Caino ed il suolo (4,12), sia nella minaccia di violenza che viene da chiunque incontrerà Caino (4,14).

Che la «logica della violenza» riesca a costituire un vero e proprio modo di vivere guidando e giustificando atteggiamenti comuni ad essa ispirati, appare evidente sia dal testo di Lamech, già considerato, sia, più avanti, dall'amara constatazione divina circa il dilagare di corruzione e violenza sulla terra (6,5.12.13).

4. Babele, la «porta del cielo»

Nel racconto umoristico della «torre di Babele» (Gn 11,1-9) la tecnica costituisce il nuovo supporto di una società che si organizza con l'intento di distinguersi dagli altri popoli: Si dissero l'un l'altro: «Venite, facciamoci mattoni e cuociamoli al fuoco». Il mattone servì loro da pietra e il bitume da cemento. Poi dissero: «Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra» (11,3-4).

La volontà di distinguersi, «facciamoci un nome», è associata alla pretesa capacità di raggiungere il cielo. La torre di Babele diventa così la grande metafora dell'orgoglio dell'uomo civilizzato, sostenuto dall'idea che il progresso tecnico sia la chiave per «raggiungere il cielo». L 'intervento di Dio (vv. 6-9), la sua punizione, consiste non a caso nella dispersione, nella differenziazione che si esprime con la molteplicità delle lingue.

Distinguersi dagli altri popoli in virtù delle capacità tecniche alle quali è affidato il senso della riuscita umana, della risposta all'aspirazione umana verso l'Infinito rappresenta, sul-

la base del racconto genesiaco, un aspetto della logica del peccato animatrice di strutture di peccato.

Conclusione

Abbiamo indicato alcune piste di riflessione offerte da Gn 3, 11 sulla diffusione di logiche di peccato che tendono a diffondersi ed organizzarsi in strutture sovra-personali, vere e proprie «strutture di peccato». Senza nulla togliere al carattere personale del peccato (la sua origine demoniaca e l'aspetto individuale), ci sembra che il testo della Genesi suggerisca all'uomo una visione disincantata del mondo e delle strutture nelle quali egli si trova ad operare. La logica del peccato che nel racconto di Caino viene a configurarsi come logica della violenza, non solo si trasmette (Caino -Lamech -generazione diluviana) coinvolgendo in maniera sempre più anonima e generale gli uomini, ma viene amplificata dall’agire individuale, dal contributo del singolo (Lamech).

Rispetto a questa constatazione, intraprendere vie diverse, rispettose dell’equilibrio originario voluto dal creatore (Set, Noè... Abramo), costituisce una possibilità per l’uomo, una possibilità concessa in maniera definitiva da Gesù Cristo.

Sono molti i richiami storici e anche di attualità che ci inviterebbero a proseguire su questa pista di riflessione. Si pensi, per es., alle strutture economiche del mondo capitalistico che sovrastano l’individuo, rendendolo partecipe di meccanismi che esigono, a livello sovra-personale, quel rifiuto delle differenze e della fraternità in nome dell’esigenza «divoratrice» del capitale.

Un campo fecondo per una riflessione etica, già avviata in questo senso e che può trovare, ci sembra, un utile supporto in Gn 3-11 in vista di un impegno più incisivo del singolo e della comunità dei credenti in dialogo con gli uomini di buona volontà.

Tre sono i riti di riconciliazione: il primo per i singoli penitenti, il secondo per più penitenti con confessione e assoluzione individuale, il terzo per più penitenti con confessione e assoluzione generale.

L’identità teologale dell'etica cristiana

di Giannino Piana

I documenti del Magistero non si rivolgono solo ai credenti e fanno spesso riferimento ad un ordine naturale che ha radici nella coscienza umana.

La morale cristiana è una semplice morale umana o è qualcosa di più e di diverso Esiste, in altre parole, una differenza sostanziale tra il comportamento puramente umano e quello del credente E, sé esiste, dove sta tale differenza? Questi interrogativi sono venuti affiorando, con sempre maggiore insistenza negli ultimi decenni, non solo nell’ambito della ricerca teologica, ma anche all’interno della stessa coscienza dei credenti. A favorirne la nascita hanno concorso un insieme di fattori legati tanto alle trasformazioni del contesto socio-culturale quanto al rinnovamento dell’etica cristiana. Tra essi merita anzitutto di essere ricordato il fenomeno della secolarizzazione, che ha provocato una graduale emancipazione dell’uomo e del mondo dall’universo simbolico sacrale da cui sembravano dipendere. L’agire umano è venuto di conseguenza sempre più configurandosi come agire autonomo, le cui motivazioni ed i cui significati possono essere rintracciati dall’uomo a partire dalla propria ragione e da una corretta interpretazione della realtà storica. L’etica appare dunque essenzialmente come un dato umano, come lo spazio nel quale ogni uomo è chiamato a costruirsi responsabilmente il proprio destino in stretta relazione con gli altri e con il mondo.

D’altra parte, la stessa riflessione morale cristiana, stimolata da una più attenta rivisitazione dei testi biblici, ha progressivamente ricuperato il fondo umano che sta alla radice dell’agire dei credenti. Molti dei valori e delle norme contenuti nella rivelazione, sia dell’Antico che del Nuovo Testamento, altro non sono che la trasposizione, nel quadro della storia della salvezza, di una sapienza umana diffusa, che ha la sua sorgente nel piano originario della creazione. È significativo che gli stessi documenti del magistero - soprattutto quelli di carattere sociale - non si rivolgano esclusivamente ai cristiani ma a tutti gli uomini di buona volontà e facciano spesso riferimento ad un ordine naturale, che ha le sue radici nella coscienza dell’uomo.

Questa riscoperta di un patrimonio comune costituisce senz’altro un elemento positivo e di grande interesse. Consente infatti di riaprire un confronto e di dar vita ad una feconda collaborazione tra credenti e non credenti in nome di un convergente interesse per l’uomo e per la sua liberazione. Ciò non significa tuttavia che si debba negare l’originalità della morale cristiana, significa piuttosto che tale originalità va ricercata in un più vasto orizzonte di interpretazione del senso dell’agire. A questo orizzonte, ricco di profonde implicazioni, ci rinvia la recente e densa opera di Mauro Cozzoli (Etica teologale. Fede, carità, speranza, Edizioni Paoline, Milano 1991), che individua nella vita teologale l’elemento nuovo e fondativo dell’agire morale del cristiano.

Fede, carità e speranza, nel rapporto costitutivo che le unisce, sono modi di essere strutturali e dinamici che permeano di sé l’intero esistere umano e coinvolgono tutto l’agire. Attraverso di esse ha infatti luogo la partecipazione alla vita divina che si realizza nell’incontro tra il dono di Dio e la libera accoglienza dell’uomo. L’identità della morale cristiana non va dunque anzitutto ricercata sul terreno della definizione dei significati immediati dell’agire, ma su quello della determinazione del suo senso ultimo. La fede acquista, sotto questo profilo, il carattere di centro di unificazione e di irradiazione della vita morale e assolve la funzione di criterio ultimo di discernimento delle diverse situazioni dell’esistenza quotidiana. L’incontro con Gesù, in quanto evento trasformatore e datore di senso, è lo specifico morale del cristiano.

Il dovere etico, lungi dal risuonare come un’imposizione, appare piuttosto come esigenza da accogliere e come compito da eseguire nella fedeltà. In quanto opzione decisiva di tutta l’esistenza, la fede coincide con la libertà fondamentale della persona sollecitata a rispondere all’iniziativa divina, abbandonando la presunzione dell’autogiustificazione e convertendosi alla radicalità del messaggio evangelico.

Il cuore di questo messaggio è il grande comandamento dell’amare. Esso ha il suo fondamento e riceve il suo senso dalla partecipazione alla carità di Dio, cioè alla comunione che unisce il Padre al Figlio nello Spirito. L’inserimento dell’uomo nel dialogo trinitario dell’agape contrassegna la sua nuova condizione di creatura e di figlio di Dio e costituisce lo statuto ontologica della sua esistenza che deve interamente svilupparsi nell’amore. Il mistero trinitario diviene così il modello cui l’uomo è chiamato ad ispirare la propria condotta: un modello i cui connotati sono la donazione totale di sé, l’accoglienza incondizionata dell’altro e la piena comunione da realizzare nel superamento di ogni chiusura e nell’accettazione radicale della diversità.

La croce di Cristo è il luogo a cui soprattutto riferirsi per attingere la specificità dell’amore cristiano come gratuità e pura benevolenza, come totalità e sovrabbondanza che supera ogni bisogno umano e travalica tutti i confini. Il vangelo della carità è pertanto la nuova legge della grazia che lo Spirito scrive nel cuore dell’uomo. Essa spinge chi la riceve a rendere trasparente nella vita quotidiana l’amore verso Dio e verso il prossimo, in quanto aspetti inscindibili dell’unico precetto. Non si dà infatti amore vero per l’uomo senza Dio, ma neppure amore autentico per Dio a prescindere dall’uomo, che ne riflette immediatamente l’immagine

Testimoni di speranza

Ma la fede e la carità non stanno senza la speranza, che è la tensione escatologica della vita cristiana. Essere discepoli di Gesù significa infatti diventare testimoni credibili della speranza, la quale non va considerata come una proiezione spiritualistica che distoglie l’uomo dalle responsabilità secolari, ma come una forza sollecitatrice dell’impegno per il mondo. In quanto assunti nel dinamismo salvifico di Cristo, creazione e storia sono sottratte al determinismo e coinvolte nel processo di liberazione già in atto, e tuttavia aperto al futuro assoluto. La speranza è dunque la molla dell’agire morale del credente. La promessa del Signore obbliga il cristiano a calarsi dentro la storia, vivendo la ricerca di un equilibrio sempre nuovo tra la passione del possibile e l’attesa del giorno del Signore. Essa conferisce soprattutto senso alla libertà dell’uomo, spingendolo ad assumersi fino in fondo le proprie responsabilità e ad accettare anche gli inevitabili scacchi.

La vita teologale è perciò, in definitiva, ciò a cui occorre risalire se si vuole cogliere la novità della morale cristiana. Essa confluisce nell’azione liturgico-sacramentale come momento nel quale si attua, nel modo più completo, la partecipazione del cristiano alla vita di Cristo. Qui infatti l’indicativo di salvezza trova la sua ragione ultima per dispiegarsi in imperativo di salvezza, cioè in esigenza di vivere in fedeltà alla logica del regno. Ma il rischio laddove manca la vita teologale è che tale momento si inaridisca trasformandosi in rito vuoto e in atteggiamento devozionalistico e che la vita morale si secolarizzi e si privatizzi.


6. Sacerdozio battesimale
e ministeriale
di Marino Qualizza

2. Cristo unico sacerdote della Nuova Alleanza

Per i cristiani parlare di Cristo come unico sacerdote del NT è una cosa non tanto ovvia, in quanto hanno dinanzi a sé l’immagine di tanti sacerdoti e vescovi, cosicché per loro è chiaro piuttosto il contrario. I sacerdoti sono tanti, perché il popolo di Dio è numeroso e diffuso in tutto il mondo. Eppure questa non è la verità, perché nel NT c’è un unico sacerdote, in quanto è l’unico che abbia potuto compiere ciò che si richiede al sacerdote: stabilire il rapporto fra Dio e gli uomini. L’unicità del sacerdozio di Cristo è fondata sulla identità personale di Cristo, sul suo essere il Verbo di Dio fatto uomo. In questo senso dobbiamo dire che Cristo non è solo l’unico sacerdote del NT, ma di ogni possibile sacerdozio, perché in nessuna religione è possibile stabilire il rapporto con Dio. Al massimo si può esprimere un desiderio, una preghiera, ma la realtà è più alta e più ardua. Il desiderio perenne dell’umanità di raggiungere Dio e il suo mondo è stato realizzato in modo inaudito e fantastico nella persona di Gesù il Cristo. Proprio perché egli è il Figlio di Dio e proprio perché è diventato uno di noi, ha realizzato nella sua persona e poi nell’opera che ha compiuto sulla terra quanto l’umanità intera da sempre ha sognato.


2. a. Originalità della lettera agli Ebrei

Non sono molti i testi che si occupano del sacerdozio di Cristo; in realtà uno solo, la lettera agli Ebrei, come è già stato ricordato. <<La legge infatti non condusse nulla a perfezione. Invece è stata fatta entrare nel mondo una speranza superiore, per la quale ci avviciniamo a Dio…E quelli sono divenuti sacerdoti in molti, perché la morte impediva loro di rimanere. Questi invece, per il fatto che rimane in eterno, ha un sacerdozio non trasmissibile. Onde può anche salvare per sempre quelli che, mediante lui, si avvicinano a Dio, essendo sempre vivente per intercedere in loro favore>> (7, 19.23-25).

Intanto una affermazione di grande rilievo e di fortissimo impatto: la legge non condusse nulla a perfezione. Se essa fu incapace di portare alla perfezione, pur essendo un dono divino, è chiaro che ancora meno potevano le altre istituzioni religiose dell’umanità; salva la loro buona volontà. Ritroviamo qui un pensiero familiare a san Paolo sul tema della giustificazione: questa non viene dalla legge. Ma poi il discorso continua e coinvolge anche i sacerdoti dell’AT. In altre parole, risulta chiaro quanto da sempre afferma la teologia della grazia, sulla base di un semplice ragionamento: la creatura non può mai raggiungere il Creatore, se questi non le si dona in modo gratuito e libero. Il primato della grazia non è un dogma così arduo, perché il semplice buon senso lo fa capire e accettare.

 

2. b. Unicità e originalità del sacerdozio di Cristo

Nel caso specifico del sacerdozio della Nuova Legge, il discorso del testo agli Ebrei si rifà ad una constatazione che è sotto gli occhi di tutti: ‘la morte impediva loro di rimanere’. La funzione di un sacerdote, secondo la logica biblica, è quello di intercedere per sempre. Dunque l’intercessione è quanto individua e specifica il compito di un sacerdote. Finché esiste questo mondo di essa si avrà sempre bisogno. Ma chi può garantire una intercessione perenne, se non chi ha in sé la vita imperitura? La tesi del testo biblico è del tutto coerente e logica: nel NT non ci possono essere altri sacerdoti, se non il Cristo Signore, perché in forza della sua vita immortale rende superfluo il compito di altri sacerdoti. E la tesi è ribadita con un nuovo argomento, quando si dice: <<(Cristo) dopo aver offerto un unico sacrifico per i peccati, si è assiso per sempre alla destra di Dio, aspettando che i suoi nemici siano posti sgabello ai suoi piedi. Infatti con unica oblazione ha reso per sempre perfetti quelli che vengono santificati>> (10, 12-14).

Intercede in nostro favore assiso alla destra di Dio. Chi può vantare un tale titolo ed una tale intercessione? Ci sono due concetti che si inseguono: l’intercessione perenne e la santificazione perfetta. Sembrerebbe, a prima vista, che la santificazione perfetta rendesse inutile l’intercessione, ed invece restano assieme l’una e l’altra, perché ciò che è reso perfetto una volta per sempre, ha bisogno di essere distribuito nel tempo della storia. C’è da fare una ulteriore osservazione a questo proposito. Il testo citato Eb 7,24 nella versione delle Edizioni Paoline, parla di un sacerdozio ‘non trasmissibile’, quella della CEI invece parla di un sacerdozio ‘che non tramonta’. Il traduttore S. Zedda gioca abilmente sul termine greco, che in senso traslato può essere espresso anche come ‘non trasmissibile’. Si dice infatti che è ‘aparàbaton’. I cultori del greco potranno approfondire le cose.

 

2. c. Sacerdozio unico e partecipato

Ma per quel che ci riguarda, la cosa non è senza importanti significati. Se si tratta di sacerdozio unico, è evidente che non è trasmissibile, perché altrimenti perderebbe la sua unicità. Qui però potrebbe insinuarsi un dubbio di non lieve entità: dunque quelli che noi chiamiamo sacerdoti cristiani oggi, in realtà non lo sono, anzi appaiono addirittura degli usurpatori. È noto che questa è stata una interpretazione di alcuni Riformatori del XVI secolo. Non è detto che si debba leggere così. Infatti se il sacerdozio unico di Cristo non può essere trasmesso, può essere partecipato, nella linea sacramentale. Infatti è questa che da una parte congiunge con Cristo e dall’altra relativizza o ridimensiona il ruolo dei ministri del NT. Non si tratta di una identificazione fisica con Cristo, nel senso di una formula che si presta ad equivochi: ‘sacerdos alter Christus’, ma di una comunione nella linea sacramentale appunto, che dice partecipazione e differenziazione. La linea sacramentale è quella che impedisce ogni esagerazione ed ogni negazione. Non sostituiamo Cristo, né siamo soltanto dei portavoce, ma siamo veramente uniti a lui, mediante lo Spirito, rendendolo presente nel nostro tempo, in forza di ciò che i sacramenti significano e realizzano. Se non siamo il Cristo, lo rendiamo presente nella storia di oggi nella forza dello Spirito Santo. Dunque, è sempre lui che salva e redime e santifica, secondo la splendida teologia di sant’Agostino: Pietro battezza? Giuda battezza? È sempre Cristo che battezza.

 

2. d. Compiuto nel santuario di Dio

E l’ultima attestazione del sacerdozio unico di Cristo è dato da Eb 9, 11-12.15 :<<Cristo, però, apparso come sommo sacerdote dei beni futuri, per una tenda più grande e perfetta, non manufatta, cioè non di questa creazione, né mediante sangue di capri e di vitelli, ma in virtù del proprio sangue è entrato nel santuario una volta per tutte, perché ha trovato un riscatto eterno…Perciò egli è il mediatore dell’alleanza nuova, affinché, essendo intervenuta una morte in redenzione delle trasgressioni commesse sotto la prima alleanza, i chiamati ricevessero la promessa dell’eterna eredità>>.

Il sommo sacerdote entrava una volta nel santuario del tempio per chiedere il perdono dei peccati di tutto il popolo. Cristo è entrato in un altro santuario, quello del cielo; dunque la sua mediazione, la sua opera non è simbolica, ma reale; è giunto nel santuario di Dio, presentando a lui la lista dei nostri peccati e ottenendone il perdono. Solo lui è giunto al trono di Dio, perché egli è venuto da questo trono, in quanto Figlio. Questa è dunque la novità che fonda la redenzione definitiva e la nuova alleanza. Quindi è il mediatore unico della nuova alleanza, per tutti i motivi già detti. Tuttavia, questa unicità non è la chiusura per una mediazione che perdura nel tempo, in virtù della Pasqua di Cristo,come testimonia san Paolo: <<E tutto ciò è da Dio, il quale ci ha riconciliati con sé mediante Cristo, ed ha affidato a noi il ministero della riconciliazione; è stato Dio, infatti, a riconciliare con sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione. Noi fungiamo quindi da ambasciatori per Cristo, ed è come se Dio esortasse per mezzo nostro>> (2Cor 5, 18-20).

L’opera unica di Cristo è resa presente da coloro che sono stati resi ambasciatori di Cristo Signore e dell’opera della riconciliazione.

Attualità: la grande svolta

di Renzo Bertalot

A - I teologi

Nel 1957 Hans Küng pubblicava la sua tesi di dottorato presso l'università Gregoriana di Roma discutendo il tema della giustificazione per fede in un confronto diretto con la teologia di Karl Barth. Le convergenze emergenti erano di una tale entità da sorprendere gli studiosi sia cattolici sia protestanti. Barth stesso era stato richiesto di fare la presentazione alla dissertazione del candidato dando un suo giudizio. L'apprezzamento del teologo di Basilea non poteva venire espresso in maniera più chiara: "lei mi fa parlare come parlo io e...io penso come lei mi fa parlare". La ricerca accurata e il coraggio determinante mettevano in evidenza la convergenza dei rispettivi pensieri. "Se" tale interpretazione cattolica della giustificazione per grazia mediante la fede si dimostrasse effettivamente coerente con il sistema dogmatico di Roma a Karl Barth non resterebbe altra possibilità se non quella di ritornare a Trento per dire ad alta voce: Patres peccavi. Le contrapposizioni tradizionali si rivelavano quindi come un "continuato malinteso". Le due chiese non avrebbero più dovuto considerarsi "alternative", ma come espressioni diverse della stessa fede. (1)

Nel 1969 la tesi di H. Küng, con la prefazione di K. Barth, veniva pubblicata in italiano. J. L. De Vitte, professore di teologia controversista della Pontificia Università Gregoriana, segnalava le osservazioni generalmente positive che circolavano sull'argomento. (2) Dopo secoli di polemiche si apriva uno squarcio di sereno. Era la grande svolta, una pietra nello stagno immobile degli arroccamenti passati. Si parlava ampiamente del "malinteso" di Trento mentre il Concilio Vaticano II era in pieno svolgimento.

Tuttavia non tardarono le resistenze e ripresero fiato le affermazioni sulle chiese "alternative", sulle "scelte" inevitabili, sui nuovi "orientamenti" e sulle "linee politiche" imposte dalla guerra fredda. Fu un momento difficile per quanti prestavano attenzione alle tesi del "dialogo" in vista del superamento del "monologo" a forte matrice integrista. L'"aut-aut" tornava ad incidere sui contenuti anziché sulla necessità di distinguere tra il fondamento e la forma per non contrabbandare il vaso d'argilla con il messaggio da trasmettere. Il dialogo infatti, dopo mezzo secolo di incontri tra le chiese, era un occasione da non perdere: non bisognava cedere frettolosamente alla tentazione di accantonarlo.

Intanto la contestazione giovanile dell'establishment che si era sviluppata a partire dal 1967 all'università americana di Berkeley (California), si tinse di rosso cupo in Europa e sotto la spinta del vento caldo, proveniente dalla Cina, stimolò alcune frange estremiste a criticare Stalin addirittura da sinistra. Non di rado la sopravvivenza del dialogo veniva paragonata a neutralità disimpegnata e le si attribuiva poco generosamente il marchio dell'infamia.

Certamente c'è da chiedersi se K. Barth e P. Tillich, così notevolmente aperti alle idee socialiste, non siano giunti alla fine della vita con qualche dubbio sulla loro fatica a proposito degli ultimi eventi storici loro contemporanei.

B - I dialoghi

Intanto nel 1968 ad Uppsala ebbe luogo la IV Assemblea del Consiglio Ecumenico delle Chiese. Un tema molto difficile da affrontare era quello della "cattolicità" della chiesa: ogni settore del cristianesimo presente lo rivendicava come una nota caratteristica della propria identità confessionale. Il cosiddetto "miracolo" di Uppsala propose una transizione comune dalla nozione di "cattolicità esclusiva" ad una "cattolicità inclusiva" e quindi aperta al futuro e soprattutto alla missione. Nel contesto si chiarì che ogni "dono" di Dio comporta un "compito" per chi lo riceve (Gabe und Aufgabe). Non sono pensabili l'uno senza l'altro!

La discussione presente sulla giustificazione per fede e gli approfondimenti futuri potranno facilmente richiamarsi a questi orientamenti ecumenici incipienti.

Nel 1972 ebbe luogo a Malta un incontro tra cattolici e luterani sul tema della giustificazione per fede. Il documento conclusivo evidenziava le prospettive convergenti e stimolava la continuazione dei lavori nonostante le critiche degli assenti. (3) Per H. Küng era invece un momento felice. Una volta messo in risalto l'essenziale sarebbe stato possibile accompagnare K. Barth a Trento affinché potesse finalmente mantenere la sua promessa e dire ad alta voce: Patres peccavi. Purtroppo Barth era morto quattro anni prima e il dialogo sulla grande svolta rimase interrotto. (4)

Nel 1997 il dialogo cattolico luterano presenta un documento finale sul tema della giustificazione per fede in vista di un accordo definitivo. Le controversie tradizionali sono ricondotte ad una questione di "forma" al di là della quale emerge un "fondamento" comune fortemente marcato e decisivo per entrambe le parti. (5) Tra l'altro si affermava la nostra totale dipendenza dalla grazia salvatrice e non dalla nostra libertà personale. Siamo, infatti, incapaci di convertirci a Dio, di meritare la giustificazione e di ottenere la salvezza tramite i nostri meriti.

Per i cattolici la "cooperazione" veniva intesa come "effetto" della grazia e non della nostra abilità. Per entrambe le parti si poteva affermare che tutto ciò che precede e segue il dono di Dio non costituisce la base della giustificazione e dei meriti. Le scomuniche tradizionali non avrebbero più avuto ragione di sopravvivere in rapporto allo specifico accordo raggiunto.

Non mancarono riserve da parte di un folto gruppo di teologi luterani e anche da parte riformata, (6) ma la Federazione Mondiale Luterana approvò il documento.

C - La svolta

In data i settembre 1998 si ebbe la risposta ufficiale da Roma. Si rendeva necessario un ulteriore chiarimento sulle questioni di vocabolario (l'espressione iustus ac peccator e il concetto di "penitenza"), per stabilire un rapporto corretto con la regula fidei e l'autorità del consenso proposto. Si doveva forse registrare dopo 450anni da Ratisbona un persistente cono d'ombra? Non fu così. Tutto poteva essere confermato con la sola aggiunta di un allegato al testo ufficiale. L'allegato venne e fu accettato ufficialmente l'11 giugno 1999. (7) La firma del documento finale avvenne il 31 ottobre 1999, durante le celebrazioni della domenica della Riforma, ad Augusta, città storica del protestantesimo, dove fu stesa la Confessione detta appunto "augustana" del 1530.

Si tratta evidentemente di un salto di qualità (è il primo dialogo "recepito") verso il Terzo Millennio che ci vedrà impegnati nei vari settori del cristianesimo per trarne le conseguenze sul piano teologico e pratico. Intanto cattolici e luterani possono definire, sia pure con sottolineature diverse, l'uomo simul peccator et iustus affermando che "noi siamo in verità interiormente rinnovati dall'azione dello Spirito Santo, restando sempre dipendenti dalla sua opera in noi" e contemporaneamente "se diciamo di essere senza peccato non siamo nel giusto". (8)

È ancora prematuro prevedere il rinnovamento dei dialoghi che la "dichiarazione congiunta" comporterà nell'area del movimento ecumenico. Possiamo solo anticipare le prime reazioni da parte cattolica che leggono nel documento firmato ad Augusta un "consenso differenziato" e "un'interpretazione autentica" di quanto il concilio di Trento aveva deliberato in proposito.

Possiamo anche aggiungere una domanda autorevole da parte luterana: .... il mistero dell'unica chiesa di Cristo può essere espresso attraverso un altro approccio ecclesiologico, un'altra teologia del ministero, un altro apprezzamento delle strutture ecclesiali? Resta il fatto che la questione posta è appunto quella della legittimità di un approccio ecclesiologico diverso dalla mia tradizione". (9)

Se ci si chiede se sia possibile una 'riconciliazione senza capitolazione', da parte autorevole cattolica si risponde: "La dichiarazione congiunta offre una risposta positiva a questo interrogativo". (10)

A distanza di tanti anni credo che sia doveroso non dimenticare quanti hanno lavorato e sperato di vedere questo momento. In modo particolare il nostro pensiero va ancora al cardinale Gasparo Contarini, patrizio veneziano.

Note

1) Sull'"immenso e tragico malinteso di Trento" cf. J. De Senarclens, Héritiers de la Réformation, Labor et Fides, Ginevra, 1959, p. 163. Per quanto riguarda il rapporto tra giustificazione e santificazione, vedi J. Moltmann, Lo spirito della vita, Queriniana, Brescia, 1998.

2) H. Küng, La giustificazione, Queriniana, Brescia, 1969, pp. 389ss.

3) Sono “consensi che commuovono gli inconsapevoli", e un “ricorso storico di un'antica incomprensione", cf. V. Subilia, La giustificazione per fede, Paideia, Brescia, 1976, p. 114.

4) H. Küng, Karl Barth and the Postmodern Paradigm, in The Princeton Seminary Bullettin, n.l, (1988), p. 16.

5) Joint Declaration on the doctrine of Justification, World Lutheran Federation, Ginevra, 1997.

6) Dubbi sul "pieno consenso" furono espressi da parte valdese, cf. Riforma dell'11 settembre 1998. Va inoltre ricordato che per Calvino i bambini dei credenti sono battezzati perché cristiani e non sono cristiani perché battezzati, G. Calvino, I.C.R. IV, XV, 22. Per U. Zwingli la salvezza dipende dall'elezione, non dai sacramenti. Per M. Lutero, cf. G. Ferrari (a cura di), Lutero. Opere scelte. 9. I Concili e la Chiesa 1539, Claudiana, Torino, 2002. L'acqua per mezzo della Parola di Dio diventa battesimo, p.351. Ilbattesimo comunica la salvezza, p.51.

7) Così alla conferenza stampa, tenutasi a Ginevra presso il Centro Ecumenico in data 11 giugno 1999, presieduta dal past. Ishmael Noko, segretario generale della Federazione Mondiale Luterana, e dal cardinale Edward Idris Cassidy, presidente del Pontificio Consiglio per l'unità dei cristiani.

8) Cf. intervista al card. Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, e a Eero Huovinen, vescovo luterano di Helsinki, in 30 Giorni, n.6, 1999, p. 19.

9) A. Birmelé, La dichiarazione congiunta luterano-cattolica sulla giustificazione. Un cammino di pace tra le chiese (I), in Av.Vv., Conflitti violenza pace: sfida alle religioni, Ed. Ancora, Milano, 2001, p. 76. André Birmelé, teologo luterano, è docente all'Istituto di Ricerca Ecumenica di Strasburgo.

10) A. Maffeis, La dichiarazione congiunta luterano-cattolica sulla giustificazione. Un cammino di pace tra le chiese. (Il), in Ib., p 88. Angelo Maffeis, teologo cattolico, è docente alla Facoltà Teologica dell'Italia Settentrionale e membro di Fede e Costituzione.

Il 6 settembre 2000 usciva la Dichiarazione Dominus Jesus del cardinale Ratzinger che ci invita a riflettere in modo esclusivo sulla "perfezione" della chiesa di Cristo, perfezione che si trova "soltanto" nel cattolicesimo. Ha sollevato logicamente forti reazioni sia all'interno che all'esterno del mondo cattolico. È un forte richiamo al punto di partenza e anche un invito a non trasformare i dialoghi in utopia per non perdersi in un labirinto di intuizioni senza uscita.

Molto interessante è il suggerimento di Paul Ricoeur, cui è stato attribuito il "Premio Internazionale Paolo VI" in data 5 luglio 2003, di prestare maggior attenzione al dialogo in quanto linguaggio. Si tratta infatti di imparare una lingua straniera e di cercare di tradurla nel proprio ambito confessionale. Cf. P. Ricoeur, Dal Concilio di Trento al Convegno di Trento, in G. Breschin-E. Cambi-L. Cristellon, Lutero e i linguaggi dell'Occidente, Morcelliana, Brescia, 2002, pp. 17-24.

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