La tradizione ascetica cristiana parla spesso della cura privilegiando di essa il senso altruistico secondo lo spirito del vangelo. Si è sollecitati ad uscire da se stessi e ad avere occhi per i bisogni altrui. Condividiamo con i lettori alcune riflessioni di Mario Bazzotto su questo interessante e delicato argomento. Si può dire che l’amore è una virtù che fa da sfondo a una molteplice serie di azioni, scelte, sentimenti e modelli operativi. Tra questi si trova anche il prendersi cura, tema che da Heidegger e Lévinas in avanti è largamente privilegiato nella riflessione filosofica. Prima di loro compare con caratteri ben precisi nel vangelo. Il samaritano si prende cura del ferito, il servo fedele custodisce la casa e i suoi oggetti, il buon pastore nutre apprensione per il gregge, Giuseppe è custode del piccolo Gesù, la madre Maria conserva in cuore quanto viene detto del suo bambino.
Questione di affettività
La cura trova il suo posto all’interno ‘un complesso di sinonimi, il cui centro di gravitazione è il cuore. Aver cura entra nella sfera dell’affettività, un’azione che scaturisce dall’interno in modo spontaneo. La madre che segue il bimbo malato, la signora che mette ordine in casa, coltiva i fiori, pulisce gli oggetti, non intende obbedire a un codice di prescrizioni o a un costume, ma a movenze dell’anima. Tutto questo esprime il meglio d’una persona: la sensibilità, la gentilezza e i sentimenti delicati.
L’attenzione che si riserva al prossimo e a tutti gli esseri tra i quali ci si trova a proprio agio in un tepore da nido, non parte dal nulla. Alla radice si scoprono dei presupposti e precisamente il rapporto che si è costruito con se stessi. È chiaro, chi è trascurato con sé lo sarà a maggior ragione in tutte le sue razioni esterne: persone, animali, piante e oggetti. La cura di sé, espressa nell’esperienza dei disagi patiti, ha un peso decisivo nei comportamenti interpersonali.
Anche la risonanza che la sventura altrui suscita nel proprio interno è avvertita tanto più intensamente quanto più il soggetto mosso a pietà è passato attraverso situazioni difficili. La propria storia è la premessa per capire l’altrui. La cura che rimanda all’altro parte dalla cura che si è avuta con se stessi nella precarietà.
Sono note al riguardo le riflessioni di Heidegger. Tra l’altro egli nota che la cura è realtà inerente all’essere. Non dipende solo dall’educazione e dall’attività riflessa del pensiero. È costitutiva dell’uomo. Precede e oltrepassa la riflessione. Si sente in modo immediato come in modo immediato si sente il tepore o il freddo. È la stessa situazione umana, il suo trovarsi nel mondo, risvegliare la cura. Il primo essere che si incontra è il proprio corpo e la prima cura è dedicata a se stessi. Il detto popolare: il tuo primo medico devi essere tu stesso, esplicita il senso della cura primordiale. Non è una forzatura fuori luogo l’espressione che parafrasa le prime parole del prologo dell’evangelista Giovanni: in principio era la cura. Sì, perché in principio era il corpo e là dove compare il vivente corporeo, compare l’essere delicato e debole, bisognoso di cura.
Cura è realtà vivente, primordiale come il battito del cuore, autodifesa istintiva: per affermarsi non ha bisogno di ricorrere alla coscienza.
In sintonia con questa inversione di valori., Nietzsche polemizza con l’uso spregiativo del termine egoismo, cui si contrappone l’altro errore nell’uso elogiativo del termine altruismo. L’ordo amoris riconosce all’io pari diritti del tu, per questo la cura che l’io ha di sé non solo è legittima, è anche doverosa; deve muoversi su un piano di parità, proprio come propone il comandamento biblico. Cercando di dare la giusta misura ai due termini egoismo e altruismo, Nietzsche evidenzia un facile equivoco linguistico. Non ogni egoismo è immorale quasi fosse la negazione del tu, né ogni altruismo, che trascura la crescita dell’io, è lodevole. Si capisce il risentimento di Nietzsche nei confronti degli ideali ascetici. Essi sottopongono l’individuo a crampi pericolosi o a regimi che creano schiere di schiavi, esseri tesi, irrequieti, rabbiosi, caustici, sempre pronti a mordere. Secondo il filosofo tedesco la morale, coniugata con il solo registro dell’autodistruzione, è la forma più dannosa, più maligna, più sotterranea della menzogna: un’astuzia per succhiare la vita stessa, per renderla anemica. Morale come vampirismo.
La cura del corpo
La cura è ordinata all’essere fragile, precario, esposto di continuo alla malattia e alla morte. Tale è l’uomo. Passando dal seno materno al seno sociale, per sussistere deve essere accompagnato e protetto dalla solidarietà altrui. Nella nascita si presenta come il più gracile di tutti i viventi, necessita di tutto. Se mancasse l’aiuto della comunità sarebbe destinato a perire. La sua permanenza in vita è subordinata alla cura.
Passando dalla stagione dell’infanzia alla maturità l’uomo si libera da molte dipendenze, non però dal bisogno della cura. L’adulto al riguardo si distingue dal bambino in quanto fa passare la cura dalle mani altrui alle proprie e anche in questo caso in modo parziale. Disponendo di iniziative e forze proprie è chiamato ad assumersi compiti che in tenera età non era in grado di espletare da solo. Arrivato a una certa autonomia è lui stesso che si assume la cura di sé, e in certa misura, esonera gli altri dal peso di seguirlo. Proprio perché è il protagonista della sua storia e proprio perché è un tutt’uno con il suo corpo, nessuno quanto lui sa avvertire le proprie istanze e necessità.
Gli altri possono capire molto del suo essere individuale. Ci sono però delle situazioni che solo chi ne è coinvolto di persona può capire, perciò la prima cura e la più importante è l’individuo stesso che se la deve prestare. Egli è responsabile di sé. Sa quanto cibo può assumere, quante ore di sonno deve prendersi, il riposo e lo svago da concedersi e le precauzioni da seguire nell’attività lavorativa. La cura del corpo diventa un dovere morale, non è una preoccupazione di carattere egoistico.
In genere si è portati a sottovalutare l’attenzione che si deve al corpo, ed è un errore oltre che un’inadempienza di carattere morale. C’è chi non si risparmia nelle fatiche e il suo spirito di sacrificio passa giustamente come una virtù, ma potrebbe anche non esserlo. È più corretto onorare chi dà prova di generosità e, pur di prestare un servizio o procurare una gioia a un amico, non bada a rinunce. Tuttavia non va dimenticato che si è responsabili della propria salute, del proprio equilibrio psicologico, dello sviluppo della persona con le sue esigenze culturali, morali e civili.
Dei valori esiste una gerarchia che abbraccia una variegata gamma di diritti e doveri: salvaguardia della salute, della vita, del nome e su fino al supremo valore, la dignità della persona. Dato poi che la dignità della persona e del corpo sono inscindibili, ne segue che in genere il rispetto dell’una comporta anche l’attenzione all’altro. Si dice che, in genere, nel corso della vita abituale, corpo e persona coincidono. Può infatti capitare di dover rimetterci la vita quando è in questione d’un valore della persona: la giustizia, la libertà o la rettitudine di coscienza, come è il caso di chi muore per la sua convinzione religiosa o per la patria. Il valore spirituale si pone al di sopra di quello fisico. Tuttavia non posso sacrificare la vita per avere un guadagno o metterla in pericolo per provare un brivido estetico.
Non posso dire: la vita è mia e ne faccio quello che voglio io, il denaro è mio e lo sperpero a mio arbitrio, il corpo è mio e lo gestisco io. No, né la vita né il corpo sono lasciati in balia dell’estro capriccioso dell’individuo. Si tratta di valori che si sono ricevuti e del loro impiego si è tenuti a rispondere. Perfino il denaro sottostà a una legge morale, sciuparlo è un insulto nei confronti di chi non ne ha. Non c’è niente di così mio da sottostarsi a una valutazione morale: né il denaro, né i beni, né gli oggetti, né tanto meno il corpo. Non c’è cosa deposta nelle mani dell’uomo che non sia deperibile e, in quanto tale, non sussista se non con l’intervento della cura.
Se ogni rapporto con le cose è regolato da un vincolo morale, viene spontaneo chiedersi come mai si insista molto sul dovere di amare il prossimo e si lasci passare sotto silenzio il dovere di amare se stessi. Per il fatto che non sempre si espliciti la norma morale che disciplina i rapporti con i propri beni o con il proprio corpo, non significa che non si sia tenuti al loro rispetto. Guai se si dovessero codificare tutti i comportamenti. Molti di questi non hanno bisogno di imperativi per svolgersi in maniera moralmente adeguata; per fortuna in via normale sanno regolarsi già da soli. Non occorre formulare delle prescrizioni che in caso di malattia si deve consultare il medico ed eventualmente far ricorso all’uso di farmaci, o che i soldi guadagnati a fatica vanno custoditi accuratamente.
C’è bisogno però di fissare con norme l’obbligo di soccorrere un ferito, aiutare il prossimo in difficoltà, assistere un infermo, educare i fanciulli, accompagnare un anziano. In tutte queste prestazioni non sempre si è aiutati dall’inclinazione naturale. È più facile sentire l’importanza della propria causa (salute, proprietà, diritti, buon nome) che non quella dell’altro. Per questo lo statuto morale interviene più insistentemente a chiarire l’obbligazione quella che ci lega a noi stessi.
Se poi si riflette sull’obiettivo della cura, si scopre che essa è precipuamente rivolta al recupero di ciò che si deteriora e corrompe, ad esempio il corpo nel corso d’una grave malattia. Se cado infermo si solleva in me l’implorazione d’aiuto e chiedo di essere curato. La mia condizione suscita in me apprensione. Nella cura sono impegnato più io che non chi mi assiste con la propria solidarietà o competenza professionale.
C’è un altro significato: prevenire il male. La cura non è qui solo per correggere un disturbo e rimuoverlo, è qui anche per custodire e mantenere in buono stato ciò che è debole e fragile. Un’azione questa che si contrappone alla trascuratezza e all’incuria sprezzante del pericolo.
In fondo l’intera vita passa sotto la cura, che è provvidenza, espressa attraverso molte mediazioni, la più importante delle quali è quella che il singolo esplica verso se stesso e in particolare verso il proprio corpo. È interessante notare come Matteo descriva il giudizio universale tirando un bilancio sulla storia umana. In sostanza la sanzione favorevole o meno è decisa dalla cura prestata o da quella negata e non solo nei rapporti con gli altri, ma anche nei rapporti con se stessi. Sono ricordati gli infermi, gli affamati, gli ignudi, i perseguitati, i senza tetto, la folla dei sofferenti affidati alla pietà altrui. La cura negata all’altro si trasforma in una cura negata a se stessi. Il danno dell’altro ignorato e lasciato nell’abbandono si riversa come un danno arrecato a se stessi. Il giudice può dire: ti ho dato gli occhi e non li hai usati per vedere il dolore altrui, ti ho dato il cuore e non hai provato un sentimento di tenerezza e commiserazione verso il prossimo bisognoso. Il giudizio verte sull’occhio disattento, sulle mani rimaste inerti, sul cuore chiuso, sul proprio e altrui essere lasciato alla deriva. Morale del giudizio: amare l’altro e curarlo è la maniera migliore per amare e curare se stessi.
L’incuria e la vita alla deriva
Se la vita è dunque alla cura come a un filo, essa avanza verso la sua piena affermazione o verso la sua rovina a seconda la presenza o meno della cura. Se questa viene meno, inevitabilmente inizia il declino con i segni della sporcizia e del degrado. Tutto si decompone e di logora. Gli esseri e le cose tra le quali viviamo si fanno incontro e chiedono la cooperazione delle nostre mani. Non è però solo un dato estetico che scompare: l’ordine, il bello, l’eleganza; c’è qualcosa di più sostanziale ancora in questione: la vita stessa.
Dove non c’è cura là prende il sopravvento la situazione dell’abbandono e da ultimo la morte. Il vecchio, i cui legami alla vita si allentano di giorno in giorno, lascia trasparire le tracce inconfondibili dell’incuria. I moti del corpo si fanno faticosi, manca la voglia di reagire all’indolenza, guarda le sue gambe e i suoi piedi e li considera come oggetti che non gli obbediscono più, gli rappresentano qualcosa che diviene sempre più estranea. Il volto è trascurato, la barba non è rasata come si dovrebbe, il vestito non è indossato con decoro. Manca la cura e una volta che questa si ritira, si ritira pure la vita.
La persona anziana che si trascura annuncia la vita che le scappa e se ne va. Si respira aria di tramonto.
Io ho cura del mio corpo, lo proteggo e difendo. L’affetto che nutro nei suoi confronti si estende a tutti gli oggetti che hanno una relazione con esso. Una volta che in qualche modo o in contatto con me, come una giacca, un paio di scarpe, una penna, cessano di essere neutrali, si insediano nella sfera del cuore e ne guadagnano l’affetto. Se poi con il tempo si logorano lasciano del rammarico e con un po’ di esitazione si passa a sostituirli con altri.
La cura di sé ha un raggio di azione molto vasto. Comprende il corpo, le facoltà dello spirito, l’educazione della mente e del cuore, ma soprattutto si riflette sui rapporti interpersonali e perfino sugli oggetti di uso quotidiano. Essa perciò non è un lusso o qualcosa di accessorio che è qui per agevolare la vita; è qualcosa di essenziale perché semplicemente sia possibile la vita e continui salvaguardandosi dalla minaccia della morte.
Commento della redazione di Testimoni