I Dossier

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

di Luigi Alici

«E chi è il mio prossimo?» (Luca 10,29). Così dottore della legge, che aveva il monopo­lio della lettera e forse aveva smarrito lo spirito sfida il Maestro, quasi a voler dire: «Da dove cominciare concretamente, ad applicare la legge per conseguire la vita eterna?». Il Maestro risponde con una storia inquietante e straordinaria: «Un uo­mo scendeva da Gerusalemme a Gerico...».

Venerdì, 28 Settembre 2007 22:51

La collera (Luciano Manicardi)

di Luciano Manicardi


Accidia, Avarizia, Gola, Invidia, Ira, Lussuria, Superbia. Identificati come “abiti del male” da Aristotele, come “opposizione della volontà dell’uomo alla volontà divina” nel Medioevo, i “vizi capitali” ci ricordano lo spessore della nostra umanità e la bellezza di poterla realizzare sapientemente, nella comunione con Cristo risorto. Davanti alla collera si apre uno spazio attento ed equilibrato, aperto al dialogo e al perdono.
Il primo omicidio, secondo la Bibbia, nasce proprio da una collera repressa, taciuta, rimossa. “Caino fu molto irritato”.

È santa la collera che si accende di fronte all’ingiustizia, all’oppressione, alla violenza perpetrata dai prepotenti. 

Mercoledì, 26 Settembre 2007 02:09

Uno Yoga per l'Occidente (Mariano Ballester s.j.)

Uno Yoga per l'Occidente

P. Mariano Ballester s.j.

La nuova coscienza

Il risveglio verso una nuova coscienza, che l'umanità sta sperimentando a partire dall'ultimo quarto di questo secolo è un fatto palese a tutti.

Fra le diverse prese di posizione che questo fatto suscita fra gli uomini di oggi, ci sono due estremi, come succede sempre quando nasce qualcosa di nuovo: quasi due poli essenziali fra i quali si svolge la dialettica di ogni evoluzione: uno è il drastico rifiuto e la chiusura di fronte ai fatti e l'altro è la totale apertura a ogni nuova esperienza. Ma fra questi due poli esiste tutta una gamma di posizioni, di reazioni intermedie, nate dall'infinita varietà dei livelli di coscienza, di culture e di circostanze, che diversificano gli esseri umani. Il risultato, a mio avviso, è molto bello e molto positivo: è cioè il sottile e progressivo consolidamento di una vasta rete umana di consapevolezza, fatta di tante posizioni e intuizioni, che indubbiamente ci avvicina sempre di più gli uni agli altri, a livelli insospettabilmente profondi. Questa specie di rete costituisce la nuova realtà, la cosiddetta nuova coscienza.

Manifestazioni di questa nuova coscienza.

Manifestazioni di tale avvicinamento sono, ad esempio, le crescenti sintonie tra scienza e spiritualità, come lo studio delle implicazioni delle fenomenologie mistiche tradizionali nelle nuove visioni e ipotesi scientifiche sulla realtà. Uno di questi avvicinamenti, fra i più curiosi, è l'ipotesi di un universo autocosciente, formulata da Geoffrey Chew, che ha inevitabili punti di contatto sia con il mistero cristiano del corpo mistico di Cristo, sia con il misticismo della cristificazione progressiva universale di Teilhard de Chardin.

Nello stesso senso, e più recentemente, il fisico americano Fritjof Capra ci presenta nel suo best seller "Il Tao della fisica", i risultati delle sue ricerche sull'avvicinamento della fisica moderna alla concezione della mistica tradizionale, specialmente quella orientale, che vede le strutture del mondo come maya, cioè pura forma mentale. E' interessante tener conto (come poi avremo occasione di valutare complessivamente) che l'inizio di questo grande avvicinamento scientifico-spirituale fu un'esperienza che coinvolgeva più livelli di percezione e non solo quello della pura riflessione concettuale. Non si è trattato né di una serie di studi di tipo scientifico e neanche di una riflessione personale di Capra, ma è stata un'esperienza complessiva, nella quale sono entrati a far parte diversi strati della sua percezione, non solo la mente. Infatti il fisico ci parla così di quella che definisce magnifica esperienza:

"In un pomeriggio di fine estate, seduto in riva all'oceano, osservavo il moto delle onde e sentivo il ritmo del mio respiro, quando all'improvviso ebbi la consapevolezza che tuffo intorno a me prendeva parte a una gigantesca danza cosmica. Essendo un fisico, sapevo che la sabbia, le rocce, l'acqua, l’aria che mi circondavano erano composte da molecole e da atomi in vibrazione e che questi, a loro volta, erano costituiti da particelle che interagivano tra loro, creando e distruggendo altre particelle. Sapevo anche che l’atmosfera della terra era continuamente bombardata da una pioggia di raggi cosmici. Tutto questo mi era noto. Ma fino a quel momento ne avevo avuto esperienza solo attraverso grafici, diagrammi e teorie matematiche. Sedendo su quella spiaggia, le mie esperienze precedenti presero vita. 'Vidi' scendere dallo spazio esterno cascate di energia, nelle quali si creavano e si distruggevano particelle, con ritmi pulsanti. 'Vidi' gli atomi degli elementi e quelli del mio corpo partecipare a questa danza cosmica di energia. Percepii il suo ritmo e ne 'sentii' la musica. E in quel momento seppi che questa era la danza di Shiva, il Dio dei danzatori adorato dagli indù''.

Però non solamente la fisica si apre alle dimensioni dello spirito, ma anche le nuove psicologie, specialmente la psicologia Transpersonale (cf. studi della prof.ssa Boggio Gilot, Assaggioli...), si sono ampiamente arricchite aprendosi alle dimensioni dello spirito.

Queste aperture si verificano anche nel campo sociale. E' da notare, negli anni '60, la nascita, negli Stati Uniti, delle cosiddette generazioni psichedeliche, formate soprattutto da giovani particolarmente sensibili alle nuove vibrazioni di coscienza, gli hippies, i figli dei fiori (a San Francisco, in California) e la generazione beat, a New York. Questi giovani, creatori della controcultura e, in un certo senso, precursori di tanti movimenti e avvenimenti futuri, manifestavano nello stile di vita una curiosa miscela, nella quale il consumo delle droghe e il totale disinteresse per i valori della società tradizionale si univano a una sincera sintonia e rispetto verso la natura (che conteneva già i germi di quella che diverrà in seguito l'attuale coscienza ecologica) e a una netta ribellione contro il materialismo del sogno americano e contro le sofferenze causate dalla guerra nel Vietnam. Ecco, ad esempio, con quali parole annunciavano, in un comunicato stampa, uno dei loro raduni

"Gli attivisti politici di Berkeley e la generazione dell'Amore di Haight-Ashbury, si uniranno ai membri della nuova nazione che arriveranno da ogni Stato; si uniranno a ogni tribù di giovani (l’anima emergente della nazione), per annunciare e festeggiare l’era di liberazione, Amore, pace, compassione e unità di tutto il genere umano. La notte di terrore del corpo americano dal cuore d'aquila è finita. Attacca la tua paura al chiodo e unisciti al futuro. Se non ci credi strofina bene gli occhi e guarda!" (Drury, 84).

Incontro tra Oriente e Occidente

Credo, però, che un grande impulso a questa nuova coscienza sia stato dato dall'avvicinamento, dallincontro tra Oriente e Occidente.

Già il noto storico inglese Arnhold Toynbee pronosticava come una delle chiavi di discernimento della futura evoluzione dell'uomo, l'avvicinamento fra cristianesimo e buddismo.

Diversi e complessi fattori di ordine storico, politico, religioso e culturale, hanno contribuito a favorire questo avvicinamento. Quando, ad esempio, negli anni '50 i comunisti cinesi tentarono di soffocare l'antica e religiosissima civiltà ierocratica tibetana, nel nostro pianeta ebbe inizio, secondo alcune interpretazioni, una specie di spostamento di polarità spirituali da Oriente verso Occidente, che causò questa specie di miscela spirituale. L'espulsione del Dalai Lama e l'apertura della cultura buddista tibetana all'Occidente, fu sicuramente una delle principali ondate che fece risvegliare in tanti lattenzione per la spiritualità orientale e fece spostare verso l'Occidente i primi guru orientali, fondatori di tanti movimenti, che poi si sarebbero propagati dappertutto, nei Paesi industrializzati. Non c'è dubbio che oggi è a portata di mano quello che per molti di noi era un tempo il lontano Oriente. Oggi, in quasitutti i settori più importanti della società moderna, troviamo segni di questo incontro. Sui nostri periodici e sulle riviste popolari appaiono di tanto in tanto notizie su corsi di yoga, di zen, di meditazione trascendentale. Tutti noi abbiamo talvolta incontrato per strada giovani vestiti con il dhoti di cotone bianco che ci offrono corone di Krishna e volantini di propaganda del loro movimento. In negozi specializzati, e persino al mercatino romano di Porta Portese, tutti possono procurarsi misteriosi oggetti con incisi caratteri in sanscrito, si possono trovare bastoncini di incenso di svariatissimi tipi e perfino tuniche e vestiti per la meditazione, profumi orientali di ogni tipo; ci sono cassette e CD con musica per meditare, per risvegliare i chakras o per visualizzare paesaggi della natura. Ci sono videocassette con registrazioni di incontri e conferenze dei più famosi guru. Ogni grande capitale del mondo occidentale ha centri specializzati dove si insegna yoga; librerie con testi su questo argomento; insegnanti di diversi metodi di meditazione. Quanto alla televisione e al cinema, ci sono molti films o serials televisivi dove è ampiamente diffusa la saggezza orientale nei suoi diversi rami. In questi giorni mi telefonano continuamente giornalisti per chiedermi cosa ne penso del film "Il piccolo Budda", del regista Bertolucci, che non ho ancora visto e sul quale non posso quindi dare un giudizio. A noi interessano soprattutto gli aspetti spirituali e mistici di questo avvicinamento.

Accoglienza delle tradizioni orientali da parte della Chiesa

Poiché si è spesso diffusa una vicendevole critica, a mio avviso esagerata, fra ciascuno dei due poli estremi (quello di drastico rifiuto e quello di acritica accettazione), vorrei in questo senso far notare l'indubbio spazio di rispetto e di accoglienza verso la nuova ricerca spirituale, apertosi anche nell'ambito della Chiesa, che già nella sua stessa nascita è presentata da Cristo come lievito mischiato all’insieme della massa, sale sciolto nei nutrimenti e luce che penetra dappertutto. Cristo vuole la Chiesa mischiata. Questo è molto interessante, secondo me. Dunque, tutto quello che costituisce separazione, anche se questa separazione è rinchiudersi in una gabbia d'oro, meravigliosa, non è adatto alla vera Chiesa come l'ha presentata e voluta Cristo.

A questo proposito vorrei ricordare uno dei documenti più belli e genuini e, purtroppo, meno noti. Si tratta della Dichiarazione finale dell'Assemblea della Federazione delle Conferenze Episcopali d'Asia (FABC). Nel novembre '78, in un seminario a nord di Calcutta (India) si sono riuniti i rappresentanti di tutte le Conferenze Episcopali dell'Asia. Questa Assemblea aveva come compito fondamentale quello di studiare la preghiera delle grandi tradizioni dell'Asia e confrontarla con la preghiera cristiana. Si è trattato di una riunione molto importante che vedeva i più genuini rappresentanti della preghiera asiatica, orientale, in dialogo col cristianesimo.

Mi sono molto sorpreso che, a suo tempo, non sia stata data a questa Dichiarazione la stessa evidenza di altri documenti, anche più scottanti. Un paragrafo molto significativo diceva: "Lo Spirito sta spingendo le Chiese dell'Asia a integrare nel tesoro della nostra eredità cristiana quanto di meglio c'è nelle nostre forme tradizionali di orazione e di culto. L'Asia ha molto da dare all'autentica spiritualità cristiana: un metodo di preghiera sviluppato, che coinvolge tutta la persona in unità di corpo-psiche-spirito; una preghiera di profonda interiorità e immanenza, tradizioni di ascetismo e di rinuncia; tecniche di contemplazione che si ritrovano nelle antiche religioni orientali, come lo zen e lo yoga, forme di preghiera semplificate, come il nam-japa e il bhajans e altre espressioni popolari di fede e di pietà da parte di quanti, nella loro vita quotidiana, rivolgono veramente a Dio i loro cuori e la loro mente".

Nello stesso anno Paolo VI, dieci giorni prima della sua morte, si rivolgeva così a un gruppo di monaci zen giapponesi e ad altre personalità del mondo orientale: "Ci conforta la priorità che date alla purificazione del cuore, che è una soluzione chiave per qualsiasi problema". Queste parole sono bellissime! La purificazione, la limpidezza di cuore! Quando inizio i miei corsi di meditazione profonda dico sempre che, coloro che si riuniscono ai vari tavoli di trattative per la pace, che a volte già prima di cominciare disputano sul fatto che il tavolo debba essere rotondo o allungato e che magari non riescono a dormire tranquilli, soffrono di insonnia e devono prendere pillole per poter dormire, difficilmente potranno fare qualcosa di serio per la pace! E a questo riguardo è bello ricordare le parole pronunciate da Paolo VI, che continuava dicendo: "Una delle affermazioni di Nostro Signor Gesù Cristo, contenuta nel Vangelo, dice: 'Se il tuo occhio è limpido, tutto il tuo corpo sarà nella luce', (Mt 6,22). Siamo poi convinti che non esista soluzione ai problemi della libertà, della giustizia sociale, dello sviluppo integrale e soprattutto della pace, se il cuore e le intenzioni degli individui non sono puri. Che il Dio Altissimo vi assista in questa ricerca di un cuore puro, nobile e generoso".

Il Papa terminava poi il suo discorso con parole che, alla luce di quanto abbiamo indicato circa la crescente rete di mutua intesa e di sintonia nella nuova coscienza, hanno un valore profondamente significativo: "'Chiediamo al Signore la ricchezza di amarvi e di servirvi sempre". Ed è il papa che dice a dei roshi (maestri zen) che vengono dall'Oriente: "la grazia di amarvi e di servirvi sempre". Sono parole d'oro!

Incontri, impensabili fino a soli cinquant’anni fa, si sono verificati negli ultimi tempi fra la Santa Sede e i più alti rappresentanti della spiritualità dell'Oriente non cristiano. I papi hanno ricevuto diversi patriarchi del buddismo, della Thailandia e del Laos. Già varie volte Giovanni Paolo II ha ricevuto il Dalai Lama, prima autorità del buddismo tibetano. Poi ha anche ricevuto vari roshi e rappresentanti del buddismo giapponese: rinzai, tendai e soto, vari guru e swami dell'india e vari monaci tibetani.

Oltre a questi incontri e documenti, non può non essere un segno palese di apertura e di dialogo interreligioso l'atteggiamento dimostrato da papa Giovanni Paolo II durante i suoi viaggi apostolici in Oriente. E a questo proposito merita uno speciale rilievo il suo incontro con i capi del buddismo avvenuto a Jakarta nell'ottobre '89 e i relativi discorsi. C'è poi un altro incontro, che non era previsto nel viaggio papale, avvenuto a Bangkok e la cui notizia non è stata resa pubblica. Io ne sono venuto a conoscenza, in via privata, attraverso persone che hanno partecipato al viaggio e che di questo incontro sono state testimoni. A Bangkok, il capo del buddismo locale era un vecchietto di circa ottant'anni e più. Se ne stava tutto accoccolato su cuscini quando il Papa gli si è avvicinato per salutarlo. Penso che questo non fosse previsto dal protocollo, ma che il Papa volesse in questo modo facilitare l'incontro e il saluto. Erano però già pronti traduttori e i doni da scambiare. Il Papa ha guardato quell'uomo e il vecchietto ha guardato il Papa. Si sono fissati a lungo negli occhi, senza parlare, e in questo modo, in completo silenzio, si sono scambiati il meglio di sé. Il Papa in piedi, l'altro seduto. E' stato un incontro bellissimo!

Ma si può dire che il capolavoro di questi incontri e spazi, sempre più aperti alla mutua accoglienza, è stato l'incontro di Assisi, dove i capi di tutte le religioni del mondo si sono uniti per pregare per la pace.

Ci sono poi stati anche altri tipi di incontri, non così importanti, tuttavia molto belli e a livello più privato: reciproci scambi di ospitalità e di esperienze spirituali tra monaci di monasteri cristiani occidentali e monaci orientali non cristiani; incontri per condividere una comune esperienza di meditazione o anche semplicemente per condividere, per un breve periodo di tempo, uno stile di vita.

Più durevoli e impegnative sono le iniziative personali da parte cristiana, avviate da alcuni specialisti, quasi sempre religiosi, con l'intento di adattare i metodi di meditazione orientale ai contenuti della spiritualità cristiana.

Grandi pionieri in questo nel campo dello yoga classico sono stati Déchanet, monaco cristiano, benedettino, e padre Kadowaki, gesuita. Hanno fatto un grande lavoro in Oriente, specialmente in Giappone, per quanto riguarda il dialogo col buddismo zen.

Da ricordare Anthony De Mello, indiano, conosciutissimo per i suoi libri di meditazione tradotti in quattordici lingue, e poi John Main e un altro benedettino, meno conosciuto, Pennington, ecc..

Necessità di uno yoga occidentale

orientali alla nostra cultura e alla nostra vita quotidiana. Non pochi giorni fa mi scriveva una moderna ricercatrice, riferendosi a un libro sulla meditazione orientale, recentemente apparso. Diceva che, pur avendolo apprezzato molto, lo trovava però piuttosto difficile perché sentiva di trovarsi di fronte a una cultura diversa. Lo stesso desiderio di trovare una via di meditazione adatta alla nostra atmosfera e cultura occidentale, traspare nella domanda che mi è stata posta durante uno dei miei ultimi corsi di "Meditazione Profonda": come mai Cristo non ci ha trasmesso queste tecniche ? ". In realtà Cristo non è venuto a rivelarci un metodo, una tecnica di meditazione, ma a risvegliarci e salvarci dal nostro torpore ed egoismo e a rivelarci chi siamo. Siamo noi, come discepoli e come Chiesa che, guidati dalla sua parola, possiamo e dobbiamo trovare la nostra via di meditazione e realizzazione. Ma lo stesso Cristo ci ha dato le chiavi preziose per un vero e proprio cammino meditativo, in sintonia con le grandi tradizioni di spiritualità, già esistenti nel suo tempo.Il fatto che la nostra tradizione abbia maestri di meditazione silenziosa come Eckhart, Tauler, Ruysbroeck, Gregorio di Nissa, l'autore della "Nube della non-conoscenza", e Giovanni della Croce (che i monaci dello zen stimano moltissimo), e che abbia aperto vie di realizzazione come quelle dell'esicasmo, praticato ancor oggi nel Monte Athos, è un palese indizio che il messaggio di Cristo contiene queste chiavi di silenzio. Infatti, nonostante Cristo avesse la necessità pedagogica di adattare i suoi insegnamenti a una grande varietà di ascoltatori, i suoi insegnamenti contengono chiari inviti alla continua pratica della consapevolezza, come appare nelle parabole della luce, e norme molto pratiche e concrete, in perfetta sintonia con le discipline yama e niyama che iniziano lo yoga sutra di Patanjalj, come sono, ad esempio, gli orientamenti e i consigli dati nel Sermone della Montagna, (molto apprezzato dagli orientali). Infatti, sono stati spesso gli stessi orientali a farci scoprire sottilmente questo aspetto del messaggio di Cristo. Tutti sappiamo che Gandhi considerava molto e in modo speciale il Sermone della Montagna, come pure Kadowaki, buddista, convertitosi poi al cattolicesimo in Giappone, dove aveva studiato presso l'Università dei gesuiti, Sofia, e fattosi poi gesuita lui stesso. Egli aveva un maestro zen e ha scritto alcuni libri per capire più profondamente il cristianesimo, con il corpo e alla luce della via zen, come lui dice. E sempre Kadowaki ha anche messo in rilievo il fatto che il Vangelo di Cristo contiene tanti famosi koan (insegnamenti) di meditazione zen.

Cristo stesso1 poi, quando finiva di parlare lasciava intendere che non tutti avevano capito o saputo cogliere i preziosi insegnamenti per una vera e propria realizzazione, dati i diversi stati di coscienza, più o meno sviluppata, con il noto avvertimento. "Chi ha orecchi per intendere, intenda!".

Il punto debole occidentale

Voglio finire parlando di quello che è il punto debole occidentale. Il più forte punto debole, (anche se questo gioco di parole sembra un paradosso), del nostro atteggiamento in Occidente.

E' certo, però, che nel vasto campo delle culture occidentali, come indicano le testimonianze che abbiamo citato, non si conosce ancora con un sufficiente adattamento e precisione, come succede in Oriente, quello che Karl Gustav Jung chiamerebbe uno yoga occidentale. Il nostro punto debole è la causa per cui non arriviamo a formare quello che Jung indicava come uno yoga occidentale. Egli soleva dire che l'Occidente deve ancora trovare il suo proprio yoga. Ed è anche Jung che, in uno dei suoi viaggi, scoprì in che consiste questo nostro punto debole, tipico della cultura occidentale, che ci impedisce l'accesso alle vie di saggezza, da sempre aperte, e ci lascia incagliati di fronte ai profondi mari, che hanno portato tanti navigatori di altre spiagge verso la realizzazione di sé.

In un suo viaggio nel Nuovo Messico, Jung incontrò un capo degli indiani Pueblos. Vale la pena di citare la conversazione tra i due, dove Jung venne a conoscenza di quel grande impedimento che ci preclude l'accesso a uno yoga occidentale. "vedi - diceva il capo indiano - i bianchi vogliono sempre qualcosa, sono sempre scontenti, irrequieti. Noi non sappiamo cosa vogliono. Non riusciamo a capirli. Pensiamo che sono pazzi". Jung chiese a questo capo perché mai pensasse che i bianchi fossero tutti pazzi. E l'indiano gli rispose, come se facesse una grande rivelazione: "Dicono di pensare con la testa". "Ma certamente pensano con la testa! " - disse Jung - "E tu, con che cosa pensi? ". E lui: " Noi pensiamo qui", disse, indicando con la mano il cuore. E Jung conclude: "Mi immersi in una lunga meditazione. Per la prima volta nella mia vita, così mi sembrava, qualcuno mi aveva tratteggiato l’immagine del vero uomo bianco. Era come se, fino a quel momento, non avessi visto altro che stampe colorate, abbellite dal sentimento. Quell’indiano aveva centrato il nostro ‘punto debole’. Aveva svelato una verità, alla quale siamo ciechi".

Ecco perché, malgrado Cristo abbia spalancato le spiagge di meditazione e di sviluppo spirituale, che ci avrebbero fatto diventare vera luce del mondo, sale della terra, come Egli voleva, noi ci siamo invece mantenuti fedeli alla nostra sordità, contenti nei ridotti schemi del nostro pensiero, e forse sarebbe ancora più adatto dire del nostro emisfero cerebrale sinistro.

Mi auguro che aumenteranno ulteriormente le maglie della rete della nuova coscienza, che già si estende da un confine all'altro della terra.

Anzi, penso che questa ondata, che rinfresca dappertutto e che purifica le nostre secolari impalcature e i nostri freni nella via dello spirito, non si fermerà neppure di fronte a un possibile yoga occidentale o yoga orientale, ma ci porterà verso lo yoga dell'umanità, come simbolicamente ci ha fatto gioiosamente intravedere, e sognare, il felice incontro di Assisi, per la pace nel mondo, quando tutti i capi delle religioni mondiali si sono incontrati per una preghiera comune, ognuno col suo stile, ciascuno recitando preghiere bellissime.

Grazie della vostra accoglienza e buona navigazione.

CENTRO RUSSIA ECUMENICA


Bibliografia

Ricordi, sogni, riflessioni di K G. Jung, Raccolti ed editi da Aniela Jaffé, Rizzoli, 1992.

F. Capra, Il Tao della fisica, Adelphi, 1993.

N. Drury, Le potenzialità umane, Crisalide, 1993

Mercoledì, 26 Settembre 2007 01:55

Ildegarda di Bingen (1098-1179)

Ildegarda di Bingen (1098-1179)


Chi conosce il medioevo sotto la qualifica esclusiva di “oscuro” e chi considera il cristianesimo come nemico della donna, ma anche noi stessi, ci troviamo di fronte a un fenomeno sorprendente: una donna, Ildegarda di Bingen, badessa del monastero di Rupertsberg, presso Bingen, fondato da lei nel 1150, è stata per tre decenni la consigliera di un grande numero di persone vicine e lontane. La sua opera letteraria testimonia, oltre che conoscenze sorprendenti di scienze naturali, una profonda esperienza mistica. Proprio ai nostri giorni questa figura di donna sta acquistando sempre più rilievo.

Mercoledì, 26 Settembre 2007 01:02

Unico Dio (Gad Lerner)

Unico Dio

di Gad Lerner

Nel mio piccolo, sono contento di aver rischiato anch’io, elogiando in anticipo il viaggio di Benedetto XVI in Turchia (dal 28 novembre al 1° dicembre), sul numero scorso, pur sapendo che era a rischio d’insuccesso e soggetto a mille incognite.

Bastava il fatto che il papa confermasse la volontà di andare pellegrino in un luogo che, di sicuro, non l’avrebbe accolto trionfalmente – dicevo – per renderne preziosa di per sé l’intenzione di apertura e dialogo. Ebbene, le cose sono andate molto meglio di ogni mia più rosea aspettativa. Alleluia! Stavolta sono papista anch’io!

Disarmata l’ostilità di Erdogan e del Gran Muftì con le ripetute parole di rispetto nei confronti dell’islam e del suo Profeta, Joseph Ratzinger ha poi fatto molto, molto di più, sia sul piano politico, sia sul piano spirituale.

Ha rimosso qualsiasi equivoco di veto vaticano sull’ingresso della Turchia nell’Unione europea, senza tema di correggere le perplessità manifestate al tempo in cui era un semplice cardinale. Schierare il Vaticano su una politica di porte aperte alla Turchia rafforza le speranze di pace nel Mediterraneo. Del resto, la chiesa, più di qualunque altra istituzione, ha consapevolezza storica del ruolo cruciale svolto da quelle terre di confine nella formazione di un’idea continentale armoniosa, sovranazionale, cosmopolita.

Ma è con il gesto compiuto nella Moschea blu di Istanbul – lui, Papa piuttosto di parole che di gesti, e dunque con la preghiera rivolta al Signore da un luogo di culto “altro” – che Benedetto XVI ci ha felicemente sorpresi. Sulle prime, qualche giornale ha esitato, nonostante il direttore della sala stampa vaticana, padre Lombardi, confermasse ciò che tutti avevano potuto vedere. La delusione deve essere stata grande in quegli aizzatori di conflitti religiosi che sulla lectio magistralis di Regensburg avevano scritto il titolone: “Il papa ci spiega perché il Dio dei cristiani è diverso da Allah”. Ma perfino il semi-ufficiale Avvenire il primo giorno aveva esitato, limitandosi a un sommario di prima pagina, in cui si segnalava che lì, nella moschea, Benedetto XVI aveva «rivolto un pensiero a Dio».

Per i dubbiosi, le definitive precisazioni sono venute in seguito da Roma: Benedetto XVI aveva ritenuto di rivolgersi – in quel luogo di preghiera dei musulmani – all’«unico Dio», che, in quanto tale, ci accomuna. Da uomo di pace, egli ha rilanciato il buon metodo che consiste nel valorizzare innanzitutto il molto che ci accomuna, al fine di restituire la giusta dimensione alle nostre differenze.

(da Nigrizia, gennaio 2007)

I fondamenti teologici del dialogo
nell’ambito delle culture segnate dalla non-credenza
e dall’indifferenza religiosa

di Bruno Forte


1. Gli scenari del tempo

a) Il sogno della modernità e l’“assassinio del Padre”

La metafora della luce esprime nella maniera più intensa il principio ispiratore della modernità, l’ambiziosa pretesa della ragione adulta di comprendere e dominare ogni cosa. Secondo questo progetto - che sta alla base dell’Illuminismo in tutte le sue espressioni -comprendere razionalmente il mondo significa rendere l’uomo finalmente libero, padrone e protagonista del proprio domani, emancipandolo da ogni possibile dipendenza: l’“emancipazione” è il sogno che pervade i grandi processi di trasformazione storica dell’epoca moderna, nati a partire dal “secolo dei lumi” e dalla rivoluzione francese, dall’emancipazione delle classi sfruttate e delle razze oppresse a quella dei popoli del cosiddetto “terzo mondo”, a quella della donna nella varietà dei contesti culturali e sociali. Il sogno di un’emancipazione totale spinge l’uomo moderno a volere una realtà completamente illuminata dal concetto, in cui si esprima senza residui la potenza irradiante della ragione. Dove la ragione trionfa si alza il sole dell’avvenire: in tal senso si può dire che il tempo della modernità è il tempo della luce. L’ebbrezza dello spirito moderno sta precisamente in questa presunzione della ragione assoluta di poter vincere ogni oscurità e assorbire ogni differenza.

L’espressione compiuta di questa ebbrezza è l’“ideologia”: la modernità, tempo del sogno emancipatorio, è anche il tempo delle visioni totali del mondo, proprie delle ideologie. Esse tendono ad imporre la luce della ragione alla realtà tutta intera, fino a stabilire l’equazione fra ideale e reale: è inseguendo questa ambizione che le “grandi narrazioni” ideologiche tendono ad edificare una “società senza padri”, dove non ci siano rapporti verticali, ritenuti sempre di dipendenza, ma solo orizzontali, di parità e reciprocità. Il sole della ragione produce libertà e uguaglianza, e proprio così anche fraternità, egualitarismo fondato sull’unicità della luce del pensiero, che governa il mondo e la vita: “liberté, égalité, fraternité” sono il frutto del trionfo della ragione. La critica alla figura del “padre - padrone” sfocia così nella pretesa della radicale negazione di Dio: come non deve esserci in terra alcuna paternità che crei dipendenza, così non può esservi in cielo alcun Padre di tutti. Non ci sono “partners” divini, non c’è un altro mondo, c’è solo questa storia, quest’orizzonte: l’unica idea del divino che può restare dinanzi al tribunale della ragione adulta sembra quella di un Dio morto, insensato, inutile (“Deus mortuus, Deus otiosus”). L’assassinio collettivo del Padre si consuma nella convinzione che l’uomo dovrà gestirsi la vita da solo, costruendo il proprio destino soltanto con le proprie mani: le ideologie moderne, di destra o di sinistra, hanno inseguito la meta ambiziosa di emancipare gli abitatori del tempo in modo così radicale, da renderli da oggetto soggetto esclusivo della loro storia, al tempo stesso origine e meta di tutto ciò che accade.

Non si può negare che questo progetto sia grandioso e che tutti ne siamo in qualche misura eredi: chi vorrebbe vivere in una società che non sia passata attraverso il processo dell’emancipazione? E tuttavia, questo sogno ha prodotto anche effetti satanici: proprio a causa della sua ambizione totale l’ideologia diventa violenta. La realtà viene piegata alla forza del concetto: la “volontà di potenza” (F. Nietzsche) della ragione vuol dominare la vita e la storia per adeguarle al proprio progetto. Il sogno di totalità si fa inesorabilmente totalitario: il tutto - così come è compreso dalla ragione - produce totalitarismo. Non a caso, né per un semplice incidente di percorso, tutte le avventure dell’ideologia moderna, di destra come di sinistra, dall’ideologia borghese a quella rivoluzionaria, sfociano in forme totalitarie e violente. Ed è precisamente l’esperienza storica della violenza dei totalitarismi ideologici a produrre la crisi e il tramonto delle pretese della ragione moderna: “La terra interamente illuminata - affermano Max Horkheimer e Theodor W. Adorno all’inizio della loro Dialettica dell’Illuminismo - risplende all’insegna di trionfale sventura". (1) Il pensiero senza ombre si risolve in tragedia: lungi dal produrre emancipazione, genera dolore, alienazione e morte. La moderna “società senza padri” non genera figli più liberi e più uguali, ma produce dipendenze drammatiche da quelli che di volta in volta si offrono come i “surrogati” del padre: il “capo”, il “partito”, la “causa” diventano i nuovi padroni, e la libertà promessa e sognata si risolve in una massificazione dolorosa e grigia, sostenuta dalla violenza e dalla paura. L’assassinio collettivo del padre non ha impedito, insomma, la prolificazione di “padri - padroni” sotto mentite spoglie...

b) La società senza padri e il “secolo breve”

Il sogno di emancipare il mondo e la vita sembra dunque essersi infranto contro l’inaudita violenza che l’epoca dell’emancipazione ha prodotto, di cui sono segno eloquente le guerre, le pulizie etniche, i forni crematori, la Shoà e tutti i genocidi del nostro secolo, fino all’eccidio per fame che ogni giorno si consuma nel mondo. È questo il frutto della ragione adulta? Dove sono i cieli nuovi e le terre nuove che le grandi narrazioni ideologiche avevano promesso? Sta qui il dramma con cui si chiude il XX secolo: un dramma morale, una crisi di senso, un vuoto di speranza. Se per la ragione moderna tutto aveva senso all’interno di un processo totale, per il pensiero debole della condizione post-moderna - naufrago nel grande mare della storia dopo il fallimento delle presunzioni ideologiche - nulla sembra avere più senso. In reazione alle pretese fallimentari della ragione forte si profila un tempo di naufragio e di caduta: la crisi del senso diventa la caratteristica peculiare dell’inquietudine postmoderna. In questo tempo di “notte del mondo” (Martin Heidegger) ciò che trionfa sembra essere l’indifferenza, la perdita del gusto a cercare le ragioni ultime del vivere e del morire umano. Si profila così l’estremo volto del secolo che volge alla fine: il volto del nichilismo.

Il nichilismo non è l’abbandono dei valori, la rinuncia a vivere qualcosa per cui valga la pena di vivere, ma un processo più sottile: esso priva l’uomo del gusto di impegnarsi per una ragione più alta, lo spoglia di quelle motivazioni forti che l’ideologia ancora sembrava offrirgli. Ciò di cui si è più malati oggi è la mancanza di “passione per la verità”: questo è il volto tragico del post-moderno. Nel clima del nichilismo diffuso tutto cospira a portare gli uomini a non pensare più, a fuggire la fatica e la passione del vero, per abbandonarsi all’immediatamente fruibile, calcolabile col solo interesse della consumazione immediata. È il trionfo della maschera a scapito della verità: perfino i valori sono spesso ridotti a coperture da sbandierare per nascondere l’assenza di significato. L’uomo stesso sembra risolversi in una “passione inutile” (secondo la formula proposta con inquietante anticipo sulla fine dei mondi ideologici da Jean-Paul Sartre: “l’homme, une passion inutile”). Si potrebbe dire che la malattia più profonda dell’epoca che chiamiamo post_moderna sia la definitiva rinuncia a un padre-madre verso cui tendere le braccia dell’attesa, e dunque il non avere più la volontà o il desiderio di cercare il senso per cui valga la pena di vivere e di morire.

Orfani delle ideologie, si rischia di essere tutti più fragili, più tentati di chiudersi nella solitudine dei propri egoismi. È per questo che le società post-ideologiche stanno diventando sempre più “folle di solitudini”, in cui ognuno cura il suo interesse particolare secondo una logica esclusivamente egoistica e strumentale: di fronte al nulla del senso ultimo, ci si aggrappa all’interesse penultimo, alla cattura del possesso immediato. È questa la ragione del trionfo del consumismo più sfacciato, della corsa all’edonismo e all’immediatamente fruibile, ma è anche questo il motivo profondo dell’emergere e dell’affermarsi delle logiche settarie, etniche, nazionalistiche o regionalistiche, che si sono diffuse con inquietante virulenza nell’Europa di fine millennio. Quando non si hanno orizzonti grandi di verità, si affoga facilmente nella solitudine egoistica del proprio particolare e la società diventa arcipelago. Proprio questo processo mostra però come tutti abbiamo bisogno di un padre _ madre comune che liberi dalla prigionia della solitudine, che dia un orizzonte per cui sperare e amare: non un orizzonte violento, asfissiante com’era quello dell’ideologia, ma un orizzonte liberante per tutti, rispettoso di tutti.

Se dunque la “società senza padri” ha inseguito il sogno dell’emancipazione e per emanciparsi ha pensato di uccidere il padre, proprio il frutto amaro di un’emancipazione totalitaria e violenta e il vuoto che essa ha lasciato fa avvertire un nuovo bisogno di un padre_madre accogliente nella libertà e nell’amore. Non è certo la ricerca del padre_madre che sia il padre_partito, il padre-padrone, capo indiscusso e indiscutibile, o il padre-denaro, il padre_capitalismo, ma è la nostalgia di un padre_madre che fondino al tempo stesso la dignità di ogni persona, la libertà di tutti, il senso della vita. Ciò di cui c’è insomma soprattutto bisogno davanti all’indifferenza e alla mancanza di passione per la verità dell’epoca in cui ci troviamo è il volto del padre_madre nell’amore: è la nostalgia del Totalmente Altro, di cui Horkheimer e Adorno parlavano prevedendo la crisi delle ideologie. È la nostalgia del Volto nascosto, il bisogno di una patria comune che dia orizzonti di senso senza esercitare violenza. È quanto emerge dall’intera parabola dell’epoca moderna, dal trionfo della ragione illuministica, che tutto voleva abbracciare e spiegare con la sua luce, all’esperienza diffusa della frammentazione e del non-senso, seguita alla caduta degli orizzonti forti dell’ideologia. È il processo che ha caratterizzato il secolo XX, il cosiddetto “secolo breve” (“the Short Twentieth Century”: Eric Hobsbawm) (2) segnato dal trionfo e dalla crisi dell’ottimismo totalitario dei vari modelli ideologici.

La perdurante violenza, gli odi etnici, la cecità dei pregiudizi contro il diverso mostrano come forse troppo presto si sia voluto cantare il “requiem aeternam” delle ideologie e come esse si siano presa la rivincita rispuntando con tutta la virulenza dei loro meccanismi di autogiustificazione e di demonizzazione dell’altro nella sofferenza inflitta a popolazioni inerti, nel genocidio, nella propaganda delle parti contrapposte, nella vendetta terroristica. La metafora della “notte” sembra veramente la meno inadeguata ad esprimere la condizione presente, nonostante il ritorno delle ambizioni ideologiche tese a comprendere tutto col “lume” della ragione. Eppure, paradossalmente, è proprio da questa perdurante e conclamata negazione della fraternità fra gli umani che si leva più forte il grido del bisogno di una fraternità ritrovata, quale solo un padre-madre di tutti può fondare. Si profilano alcuni segnali di attesa: c’è una “nostalgia di perfetta e consumata giustizia” (Max Horkheimer), che si lascia riconoscere proprio nelle inquietudini del presente come una sorta di ricerca del senso perduto. Non si tratta d’“une recherche du temps perdu”, di un’operazione della nostalgia, ma di uno sforzo per ritrovare il senso al di là del naufragio, per riconoscere un orizzonte ultimo su cui misurare il cammino di tutto ciò che è penultimo e fondare eticamente la prassi. Si assiste ad una riscoperta dell’altro, constatando che il prossimo, per il solo fatto d’esistere, può essere ragione del vivere, perché è sfida a uscire da sé, a rischiare l’esodo senza ritorno dell’impegno d’amore per altri. Il nuovo interesse al più debole, specialmente allo straniero in fuga da situazioni di miseria e povertà d’ogni genere, la crescente coscienza delle esigenze della solidarietà a livello locale e universale, l’urgenza di una globalizzazione solidale, possono profilarsi - pur fra molte contraddizioni - come altrettanti segnali di questa ricerca del senso perduto.

Al tempo stesso, sembra affacciarsi una ritrovata nostalgia del Totalmente Altro, una sorta di riscoperta del sacroGaudium et Spes 31). Si intravede in queste parole il ruolo di una fondamentale mediazione paterna-materna, di una sorta di paternità-maternità del senso, che possa riscattare il futuro dalla caduta nel nulla e dalle sue seduzioni. L’Altro - fondamento ultimo delle ragioni del vivere e del vivere insieme - sembra offrirsi come l’oggetto della domanda più vera e profonda aperta dalla crisi del nostro presente, e la nostalgia del Suo volto nascosto sembra delinearsi come quella di un padre-madre che accolga tutti nell’amore... rispetto ad ogni rinuncia nichilista. Si risveglia un bisogno, che potrebbe definirsi genericamente religioso: bisogno di un orizzonte ultimo, di una patria che non siano quelli manipolanti e violenti dell’ideologia. Nelle forme più diverse si profila un “ritorno del Padre”, quantunque non sempre privo di ambiguità e perfino di nostalgie ideologiche. In realtà, se la crisi del moderno è fine delle presunzioni del soggetto assoluto, i segnali del suo superamento - al di là del nichilismo - vanno tutti in direzione di una riscoperta dell’Altro, che offra ragioni di vita e di speranza. Lo aveva intuito con singolare profondità il Concilio Vaticano II nell’affermare: “Legittimamente si può pensare che il futuro dell’umanità sia riposto nelle mani di coloro che saranno capaci di trasmettere alle generazioni future ragioni di vita e di speranza” ((Gaudium et Spes 31). Si intravede in queste parole il ruolo di una fondamentale mediazione paterna-materna, di una sorta di paternità-maternità del senso, che possa riscattare il futuro dalla caduta nel nulla e dalle sue seduzioni. L’Altro - fondamento ultimo delle ragioni del vivere e del vivere insieme - sembra offrirsi come l’oggetto della domanda più vera e profonda aperta dalla crisi del nostro presente, e la nostalgia del Suo volto nascosto sembra delinearsi come quella di un padre-madre che accolga tutti nell’amore...

2. Gli scenari del cuore

a) “Gettati verso la morte” o aperti al Mistero

La domanda che abita al centro del nostro cuore, quella che ci fa inquieti e pensosi, è la domanda dell’infinito dolore del mondo, l’interrogativo ineludibile della morte e della fine di tutto. Se non ci fosse la morte non ci sarebbe neanche il pensiero, tutto sarebbe una piatta eternità, almeno per la nostra limitata capacità di pensare: in questo senso, vivere è anche imparare a morire, educarsi a convivere con la sfida silenziosa, resistente e perseverante della morte. È inutile cercare evasioni o facili consolazioni nella presunzione epicurea di dire: “Quando ci sarà la morte io non ci sarò e finché io ci sono essa non c’è”. Queste parole sono inganno e apparenza, perché la morte non è solo l’ultimo destino o l’ultimo atto, ma è soprattutto una presenza che incombe ogni giorno della vita nella fragilità e nella caducità dell’esistere. Diversi per nascita, possibilità ed esperienze, gli abitatori del tempo sono solidali nella povertà, in quanto sono tutti allo stesso modo “gettati” verso la morte, inesorabilmente diretti verso il “vallo estremo”, avvolto dal silenzio. La vita pare risolversi nell’inesorabile viaggio verso le tenebre: perciò la fatica di esistere è impastata di malinconia e la dimora del tempo appare fasciata dall’abisso del nulla. È sulla vertigine del nulla che si affaccia la situa­zione emotiva dell’an­goscia: sospeso sui silenzi della morte, l’essere umano si fa inquieto riguardo al suo destino.

La ripulsa del nulla suscita - come per contraccolpo - la potenza del domandare: l’uomo diventa domanda a se stesso, interrogativo davanti al quale si schiudono ambiguamente i sentieri di ciò che potrà essere o non sarà mai. Fedele compagna della vita si affaccia la domanda - evasa o accettata, nascosta o cercata - che la morte imprime come ferita nel più profondo del cuore umano. È così che il pensiero nasce dalla morte, la coscienza dalla passione di chi non s’arrende al finale trionfo del nulla. La lotta contro la morte si profila nelle domande che nascono nel cuore come ferite lancinanti, spesso improvvise o inattese: che ne sarà di me? che senso ha la mia vita? dove vado con il bagaglio delle mie pene, delle consolazioni e delle gioie? E quando avrò finalmente conquistato ciò che desidero, che cosa ancora potrò desiderare se non l’ultima vittoria, la vittoria sulla morte? Giunti a considerare il fondo verso cui andiamo, proprio da esso ci viene il bisogno di lottare per vincere l’apparente trionfo della morte. Proprio il fatto che la morte ci rende pensosi e che sentiamo il bisogno di dare significato alle opere e ai giorni è il segno che nel profondo del cuore i pellegrini verso la morte sono in realtà chiamati alla vita. Nel profondo del cuore si affaccia un’indistruttibile nostalgia del volto di Qualcuno, che accolga il nostro dolore e le lacrime, che redima l’infinito dolore del tempo. Quando siamo soli o disperati, quando nessuno sembra volerci più e noi stessi abbiamo ragioni per disprezzarci o rammaricarci di noi, ecco profilarsi in noi la nostalgia di un Altro che possa accoglierci e farci sentire amati al di là di tutto, nonostante tutto, vincendo l’ultimo nemico che è la morte. È quanto esprime Agostino, aprendo le Confessioni: “Fecisti cor nostrum ad te et inquietum est cor nostrum donec requiescat in te” - “Hai fatto il nostro cuore per Te ed è inquieto il nostro cuore finché non riposi in te”.

Nella domanda che ognuno si porta nel più profondo del cuore va dunque profilandosi l’immagine del padre-madre nell’amore, metafora per dire il bisogno di qualcuno cui affidarsi senza riserve, quasi un’àncora, un approdo dove far riposare la nostra stanchezza e il nostro dolore, sicuri di non essere rigettati nell’abisso del nulla. Questo bisogno dell’altro, che sia madre_padre accogliente, quest’attesa profonda, ciascuno può riconoscerla in sé, se solo ha il coraggio di non mascherarsi dietro le proprie presunte grandezze o difese. In quanto tale, la figura del padre-madre nell’amore è il grembo, la patria, l’origine in cui rimettere tutto ciò che noi siamo. Se nel profondo del cuore tutti siamo abitati dall’angoscia della sfida suprema della morte e se questo ci rende pensosi, allora l’immagine paterna-materna dell’amore accogliente è quella che più risponde a ciò di cui tutti abbiamo infinitamente bisogno.

b) Il rifiuto e l’attesa del Padre

Non possiamo allora non chiederci: perché, se questo è vero, sorge in tanti un rifiuto perfino viscerale della figura del padre? perché prima o poi nella vita tutti viviamo un momento di contestazione dell’immagine paterna-materna? Questa palese contraddizione tra il bisogno di un’accoglienza che vinca l’angoscia e il rifiuto di essa, può essere rischiarata dall’analisi del cuore umano: quante volte il rifiuto del padre nasce dal bisogno di affrancarsi da una dipendenza! Quante volte la paternità diventa possessività, schiavitù, dominio! Ecco allora che si profila la condizione drammatica, espressa dalla metafora dell’“assassinio del padre”. L’“assassinio del padre” è una sorta di gesto rituale, un atto volto ad affermare la propria indipendenza e autonomia. Esso è inseparabile dal senso dell’angoscia: se una delle cause profonde dell’angoscia è l’affacciarsi incombente della morte, eliminare la figura del padre_madre che ci accolga vuol dire esporsi ancor più radicalmente all’abbraccio del nulla. È come sperimentare un’infinita orfananza, accendendo di conseguenza ancor più acutamente la nostalgia del padre e della madre accoglienti nell’amore. Ne nasce un comportamento paradossale: da una parte fuggiamo dalla figura paterna-materna per essere liberi e indipendenti come il figliuol prodigo, che sceglie di avere le sue sostanze e gestirsi da solo la vita; dall’altra cresce in noi lo struggente bisogno di qualcuno che ci riveli il volto di un padre_madre nell’amore che non ci faccia sentire schiavi. Veramente abissale è il cuore dell’uomo e lacerante il peso delle sue contraddizioni!

Un padre_madre che ci ami rendendoci liberi è qualcuno che non sia il concorrente della nostra libertà, ma il fondamento di essa, la garanzia ultima della verità e della pace del nostro cuore: qualcuno che sani l’angoscia con la medicina dell’amore, ma sani anche la paura che abbiamo di perdere la nostra libertà facendoci sentire amati in un modo che non crei dipendenze. Di questo padre materno ha bisogno il cuore dell’uomo, assetato di un grembo che avvolga, custodisca e generi instancabilmente alla vita. La scelta che ne consegue è quella urgente e decisiva fra il vivere come pellegrini alla ricerca del Volto nascosto, lasciandoci guidare dalla mano paterna - materna dell’Altro, o il chiuderci nelle nostre paure e nelle nostre solitudini. La vita o è pellegrinaggio o è anticipazione della morte. O è passione, ricerca e quindi inquietudine, o è lasciarsi morire ogni giorno un po’, fuggendo in tutte le evasioni possibili di cui è malata la nostra società, utili per stordirsi e non porsi le domande vere. Occorre prendere una decisione: “Mi alzerò e andrò da mio padre!”. Occorre aprirsi all’ascolto e all’invocazione. È questa la scelta di cui hanno particolare bisogno le donne e gli uomini di quest’epoca post_moderna. Per aiutare i loro compagni di strada a fare questo passo i credenti dovranno essere i primi ad alzarsi e andare verso il Padre, ritornando sempre di nuovo a farsi pellegrini, vincendo la stanchezza e la frustrazione che a volte prende, specie quando sembra che non ci siano risultati. Il credente sa di non essere in questo mondo per vedere i frutti, ma per gettare il seme. Afferma Lutero: “Se anche sapessi che il mondo finirà domani, non esiterei a piantare un seme oggi”. Per chi crede in Dio l’importante non è il raccolto, l’importante è la semina: essa darà i suoi frutti a suo tempo quando e come Dio vorrà. Il no alla frustrazione deve unirsi allora al sì alla passione per la verità che porta a sollevare le vere domande del cuore degli uomini perché cerchino il Volto nascosto, il Volto del padre_madre nell’amore, senso della vita e speranza del mondo...

3. Per il dialogo fra fede e non credenza

Come può la rivelazione, compiutasi in Gesù di Nazaret, Signore e Cristo, parlare alla crisi prodotta dal tracollo delle false sicurezze dell’ideologia e alla dolorosa assenza di ragioni per sperare in grande, caratteristica del nichilismo post-moderno? Come possono credenti e non credenti incontrarsi e dialogare nella verità a partire dalle sfide degli scenari tracciati? La risposta a queste domande non può non segnalare come ai cristiani, impegnati a vivere ed operare in questo mondo in cambiamento, sia richiesto oggi più che mai di render ragione della speranza che è in loro, con dolcezza e rispetto per tutti (cf. 1 Pt 3,15). Sul piano personale ed ecclesiale ciò esige che essi siano discepoli dell’Unico, servi per amore e testimoni del senso nella sequela del loro Signore. Al tempo stesso, nel rapporto fra fede e non credenza - cui le avventure dell’ateismo moderno e l’inquietudine della post-modernità nichilista rendono particolarmente attenti - ciò richiede il superamento di ogni riduzione del cristianesimo a ideologia e la sincera attenzione all’altro in tutta la sua dignità, qualunque sia la sua convinzione. Si scopre così che l’ateo, il solo ateo che sia possibile concepire con radicale serietà, abita forse proprio nel cuore del credente, perché solo chi crede in Dio e ne ha fatto esperienza come del Padre - Madre accogliente nell’amore, può anche “sapere” che cosa sia la Sua negazione e quale infinito dolore comporti la Sua assenza. Il non credente, insomma, non è fuori di chi crede, ma in lui: e questo determina una peculiare caratterizzazione della stessa vita di fede, vissuta non nella presunzione del possesso, ma nella coscienza dell’umile e sempre nuovo bisogno di mettersi al servizio della verità, e di farlo non con avventure individuali, ma nell’indispensabile comunione della Chiesa dell’amore, suscitata e nutrita dallo Spirito.

a) L’ateismo di chi crede

Il credente è il prigioniero dell’Altro: proprio così egli può portare al pensiero la verità della fede, il lasciarsi far prigionieri dell’invisibile, non immediatamente disponibile e certo. Il credente perciò non ha un pensiero totalizzante, luminoso su tutto, ma vive in una sorta di pensiero notturno, carico di attesa, sospeso tra il primo e l’ultimo avvento, già confortato dalla luce che è venuta nelle tenebre e tuttavia ancora assetato di aurora. Il pensiero della fede, non ancora pienamente illuminato dal giorno che appartiene ad un altro tempo e ad un’altra patria, è tuttavia sufficientemente rischiarato per sostenere la fatica di conservare la fede: pensiero umile, appeso alla Croce, che è e resta nella notte del mondo il punto di riferimento del discepolo di Cristo, la stella della redenzione, la rivelazione del Dio accogliente nell’amore. A sua volta, il non credente, che abbia attraversato il guado della modernità, quando è veramente e fino in fondo tale, quando lo è, quindi, non per una semplice qualificazione esteriore, ma per le sofferenze di una vita che lotta con Dio senza riuscire a credere in Lui, vive in una medesima condizione di ricerca e di attesa. La non credenza non è la facile avventura di un rifiuto, che lasci l’uomo come l’ha trovato. La non credenza seria, pensosa, non negligente davanti alle domande vere, è sofferenza, passione di chi paga di persona l’amaro coraggio di non credere.

Non credere in maniera responsabile significa avvertire il lacerante dolore dell’assenza, sperimentando il senso di un’orfananza infinita, di un abbandono totale, quale solo la morte di Dio può creare nel cuore dell’uomo e nella storia del mondo. Perciò, il non credente pensoso, come il credente non negligente, lotta con Dio. “Mi religion es luchar con Dios”: secondo la confessione di Miguel de Unamuno, il testimone del “sentimiento tragico de la vida”, la religione sta tutta in questo “lottare con Dio”. E poiché, non di meno, “vivir es anhelar la vida eterna”, il vivere è inesorabilmente segnato dalla tragicità di dover sostenere l’impari lotta. È nel rispetto di questa dignità del non credere, emersa in tutta la sua luce dopo l’ubriacatura tragica dell’ateismo ideologico e della sua fine, che il credente è chiamato a interrogarsi sulla sua fede e, nella fede pensata, a trovare gli abissi del non credente che è in lui.

Questa compresenza di fede e non credenza è radicata nella stessa condizione umana: nel più profondo delle sue domande, di fronte all’ineludibile ferita del dolore e della morte, l’uomo non si presenta come qualcuno che sia arrivato alla meta, ma come un cercatore della patria lontana, che si lascia permanentemente interrogare, provocare e sedurre dall’orizzonte ultimo. L’uomo che si ferma, sentendosi padrone della verità, l’uomo per il quale la verità non è più Qualcuno, da cui essere sempre più profondamente posseduti, ma qualcosa da possedere, quell’uomo ha cancellato in se stesso non solo Dio, ma la propria dignità di essere umano. La condizione umana è una condizione esodale: l’uomo è in esodo, chiamato permanentemente a uscire da sé, a interrogarsi, in cerca di una patria, intravista, ma non posseduta, in cerca del Padre - Madre accogliente nell’amore... Se l’uomo è costitutivamente un pellegrino verso la vita, un “mendicante del cielo” (Jacques Maritain), la vera tentazione è per lui quella di fermare il cammino, di sentirsi arrivato, non più esule in questo mondo, ma possessore, dominatore di un impossibile “istante eterno”. L’illusione di sentirsi arrivati, il pretendersi soddisfatti, compiuti nella propria vicenda, è la malattia mortale.

Tutto questo vale analogamente per la via di Dio: anche nella vita della fede la grande tentazione è fermarsi. In quanto il cristiano è chiamato alla sequela della Croce, dove Dio ha parlato nella silenziosa e conturbante eloquenza della passione, egli è posto costantemente davanti alla grande scelta: crocifiggere le proprie attese sulla croce di Cristo o crocifiggere Cristo sulla croce delle proprie attese. Proprio così, la Croce è il vangelo della libertà, come mostra l’esodo di Gesù da sé di scelta in scelta, fino alla consegna dell’estremo abbandono! Nell’esperienza quotidiana della vita, come nel cammino della fede, l’uomo è chiamato alla libertà attraverso il prezzo doloroso della continua, ineludibile scelta, che lo pone sempre sulla soglia, sfiorato dalla vertigine dell’una o dell’altra possibilità radicale...

b) La fede come lotta, scandalo, resa

Nel suo permanente uscire da sé per lottare contro la morte e camminare verso la vita, l’uomo è stato raggiunto dalla Parola che viene dal Silenzio, da quel Dio, cioè, che - secondo la fede cristiana - “ha avuto tempo” per l’uomo. Dio esce dal suo eterno silenzio perché la nostra storia entri nel Silenzio della patria e vi dimori. L’incontro dell’umano andare e del divino venire, l’alleanza dell’esodo e dell’avvento è la fede. Essa è lotta e agonia, non il riposo di una certezza posseduta. Chi pensa di aver fede senza lottare, rischia di non credere in nulla. La fede è come l’esperienza di Giacobbe al guado dello Yabbok (cf. Gn 32,23-33): Dio è l’assalitore notturno, l’Altro che viene a te e lotta con te. Se tu non conosci così Dio, se Dio per te non è fuoco divorante, se l’incontro con Lui è per te tranquilla ripetizione di gesti sempre uguali senza passione d’amore, il tuo Dio non è più il Dio vivente, ma il Dio morto, il “Deus otiosus”. Perciò Pascal affermava che Cristo sarà in agonia fino alla fine del tempo: questa agonia è l’agonia dei cristiani, cioè la lotta di credere, di sperare, di amare, la lotta con Dio! Dio è altro da te, libero rispetto a te, come tu sei altro da Lui e libero rispetto a Lui. Guai a perdere il senso di questa distanza e, dunque, di questa sofferenza della non identità! Credere è “cor-dare”, secondo l’ingenua e bella interpretazione dei Medievali, un “dare il cuore” che implica la continua lotta con l’Alterità che non si lascia “risolvere” né “arrestare”. Dio è l’altro da te. Ecco perché il dubbio abiterà sempre la fede.

Solo per chi non sa questo è scandalosa la parola del Battista, che al tramonto della vita, evidentemente inquietato dal dubbio, manda a chiedere a Gesù: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attenderne un altro?” (Mt 11,3). Questa è la prova della fede: lottare con Dio, sapendo che Lui è l’Altro, che sfugge alle nostre certezze e non si lascia addomesticare dalle nostre pretese. Perciò la fede è scandalo: infinite sono le testimonianze di questo scandalo. San Giovanni della Croce lo presenta nella metafora ambivalente della “noche oscura”: “In una notte oscura / con ansie di amor tutta infiammata, / o felice ventura!, / uscii, né fui notata, / stando già la mia casa addormentata. / ... / Notte che mi guidasti! / oh, notte amabile più che l’aurora / oh, notte che hai congiunto / l’Amato con l’amata / l’amata nell’Amato trasformata". (3) La notte oscura è il luogo dello scandalo e il luogo delle nozze: Dio non si trova nella facilità del possesso di questo mondo, ma nella povertà della Croce, nella morte a se stessi, della notte dei sensi e dello spirito. È lì la gioia più grande! La tenebra è il luogo dell’amore, della fede come lotta e come scandalo: Cristo non è la risposta alle nostre domande. Cristo è anzitutto la sovversione di esse. E solo dopo averci portato nel fuoco della desolazione, egli diviene il Dio delle consolazioni e della pace.

Infine, la fede è resa: quando nella lotta capisci che vince chi perde e perdutamente ti consegni a Lui, quando ti arrendi all’assalitore notturno e lasci che la tua vita venga segnata per sempre da quell’incontro, allora la fede si fa abbandono, oblio di sé e gioia della consegna nelle braccia dell’Amato. La fede è affidarsi ciecamente all’Altro. “Tu mi hai sedotto, o Signore, ed io mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto forza e hai prevalso... Mi dicevo: ‘Non penserò più a lui, non parlerò più in suo nome!’ Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo” (Ger 20,7. 9). In queste parole di Geremia troviamo una testimonianza fra le più alte della resa della fede: egli è un uomo che ha vissuto la lotta con Dio, ma che lottando ha saputo conoscere la capitolazione dell’amore al punto da essere pronto a consegnarsi perdutamente a Lui. Così la fede diventa anche un approdo di bellezza e di pace. Non la bellezza che il mondo conosce, la seduzione di una verità totale, che spieghi tutto, ma la bellezza dell’Uomo dei dolori, la bellezza dell’Amore crocifisso, dell’offerta totale di sé al Padre e agli uomini.

Se la fede è tutto questo, se è inseparabilmente lotta, scandalo e resa, allora il credente non cercherà dei segni volgari che esibiscano la fedeltà del Dio in cui crede. Allora crederà in Lui anche quando la risposta alle domande vere del dolore umano resterà custodita nel Suo silenzio. Perciò, il credente è in fondo un ateo che ogni giorno si sforza di cominciare a credere e il non credente, che soffre dell’infinito dolore dell’assenza di Dio, è forse un credente che ogni giorno di nuovo si sforza di cominciare a non credere. Se il credente non vivesse ogni giorno lo sforzo di cominciare a credere, la sua fede non sarebbe altro che una rassicurazione mondana, una delle ideologie che hanno ingannato il mondo e determinato l’alienazione dell’uomo. Contro ogni ideologia, la fede va concepita e vissuta come un continuo convertirsi a Dio, un continuo consegnargli il cuore, cominciando ogni giorno, in modo nuovo, a vivere la fatica di credere, di sperare, di amare: perciò la fede è preghiera, e chi non prega non vivrà di fede! Ma se il credente è un ateo che ogni giorno si sforza di cominciare a credere, non sarà forse l’ateo, il non credente che ha attraversato le avventure della modernità e della sua crisi, un credente che ogni giorno vive la lotta inversa, e cioè la lotta di cominciare a non credere? Non l’ateo banale, ma chi vive la lotta con coscienza retta, chi, avendo cercato e non avendo trovato, patisce il dolore dell’assenza di Dio, non sarà questi fratello di chi crede?

Da qui derivano alcuni “no” e alcuni “sì” per il dialogo responsabile fra credenti e non credenti: il primo “no” è alla negligenza della fede, ad una fede indolente, statica, abitudinaria, fatta di intolleranza comoda, che si difende condannando perché non sa vivere la sofferenza dell’amore. A questo “no” si congiunge il “sì” ad una fede interrogante, anche dubbiosa, capace ogni giorno di cominciare a consegnarsi perdutamente all’altro, per vivere l’esodo senza ritorno verso il Suo Silenzio, dischiuso e celato nella Sua Parola. Da quanto detto viene però parimenti il “no” ad ogni ateismo banale, a ogni negazione ideologica di Dio e del mistero santo, come ne deriva il “sì” all’incessante ricerca del Volto nascosto, del Silenzio al di là della Parola, e della Parola crocifissa dove il Silenzio si apre accogliente alla ricerca del cuore. Forse, in questo tempo di penuria di speranze in grande più che mai la vera differenza non è tra credenti e non credenti, ma tra pensanti e non pensanti, tra uomini e donne che hanno il coraggio di vivere la sofferenza, di continuare a cercare per credere, sperare e amare, e uomini e donne che hanno rinunciato alla lotta, che sembrano essersi accontentati dell’orizzonte penultimo e non sanno più accendersi di desiderio e di nostalgia al pensiero dell’ultimo orizzonte e dell’ultima patria. Qualunque atto, anche il più costoso, è allora degno di essere vissuto per riaccendere in noi il desiderio della patria vera, e il coraggio di tendere ad essa, fino alla fine, oltre la fine...

Perciò il credente fa sua - anche a nome di chi non crede - la preghiera con cui Sant’Agostino chiude la più bella, la più pensata, forse la più tormentata delle sue opere, i quindici libri De Trinitate: “Signore mio Dio, unica mia speranza, fa’ che stanco non smetta di cercarTi, ma cerchi il Tuo volto sempre con ardore. Dammi la forza di cercare, Tu che ti sei fatto incontrare, e mi hai dato la speranza di sempre più incontrarTi. Davanti a Te sta la mia forza e la mia debolezza: conserva quella, guarisci questa. Davanti a Te sta la mia scienza e la mia ignoranza; dove mi hai aperto, accoglimi al mio entrare; dove mi hai chiuso, aprimi quando busso. Fa’ che mi ricordi di Te, che intenda Te, che ami Te!". (4) E, forse, per le stesse ragioni il non credente pensoso avverte il paradossale fascino dell’invocazione, cui non sa sottrarsi: “Concedici, o Signore, i paradisi del nulla, i giardini della tua primavera. Signore che fai della notte un mattino, il mattino che paghiamo con le monete luminose degli astri, astri della notte, guide degli erranti, degli erranti verso l’infinito: cos’è il cielo se non l’infinita via verso il nulla? Che è il nulla se non un ritorno, il tuo ritorno? Che è l’infinito se non un ritorno?". (5) Nell’inquietudine della domanda, la fede di chi crede può incontrarsi con l’invocazione di chi vorrebbe credere: sul fondamento della comune povertà e della comune ricerca, ma anche sull’ascolto dell’altro che abita nel più profondo di ciascuno dei partners dell’incontro, il dialogo fra credenti e non credenti si offre come una sfida fra le più alte ed arricchenti nelle culture segnate dalla non-credenza e dall’indifferenza religiosa, che sono in particolare quelle dell’Europa del nostro tempo postmoderno. Saremo pronti come credenti e come Chiesa a raccogliere questa sfida e a viverla senza paura, con spirito e cuore, fiduciosi nella fedeltà di Dio? Su questa domanda siamo chiamati a misurarci e a operare le scelte del nostro impegno nella sequela del Signore Gesù, come singoli e come Chiesa.

Note

1) M. Horkheimer - Th. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1966, 11.
2) E. Hobsbawm, Il secolo breve, Rizzoli, Milano 1995. 199816.
3) S. Giovanni della Croce, Noche oscura, Strofe 1 e 5: “En una noche oscura, / con ansias, en amores inflamada, / ¡oh dichosa ventura!, / salí sin ser notada, / estando ya mi casa sosegada. / ... / ¡Oh noche que guiaste! / ¡Oh noche amable más que el alborada! / ¡Oh noche que juntaste / Amado con amada / amada en el Amado transformada!”.
4) De Trinitate, 15, 28, 51: PL 42,1098.
5) A. Emo, Le voci delle muse, a cura di M. Donà e R. Gasparotti, Marsilio, Venezia 1992, 75.

di Gianfranco Ravasi

(abstract)

In cammino con Dio

Massa e Meriba: la crisi della fede

di Antonio Nepi

«Ascoltate la sua voce: "Non indurite il Cuore, come a Meriba, come nel giorno di Massa nel deserto, dove mi tentarono i vostri padri: mi misero alla prova pur avendo visto le mie opere"» (Sal 95,8-9). Posto dal salmista sulle labbra di JHWH, il «giorno di Massa e Meriba» resta scolpito nella memoria del Primo e Secondo Testamento come paradigma della crisi di chi è chiamato a camminare con Dio, nella tensione tra il già della liberazione e il non ancora del «riposo» nella terra promessa: il rischio di contestare Dio e le sue «vie», di non ricordare le sue misericordie, e di attaccare il cuore ai «doni di Dio» anziché a Lui che dona; più profondamente, di mettere in dubbio la sua compagnia nel cammino: «il Signore è in mezzo a noi sì o no?».

Nella storia fondativa del Pentateuco troviamo due narrazioni complete di questo «giorno» fatidico (Es 17,1-7; N m 20,1-13), nonche vari richiami nel libro del Deuteronomio e nei Salmi. Ci soffermeremo sul testo di Es 17,1-7.

La vocazione d'Israele come vocazione di Dio

Il libro dell'Esodo racconta un evento di importanza capitale: la liberazione d'Israele e la sua nascita come popolo. Per la prima volta il Dio della creazione, dei singoli patriarchi, ha interpellato una collettività in schiavitù, dimentica delle sue radici, facendosi conoscere con il suo «vero» nome JHWH (Es 3,14). Fedele alle sue promesse, le ha rivelato la sua paternità, la sua solidarietà di parente più prossimo (go'el) e l'ha chiamata ad entrare in alleanza con lui, ad essere la sua famiglia, la sua sposa (Es 6,2-8).. Si tratta di una scelta gratuita di Dio, dettata da un innamoramento (Dt 7,7-9). Il passaggio del Mare dei Giunchi è stato una nuova creazione: il «battesimo» di Israele come popolo. Ogni nuova creazione, come ogni liberazione, è coincidenza di morte e vita: libertà da una schiavitù ('abodah) disumana, libertà per un servizio ('abodah); morte ad una non identità e dispersione in Egitto, vita per una nuova identità e per una inedita vocazione. JHWH ha liberato Israele, perché solo da libero può scegliere di aderire al suo progetto di alleanza e di servizio. È al Sinai che Israele saprà cosa Comporti questa alleanza e questo servizio (cf Es 19,5-6): JHWH vuole fare di questo popolo la sua peculiare proprietà (segullah), un regno con la missione sacerdotale di rappresentare Dio dinanzi all'umanità e l'umanità dinanzi a Dio; una nazione (che avrà quindi terra e legge) chiamata ad essere santa, cioè a vivere e far trasparire la stessa vita e lo stesso stile di Dio. La vocazione d'Israele è la vocazione di Dio. Israele è ancora ignaro del dono e del compito che lo attende. Dinanzi ai suoi occhi il deserto, orrido ed ignoto.

La via del deserto

Perché Dio sceglie per Israele la strada del deserto, quando poteva condurlo per una strada più comoda (Es 13,17)?

Dt 8,2-5 risponde che è stato un test pedagogico della paternità di Dio. Nel linguaggio sapienziale del passo, il percorso del deserto è stato una scuola di sapienza e di correzione, dove il Padre «mette alla prova» il figlio, per togliergli le maschere del cuore, per educarlo alla ri-conoscenza (intesa nel suo duplice senso di riconoscimento e gratitudine). Nel deserto (midbar), cifra esistenziale dell'ambiguità e dei miraggi, Israele è stato chiamato a distinguere la Parola (dabar) dalle parole, a sperimentare la propria fragilità, la sconfitta delle proprie sicurezze per rendersi conto che la vita dipende unicamente da JHWH.

Dt 32,10-12 rilegge il cammino esodico come il tempo dello svezzamento premuroso:

«Egli lo trovò in una terra deserta... lo circondò, lo allevò, lo custodì come pupilla del suo occhio. Come un'aquila che veglia la sua nidiata... lo sollevò sulle sue ali».

Il deserto è stato il momento della crescita di un popolo neonato (per Ez 16 di una bimba trovatella), che prende coscienza della sua liberazione, e deve imparare a muovere i primi passi non solo verso «la terra», ma «alla presenza di Dio», accogliendone le direttive. In tutto il libro del Deuteronomio, il deserto si configura come una palestra di solidarietà, in cui si impara a diventare «fratelli», a condividere quanto viene offerto da Dio e a difendersi insieme.

Questi due testi, però, presentano una visione retrospettiva del cammino, che ha il respiro di chi è alle soglie della meta. Ma l'Israele presso il Mare dei Giunchi questo non lo sa. Il deserto si spalanca minaccioso davanti ai suoi occhi come morte, desolazione, come luogo inospitale e invivibile, spazio degli agguati e dimora degli spiriti maligni, dove bisogna avere i beni vitali essenziali, saper gestire bene le proprie forze per poterne uscire. Certo, nel cuore d'Israele c' è la memoria euforica della prodigiosa liberazione e il futuro delle promesse. Ma restano, non del tutto rimossi, due inquietanti interrogativi; il primo suggerito da Faraone, il secondo dal popolo: «II deserto bloccherà Israele?» (14,3); «Mosè, che ha fatto uscire Israele dall'Egitto, lo farà morire nel deserto?» (14,12). Alle spalle la morte di Egitto, davanti la «morte» del deserto. Parafrasando K. Barth, il deserto è come una porta: dietro si può trovare Dio o il diavolo. Israele è chiamato ad una scelta: saprà affrontare il rischio della sua libertà giovane e prepararsi a divenire quel che è? Saprà fidarsi di Mosè e di JHWH, che lo ha liberato e credere che si tratta di un tempo intermedio, ma obbligatorio, perché momento di nuda e necessaria verità? Oppure la difficoltà, la vertigine di questa libertà, ridesterà l'illusione e il rimpianto della falsa sicurezza della schiavitù? Nel primo caso il deserto può essere la chance della più completa intimità fra i partners, e della provvidenza di doni impensati nell'ottica di Dio; nel secondo, il deserto diventa lo spazio dell'insofferenza, della protesta, dello smarrimento. È per questo che nella memoria profetica d'Israele, il deserto sarà un simbolo ambivalente: in un certo filone (Os 2,16; Ger 2,2) viene letto in chiave ideale e positiva come il tempo del «fidanzamento»; ma in un altro filone profetico, il deserto non è stato altro che il tempo di una continua e crescente ribellione: «Ma gli Israeliti si ribellarono contro di me nel deserto; essi non camminarono secondo i miei decreti, disprezzarono le mie leggi, che bisogna osservare perché l'uomo viva» (Ez 20,13). Nel racconto dell'Esodo e dei Numeri, pur con differenze, ritroviamo quest'ultima pessimistica conferma: dal Mar Rosso al Sinai (Es 15-17) ed anche dopo il dono della Legge (Es 32; N m 11-12; 13-14; 16; 20; 21,4-9;

25,1-5) Israele non ha saputo cogliere questa chance.

Dal Mar Rosso al Sinai

Nel libro dell'Esodo, il cammino di Israele verso il Sinai si apre con Mosè, che leva l'accampamento presso il Mar Rosso (Es 15,22) e si chiude con l'accampamento davanti al monte (19,2). Il racconto del viaggio nel deserto si configura come un intreccio di episodi (Es 15,22-18,27) narrativamente autonomi, in luoghi non facilmente identificabili, di cui prospettiamo la sequenza:

a) 15,22-27 la mormorazione aMara

b) 16,1-36 le quaglie e la manna nel deserto di Sin

c) 17,1-7Ia mormorazione di Massa e Meriba a Refidim

d) 17,8-16 il combattimento contro Amalek a Refidim

e) 18,1-27 incontro di Mosè e Ietro - istituzione dei giudici a Refidim.

L'unità narrativa di questo intreccio è data dal «deserto», dagli attori Mosè, Dio, il popolo, presenti in tutti gli episodi, contornati di volta in volta da altri personaggi.

Una sorta d'inclusione c'è tra il primo episodio dove Dio «istruisce» (yrh) e impone delle direttive (hoq + mispathoq + torot 18,16.20). Sin dall'inizio c'è la compagnia di una istruzione che sarà codificata al Sinai, nella Torah. 15,25-26) e l'ultimo, dove il compito di Mosè è farle conoscere (

Ogni episodio presenta generalmente lo stesso schema: c'è una mancanza di un elemento vitale (acqua amara, carne-pane, acqua, difesa dai nemici, amministrazione della giustizia), e la soluzione di questa mancanza, per la mediazione di Mosè (gesto e/o invocazione), che assume un ruolo sempre più determinante.

JHWH appare sullo sfondo del racconto; parla direttamente solo con Mosè (ed Aronne), che è il suo portavoce. In ogni episodio la mancanza vitale fa emergere un suo «titolo» (il Medico 15,26; il Saziatore 16,29; il Vessillo 17,15; il Liberatore - Più grande di tutti gli dei 18,10-11; a Massa e Meriba appare invece sotto l'interrogativo del v.7).

Il popolo, particolarmente attivo nei primi tre episodi, non sembra far altro che «mormorare» (15,24; 16,2.7.8; 17.3), «mettere alla prova» (17,2.7) e «protestare» (17,2.7). Questa protesta scompare completamente negli ultimi due episodi.

Come un sinistro e seducente basso continuo in ogni episodio compare il termine «Egitto/egiziani», che ha un tono diverso sulle labbra degli Israeliti (15,26; 16,3; 17,3) e sulle labbra di Mosè, del narratore e di Ietro (16,1.6;18,1.8.9.10.11).

Massa e Meriba

Nel libro dell'Esodo l'episodio di Massa e Meriba (17,1-7) appare al centro del viaggio verso il Sinai. Si tratta di una tappa che ricapitola e costituisce il culmine delle reazioni negative del popolo dinanzi alle mancanze vitali, che si sono finora susseguite. Nel contempo, le conclude, perché sempre a Refidim, si svolgeranno, a quanto pare, gli altri due ultimi episodi del viaggio (combattimento contro Amalek e l'incontro con Ietro), senza alcun accenno di reazioni negative.

Il racconto attuale costituisce un'unità autonoma, delimitata stilisticamente dall'inclusione tra «l'assenza» ('yn) di acqua nel v.1b e la domanda sull'assenza ('yn) di Dio in mezzo al popolo nel v. 7. Appare una spiccata fraseologia giuridica di lite.

La sequenza narrativa assomiglia a quella dei precedenti episodi: a) quadro: il popolo si accampa a Refidim (v. 1); b) complicazione: manca del tutto l'acqua e il popolo spinto dalla sete protesta e mormora (vv. 1b-3); c) la «svolta»: Mosè invoca il Signore, che interviene, ordinandogli il percuotere la roccia con il bastone per far sgorgare acqua: Mosè esegue l'ordine (4-6); d) conclusione: il narratore offre un' eziologia e la chiave interpretativa dell'episodio.

La mormorazione d’Israele

Israele continua il suo viaggio. Quasi per ironia, nell'assonanza dell'ebraico, ogni tappa (ms') si è rivelata una prova (msh) di Dio. Si tratta di un test, che trova in una direttiva il proprio riferimento. Proprio nella prima difficoltà a Mara, Dio aveva dato a Mosè una «istruzione», che è nel contempo un limite (hoq). La bussola è una Parola, che finora si è dimostrata fedele; rispettarla è garanzia di protezione e di rotta ed impedisce di ricadere nella logica degli Egiziani. Mosè è il portavoce privilegiato di questa parola salvifica. Nel deserto Israele può fare solo questo: se non conosce la pista concreta, ha però una rotta precisa: ascoltare la voce del Signore e prestare orecchio ai suoi ordini (15,26). Sorge ancora una volta il problema di una mancanza vitale, che nel deserto è la mancanza per antonomasia. L'assenza totale d'acqua sembra tradire l'assenza di JHWH (cf v. 1 e v.7). La reazione del popolo è progressiva: la sete scatena la «protesta» e cresce in una «mormorazione» contro Mosè. La mancanza sfocia in un conflitto.

Soffermiamoci su questa reazione del popolo. Israele «protesta» contro Mosè. Il verbo usato (ryb) oltre ad avere un senso generico di protesta, scontentezza, rimprovero, che rivendica un diritto, è squisitamente termine tecnico giudiziale, il verbo della contesa bilaterale, dove i due contendenti devono risolvere la lite senza l'intervento di un terzo giudice. È lo stesso verbo che ritroviamo sulle labbra di Geremia e di Giobbe, che citano Dio in giudizio (Ger 12,1; Gb 9). Qui Israele mette sotto processo Mosè.

Israele «mormora» contro Mosè. Il verbo usato (lwn) ha il senso di brontolare, biasimare qualcuno, specie se è un capo; Israele critica la guida di Mosè. Ma processare e criticare Mosè, in realtà, è un processare e criticare Dio; Israele lo dimentica, il lettore lo sa dalle pagine precedenti (16,7-8); Mosè qui lo ripete, smascherandolo come un «mettere alla prova» (nsh) JHWH.

Forse uno dei testi più densi, in una situazione analoga, che riassume questo «mettere alla prova Dio», si trova nel libro di Giuditta. La città di Betulia è assediata dagli Assiri e il popolo è demoralizzato per la mancanza d'acqua; in preda all'esasperazione mette sotto processo il re e preferisce diventare schiavo degli Assiri, consegnando la città al saccheggio, se entro cinque giorni il Signore non interverrà. Dio appare come «colui che li ha venduti» (7,25) per farli morire di sete e di mali. A questo punto è Giuditta, a richiamare i capi alla saggezza:

«Chi siete voi che avete tentato Dio in questo giorno, evi siete posti al di sopra di lui, mentre non siete che uomini ? Certo voi volete mettere alla prova Dio onnipotente, ma non ci capirete niente, ne ora ne mai. Se non siete capaci di scorgere il fondo dell'uomo ne di afferrare i pensieri della sua mente, come potete scrutare il Signore, che ha fatto tutte queste cose, e conoscere i suoi pensieri o comprendere i suoi disegni? No, fratelli, non vogliate irritare il Signore nostro Dio. Se non vorrà aiutarci in questi cinque giorni, egli ha pieno potere di difenderci nei giorni che vuole o anche di farci distruggere. E voi non pretendete di impegnare i piani del Signore Dio nostro, perché Dio non è come un uomo che gli si possano fare minacce e pressioni come uno degli uomini. Perciò attendiamo fiduciosi la salvezza che viene da lui, supplichiamolo che venga in nostro aiuto e ascolterà il nostro grido, se a lui piacerà» (8,12-17).

Tentare Dio significa prendere il posto di Dio ed insegnargli il mestiere, pretendere una manifestazione tangibile del suo potere, ed imporgli le proprie scadenze. La fiducia di Giuditta nasce dalla sapienza di chi sa che Dio ha i suoi ritmi e le sue scadenze imprevedibili per l'uomo, ma a cui resta puntualmente fedele, come Egli stesso ricorda (Sal 75,3; Is 5,19; Ez 12,21-28).

Nel nostro testo «tentare Dio» significa ribaltare i ruoli, perché solo lui può «mettere alla prova» Israele (15,25; 16,4) donando un'istruzione e una «strada» in cui Israele deve camminare (16,4.28). Questa prova è un atto di amore secondo Sir 2,1-18, che mira a purificare il cuore e a crescere nel «timore di Dio», inteso non come paura, ma come rispetto reverenziale e fiducia in Lui, come unico Signore.

«Tentare il Signore» si traduce nel «mormorare». Mormorare contro Dio significa assenza di memoria. Israele dimentica JHWH, Signore unico della vita, che ha rivelato il suo potere sul cosmo in Egitto, che ha protetto i figli e il bestiame d'Israele (Es 9,3-4; 11,7; 12,12.31) ed ha trasformato il mare in terra asciutta; così come dimentica che è stato lui, nelle tappe precedenti, a trasformare le acque amare in acqua potabile, a donare carne e pane nel deserto.

Ma mormorare significa soprattutto rinnegare l' esodo, traviare il senso dei fatti. Ciò emerge nella domanda sarcastica: «Perché ci hai fatti uscire dall'Egitto nel deserto, per farci morire di sete?» (17.3). Israele legge l'Esodo come cammino verso la morte, non verso la vita: come già era accaduto (14,11-12;16,2) perde di vista la terra promessa, vede il deserto non come luogo di passaggio, ma come «sepolcro» per sempre, beffa, o tradimento di un Dio sadico, o impotente (N m 14,15-16; Gs 5,9). Riemerge nel termine «Egitto» il cuore schiavo d'Israele, la nostalgia del passato, il rifiuto della libertà del presente e della vocazione futura: in altre parole significa ripiombare nella logica di Faraone. Se ripensiamo a Es 16,2 il popolo, come Elia, Geremia, Giobbe e Giona, preferisce morire, anziché accettare e dare ragione alla logica di Mosè e di Dio.

La svolta avviene con il grido-querela (s'q) di Mosè, che fa intervenire Dio, come a Mara (15,25). È un grido che nasce non soltanto dalla paura di essere lapidato; in gioco non c'è soltanto la sua vita, ma anche il nome di Dio ed il senso dell' esodo. La preghiera di Mosè è la reazione antitetica alla mormorazione e nasce dalla fiducia nell'intervento di Dio. Dio ordina a Mosè di percuotere la roccia, con lo stesso bastone con cui aveva percosso il Nilo. È uno strumento che fa memoria di una salvezza già avvenuta e disponibile. Mosè deve passare «davanti» al popolo, mentre Dio starà «davanti» a Mosè sulla roccia nell'Oreb. In questa posizione Mosè appare come «sacerdote», unico intermediario tra il popolo e JHWH. Il prodigio in se non viene descritto, ma si dice brevemente che Mosè eseguì l' ordine sotto gli occhi degli anziani, testimoni privilegiati e rappresentanti ufficiali del popolo. Diversamente dal racconto di Nm 20, non si accenna a nessuna reazione di fede, o incredulità del popolo, ne a qualche punizione o castigo.

«Il Signore è in mezzo a noi sì o no?»

Il racconto termina con una chiosa del narratore che spiega i toponimi Massa (= prova) e Meriba (= contestazione), ricapitola l'episodio e ne interpreta il senso con l'interrogativo: «Il Signore è in mezzo a noi sì o no?». Se si legge il testo, ci accorgiamo che gli Israeliti non hanno mai fatto questa domanda. Non è la prima volta che il narratore esplicita parole mai dette dal popolo (cf 14,12). L'interrogativo rimette in discussione i precedenti titoli positivi di Dio compagno e aiuto nel cammino, il nome stesso di JHWH e della sua presenza in mezzo al popolo: nome che significa capacità di agire (3,12-15; 8,8). Il narratore lo lascia volutamente aperto ed è un invito a rileggere il racconto: perché e per chi? Per i lettori di sempre, dell'Israele che rilegge la storia e di noi che la rileggiamo oggi. Ecco allora che nel racconto dell'Esodo, «il giorno di Massa e Meriba» diventa un tragico anticipo del peccato di Es 32 (il vitello d'oro) e trascende un preciso momento storico per abbracciare tutta la storia e giungere al cuore della questione capitale del rapporto tra Israele e Dio. In questa parabola sapienziale il narratore retroproietta tutte le domande, i «deserti» e le «seti» dei momenti più drammatici di Israele, soprattutto la domanda e il deserto dell'esilio: «E forse la mia mano troppo corta per riscattare, oppure io non ho la forza per liberare?» (Is 5,20). Non si tratta di un quesito filosofico, né tantomeno della domanda di un ateo. È la domanda del saggio o dello stolto, ambedue in difficoltà nel capire l'eloquente «silenzio» di

Dio. Il lettore viene chiamato a decidere, a dirimere la «lite» tra JHWH e il popolo alla luce di quanto è accaduto e sa; è sempre il lettore che deve riconoscere la «presenza» di JHWH nell'«assenza» dell'acqua e nell’agire di Mosè. La risposta è sapienziale, perché riguarda due giudizi di valore: quello del popolo che stravolge il senso dell'esodo, interpretandolo come cammino di morte, strategia di un Dio sadico o assente. Quello di Mosè e degli anziani per cui Dio continua ad essere presente nell'assenza, a ripetere i suoi gesti salvifici. La scelta è anche fra due atteggiamenti dinanzi allo stesso bisogno o assenza: protestare contro Dio o supplicarlo come Mosè. I due atteggiamenti possono coincidere, come per Giobbe, Geremia, Abacuc (Ab 1,2): è possibile chiamare in causa Dio in una querela, che nasce dalla fede e si fida, pur inquieta, del suo disegno. Implicitamente il lettore è invitato ad avere gli occhi di Mosè e degli anziani e a far loro riferimento. Nell'abbandono della fede, come per Giobbe, è possibile approdare da una «conoscenza per sentito dire» di Dio ad una visione o esperienza fatta sulla propria pelle (Gb 42,5); ma questa sapienza passa inevitabilmente per la «lotta» di Giacobbe con l'Altro (Gn 32,23-33).

Il NT ha riletto il cammino del deserto come paradigma dell'esperienza cristiana: la prova autentifica la vocazione dei figli di Dio (cf 1 Cor 10). In particolare, nel sermone agli Ebrei, Massa e Meriba diventano paradigma del rischio e della crisi del credente, tra il già del battesimo e il non ancora della meta. Nel «viaggio», abbiamo il viatico e la bussola di una Parola viva ed operante, che chirurgicamente mette a nudo la verità del nostro cuore (Eb 3,7-4,13).

È in Gesù che troviamo risolto il ryb, la contesa tra il popolo e Dio. Figlio di Dio e Figlio dell'Uomo, nel corso del suo ministero si presenta con i titoli di JHWH: è il Medico (M c 2,17), il Saziatore (M c 6,41), l'acqua viva (Gv 4,13), nonché il vessillo salvifico (Gv 3,14) e la giustizia di Dio (1 Cor 1,30). Ma è soprattutto il Dio in mezzo a noi, l'Emanuele (Mt 1,22; 18,20; 28,20). Anche lui subisce le mormorazioni della gente, che contestano la sua Parola e Il suo modo di agire, fino a metterlo sotto processo.

Gesù ha sperimentato il deserto, accettando la prova (Mt 4,1-11). Ma è sulla croce, che ha avuto sete (Gv 19,28). Se al Getsemani ha lottato come Giacobbe (Lc 23,44), sul Golgota Gesù non solo attraversa, ma diventa il deserto stesso di Dio. Il suo grido-protesta «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?» (Mt 27,45; Mc 15,34) si traduce in fiducioso abbandono al Padre: «Nelle tue mani consegno il mio spirito/gola» (Lc 23,45). Ed il Padre lo trasforma in sorgente di acqua viva per l'umanità (Gv 19,34).

(da Parole di vita, 4, 1997)

In cammino con Dio

Es 15: Il canto del mare

di Guido Benzi

Il Canto del Mare segue immediatamente la narrazione del passaggio miracoloso del mare dei Giunchi da parte degli Ebrei. Si tratta di un inno epico, nel quale si fondono i temi della vittoria e della salvezza operate da Dio in favore del suo popolo, onde poterlo far giungere alla «santa dimora». Il Canto del Mare segue immediatamente la narrazione del passaggio del mare, ma se ne discosta, anzi si innalza, e questa sua prospettiva dal respiro epico travolge tempi e momenti: essa parte da un «qui» ed un «ora» (15,1) che è il momento in cui Israele ha passato il mare e le acque hanno travolto l'esercito egiziano, ma enumera poi in una rapida carrellata i popoli (Filistei, Edom, Moab, Canaan) che lo separano dalla meta, fino a intravedere questa meta, il «monte della tua eredità», il «santuario che le tue mani hanno fondato» (v. 17), dunque più in là del Sinai, più in là del Giordano, sulla soglia del Tempio.

Possiamo veramente dire con alcuni commentatori moderni che il Canto del Mare è come lo srotolarsi di un tappeto rosso che dal fondo del mare entra nel cuore del Tempio di Gerusalemme. Dunque inno epico, nel senso che fa di un evento una figura capace di interpretare l'intera storia di un popolo, e dell'umanità. Figura in movimento di danza, con la voce di Mosè, in contraccanto a quella di Miriam, ed il suono dei cembali. Figura di un popolo perennemente in cammino tra il Santuario e la Croce, come magistralmente ha interpretato Marc Chagall, nel suo «Le passage de la mer Rouge». Poema che diviene visione dell'intera storia vissuta da Israele, non solo nel suo Esodo dall'Egitto, o nel suo vagare nel deserto, ma in ogni tempo. Momento di sosta, respiro lungo, esplosione di gioia e ringraziamento dopo la tensione raccontata dalla narrazione dell'Esodo. Celebrazione di un atto di fede che ha per contenuto la coscienza di una vocazione: essere popolo, popolo di Dio, da Lui salvato, educato, «piantato» come segno per tutta l'umanità dell'amore di Dio, perché «il Signore regna in eterno e per sempre!».

1. Un testo che sfugge ad ogni classificazione

In effetti il Canto del Mare è un testo «sfuggente» nel senso che da un lato è molto chiara la sua funzione, quella di celebrare in senso poetico il passaggio del mare, lasciando poi che l'ombra di tale evento capitale si prolunghi su tutta la storia di Israele, dall'altro però tale testo non si lascia del tutto catturare dagli strumenti, anche i più sottili, dell' analisi esegetica. Non è questa la sede di pignole discussioni filologiche, ma non può essere passato sotto silenzio il fatto che già solo la considerazione dei tempi verbali di questo inno pone molti problemi irrisolti: il maggiore dei quali sta nel passaggio continuo dai passati ai futuri (le cui forme nell'ebraico sono assimilabili). Questo avviene soprattutto nel v. 9 e nei vv. 16-17 ed è in quest'ultimo passaggio che si pone un interrogativo: l'entrata nella terra promessa è concepita come un evento futuro o passato? Si tratta di un canto «profetico», o di una celebrazione molto posteriore? Gli studiosi sono incerti, anche se è chiaro che, comunque vada, nel momento in cui il Canto è stato redatto, Israele ha già piena coscienza della sua identità di popolo di Dio, da Lui salvato e costituito.

Anche dal punto di vista dell'analisi della forma letteraria del Canto non troviamo unanime consenso. Inno, salmo d'intronizzazione, litania, salmo di vittoria, salmo di ringraziamento: ognuna di queste denominazioni trova almeno un riscontro nel testo, e tuttavia il Canto del Mare nella sua interezza non ne rispecchia con chiarezza nessuna. Certamente il Canto contiene elementi innici con particolare riferimento alla grandezza di Dio (6-11). I versetti di apertura sono tipici del salmo di ringraziamento. Vi sono ripetizioni che sarebbero ritornelli litanici. La formula «II Signore regna» è tipica dei salmi di intronizzazione. E certamente si tratta di una celebrazione di vittoria. Il contesto globale suggerisce dunque che il Canto sia nato originalmente come inno di vittoria e che poi si sia ampliato in nuove e successive utilizzazioni di tipo celebrativo e cultuale, e tuttavia non ci sono argomentazioni forti per appoggiare tale teoria.

Nemmeno la sequenza dei fatti narrati nel Canto offre uno spunto di organizzazione. Essa non segue affatto la narrazione di Es 14, anche se ne conserva qualche spunto nei vv. 8-10. Considerando questa «libertà» del Canto esso si avvicina di più alle rievocazioni storiche fatte dai salmi (78, 105, 106), anzi ne sarebbe il prototipo.

Dunque, la denominazione scelta in questo articolo, di inno epico, non si basa su considerazioni di tipo formale, ma su considerazioni di tipo contestuale: di fatto il Canto del Mare, così come 10 si trova oggi nella narrazione dell'Esodo, ha un valore rievocativo che decisamente supera i confini ristretti della storia e delle forme in cui è nato.

Quanto detto pone anche il problema (pure questo irrisolto) della datazione di questo inno. Tralasciando ogni indicazione di data (che comunque anche nei più noti autori è alquanto vaga: essi oscillano infatti tra il XIII ed il V sec. a.C.) possiamo valutare gli argomenti a favore o contro di una tradizione antica o alquanto recente. Di fatto possiamo affermare con Childs che il Canto del Mare appartenga alla tradizione dell'Esodo, cioè che si inserisca nell'ambito di una tradizione narrativa già sviluppata sebbene esso presenti l'evento del mare come una vittoria sugli Egiziani piuttosto che l'uscita dall'Egitto. In secondo luogo va registrato che il Canto presenta la tradizione del mare connessa alla tradizione della conquista della terra promessa, che va presupposta.

Riguardo al rapporto tra la tradizione del mare descritta in Es 15 e quella descritta in prosa, va notata una certa differenza (segnata anche dal genere diverso tra prosa e poesia) ma si deve affermare comunque una consonanza. Il Canto descrive una doppia azione del mare. Le acque si ammassano al soffio di Dio (v. 8) e poi sempre per il soffio di Dio ricoprono il nemico (v. 10). L'effetto del vento è quello di «congelare» le acque. Appaiono anche i due elementi presenti nella narrazione delle fonti J e P cioè il vento e la muraglia d'acqua (14,21-22). In che rapporto sta Es 15 con J e P? Es 15 apparterrebbe ad una tradizione parallela al più antico racconto di J e questo manifesterebbe la antichità della tradizione del mare. A testimoniare una datazione assai antica concorrono anche argomenti di tipo filologico i quali forniscono una base abbastanza certa. Si può certo pensare ad arcaismi, normalmente presenti nel linguaggio poetico, ma la coerenza delle ricorrenze starebbe a testimoniare una certa genuinità.

Un particolare non di poco interesse è il rapporto tra il Canto del Mare, attribuito a Mosè, e la strofa attribuita a Miriam nel v. 21. Alcuni commentatori (Noth, Boschi) ed in generale la scuola tedesca, hanno pensato che si tratti del primo nucleo del Canto, di datazione assai antica, di tradizione E. Altri studiosi, di scuola anglosassone, seguendo Albright, hanno sostenuto che si tratti semplicemente del titolo del Canto, o eventualmente del ritornello. Con Childs notiamo che tali disquisizioni si affidano a degli argomenti congetturali assai deboli.

In conclusione anche dalla complessità della storia redazionale e testuale del Canto del Mare, notiamo la sua importanza nell'ambito della narrazione dell'Esodo, ed anche nell'ambito della celebrazione cultuale del prodigioso intervento di Dio in favore del suo popolo.

2. Struttura e ritmo

Anche la struttura di Es 15,1-21 è stata assai studiata. Certamente il v. 1 ha un suo posto particolare, sia per l'uso della prima persona singolare, sia per la sua ripresa al v. 21, che conclude questa sezione dei due canti.

Anche il v. 18, ha una sua particolarità, e richiama le acclamazioni cultuali del tempio o il grido di celebrazioni di intronizzazione.

Il brano in prosa del v. 19 sembrerebbe una cucitura redazionale ad opera del redattore sacerdotale (P), il quale richiama l'evento del mare per saldare i due inni al racconto di Esodo.

I vv. 20-21 restituiscono il contesto narrativo e il testo del Cantico di Miriam.

Rimane da esaminare la struttura di 2-17. Molte sono le strutturazioni proposte: Boschi propone una strutturazione di tre stanze divise in quattro strofe l'una. Noth nota un punto di cerniera nei versetti 12-13 ponendo in sequenza i tre atti redentivi di Dio: stendere la destra, guidare, condurre alla meta.

Sembra comunque assai saggio notare che il Canto si divide tematicamente in due grandi ante: il prodigio del mare e il passaggio di Israele tra i popoli. Così va preferita la suddivisione più semplice suggerita da Alonso Schökel: 1-3 introduzione innica con elementi specifici e generici; 4-12 sconfitta degli Egiziani nel mare ad opera dell'azione di Dio (va notata l'inclusione del tema della «destra» in 6 e 12); 13-18 Israele passa tra i popoli fino alla visione del Santuario. Si tratta di un dittico assai espressivo: come le acque all'intervento di Dio si ergono a muraglia, così i popoli «restano immobili come pietra».

Resta da dire qualcosa sul ritmo poetico adottato: si tratta prevalentemente di un ritmo binario, scandito anche dall'uso di ripetizioni.

3. Da canto di vittoria a professione di fede

Il contesto in cui è collocato il Canto del Mare è chiaramente un contesto di vittoria sugli Egiziani. Tuttavia abbiamo visto come questa vittoria si arricchisca via via di tutti gli elementi del cammino di Israele fino alla terra promessa e alla visione del Santuario. Abbiamo notato come la storia della redazione di tale testo sia una storia complessa, che non va trascurata, ma che neppure va enfatizzata a discapito della sua collocazione attuale nel libro dell'Esodo. Notiamo un elemento di continuità ed uno di discontinuità che danno a pensare.

La continuità sta nel fatto che il Canto del Mare è appunto presentato come canto di vittoria, appena passato il Mare dei Giunchi. Canto di vittoria, ma anche di scampato pericolo. Esso sostanzialmente ripete ciò che il racconto in prosa ha già fissato, ma lo ripete in modo poetico, cioè dal «di dentro» del sollievo e della gioia che esplode di fronte alla salvezza. Esso dunque ha un effetto «corale» molto interessante, perché esprime, attraverso una sorta di ripiegatura all'interno del racconto, il «sentire» di coloro che sono impegnati nello svolgimento della narrazione.

Ma proprio qui sta l'elemento di discontinuità. Di lettura in lettura, di passaggio in passaggio, il Canto del Mare si è arricchito (ed ancora in qualche modo si arricchisce) della voce di coloro che lo leggono, anzi di coloro che lo recitano nell'assemblea del Signore. Per cui non è solo più vittoria sull'Egitto, ma diviene vittoria sulla Filistea, su Moab, Edom, Canaan. Diviene un inno alla vittoria perenne che Dio opera in favore del suo popolo.

Nella sezione introduttiva di 1b-3 e nella sezione che narra la vittoria sugli Egiziani (4-12), predomina il costante attributo della vittoria a Dio. Scompare ogni attore (Mosè, Aronne, il popolo), Dio solo è colui che opera il prodigio e la vittoria. Anche il nemico viene citato in modo specifico solo in un punto (v. 4: riferimento ai carri, esercito, capi del faraone) mentre nel resto del Canto lo si cita genericamente. Dio, padrone del cosmo, al quale si piegano in obbedienza gli elementi della creazione (acque, vento, fuoco, pietra), è anche colui che salva, colui che abita la storia, che dona vittoria al suo popolo.

Nella sezione che narra la vittoria sui popoli, si canta Dio come il pastore del suo popolo (al v. 13 va preferita la traduzione di Boschi «l'hai condotto al suo pascolo santo»), che lo guida con la sua provvidenza, alla terra promessa e al Santuario.

Di fatto va notato come questo canto di vittoria abbia tutte le caratteristiche di una professione di fede come sottolinea anche il v. 14,31: Credettero a Dio e a Mosè suo servo. Si tratta dunque di una vera e propria interpretazione della storia alla luce dell'azione di Dio, una azione di salvezza, che ancorata in un momento preciso della storia di Israele (14,30 Quel giorno...) si estende a tutto il futuro, fino all'eternità (Ap 15,3).

(da Parole di vita, 4,97)

Martedì, 18 Settembre 2007 01:38

Lezione Dodicesima. L'esperienza dell'esilio

Lezione Dodicesima

L’ESPERIENZA DELL’ESILIO

 



«Dopo la caduta di Gerusalemme
fui trasferito in Babilonia
e là Israele fu
quale nave senza nocchiero»

(Poesia di chiusura della Megillà di Puru)

1. L’Evento storico

Sotto il nome di esilio si designano le deportazioni in Babilonia dei notabili del popolo d’Israele, vinto ed assoggettato militarmente dalla potenza caldea. Questo fenomeno era comune nell’Oriente antico: la deportazione delle classi dominanti dal punto di vista economico, politico e spirituale, era una misura preventiva contro eventuali insurrezioni (cfr. Am. 1).

Search