I Dossier

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Teologia africana.
E continuiamo a interrogarci

di Benoît Awazi Mbambi Kungua

Una carrellata sulla teologia africana ci rivela come questa disciplina abbia fin dall’inizio trovato il suo senso fuori dalle biblioteche, là dove il cammino di liberazione dei popoli africani cerca di aprirsi un sentiero.

1956. Esce in libreria Des prêtres noirs s’interrogent (Éditions du Cerf), lavoro collettivo di un gruppo di preti neri, africani e haitiani che a Roma stavano approfondendo la loro formazione teologica. Avevano voluto affrontare apertamente, per iscritto, la questione della loro identità nella chiesa cattolica romana. Erano consapevoli di come l’impiantazione della chiesa nell’Africa subsahariana fosse andata di pari passo con il processo di colonizzazione militare, politica ed economica. La collusione storica e tragica fra l’impresa colonizzatrice e l’evangelizzazione aveva determinato in grande misura la ricezione del cristianesimo da parte degli africani. Quel libro - pubblicato alla vigilia delle indipendenze politiche formali - svelava la fonte e l’orientamento teologico-politico ed emancipatore del “discorso teologico neroafricano”.

A cinquant’anni di distanza, il pensiero teologico neroafricano contemporaneo può essere individuato in alcuni assi principali che andiamo a esaminare concisamente.

Nel 1960, anno dell’indipendenza dell’attuale Repubblica democratica del Congo, nella capitale Léopoldville (oggi Kinshasa) si svolse una pubblica disputa tra un giovane sacerdote, Tharcisse Tshibangu Tshishikuiku - attualmente arcivescovo di Mbuji-Mayi - e un suo professore belga, padre Alfred Vanneste. Oggetto del contendere era la possibilità scientifica di un discorso teologico neroafricane autonomo, culturalmente nonché politicamente e socialmente incarnato. Era una possibilità che il giovane prete difendeva con fermezza e che il suo oppositore escludeva con altrettanta decisione. Per Vanneste, la cattolicità della chiesa comportava ipso facto l’adozione pura e semplice delle elaborazioni teologiche, canoniche e dogmatiche europee e romane.

Sostenere quest’ultima posizione era, all’epoca, perfettamente comprensibile; non lo è più oggi, quando una pluralità di teologie neroafricane hanno voltato le spalle alle “tenebre” e agli appesantimenti dell’etnocentrismo occidentale e coloniale.

Nell’attuale congiuntura mondiale è più che mai necessario interrogarsi seriamente sulle alternative teologiche e spirituali provenienti dalle giovani chiese d’Africa, Asia e Sud America: qui si sperimenta una rapida crescita demografica e un’evidente vitalità della loro prassi teologica, liturgica, politica, sociale ed ecclesiale. Nelle alternative teologiche neroafricane va riconosciuta una netta volontà di resistenza spirituale e culturale alle ideologie nichiliste, consumistiche e atee propagate anche da certe reti occulte che controllano i movimenti dei capitali e del sapere su scala planetaria.

L’opera che ha saputo ripercorrere con talento e genialità le grandi tappe del processo di riappropriazione neroafricana del cristianesimo è indubbiamente Discours théologique négro-africain del congolese Oscar Bimwenyi-Kweshi: edita a Parigi da Présence Africaine nel 1981, mise il punto finale al dibattito sulla legittimità di una teologia africana autonoma.

Le cristologie

Il Nome - con il connesso processo del nominare - rappresenta in tutte le culture una modalità ontologica di conoscere l’altro e di penetrarne il mistero. Nelle tradizioni neroafricane, dove la scrittura non ha lo stesso significato filosofico e politico che riveste nelle culture occidentali di radici greco-latine, la parola viva, orale, pronunciata su una persona permette di iniziare un dialogo e una relazione di conoscenza reciproca. Per chi si sia preso il tempo di osservare con attenzione le società africane nella loro quotidianità, la preponderanza delle relazioni interpersonali e orali appare come un’evidenza. Il primato del relazionale, dell’orale e dell’invisibile costituisce un criterio epistemologico importante per capire dall’interno le culture neroafricane.

L’etnografia coloniale ha a lungo diagnosticato questa propensione all’oralità come un mero deficit di filosofia, civiltà, cultura e pensiero scientifico. L’assenza di tracce scritte assimilabili a quelle esistenti nelle civiltà europee è servita da base “scientifica” agli ideologi della colonizzazione, con le conseguenze catastrofiche che sappiamo. Si rivela, perciò, particolarmente importante prestare interesse alle elaborazioni teologiche e orali delle chiese afrocristiane e terapeutiche “del risveglio” (di derivazione evangelica) che si vanno sviluppando. Cristo diventerà africano nella misura in cui riceverà dei Nomi culturalmente, spiritualmente e teologicamente significativi, probanti e pertinenti per le culture neroafricane.

Le cristologie rappresentano, dunque, dei tentativi originali e popolari di rendere familiare e comprendere il mistero del Dio fatto uomo, crocifisso e risorto, e di entrare in relazione con esso. Per questo, gli africani chiamano Cristo “Proto-antenato”, “Maestro d’iniziazione”, “Capovillaggio”, “Liberatore”, “Salvatore”...., Il titolo più utilizzato dalle comunità carismatiche e terapeutiche del risveglio per definire Cristo è, invece, “Esorcista” e “Taumaturgo”. Il rilievo dato dai cristiani africani delle chiese carismatiche, pentecostali e terapeutiche alla guarigione divina costituisce una dimensione primordiale ed esemplare nelle cristologie africane contemporanee.

Liberazione

Non si darà vera liberazione teologico- politica senza la volontà tenace degli africani di guardare in faccia la propria storia. La disintegrazione totale delle strutture istituzionali, sociopolitiche e religiose impiantate dalla colonizzazione nel 19° e 20° secolo è il sintomo palese dell’aggravarsi della crisi postcoloniale.

Il teologo che più di altri ha espresso e incarnato questa storia tragica - nella sua azione, nell’impegno intellettuale, sacerdotale, artistico e sociopolitico, nella sua stessa vita - è Engelbert Mveng. Lui, che vedeva con lucidità come il complesso di cause della crisi neroafricana si collocasse a livello antropologico e ontologico, visse tutta la sua vita cosciente del destino tragico che attende ogni profeta. Denunciò - a tempo e fuori tempo, come una sentinella - le potenze di morte che stanno alla base delle strutture capitaliste e militari internazionali che strangolano i paesi africani. Fu assassinato il 23 aprile 1995, nella sua abitazione di Yaoundé (Camerun): gli furono esportati gli organi genitali e il cervello, senza dubbio utilizzati in qualche rito satanico e magico.

Siamo qui nel baricentro del discorso teologico neroafricano. Il futuro del cristianesimo nel continente si sta giocando sulla capacità delle chiese di gestire in modo lucido, teologico e responsabile la vasta e problematica questione della stregoneria e dei riti magici, in evidente recrudescenza. Quale cristologia promuovere per attrezzare teologicamente e politicamente i cristiani africani costretti a esercitare la loro storicità in società guidate da regimi apertamente cannibali, diabolici e macabri?

A proposito di questo orientamento profetico della teologia neroafricana della liberazione, è giusto fare memoria dei vescovi che hanno obbedito alla loro vocazione profetica con audacia e intrepidezza, fino al dono della vita. Christophe Munzihirwa ed Emmanuel Kataliko, per esempio, due vescovi congolesi che non hanno indietreggiato davanti alla tirannia sanguinaria del dittatore ruandese Paul Kagame - sostenuto da una impressionante logistica, garantita dalle potenze occidentali - nel suo tentativo di annettersi il Kivu, la ricca regione orientale della Repubblica democratica del Congo, i cui minerali sono tanto necessari alle industrie occidentali.

Alla stregua di Mveng, Kataliko e Munzihirwa sono figure di primo piano della patristica neroafricana.

Ed è nell’atmosfera sociopolitica e culturale di proliferazione e banalizzazione della stregoneria e delle pratiche magiche che va salutata l’audacia profetica e teologica delle cristologie carismatiche e mistiche promosse dal gesuita camerunese Meinrad Hebga. Con l’aperto incoraggiamento dato a una cristologia terapeutica e mistica della liberazione, il teologo hanno anticipato con perspicacia, fin dai primi anni Ottanta, la questione della gestione teologica dei problemi legati alla stregoneria nei grandi agglomerati urbani.

Il completo controllo esercitato dalle società esoteriche e occulte internazionali sulla quasi totalità dei paesi africani rende urgente la promozione di una cristologia terapeutica della liberazione teologico-politica. E’ la sovranità assoluta, escatologica e terapeutica di Dio sulle potenze della morte che viene invocata dai teologi esorcisti come Hebga e Milingo. Le nuove chiese del risveglio nelle loro liturgie praticano abitualmente l’esorcismo e la preghiera di guarigione spirituale. Siamo davanti a un turbine nel quale si sta già giocando l’avvenire del cristianesimo nelle società neroafricane: non solo nelle megalopoli del continente, ma anche nelle diaspore europee (Londra, Amsterdam, Berlino, Losanna e Bruxelles, Parigi e Roma…..) e dell’America settentrionale (New York e San Francisco, Chicago, Ottawa, Quebec...).

Ma non possiamo chiudere questa pagina dedicata alla teologia della liberazione senza segnalare l’opera prolifica e profetica di Jean Marc Éla, teologo camerunese in esilio a Montréal. Da trent’anni Éla incarna una tendenza vigorosa e iconoclasta della teologia dell’emancipazione teologica, politica ed economica delle classi popolari. La sua teologia è una lettura neroafricana del libro dell’Esodo a partire dalle preoccupazioni teologiche, spirituali, terapeutiche, politiche ed economiche degli emarginati e dei più poveri, che rappresentano la grande maggioranza delle società africane. E’ una teologia che stigmatizza la dominazione politica, economica, ideologica e teologica che continua a essere esercitata dalle chiese occidentali sulle chiese locali d’Africa in nome di una visione e di una pratica eurocentriche ed etnocentriche della cattolicità.Jean Marc Éla ha consegnato la sintesi della sua teologia in una sorta di summa, uscita due anni fa: Repenser la théologie africaine (Karthala).

Ben più che un cenno fugace meriterebbe la critica teologica e filosofica al cristianesimo coloniale operata da Fabien Eboussi Boulaga, anch’egli camerunese. Di cui citiamo almeno due opere: La crise du Muntu (Présence Africaine, 1977) e, per lo stesso editore, Christianisme sans fétiche (1981). Melchior Mboninmpa ha attualizzato il pensiero di Eboussi Boulaga in Défjs actuels de l’identité chrétienne (L’Harmattan, Paris,1996).

Ricostruzione

È il pastore luterano congolese Kä Mana il principale esponente della teologia della ricostruzione in ambito francofono. La problematica della “ricostruzione” è nata fra i teologi protestanti della Conferenza delle chiese di tutta l’Africa (Aacc/Ceta), nell’intento di proporre un nuovo paradigma - epistemologico, pastorale, etico, politico e teologico - ai cristiani africani, in una situazione in cui i paesi africani hanno raggiunto una sovranità politica formale e in Sudafrica è stato smantellato l‘ultimo bastione del razzismo e del totalitarismo, il compito fondamentale della teologica africana oggi non è più tanto quello di inculturare la fede cristiana o di liberare gli africani dal giogo del razzismo colonialista, ma di ricostruire, a livello teologico, etico, politico, economico, sociale e culturale, le società acefale e senza legge dell’Africa postcoloniale.

La ricostruzione s’ispira al modo in cui Dio gestisce le grandi crisi dell’umanità nella Bibbia (la caduta originale, l’espulsione dall’ Eden, l’esodo, la liberazione dalla schiavitù d’Egitto, l’esilio, il ritorno e la riedificazione del tempio...). Questa teologia sollecita gli africani a scuotersi da un torpore secolare e a dare vita a società politicamente, economicamente e moralmente viabili, capaci di far fronte agli attacchi della globalizzazione neoliberista, i cui criteri di competitività, di produttività e di crescita marginalizzano e indeboliscono considerevolmente le società neroafricane contemporanee.

Le opere fondamentali di questa corrente teologica sono quelle di Kä Mana: da LAfrique va-t-elle mourir? (Karthala, 1991) a Bousculer l’imaginaire africain (Cerf, 1993), seguite da Théologie africaine pour un temps de crise, Christs d’Afrique, La nouvelle évangélisation de l’Afrique (tutte per Khartala, fra il 1993 e il 2000).

In Africa occidentale

Dovendo scegliere tra i numerosi teologi di questa regione del continente (Éfoé-Julien Pénoukou, Anselme Titianma Sanon, Jean-Claude Djéréké…), ci soffermiamo su Barthélemy Adoukounou, che ausculta dall’interno la religione vodù, con un’analisi al contempo etnologica e teologica.

Il vodù del Benin riconosce l’esistenza di un Dio sovrano, trascendente e creatore di tutte le sfere ontologiche. Gli adepti dei vodù lo chiamano Mahou. Ma poiché Mahou è lontano dalle vicissitudini quotidiane degli uomini e distante dalla trama storica e cosmica della loro vita, ha delegato il potere di giurisdizione sugli affari umani a dei - o spiriti - subalterni: i vodù, i loa…... Ogni vodù controlla una porzione cosmica e ontologica. Esiste così un dio del fulmine, un dio della pioggia, del fuoco, della fecondità, della guerra…... Gli uomini devono offrire loro dei sacrifici animali e umani per assicurarsene il favore.

E qui che Adoukounou ingiunge agli adepti del vodù che si convertono al cristianesimo di troncare con i sacrifici sistematici di bambini in occasione delle cerimonie occulte di purificazione del re di Abomey, che hanno luogo a settembre, quando inizia l’anno nuovo. L’opera fondamentale del teologo beninese a questo soggetto è del 1980: Jalons pour une théologie africaine - Essai d’une herméneutique chrétienne du Vodun Dahoméen (Lethielleux &Culture et Vérité). Analoghe letture sono applicate anche al vodù di Haiti: Dieu dans le vaudou hatien, di Laënnec Hurbon (Maisonneuve &La- rose, 2002), e Le vodou haïtien: reflet d’une société bloquée, di Fridolin Saint-Louis (L’Harmattan, 2000).

Prospettiva storica….

Dopo avere insegnato teologia alle facoltà cattoliche di Kinshasa, Alphonse Ngindu Mushete vive oggi nella sua diocesi di origine, Mbuji-Mayi, nella Repubblica democratica del Congo. Appartiene alla generazione dei pionieri della teologia africana. insieme con MvengTshibangu Tshishiku, Meinrad Hebga. Vincent Mulago, Eboussi Boulaga, BimwenyiKweshi, Adoukounou…..

È stato l’avvocato della causa della teologia neroafricana attraverso numerosissimi articoli pubblicati sulle più prestigiose riviste internazionali di settore: “., Concilium, Bulletin de Théologie Africaine, Spiritus…. . . La sua tesi di teologia verteva sulla conoscenza religiosa in Lucien Laberthonnière, filosofo cattolico messo all’indice durante la controversia modernista a cavallo tra 19° e 20°secolo. Ngindu Mushete è uno dei primissimi teologi ad avere tentato, dopo quell’anno 1956, una presentazione sistematica e panoramica delle ricerche teologiche africane. In italiano è apparso un suo importante titolo, La teologia africana in cammino (Edizioni dehoniane, Bologna, 1988), oltre a diversi articoli.

….Biblica….

Paulin Poucouta, biblista del Congo Brazzaville, dopo aver insegnato in diversi seminari maggiori, è attualmente professore di esegesi all’Università cattolica dell’Africa centrale a Yaoundé (Camerun). Aveva fatto i suoi studi all’Istituto cattolico di Parigi e alla Scuola biblica di Gerusalemme. Sta gettando le basi per una lettura decisamente neroafricana della Bibbia. Si dedica, in particolare. alla ricerca del significato dell’Apocalisse per le chiese dell’Africa d’oggi e all’attualizzazione teologica del profetismo biblico in chiave neroafricana. Di lui la Queriniana ha pubblicato nel 1999 Letture africane della Bibbia.

…..E metodologica

Il camerunese Eloï Messi Metogo s’interroga sulle questioni di metodologia, sulla scia di Bimwenyi-Kweshi, Tshibangu, Nathanaël Yaovi Soédé, Syvain Kalamha Nsapo.... Ma la sua tesi principale - e anacronistica - consiste nel sostenere l’esistenza dell’ateismo nelle società neroafricane. E una tesi dal carattere inconsistente, fantasioso, ideologico e concordista, totalmente montata su istigazione dei circoli “africanisti” parigini che credono di poter continuare a controllare indefinitamente la riflessione di carattere teologico, religioso e antropologico sulle società neroafricane contemporanee.

La battaglia pubblica e accanita, che su questo terreno si combatte fra gli africanisti eurocentrici di Parigi e gli egittologi africani, avrà sicuramente delle ripercussioni di prim’ordine sullo scacchiere teologico neroafricano. Ho già chiaramente espresso nel mio libro, Panorama de la théologie négro-africaine contemporaine (L’Harmattan, 2003), una ferma ed energica opposizione alla tesi artificiale dell’ateismo in Africa, che non resiste alla prova dell’esuberanza religiosa e spirituale che osserviamo oggi nel continente e nelle diaspore nere d’Europa,dei Caraibi e delle Americhe

I messianismi politico-religiosi

I messianismi. che hanno proliferato in Africa centrale e occidentale nel periodo coloniale e postcoloniale, sono tentativi radicalmente endogeni, africani, di riappropriazione teologica, metafisica, mistica e politica del cristianesimo coloniale da parte dei ceti popolari delle società coloniali e postcoloniali. sotto la guida di profeti taumaturghi ed esorcisti come Simon Kimbangu, André Matsoua, William Harris, Albert Atcho... Questi messianismi costituiscono il vero atto di nascita della teologia della liberazione, negli anni Cinquanta-Sessanta e anche prima.

E, dunque, tempo di correggere un errore monumentale, abitualmente commesso negli ambienti teologici universitari europei, dove si considera l’America Latina la culla della teologia della liberazione. Occorre avere il coraggio e l’onestà di tornare all’empiricità, alla positività e alla storicità di fatti che resistono a ogni lambiccata Costruzione ideologica. La teologia della liberazione è nata in Africa, con l’irruzione e l’esplosione dei messianismi politico-religiosi di chiaro orientamento mistico e terapeutico.

Domande all’egittologia

Non è questo il luogo di enumerare i presupposti teologici, filosofici, politici e storici che sottendono le erudite opere di grandi egittologi africani come Cheikh Anta Diop. Théophile Obenga, Mubabinge Bilolo, Jean Charles Gomez, Kotto Essomé, Kangue Ewane….. i quali reperiscono nella civiltà egizia origini radicalmente neroafricane. Ci limitiamo a segnalare l’esistenza della rivista di egittologia Ankh, pubblicata da Présence Africaine e diretta dal congolese Obenga, direttore del dipartimento di studi africani all’Università di San Francisco. Un documentato punto della questione si può inoltre leggere nell’opera di Doue Gnonsea, Chcikh Anta Diop, Théophile Obenga - Combat pour la Renaissance africaine (L’Harmattan, 2003).

Ora, nei contesto di un dialogo teologico e critico fra cristologia neroafricana della liberazione teologico-politica ed egittologia faraonica, ci appare necessario porre con franchezza due domande agli egittologi: a) in che cosa e in quale forma il modello dell’Egitto faraonico può servire da archetipo all’organizzazione sociopolitica ed economica attuale delle società neroafricane, corrose al loro interno da dittature militari sanguinarie, autocratiche e corrotte?; b) per un cristiano africano che si interessi intellettualmente nonché spiritualmente alle ricerche filosofiche e teologiche sull’antico Egitto, come è possibile articolare l’universalità e l’unicità della rivelazione trinitaria di Dio nel mistero pasquale, con le numerose divinità (astrali, cosmiche, animali…..) degli antichi egizi?

Come possono i cristiani africani - che vivono in società dove proliferano stregoneria e culti magici e occulti - riferirsi alle magie egiziane in una dinamica di liberazione teologica e politica globale?

Sinodo africano

Il sinodo svoltosi a Roma nel 1994 ha cristallizzato le energie e le riflessioni teologiche, politiche e pastorali delle chiese cattoliche dell’Africa postcoloniale. Dagli anni Settanta, teologi come Mveng, Eboussi Boulaga, Pénoukou, il cardinale Joseph Malula, rivendicavano un concilio in cui le chiese d’Africa potessero riflettere in piena libertà e responsabilità sul loro avvenire. Com’era prevedibile, Roma ha concesso solo un “sinodo romano per le chiese d’Africa”, sotto l’alta e paterna vigilanza della curia. Al cuore dei dibattiti e delle deliberazioni dei padri sinodali stavano la democratizzazione politica, la giustizia e la pace, i mass media, le guerre…. Ma, soprattutto, il sinodo ha promosso l’ecclesiologia della “famiglia di Dio”. La sintesi più completa e pertinente di tale ecclesiologia africana si trova nel libro del congolese Augustin Ramazani Bishwende, Eglise-farnille-de-Dieu (L’Harmattan, 2001).

(da Nigrizia, febbraio 2006)

Riaffermazione di principi o dialogo?

di Giordano Muraro

Premessa.

Il documento Famiglia e procreazione umana porta la data del 13 maggio 2006, ma è stato presentato ufficialmente il mese dopo a Roma, finito il convegno del Forum delle associazioni familiari (12 maggio) e prima del convegno internazionale sulla famiglia a Valencia (1-9 luglio). In novantasei pagine si propone di rintuzzare gli attacchi che oggi vengono mossi con estrema violenza alla famiglia e alla procreazione. È stato accusato di durezza e intransigenza, e soprattutto di un linguaggio che non ammette dialogo. Dopo aver dichiarato erronee e fuorvianti le proposte alternative alla famiglia tradizionale e alla procreazione, presenta in modo preciso e accurato la dottrina della Chiesa su questi argomenti. Ma il tono è assertivo e ha l’atteggiamento di chi dice: «Tu sbagli», ma non si confronta. Non prende sul serio chi pensa in modo diverso, ma lo liquida sbrigativamente mettendolo tra quelli che camminano nelle tenebre e hanno bisogno di luce per scoprire la verità. Il documento si preoccupa di fornire questa luce, presentando una sintesi chiara del pensiero della Chiesa.

Non segue lo schema invalso dopo il concilio Vaticano II, che invita a discernere nella storia “luci e ombre” e che ritroviamo, per esempio, nella Familiaris consortio; nel mondo vede solo tenebre e nella dottrina della Chiesa la luce che fa chiarezza. E’ un metodo che oggi viene rifiutato in partenza, perché la mentalità di oggi ritorna - anche se con altro spirito - al principio antico che nella discussione e nel confronto non ha valore il «chi lo dice», ma il «che cosa dice» (non a quo dicitur, ma quid dicitur): un principio che sembra più adatto alla mentalità di un mondo in cui - come si dice nel documento - l’individualismo frammenta la società e perde sempre più valore l’argomento ex auctoritate. Oggi si chiede il dialogo, anche se la richiesta spesso è più nominale che reale. Si è capito che il monologo di chi è certo di possedere la verità e non ha la pazienza di confrontarsi, genera solo isolamento o contrapposizione e conflitto, che radicalizzano le posizioni di ognuno.

Un’utile sintesi dottrinale, ma non aiuta incerti e deboli di fede

Una seconda accusa viene mossa al documento. La dottrina della Chiesa sulla famiglia e sulla procreazione viene fondata su principi ancora troppo generici, che avrebbero bisogno di essere rielaborati e presentati in modo più specifico per essere utili a confutare le posizioni ritenute fuorvianti. Per confutare la procreazione artificiale e il matrimonio omosessuale non è sufficiente fare appello alla dignità della persona umana, perché in nome di questo stesso principio viene fatta la richiesta delle forme alternative. E’ necessario analizzare l’una e l’altra posizione e far vedere che i beni che nascono dalla famiglia tradizionale e dal modo naturale di procreare promuovono in modo ottimale il bene delle persone e della comunità, mentre gli altri modi potranno soddisfare dei desideri immediati e parziali che però si rivelano controproducenti per lo sviluppo pieno della persona e della società. Non si tratta di una lotta tra il bene e il male, tra i giusti e i peccatori, ma del confronto tra persone che ritengono entrambe di promuovere il bene degli individui e della società.

Un’impostazione simile richiederebbe un impianto diverso da quello adottato dal documento. Il che non significa che sia inutile. E’ certamente utile per chi vuole avere una sintesi del pensiero della Chiesa su questi argomenti, anche se poi resta aperto il lavoro dell’analisi del pensiero di chi si contrappone, e del confronto, per mettere in evidenza la superiorità dei benefici che la persona e la società ricevono dalla procreazione e dalla famiglia pensati e vissuti in modo tradizionale. Oggi l’aiuto che si chiede è simile a quello che un parroco ha chiesto al pontefice Benedetto XVI, quando il 31 agosto ha incontrato i sacerdoti della diocesi di Albano: « Cosa possiamo fare noi sacerdoti per [...] comunicare al positivo la bellezza del matrimonio che sappia far innamorare ancora gli uomini e le donne del nostro tempo?». E il Pontefice dopo aver dato una sua risposta ha concluso dicendo: «Ma come comunicanrle? Mi sembra un problema comune a tutti noi». La risposta può essere data solo dal popolo di Dio intero, con l’apporto degli esperti di comunicazione e con l’esperienza degli stessi coniugi che vivono questa fondamentale esperienza umana. E’ quello che la Familiaris consortio aveva proposto sia nell’introduzione, sia in tutta la parte che riguarda l’aspetto pastorale.

Per questo il documento è utile per chi desidera avere un compendio della dottrina della Chiesa sulla famiglia e sulla procreazione; ma lascia deluso chi avrebbe desiderato uno strumento per confermare i deboli e gli incerti nell’insegnamento della Chiesa, e per avere più ragioni convincenti per discutere con chi pensa in modo diverso.

Una visione sintetica del documento

Non è facile presentare una sintesi di questo lungo e complesso documento. A prima vista sembra il contenitore di tutti i problemi che oggi vengono agitati intorno alla famiglia e alla procreazione. Ed è in un certo senso vero. I contenuti sono molti, e qualche volta si ha l’impressione che la preoccupazione della completezza abbia reso difficile un’esposizione semplice e unitaria. Però è possibile giungere a una prima conoscenza, sfrondando il discorso di molti temi collaterali e concentrando tutto - come suggerisce lo stesso documento - intorno al tema della procreazione umana.

Partendo dalla procreazione il discorso si estende alla famiglia, perché la famiglia è il luogo naturale della procreazione umana; e si prolunga alla società, perché la società è l’interlocutore naturale della famiglia nel compito di portare la persona procreata al suo pieno sviluppo umano. Tutto questo discorso viene collocato nel contesto socio-culturale attuale, per cui il documento dedica una parte alla ricerca delle correnti di pensiero che stanno all’origine delle nuove proposte sulla procreazione e sulla famiglia. La conclusione però è pessimistica: «Mai nella storia del passato la procreazione umana, e quindi la famiglia, che è il suo luogo naturale, sono state minacciate come nella cultura odierna» (p. 6).

Introduzione: famiglia e procreazione

Risalendo alle cause di questa crisi, individua subito la principale: «Le cause sono diverse, ma l’eclissi di Dio, creatore dell’uomo, sta alla radice della profonda crisi attuale della verità tutta sull’uomo, sulla procreazione e sulla famiglia» (ibjd.). Le cause immediate sono da ricercarsi nelle diverse filosofie che hanno reso sempre più sbiadita la presenza di Dio nella vita dell’uomo, fino a farlo scomparire; e con lui anche quelle norme certe e universali scritte nella natura stessa dell’uomo, che costituivano il punto di riferimento per tutti gli uomini. Un uomo senza Dio e senza legge naturale cade inevitabilmente in un forte individualismo che frammenta tutto il vivere sociale, anche la famiglia, e lo rende unico arbitro della sua vita, delle sue scelte e del suo destino.

La scienza si sostituisce alla sapienza, il benessere e l’utile prendono il posto del bene, le applicazioni scientifiche mettono praticamente a tacere i principi che dovrebbero invece giudicarle e guidarle. Le correnti radicali propongono nuovi modelli di famiglia; alcune correnti di bioetica orientano l’uomo e la donna a una procreazione senza amore; si consolidano le politiche di controllo delle nascite che diventano concretamente una diffusione della contraccezione e della sterilizzazione; la stessa impostazione socio-economica porta a ritardare il tempo del matrimonio e della procreazione. L’uomo pensa di essere più libero, in realtà è più disorientato. In questo mondo che è nelle tenebre il documento si propone di riportare la verità sulla famiglia e sulla procreazione.

Il documento non affronta subito il tema della famiglia e della procreazione, ma parte da una riflessione sull’uomo. Infatti dalla concezione dell’uomo dipende il modo di concepire la famiglia e la procreazione. L’uomo che oggi vive nella storia è un uomo dominato dall’individualismo e tende a usare della sua libertà per raggiungere il massimo del suo benessere in ogni sua esperienza. Anche «nei rapporti intimi l’uomo e la donna si comportano come individui e ciascuno cerca il piacere più intenso o l’utilità massima per se stesso» (p. 13). All’uomo sociale e familiare si contrappone l’uomo individuale. Questa concezione dell’uomo è all’origine della richiesta di fare famiglia e di procreare in modo diverso da quello tradizionale.

1. La procreazione

Dopo questa prima riflessione generale, il documento prende in considerazione la procreazione esaminando il suo luogo naturale, cioè la famiglia. La famiglia è presente in tutte le culture dell’Europa, dell’Asia, dell’Africa, delle Americhe. Da dove nasce questa esigenza di famiglia e di procreazione? Dalla natura stessa dell’uomo. Nella lex naturalis troviamo «il fondamento sia per la sessualità, per l’amore tra uomo e donna, sia per l’insieme della vera vita di famiglia» (p. 21). La procreazione ha le sue radici nella corporeità, cioè nella natura dell’uomo che è composto di anima e corpo. Da questa realtà composita nasce la sessualità, che non è riducibile a un fatto biologico, ma lo trascende e diventa un fatto psichico, interpersonale.

La maschilità e la femminilità sono due mondi di umanità che esercitano una forte attrattiva reciproca. Dall’attrattiva nasce l’amore, che è «fondamento del matrimonio e, questo, della famiglia umana che trasmette la vita ai figli e li educa per la vita sociale» (p. 23). Ma se per creare il matrimonio bastano l’uomo e la donna, per realizzare la procreazione umana è necessaria la presenza attiva di Dio. L’anima, che è l’elemento umano che permette all’uomo di trascendere tempo e spazio, nel momento stesso in cui è soggetto alle leggi della materia, non procede dall’uomo, ma è infusa da Dio. L’uomo, la donna e Dio sono all’origine della persona umana.

2. La famiglia, luogo di procreazione

Il figlio è fatto «ad immagine di Dio». Ed è questa dignità che fonda in lui l’esigenza e il diritto di essere generato da un gesto di amore e non prodotto in laboratorio; anzi, chiede di essere il frutto di un atto che non disgiunge la fecondità dall’amore, il significato unitivo da quello procreativo. Non ha bisogno solo di nascere da un gesto di unione amorosa, ma da uno stato di vita amorosa, cioè da una famiglia, perché solo questa comunione permanente può garantire al figlio di ricevere non solo l’umanità iniziale, ma lo sviluppo di tutta la sua umanità attraverso l’educazione. Per questo l’uomo e la donna devono modellare il loro amore su quello di Dio, il quale non ama la sua creatura solo nel momento della creazione, ma la segue nella sua crescita e nel suo sviluppo. La procreazione diventa una forma di «collaborazione con l’amore di Dio creatore, da cui deriva per i coniugi la condizione di cooperatori di Dio» (p. 28). Purtroppo oggi la responsabilità nella procreazione non viene più intesa come consapevolezza di diventare collaboratori di Dio nella donazione e nella continuazione della vita, ma come l’impegno a diminuire il numero dei figli, specialmente nei popoli emergenti.

3. Famiglia e procreazione integrale

Il figlio non ha bisogno solo di essere generato, ma anche di essere allevato ed educato. Per rispondere a queste sue esigenze è necessaria la presenza costante dell’uomo e della donna, che il figlio porta già uniti in sé. I genitori con l’allevamento-educazione sviluppano le premesse di vita che hanno deposto in lui, quando gli hanno donato la propria vita attraverso la comunicazione del loro patrimonio cromosomico. In altre parole: il figlio chiede di continuare a essere generato per tutta la vita dall’uomo e dalla donna che lo hanno introdotto nella vita, partecipandogli la propria vita. I contenuti di questa educazione ci sono già nella natura del figlio; si tratta di edurli (educare = educere = tirar fuori) attraverso un’attenzione personalizzata e continua. Nessun’altra struttura educativa è capace di educare come fa la famiglia, perché nessun’altra è capace di sviluppare questa cura amorosa quotidiana, attraverso la quale passano la vita e i suoi valori. San Tommaso esprime molto bene questo fatto con l’immagine del secondo utero: «Uscito dall’utero, prima di avere l’uso del libero arbitrio, è mantenuto sotto la cura dei genitori come sotto una specie di utero spirituale» (II-II, q.10, a.12).

4. Aspetti sociali del servizio alla famiglia

I genitori non bastano, e neppure la comunità familiare, il figlio porta in sé delle esigenze che possono essere soddisfatte solo dalla più ampia comunità sociale. Per questo la famiglia e la società devono allearsi per assolvere al compito di generare l’uomo perfetto. Da questa alleanza nasce un fatto originale: la società aiutando la famiglia aiuta se stessa, perché i beni della famiglia si riversano in modo positivo nella vita sociale; e la famiglia aprendosi alla società aiuta se stessa, perché viene aiutata nell’opera fondamentale della prima personalizzazione e socializzazione del figlio. Per questo è necessario sviluppare nella società questa doverosa attenzione verso la famiglia e nella famiglia una maggiore consapevolezza delle sue capacità di influire positivamente sulla società: non solo perché provvede alla sua continuazione con la procreazione e con l’educazione del figlio alla socialità; ma anche per il fatto che l’uomo e la donna prendendosi cura l’uno dell’altra e insieme prendendosi cura dei figli, svolgono un servizio straordinario per la società, che nessun’altra struttura o istituzione svolge ed è in grado di svolgere.

La società affronta e risolve i problemi umani con gli strumenti che le sono propri, cioè la giustizia e la professionalità; mentre la famiglia affronta e risolve i problemi con lo strumento più prezioso ed efficace per la formazione umana, che è l’amore e la gratuità. E nessuna energia umana è paragonabile all’amore quando si tratta di formare la persona umana. Per questo la società deve riconoscere che la famiglia svolge un’opera propria e insostituibile per la formazione dell’uomo e della società. E deve riconoscere alla famiglia i precisi diritti che le permettono di svolgere questo suo compito: sia i diritti dovuti alla famiglia (il diritto al lavoro, al salario familiare, all’educazione dei figli, anche all’educazione sessuale); sia quelli dovuti alle singole persone che formano la famiglia.

E tra questi il primo è il diritto alla vita fin dal suo concepimento. L’aborto è un delitto abominevole, non solo verso la persona, ma anche verso la società. perché ne stravolge la struttura e le finalità affidandole il potere di conferire alle persone i diritti fondamentali dell’uomo, mentre dovrebbe solo riconoscerli, promuoverli e difenderli. Tra i beni che la famiglia produce nelle persone e nella società c’è quello di essere anello di congiunzione tra le generazioni. Nella famiglia il singolo non vive sradicato, ma è inserito in una storia che trasferisce nel presente la vitalità del passato, e apre la vita al futuro. Anche la storia della salvezza. La fede vive nei figli, perché viene celebrata ogni giorno attraverso le parole e le convinzioni ricevute dai padri. E nella vita vissuta che Dio tramanda se stesso e le sue meraviglie, da una generazione all’altra.

La famiglia è anche un’unità di consumo, ma di un consumo ordinato e programmato, nel senso che nella famiglia vengono stabilite le necessità di ognuno e a ognuno viene dato secondo le sue necessità, non solo nel presente, ma anche per il futuro. La famiglia non produce solo una economia di consumo; può essere fonte di produzione non solo organizzandosi in azienda (l’azienda familiare), ma inserendo nel mondo della produzione e del lavoro delle persone che sono state educate alla laboriosità e stimolate ad acquisire la necessaria preparazione professionale. La famiglia crea per la società un “capitale umano” che non consiste solo nell’immettere nella società delle persone preparate professionalmente, ma di immetterle con tutto il carico di umanità che acquisiscono in famiglia. Oggi ci troviamo di fronte a un grande pericolo: l’invecchiamento della popolazione, causato anche dall’individualismo che porta a vedere il figlio più come un problema che come una ricchezza, e dalla poca attenzione che la società dimostra nei confronti della famiglia.

Non si pensa sufficientemente al fatto che una popolazione invecchiata produce effetti negativi sulla società stessa, non solo economici (chi pagherà le pensioni?), ma umani e sociali, dovuti alla sproporzione tra giovani e anziani. La società anziché aprirsi alla speranza e preoccuparsi di creare ancora una volta le premesse per il futuro, si ripiega su se stessa per far fronte al problema del suo invecchiamento. L’attenzione si sposta dai giovani agli anziani, dimenticando la verità elementare che gli anziani trovano una soluzione ai loro problemi attraverso le forze nuove portate dai giovani. L’inverno demografico che dai Paesi ricchi viene esportato alle popolazioni emergenti, diventa un nuovo flagello per tutta l’umanità.

5. Riflessioni teologiche e prospettive pastorali

Il documento finisce con alcune riflessioni teologiche e alcune prospettive pastorali. Due in particolare: anzitutto imparare a vedere la famiglia e il suo potere procreativo alla luce del grande mistero trinitario, dove regna l’amore come fonte di vita e di felicità. Da questa partecipazione alla vita trinitaria nasce il potere della famiglia a portare nel tempo la vita e la salvezza. Infatti la famiglia si rivela un luogo ottimale per trasmettere la fede con la parola e l’esempio ed è abilitata proprio dal sacramento del matrimonio a trasmettere la fede attraverso i suoi due valori propri: l’amore e la vita. Il tema è stato sviluppato ampiamente dalla Familiaris consortio, e recentemente nel convegno di Valencia. In secondo luogo, riconoscere la centralità della pastorale della famiglia e della vita, non tanto nel senso di farne una parte privilegiata della pastorale, ma nel senso di tener presente la dimensione familiare in tutti i momenti della pastorale. Famiglia e amore sono inscindibili, proprio perché l’amore è il principio, l’anima, il fine della famiglia, e a lei compete il compito di vivere e di testimoniare l’amore nella quotidianità della vita.

Conclusione

Ogni documento esprime ricchezza e limiti. Questo documento presenta tutti i problemi che oggi vengono agitati intorno alla famiglia e la dottrina che sta alla base per la loro soluzione. Manca però quel linguaggio e quel modo di esporre e sviluppare il discorso che permette ai fedeli di Cristo di dialogare e di convincere coloro che presentano proposte alternative, e di dimostrare che la famiglia fondata sul matrimonio è «la sola che produce in modo pieno i beni» necessari per lo sviluppo umano delle persone e della società.

(da Vita Pastorale, Novembre 2006)

Martedì, 11 Settembre 2007 00:17

Il “volto ebraico” di Gesù (Giuseppe Laras)

Il “volto ebraico” di Gesù

di Giuseppe Laras

A distanza di sessant'anni dall'emanazione delle norme anti-ebraiche del regime mussoliniano, a chi mi chiede un commento, un'impressione o un ricordo che riassuma l'impatto che quella normativa scellerata ebbe sugli ebrei italiani, che dall'oggi al domani scoprirono di non essere più uomini e donne normali, ma una sorta di "paria" emarginati ed estromessi dalla vita, che fino a poco tempo prima, bene o male, riuscivano a condurre insieme agli altri cittadini, io rispondo con una parola: incredulità.

Al di là, infatti, del dolore, delle preoccupazioni e della disperazione che un tale stato di cose induceva in tutte le famiglie degli ebrei d'Italia, lo stupore per un'iniziativa tanto criminale quanto ingiusta, in me (allora ero piccolissimo) e nei miei era prevalente su altri sentimenti, anche se in realtà chi avesse tenuto d'occhio i segnali sempre più intolleranti che emergevano dalla politica del regime già da diversi anni, si sarebbe accorto che qualcosa di efferato stava maturando contro gli ebrei.

Oggi, con riferimento a quei giorni, sono più portato a chiedermi come sia potuto accadere che la popolazione, cioè la gente comune, i colleghi, i conoscenti dei quarantamila ebrei italiani, nella loro stragrande maggioranza, non abbiano reagito, non abbiano mosso un dito, non abbiano detto una parola magari solo di solidarietà e di condivisione nei confronti delle vittime, fino a pochi giorni prima persone libere e normali come loro.

A pensare e scrivere queste cose mi induce una lettera di Luigi Giussani pubblicata su la Repubblica del 2 gennaio [1999] (...), intitolata «Noi siamo degli ebrei». Don Giussani si riferisce al rifiuto di Pio XI di dare un avallo alle leggi razziali, come gli veniva richiesto, rifiuto formulato più o meno con le parole «Noi siamo spiritualmente degli ebrei».

È certo che questa frase torna ad onore del Papa di allora, ma, a un tempo, fa emergere in maniera drammaticamente evidente come quei nobili e religiosi sentimenti non fossero di fatto condivisi e testimoniati dalla stragrande maggioranza dei cittadini italiani di allora, tutti di fede cattolica. E viene, in particolare, da chiedersi - stimolati dalle parole elevate di don Giussani - quale concezione dell'uomo sia stata insegnata e trasmessa a quella generazione, se si è potuto abbandonare alla persecuzione e alla morte - senza dire o fare pressoché nulla - uomini, donne e bambini che, ancorché colpevoli di essere ebrei, erano pur tuttavia portatori, assieme a tutti gli altri uomini, del marchio divino (immagine=zélem) che conferisce una sorta di sacralità da non conculcare e da non profanare mai.

Debbo riconoscere che da quei tempi lontani a oggi, è stato percorso un lungo tratto di strada che ha consentito al popolo cristiano (almeno in una sua parte che non sono in grado di quantificare, ma che è comunque qualitativamente rilevante) di vedere con altri occhi e con altro cuore gli ebrei, riscoprendo nella loro lunga e misteriosa storia spirituale taluni elementi comuni che spiegano e giustificano alcuni tratti dell'identità religiosa dello stesso popolo cristiano.

La storia di Israele

Sono gli effetti del cosiddetto "dialogo" che, sia pur faticosamente, sta plasmando un nuovo tipo di approccio da parte di cristiani ed ebrei nei confronti gli uni degli altri.

Io oso pensare - anche in questo particolare contesto ci si sente troppo inadeguati e fragili per esprimere giudizi e previsioni - che da parte della Chiesa si dovrebbe insistere di più (anche se già qualcosa si sta facendo in tale direzione) per una maggior conoscenza della storia e della spiritualità di Israele, al fine di riuscire a restituire un "volto ebraico" a Gesù.

Che cosa significa "un volto ebraico"? Significa che fino a pochissimo tempo fa il volto, la figura, la vita, i pensieri, la lingua di Gesù non avevano alcunché che ricordasse l'Ebraismo e l'ebraicità. Eppure Gesù era ebreo e, fino alla sua morte, si muove e opera all'interno di un'ottica, religiosa e comportamentale, assolutamente ebraica.

Una tale operazione di estraneazione di Gesù dal popolo d'Israele - che risponde evidentemente a motivi politici, apologetici e quant'altro in cui, peraltro, non sono legittimato a entrare - ha, secondo me, posto le premesse e acuito un antisemitismo divenuto sempre più virulento e aggressivo.

Il recupero della figura di Gesù all'interno di un contesto ambientale dominato da idee, concezioni e usi appartenenti alla tradizione d'Israele, potrebbe - col tempo, con perseveranza, con pazienza, con l'ottimismo che nasce dalla fede in un futuro pacificato e affratellato, giusta la concezione messianica - rivelarsi la carta vincente risolutiva della partita contro l'antisemitismo cristiano.

Ritrovamento e riconciliazione
Occorre che cristiani ed ebrei vadano avanti in questo cammino di ritrovamento e di riconciliazione, ciascuno con la sua fede e le sue certezze, nella consapevolezza che un superiore e misterioso disegno provvidenziale entrambi ci coinvolge e ci guida fino al momento, quando Dio vorrà, del suo disvelamento.

Come scrive don Giussani, penso anch'io che la fedeltà nell'attesa di Dio sia faticosa e possa talvolta tradursi in uno stato doloroso del credente. Aggiungerò solo che la certezza di un domani che sarà migliore di oggi (è questa la quintessenza della dottrina messianica d'Israele), unita a un senso di umiltà, che dobbiamo ritrovare in vista di un appuntamento così promettente e grandioso, potrà forse liberarci dalle angosce e dalle ingiustizie del presente.

Lunedì, 10 Settembre 2007 23:58

Violenza necessaria? (Jean-Marie Muller)

Violenza necessaria?

di Jean-Marie Muller

Spesso è la violenza delle situazioni di ingiustizia che provoca la violenza delle armi. È importante comprendere la violenza che nasce dalla rivolta degli oppressi quando vogliono liberarsi dal giogo che pesa su di loro. Se la nonviolenza condanna e combatte anzitutto la violenza dell’oppressione, essa obbliga ad una solidarietà attiva con quelli che ne sono le vittime. Quando questi, il più delle volte come ultima risorsa, ricorrono alla violenza, non è il caso, in nome di un ideale astratto di nonviolenza, di voltare loro sdegnosamente la schiena. Non è il caso di respingere in un mucchio solo tanto quelli che sono responsabili dell’ingiustizia quanto quelli che ne sono le vittime. È importante non dimenticare che i veri fautori di violenza sono quelli che traggono profitto dal disordine stabilito e non difendono nient’altro che i loro privilegi. Ma liberare gli oppressi è anche tentare di permettere loro di liberarsi dalla propria violenza. Anche questo è un obiettivo della solidarietà verso di loro.

Spesso la violenza degli oppressi e degli esclusi è più un mezzo di espressione che un mezzo di azione. Non è tanto la ricerca di una efficacia quanto la rivendicazione di una identità. È il mezzo che hanno, per farsi riconoscere, coloro la cui esistenza stessa resta non soltanto sconosciuta, ma misconosciuta. La violenza è allora il mezzo di rivoltarsi contro questo misconoscimento. È l’ultimo mezzo di espressione di quelli che la società ha privato di tutti gli altri mezzi di espressione. Poiché essi non hanno avuto la possibilità di comunicare con la parola, tentano di esprimersi con la violenza. Questa si sostituisce alla parola che è loro rifiutata. La violenza vuol essere un linguaggio ed essa esprime anzitutto una sofferenza; essa è allora un “segnale d’allarme” che deve essere decifrato come tale dagli altri membri della società. La violenza è per gli esclusi un tentativo disperato di riappropriarsi del potere sulla propria vita, di cui sono stati spossessati. La violenza diventa allora un mezzo di esistenza: «sono violento, dunque sono». E la violenza permette di farsi riconoscere tanto più per il fatto che essa è proibita dalla società. Essa simboleggia allora la trasgressione di un ordine sociale che non merita di essere rispettato. Ciò che gli attori della violenza ricercano è precisamente questa trasgressione. A colui che la legge esclude da ogni riconoscimento, la violazione della legge appare allora come il mezzo migliore per farsi riconoscere. Questo può essere vero per l’individuo come per il gruppo. Anche il gruppo può volere provare a sé stesso di esistere come gruppo facendosi valere presso gli altri con l’impiego della violenza. Esso così obbligherà gli altri a riconoscere che esiste, non fosse che col combatterlo sul terreno della violenza, là dove egli stesso ha scelto di esprimersi. Inoltre la violenza della trasgressione, distruggendo i simboli di una società ingiusta, gettando a terra gli emblemi di un ordine iniquo, provoca un maligno piacere, un godimento reale. In questo modo, la violenza esercita un fascino su quelli che sentono la frustrazione e l’umiliazione di essere degli esclusi.

Ma comprendere la violenza non è giustificarla. Infatti, se la violenza è giusta quando serve una causa giusta, non diventerà allora il diritto e il dovere di ogni uomo, di ogni gruppo, di ogni popolo e nazione? E si è mai incontrato nel corso dei secoli, si è mai visto al mondo un uomo, un gruppo, un popolo, una nazione che non pretenda ad alta voce che la sua causa è giusta? E se noi aderiamo oggi al discorso che approva la violenza per difendere la buona causa, come potremo opporci domani a quello che approverà la violenza per la cattiva causa? Basterà discutere della causa e non della violenza? Probabilmente no, non basterà. Se la violenza è legittimata come un diritto dell’uomo, ciascuno potrà prendere a pretesto questo diritto per ricorrervi ogni volta che lo stimerà imposto dalla difesa dei suoi interessi. In realtà l’ideologia della violenza permette a ciascuno di giustificare la propria violenza. La storia si trova allora risucchiata in una spirale di violenze senza fine. Si crea una reazione a catena di violenze degli uni e degli altri, tutte legittimate, le une come le altre, una catena che nessuno potrà più interrompere. La violenza diventa fatalità. La nonviolenza intende spezzare questa fatalità.

Secondo le ideologie che dominano le nostre società, è necessario opporsi alla prima violenza, dell’oppressione o dell’aggressione, con una contro-violenza che possa contenerla e alla fine vincerla. Quelle stesse ideologie legittimano e giustificano questa seconda violenza affermando che essa ha per fine di stabilire la giustizia o di difendere la libertà. L’argomento – che si pretende sia al di sopra di ogni sospetto – incessantemente avanzato per giustificare la violenza, è che essa è necessaria per lottare contro la violenza. Questo argomento implica un corollario: rinunciare alla violenza sarebbe lasciare libero corso alla violenza. Ma, quali che siano le ragioni avanzate, questo argomento resta colpito, in teoria come in pratica, da una contraddizione irriducibile: lottare contro la violenza con la violenza non permette di eliminare la violenza. Le ideologie della violenza vogliono occultare questa contraddizione. La filosofia della nonviolenza e la strategia che essa ispira ... portano al contrario tutta la loro attenzione sulla violenza per tentare di superarla. Poiché qui si pone una questione essenziale e decisiva: il fatto di impiegare la violenza con l’intenzione di servire una causa giusta cambia o no la natura della violenza? In altri termini, è possibile qualificare diversamente la violenza secondo il fine al servizio del quale si pretende utilizzarla? Le ideologie della violenza vogliono dare una risposta positiva a questa duplice questione, e insinuano che l’uso della violenza per una causa giusta non è altro che l’uso della forza. La filosofia della nonviolenza fa una critica radicale a questa risposta e la respinge assolutamente. La violenza, in definitiva, resta la violenza, ossia essa resta ingiusta e, dunque, ingiustificabile perché resta disumana quale che sia lo scopo che si pretende di servire utilizzandola.

Jean-Marie Muller, da: Le principe de non-violence. Parcours philosophique, Desclée de Brouwer, Paris 1995, pp. 38-41, traduzione di Enrico Peyretti, in:  Il Foglio, 289.

Venerdì, 31 Agosto 2007 00:24

Fedeltà (Faustino Ferrari)

L’inizio del libro dell’Apocalisse troviamo sette lettere indirizzate a sette Chiese. Uno dei temi costanti di queste lettere è la fedeltà, la perseveranza. Nella fedeltà ci sono già tutte le tracce, i segni del compimento...

C –GESU’ CRISTO PRESSO GLI EBREI
ED ALTROVE

di Bruno Secondin

L’interesse per Gesù e per il suo messaggio di salvezza e di sapienza ha da sempre superato le frontiere della sua comunità costituita e storicamente definita. La curiosità per questa figura «straordinaria» ha preso i sapienti fin dalla prima ora, e ne sono stati sovente affascinanti, senza tuttavia per questo entrare tra i suoi «seguaci»

Nel nostro tempo questo «interesse» e questo «fascino» continuano a mantenersi vivi. Passiamo in rassegna alcuni settori.

I

... Gesù l’ebreo

Non c’è dubbio che in questi anni è andato crescendo l’interesse per la figura storica di Gesù e per il suo significato «spirituale» negli ambienti religiosi ebrei culturalmente più sensibili al dialogo con la religione cristiana. Soprattutto importante è stato il tentativo di recuperare la figura di Gesù alla cultura ebraica del tempo e di riscoprire la «simpatia» che tanti rabbini ebrei hanno avuto per questo famoso «rabbino».

Si è arrivati così a leggere in forme nuove il ruolo del cristianesimo di fronte all’ebraismo. La «giudaicità» di Gesù affascina oggi sia gli ebrei che i cristiani. Per questi è un recupero dell’umanità storica di Gesù, del suo rapporto con la cultura e le sue forme regionali, del riflettersi in lui dei vari movimenti messianici. Per gli ebrei è come una «reclamazione» della ebraicità di Gesù, un «bringing home» di questo famoso rabbi.

Per capire la novità e anche la causa dell’ostilità storica fra i due gruppi, bisogna non dimenticare la situazione conflittuale cui furono sottoposti gli ebrei per secoli: da una parte l’accusa di deicidio e dall’altra la persistente pressione per indurli a «conversione».

Gesù e la sua croce nella storia sono diventati per gli ebrei il segno/sintesi della sopraffazione e delle violenze. Solo alcuni isolati e ammirevoli dissenzienti - come Maimonide (1135-1204) che riconosce come «provvidenziale» il cristianesimo - andavano oltre le solite accuse raccolte e diffuse nelle famose Tôledôth Yéshü (Vita di Gesù) piene di leggende infamanti (Gesù figlio di Pantèra...). Tali testi (la loro origine risale al sec. VIII) sono una specie di anti-evangelo, diffusi in ebraico e yiddish, erano molto conosciute negli stati popolari e spesso venivano letti durante la veglia di natale. (1)

Di recente ha preso l’avvio uno studio più esatto delle «concezioni» ebraiche (e anche islamiche) di Gesù nel medioevo, contestualizzando con maggiore cura le affermazioni nelle situazioni di conflitto, di polemiche culturali, di interessi economici, di modelli di società. E appare un mondo finora sconosciuto, in cui il rifiuto dell’accettazione di Gesù e della sua «chiesa» ha molteplici ragioni, non tutte senza peso. Si pensi alle critiche dei giudei e dei musulmani medievali della Spagna a certe forme «cristiane» di praticare la fede in Gesù Cristo, con fanatismo sanguinario.

Nel secolo scorso, quando i ghetti si smantellarono e cominciò una storia nuova per gli ebrei, più rispetto e libertà anche per loro, qualcuno comincia a riconoscere il valore spirituale dell’insegnamento del rabbi di Nazaret. Così H. Graetz, grande studioso ebreo, che riconosce in Gesù «nobiltà di cuore, profonda serietà morale e santità di vita», ma la cui stima viene contestata nell’ambiente ebraico. Così C.G. Montefiore, che lo definisce un autentico «profeta».

Il movimento sionista - cioè il grande revival del ritorno alla terra dei padri - con la fine del sentimento di emarginazione e di insicurezza, conduce più facilmente a riconoscere in Gesù di Nazaret un grande figlio di Israele. Ammiratori di Gesù sono tra gli altri: Moshé Hess, Max Nordau, Max Bodenheimer, Theodor Herzl, Klausner Joseph («Gesù è un grande artista delle parabole»).

Le conseguenze della visita storica del papa alla sinagoga di Roma (13 aprile 1986) sono ancora da verificare, sul piano di eventuale «riflesso» nella cristologia. Per ora però si possono meglio valutare le conseguenze di dialogo e collaborazione provocate dal paragrafo 4 della dichiarazione Nostra aetate del concilio Vaticano Il.

Sono tanti coloro che dal lato dell’ebraismo rileggono la vicenda Gesù.

Citiamo alcuni autori che si sono distinti in particolare su questo tema.

Jules Isaac (+ 1965): con la sua opera. Gesù e lsraele (2) inaugura una nuova era nei rapporti reciproci. E’ un invito ad una rimeditazione più equilibrata e onesta degli scritti neotestamentari. L’opera si divide in quattro sezioni: Gesù detto «il Cristo» era ebreo secondo la carne e la cultura; predicò il «Vangelo» nella sinagoga ebraica e nei luoghi sacri ebraici, fu in buone relazioni con il suo popolo, esclusa una piccola minoranza fanatica che lo condannò; del crimine di deicidio è imputabile una minoranza di «collaborazionisti» invasa da orgoglio dottorale, mentre il vero ebraismo non ha consegnato Gesù al potere occupante. Tipico tono dell’opera è quello del rispetto e dell’attenzione a tutte le fonti, per riscoprire la profondità ebraica di Gesù e del suo messaggio.

Martin Buber (+ 1965): l’autore dei famosissimi Racconti dei Chassidim. Egli affermava in una conferenza a Gerusalemme (1948): «lo credo fermamente che la comunità ebraica, nel corso della sua rinascita. riconoscerà Gesù.

Shalom Ben-Chorin: sostenitore dell’ebraismo progressivo e del dialogo ebraico-cristiano e autore di un famoso libro: Fratello Gesù. (3) Gesù vi appare come un maestro giudaico, vicino alla linea dei farisei, che ha proposto l’interiorizzazione della Legge condensandola nell’amore.

Pinchas Lapìde: autore del libro Ist das nichtJosephs Sohin? Jesus in heutigen Judentum.. Questo teologo ebreo ha dimostrato, anche con altri studi e pubblicazioni, come oggi fra gli ebrei sia altissimo l’interesse per Gesù di Nazaret:.

Egli sviluppa anche la ricerca sulle opinioni dei rabbini circa Gesù: e da questo studio sulle testimonianze di 18 secoli risulta evidente la stima per la qualità sapienziale del «rabbi» di Nazaret. In un dialogo con Hans Küng egli ebbe a dire:

«Il fratello Gesù viene finalmente riportato a casa come compagno, come connazionale e consanguineo... anzi, perfino come sionista e compagno di lotta». (4)

Franz Rosenzweig (+ 1929): interessante la sua teoria nella difficile opera La stella della redenzione, di recente tradotta in italiano. (5) Prendendo lo spunto dai due triangoli incrociati della «stella davidica» egli vede che l’ebraismo rappresenta la santa vita che anticipa l’eterna pienezza della redenzione: il popolo ebraico per questa vita è chiamato a star fuori del tempo, è da sempre presso Dio. Il cristianesimo invece rappresenta la via, perché il cristiano cammina nel tempo e nello spazio e, camminando, conduce al Padre i pagani attraverso il Figlio. Con riferimento alla stella davidica, l’ebraismo è il fuoco che brucia in eterno, mentre il cristianesimo è l’insieme dei raggi che sono lanciati, in tutte le direzioni.

«Davanti a Dio dunque, entrambi, ebreo e cristiano, sono lavoratori intenti ad una stessa opera. Egli non può far a meno di nessuno dei due. Tra i due egli ha posto inimicizia in ogni tempo e tuttavia li ha legati l’uno all’altro reciprocamente nel modo più stretto...". (6)

David Flusser: con l’opera Jesus egli vuole recuperare le radici ebraiche e anche la personalità profetica e l’originalità dell’amore ai poveri e agli emarginati (e anche ai nemici) di Gesù. Egli difende decisamente la storicità della vicenda di Gesù, e anche la specificità («gli influssi ricevuti da Gesù non bastano a spiegare tutto il suo comportamento morale sulla dottrina dell’amore»). Accetta anche la situazione gloriosa del Cristo:

«Non abbiamo alcun motivo di dubitare che il crocifisso sia veramente “apparso” a Pietro, poi ai dodici, poi a più di 500 fratelli alla volta!...., poi a Giacomo e a tutti gli apostoli». (7)Anche se trascura Giovanni (non lo ritiene storico) e rifiuta di accettare le opere di potenza, il Gesù di Flusser appare un profeta impegnato per la conversione individuale e radicale a Dio, tuttavia non il Salvatore dell’umanità. Accetta però che Gesù si sia autoidentificato coni il «Figlio dell’uomo» di Daniele, senza che sia accettabile il «Figlio di Dio» in senso cristiano. In sostanza Flusser si interroga continuamente sul significato della figura e accetta che si «possa scrivere una vita di Gesù».

Molti altri nomi si potrebbero citare: Robert Aron con l’interessante operetta Gli anni oscuri di Gesù, Paul Winter, Samuel Sandmel, Harvey FaIk , letterati come Shalôm Asch (autore del romanzo Il Nazareno), Max Brod. J. Sinclair, J. Bor, A. Chouraqui (noto traduttore del NT in bellissimo francese). Infine il grande artista Marc Chagall che ha più volte dipinto la crocifissione, ma come «simbolo» del destino del popolo ebraico, non come segno «cristiano» .

Infine un fenomeno che sta suscitando parecchio interesse è il moltiplicarsi di gruppi di ebrei che permanendo nell’ambito ebraico, considerano Gesù come Messia vero: si chiamano Jews for Jesus. Si trovano diffusi in particolare in California.


Osservazioni

In conclusione quello che per un ebreo medio oggi può essere ammesso circa Gesù, è che si può considerare un grande profeta di Dio, maestro di sapienza, dalla morale elevata, che nella tradizione spesso è stato molto stimato, e che oggi ancor di più si può stimare, come una figura «eccezionale» della storia ebraica.

Però del «Verbo fatto ebreo» si continua a lamentare la trasformazione - ad opera di Paolo specialmente (cf. R. Aron) - della figura e del messaggio di Gesù in un qualcosa di «universale», però de-ebreizzato, e fatto figura teologica, rispondente ai canoni ellenistici. E qui il contrasto non è sanabile.

Note
1) Un’antologia dei testi: J.P. Osier, L’évangile du ghetto, ou comment les juifs se racontaient Jésus, Berg International, Paris 1984, importante per le varie redazioni delle Tôledôth. In italiano c’è anche R. Di Segni, Il Vangelo del ghetto, Newton Compton, Milano 1985, con intenti simili al precedente. Per un primo approccio più panoramico cf. Ben-Chorin, Jesus im Judentum, Wuppertal 1970, specie pp. 7-46.


2) Ed. Italiana Cardini, Firenze 1976 (originale tedesco 1948).

3) Morcelliana, Brescia 1985. originale tedesco: Bruder Jesus, der Nazarener in jüdiscer Sicht, Paul List, München 1967.

4) H. Küng-P.Lapide, Gesù segno di contraddizione. Un dialogo ebraico-cristiano, Queriniana, Brescia 1980, p. 15.

5) Marietti, Casale Monferrato, 1985.

6) Rosenzweig, La stella, pp.444-445.

7) Gesù, p. 165.

II

... ed altrove…..

Bisogna chiarire subito una cosa: che in questo settore si può cadere facilmente nell’equivoco: o del riduttivismo (disprezzo dei valori altrui) o del parallelismo (somiglianze che non sono omogenee). Perciò poniamo alcune indicazioni di partenza.

Le domande vitali che l’uomo si pone. si ritrovano praticamente con eguale frequenza in tutte le religioni: sono le domande sulla nostra origine, sulla morte, sul dolore, sulla felicità, ecc. Dall’esperienza ellenistica, alle Svetasvara Upanishad (1,1) e alla Nostra aetate, (n. 1): ovunque sono espresse praticamente con gli stessi termini. Citiamo da questo ultimo testo:

«Gli uomini delle varie religioni attendono la risposta agli oscuri enigmi della condizione umana che ieri come oggi turbano profondamente il cuore dell’uomo: la natura dell’uomo, il senso e il fine della nostra vita, il bene e il peccato, l’origine e il fine del dolore, la via per raggiungere la vera felicità, la morte, il giudizio e la sanzione dopo la morte, infine l’ultimo e ineffabile mistero che circonda la nostra esistenza, dal quale noi traiamo la nostra origine e verso cui tendiamo» (NÆ 1).

Alla varietà delle domande religiose - seppur consonanti - corrisponde la pluralità della forma delle risposte. Qui nasce storicamente la varietà delle religioni, che risentono sia della peculiarità etnica (genio dei popoli), sia delle condizioni ecologiche, storiche, culturali, sia della presenza di leaders influenti, ecc.

Il cristiano che si incontra con la molteplicità e la varietà delle forme di religione, ha spesso rifiutato globalmente tutto, ritenendolo inutile e «estraneo”, o superstizione. Oggi il problema si pone invece in termini nuovi, molto interessanti, che propongono una possibile convergenza di tutta la varietà verso l’unità.

Nei documenti conciliari vengono riconosciuti «elementi di verità e di grazia» (AG 9) anzitutto a livello di persone seguaci di altre religioni, e anche come dati oggettivi propri delle stesse tradizioni religiose: «riti e culture» (LG 17), «iniziative religiose» (AG 3), «ricchezze che Dio nella sua munificenza ha dato ai popoli» e si riscontrano nelle loro «tradizioni religiose» (AG 11). E inoltre mostra una consapevolezza importante dell’influenza universale dello Spirito santo in tutto il mondo. «Indubbiamente lo Spirito santo operava nel mondo già prima che Cristo fosse glorificato» (AG 4). Lo Spirito chiama tutti gli uomini a Cristo, col Vangelo predicato, con i «semina Verbi» sparsi ovunque (AG 15) e offrendo a tutti «nel modo che Dio conosce.., la possibilità di venire a contatto col mistero pasquale» (GS 22). Forse il passaggio più «cattolico» del concilio sta nel paragrafo 92 di Gaudium et spes dedicato al dialogo fra tutti gli uomini, attraverso quattro cerchi concentrici. Termina accennando «a tutti coloro che credono in Dio e che conservano nelle loro tradizioni preziosi elementi religiosi e umani». E si augura che «un dialogo fiducioso possa condurre tutti noi ad accettare con fedeltà gli impulsi dello Spirito e portarli a compimento con alacrità». Il dialogo interreligioso appare elemento costitutivo intrinseco alla missione della chiesa.

Esempi recenti di testimoni profetici di questo incontro - da Ch. de Foucauld a Monchanin, da Peryguère a Le Saux, a Griffiths, ecc. — rendono questo discorso sempre più fecondo e carico di promesse.

Per il cristiano il centro dell’universo e della storia è Cristo Gesù: per cui la figura del «pantocrator» esprime bene il ruolo centrale rispetto ad ogni esperienza religiosa. Ma oggi questa universalità non è solo un concetto più o meno astratto e vago, è di fatto diventato un grosso problema; di fronte alla vitalità e al dialogo con le altre religioni.

Si parla oggi di «Cristo dentro le religioni»: è la posizione assunta dal concilio, specialmente in Nostra aetate e anche espressa dal teologo K. Rahner sui «cristiani anonimi». Ci sono tuttavia delle resistenze, perché questo fa delle altre religioni una «praeparatio evangelica», cioè del materiale grezzo che viene assorbito dal cristianesimo, una volta che il Vangelo sarà annunciato. E quindi le altre religioni hanno un valore subordinato e secondario, in fondo.

Altri parlano di «Cristo al di sopra delle religioni»: in questo modo di vedere le altre religioni non sono pura preparazione evangelica, ma di fatto sono autentiche «vie di salvezza», al di fuori dell’esperienza «chiesa cristiana». Questo toglierebbe a Cristo la normatività unica e ultima, perché Dio avrebbe da dire e da fare più di quanto non sia stato detto e fatto in Cristo. Il pluralismo di «figure» religiose sarebbe volontà di Dio, e Cristo sarebbe né contro, né sopra, ma «insieme» con le altre religioni. I diversi sentieri, quasi vie differenziate di salvezza, «portano» a Dio, e non più solo a Cristo.

C’è infine la «teologia della liberazione» delle religioni: che accentua il criterio della capacità non tanto di «affermare» verità e unicità, ma di «migliorare» la storia dell’umanità. Quindi il valore unico di Cristo si misura su questa capacità di essere l’unico che «libera» oppure di essere in compagnia di altri efficaci «liberatori». Quest’ultima posizione di fatto rinnega completamente quello che la rivelazione su Gesù Cristo (gli Evangeli) afferma in maniera non equivoca: che cioè egli è l’unico «liberatore» definitivo.

Mi pare meglio accettabile la posizione di chi suggerisce anche una lettura universalistica del messaggio biblico (che è attestata specialmente nelle correnti sapienziali), in modo da riuscire a cogliere le «tracce di Dio» o i cosiddetti «semina Verbi» in mezzo alle molteplici tradizioni religiose le quali risalgono a Dio, perché lui ne è l’autore.

Come bene spiega Rossano (8) le varie «risposte religiose» possono considerarsi risposta a quell’ interiore «instinctus Dei invitantis» con il quale Dio chiama tutti gli uomini a sé. C’è un tempo prima di Cristo e un tempo dopo Cristo: ma non esiste un tempo senza salvezza (Unheilzeit ) e un tempo con la salvezza (Heilzeit). La così detta «economia sapienziale» - cioè l’azione salvifica di Dio tramite la Sapienza e il suo Spirito - è attestata ampiamente sia nell’Antico Testamento che nel Nuovo. Si pensi alle molteplici alleanze attestate nel Pentateuco dal codice sacerdotale. Si pensi a testi come questi: «Dio ama i popoli» (Dt 33,3), è «amante della vita» (Sap 11,26), «la terra è piena del suo amore» (Sal 32,5), «la potenza di Dio riempie l’universo» (Sap 1,7; Pro 8,31).

Per quanto riguarda il Nuovo Testamento, soprattutto Giovanni e Paolo hanno assunto il criterio dell’universale sovranità di Cristo. Nella lettera agli Efesini e in quella ai Colossesi Cristo è proclamato fondamento e chiave di volta di tutta la storia: tutto fu creato in lui, tutto sussiste in lui, tutto tende alla conciliazione ultima in lui (Col 1,15-20; Ef 1,10). Sempre secondo Paolo lo Spirito opera per la giustificazione in ogni uomo che opera il bene e che segue la legge dell’amore (Rm 2,25-29; cf. At 10,34-35). Ancor più splendida la testimonianza di Giovanni: nel prologo l’azione del Verbo è descritta come «presenza» nel mondo, «illuminazione» e vita spirituale per tutti (Gv 1,9). Nell’Apocalisse Cristo è «il Primo e l’Ultimo, il Vivente» (1,18), agnello vittorioso prima della fondazione del mondo (5,13) e nel libro che tiene in mano sono segnati i destini della storia (5,6-9).

La riflessione teologica di questi anni ha cercato di percorrere la strada degli epiteti cristologici come Logos, sapienza, manifestazione, ecc., per valorizzare tutto il patrimonio di «beni spirituali e morali» e i valori socio-culturali (NÆ 5) che si trovano nell’universo religioso delle grandi tradizioni religiose mondiali. E’ una riflessione ancora aperta e che già i Padri fecero (come Giustino, Ireneo, Clemente Alessandrino, Origine, Agostino, Gregorio Nisseno), ma rimangono da affrontare molti settori.

Non solo quello del riconoscimento di Gesù Cristo come «rivelatore e salvatore unico», ma anche quello del valore dei «libri sacri», degli «archetipi religiosi» propri dell’antropologia universale, dell’apporto delle religioni alla fede in Cristo e all’esperienza cristiana della salvezza. Si tratta cioè di un apporto di esplicitazione soltanto, o di scoperta di valenze nuove non ancora percepite, o vi sono addirittura degli elementi «nuovi» da «assumere»?

Così il dialogo interreligioso diviene un processo di annuncio e di ascolto, di accoglienza e di offerta: e non una pura presa di coscienza delle differenze esistenti, storiche ed esistenziali. Come appunto viene suggerito anche da documenti ufficiali più recenti.

Evangelii nuntiandi (n. 53) a riguardo delle altre religioni ossserva:

«Esse portano in sé l’eco di millenni di ricerca di Dio, ricerca incompleta, ma realizzata spesso con sincerità e rettitudine di cuore. Posseggono un patrimonio impressionante di testi profondamente religiosi. Hanno insegnato a pregare a generazioni di persone».

E in un altro documento recente, del Segretariato per le religioni non cristiane, che offre delle «riflessioni e orientamenti» per il dialogo interreligioso dice:

«A un livello più profondo, uomini radicati nelle proprie tradizioni religiose possono condividere la loro esperienza di preghiera, di contemplazione, di fede e di impegno, espressioni e vie della ricerca dell’Assoluto».

Il valore di quello che altre religioni possono dire oggi di Gesù Cristo (o arricchire il già detto) deve essere visto in questa prospettiva: che tenga conto delle ricchezze espressive e sacre delle altrui tradizioni, della capacità di ciascuna tradizione di assimilare in maniera creativa il messaggio di Cristo. L’esperienza del resto s’è già verificata per tutto l’occidente nei secoli IV e seguenti, e si sta ripetendo nei luoghi dove l’inculturazione spinge verso nuove «sintesi».

E’ tutto ancora da verificare l’impatto storico della grande riunione, ad Assisi dell’ottobre 1986, dei rappresentanti delle varie religioni del mondo. Ma certamente quell’esperienza ha aperto la strada ad una forma nuova di dialogo fra le religioni, e di rapporto tra religioni e storia comune.

È interessante che siano soprattutto gli asiatici e gli africani a sentire questo problema in maniera intensa. Essi amano oggi parlare di «Christus cosmicus», cioè «universale». Mentre la teologia occidentale ha posto l’accento di più sulla persona storica di Gesù di Nazaret e sulla chiesa come istituzione storica, la giovane teologia asiatica e africana è più attenta a cogliere le implicazioni universali del «primato» di Cristo.

Scrive il teologo dello Sri Lanka, Tissa Balasuriya (9):

«Cristo il Signore implica una dimensione di essere molto più vasta che non Gesù di Nazaret, sebbene Gesù sia il Cristo».

Lo studio di alcuni passi del Nuovo Testamento (es. Ef 1 e Col 1) in cui si parla del pieno compimento della rivelazione divina nella universale signoria del Risorto, invita ad una visione «cristica» di tutta la realtà. umana e cosmica.

Se una teologia centrata sulla figura di Gesù e la fondazione storica della chiesa ha indotto i cristiani - argomenta Balasuriya - a reclamare un monopolio su Dio, ritenendosi gli unici depositari della salvezza, la riflessione sul primato di Cristo e l’universale presenza del suo Spirito conduce a ripensare la creazione nei termini della presenza di Cristo in tutta la realtà creata. Se è vero il «disegno di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra» (Ef 1,10), allora bisogna cercare il messaggio di Dio in tutti gli strati dell’esistenza: storica, cosmica, sociale, individuale.

C’è una «teoprassi» nei valori «religiosi» dei popoli: tale patrimonio deve essere capito, assunto, letto in Cristo, purificato in lui. Bisogna far attenzione per non confondere l’universalità di Cristo come unico mediatore con la universalità del cristianesimo come religione storica.

Dice un altro teologo asiatico, A. Pieris: se la chiesa vuole conoscere e mostrare il «volto asiatico di Cristo», deve

«essere abbastanza umile da farsi battezzare nel Giordano della religiosità asiatica e abbastanza forte da essere crocifissa sulla croce della povertà asiatica»

La religiosità profonda e ricca dell’Asia e la sua immensa povertà (80% dei poveri del mondo) sono l’impasto per una chiesa cristiana a misura dell’Asia? Egli sostiene anche che vi sono quattro modelli di inculturazione: cultura e religione (latino); filosofia e religione (greco): questi sono impraticabili nel contesto asiatico. Il terzo: religioni cosmiche (animiste) e cristianesimo (nordeuropeo): potrebbe andare bene in Asia, ma per pochi ormai; altre grandi religioni sono già arrivate. E sono le religioni «metacosmiche»: cioè con una realtà trascendente che agisce in maniera immanente nel cosmo e nell’uomo, attraverso l’agape (amore redentore) e la gnosis (conoscenza salvatrice). Per cui conclude che il modello monastico è il più vicino al genio asiatico: per la solidarietà con i poveri (agape) e per la comprensione del linguaggio dei monaci (gnosis) asiatici.

Interessante è anche la «Minjung Theology», cioè la teologia coreana che ritiene il «popolo» (= minjung) come soggetto della storia. La «Minjung Theology» non intende essere né una teologia politica coreana, né una teologia coreana della liberazione. Essa si basa sulla convinzione che il messaggio cristiano si radica nell’esperienza storica e culturale di un popolo. Uno dei termini usati è han (da cui anche «Theology of han»): significa il sentimento collettivo del popolo oppresso, carico di tutti i soprusi e le violenze, è la «giusta indignazione» che permane oltre i tiranni e le tragedie, e indica una coscienza collettiva messianica di speranza e libertà.

In linea generale: si può dire che nelle grandi religioni non cristiane, Gesù Cristo è visto non solo come via all’uomo maturo e realizzato, ma anche come via a Dio, come mediazione al trascendente e al divino.


Note

8) P. Rossano, Teologia delle religioni: un problema contemporaneo, in R. Latourelle, (ed.), Problemi e prospettive di Teologia fondamentale. Queriniana, Brescia 1980, pp. 359-377.

9) Teologia planetaria.

Può essere utile richiamare alcune esperienze del silenzio cristiano sia nel mondo antico extracristiano, sia negli autori cristiani e nei testi liturgici delle Chiese. Esse possono suggerire delle piste di approfondimento teologico-spirituale di un elemento celebrativo spesso disatteso nella pratica.

di François Thual *

La Chiesa cattolica ha evoluto negli ultimi cinquanta anni. Tentiamo una proiezione: che cosa diventerà fra cinquanta anni?

È vero, la Chiesa ha evoluto, ma non sono stati affrontati due punti essenziali e non lo saranno nel prossimo mezzo secolo. Da una parte, la mondializzazione del cattolicesimo, che è presente, in gradi diversi, fin dalla fine del XIX secolo, su tutti i continenti. Dall'altra parte, il sistema di funzionamento interno della Chiesa, la sua organizzazione come “monarchia centralizzata elettiva”, che neppure cambierà nella misura in cui dipende dalla sua ecclesiologia, cioè dalle sue concezioni teologiche dogmatiche costruite per due millenni in modo piramidale.

Quelli che furono convertiti dal Concilio.
E quelli che no

di Marco Ronconi

Recentemente, al convegno di presentazione per una mostra fotografica organizzata dal­l’Azione cattolica italiana sul Concilio ecumeni­co Vaticano II ho ascoltato con piacere la vicepresiden­te del settore giovani ragionare su come il Vaticano Il corra i rischio di diventare solo un mito per le nostre ultime generazioni. "Solo", perché la mitizzazione è una delle più pericolose riduzioni di quell'evento che ha prodotto una gamma di documenti ricchissimi e ha introdotto uno stile ecclesiale adeguatamente aggiornato (bisognerebbe dire «nuovo», ma evito l'aggettivo per non distrarre alcune anime giustamente sensibili). Tali tesori non vanno posti sotto una campana di vetro e ammirati, ma vanno fatti circolare, verificati e recepiti fino all'osso. Ascoltavo e condividevo.

Il tentativo di ricezione riduttiva che conosco meglio è quello che cerca di incastrare i protagonisti del Concilio in categorie sociologiche comprensibili, ma tuffo sommato inadeguate (destra-centro-sinistra...). E altrettanto vero però, che anche fare del Concilio un evento "mitico", significherebbe isolarlo dal presente, levandogli quella carica propositiva che è ancora lonta­na non solo dall'esaurirsi, ma forse anche dal manifestar­si in tutta la sua forza. Non mitizziamo, dunque. È diffici­le, a ben guardare, ma lo si può fare. Soprattutto, rac­contiamo le storie tutte intere, senza paura, affrontan­do la fatica della loro complessità. Pretendiamo che ci vengano raccontate nella loro interezza.

Da tempo, discutendo e ascoltando di Vaticano II, io che ne ho letto solo sui libri, ho maturato l'idea che il dittico progressisti-conservatori (non) funziona esattamente come il dittico credenti-non credenti: a proposito di questa distinzione, ad esempio, il cardinale Martini rifletteva che «ogni credente dialoga con il non credente che è in lui» e proponeva perciò di ragionare abbandonando tale distinzione che non corrisponde alla realtà, preferendole invece la distinzione tra "pen­santi" e "non pensanti . Non sono in grado di propor­re un'analogia simile per inquadrare il Vaticano II, i suoi protagonisti e i suoi diversi modi di recepirlo, ma mi sembrerebbe una buona idea che qualcuno lo faccia. Qualcuno che, afferrando la mole di lavoro preziosissi­mo che gli storici stanno offrendo, dia vita a una tradi­zione rispettosa della complessità e dell'intelligenza di molti dei suoi protagonisti, da non ridurre, ma da cono­scere per discernere e progettare.

Faccio un esempio con la storia del cardinale canadese Paul-Emile Léger Nato nel 1904, entrato in seminario a 12 anni, prete di una congregazione auste­ra e rigorista, arcivescovo di Montreal a 46 anni, in occasione della porpora cardinalizia, si firma «principe della Chiesa» (dal linguaggio, sembra conservatore): grande oratore e predicatore radiofonico (atteggiamen­to progressista verso i mezzi di comunicazione?), si distingue nei primi anni di episcopato per la sensibilità verso le cause sociali dei malati e degli anziani (qui è difficile: conservatore o progressista?), nonché per una vigorosa campagna di moralizzazione contro l'alcool, le danze modeme, Elvis Presley, il cinema, il bingo e l'abbi­gliamento sulle spiagge (ok è conservatore). Nelle file dei prelati "tradizionalisti" si presenta al Concilio (an­che se alcune sue affermazioni sui poteri da riconoscere ai laici mi sembrano "progressiste" ancora oggi...), dove fa parte di alcune delle commissioni più importan­ti. Come "esperto", si avvale però di A. Naud, per il quale parla il titolo del suo libro più celebre: Il magistero incerto. Al termine del Concilio, nel 1967, il cardinale Léger lascia Montreal per trasferirsi a Yaoundé, in Ca­merun, dove resta 12 anni dedicando energie e denaro alla cura dei lebbrosi. Apparentemente, un mito. Per evitare quanto dicevamo prima, tuttavia, basta continua­re la storia fino in fondo. Il suo volontario trasferimento africano - che lascia tutti di stucco - non coincide infatti con un lieto fine. Léger incontrerà molti e difficili problemi con il clero locale, venendo costretto a un ulteriore ripensamento del suo modo di vivere l'aspetto missionario del cristianesimo, fino al ritorno in Canada.

Un'altra volta racconterò di come mi sia stupito a scoprire che è stato il cardinale Ottaviani a introdurre la prima volta frère Roger Schutz in Vaticano, o rievo­cherò la "conversione" del cardinale Parente che, da esponente della minoranza curiale si ritrovò nel post­concilio a difendere vigorosamente la dottrina della collegialità episcopale, avendo riconosciuto il valore degli studi del giovane prof. Alberigo ed essendo rima­sto colpito dagli interventi di alcuni confratelli, come l'allora ausiliare di Bologna, monsignor Luigi Bettazzi. Per ora penso basti ricordare che «ognuno può dire che il Concilio non è stato niente per lui, se non l'ha convertito, se non gli ha cambiato la vita, se non gli ha risvegliato responsabilità sino ad allora insospettate o troppo neglette» (cardinal Paul-Emile Léger).

(da Jesus, gennaio 2006)

Riflessioni sul corpo in un libro di Mario Antonelli

di Marcello Neri


La pastorale ha sempre avuto un certo “pudore” quando trattava il tema della corporeità. Il testo intende ridare ad essa il giusto posto nel contesto dell’annuncio cristiano.

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