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Domenica, 20 Febbraio 2005 17:02

La festa nuziale - Luigi Ghia - 3a Parte

La festa nuziale

· Una festa a rischio · La nostra festa di nozze · E’ davvero una festa? · L’amore e la gioia, oltre il deserto…

Terza parte

LA GIOIA

Nella nostra società, complessa e densa
di problemi, non si sa più gioire. La gioia pare esiliata non solo
dalla nostra vita personale, ma anche a livello sociale ed ecclesiale.
Questo sospetto nei confronti della gioia, sicuramente non di origine
biblica, alimentato anche da teologi e da maestri di spiritualità (non
ne possono essere considerati immuni né S. Agostino né S. Tommaso), ha
poi trovato nella prassi quotidiana di molti cristiani ulteriori
conferme: fino al limite estremo di indurli talvolta a considerare non
solo disdicevole la gioia (nei rapporti amicali, nel mangiare e nel
bere, nell'attività sessuale) ma addirittura a rimuoverla
scaramanticamente, considerandola come segnale di future disgrazie. Non
è raro ancor oggi trovare persone che vivono nel timore che ad un
momento di gioia debbano necessariamente seguire disgrazie, eventi
catastrofici, episodi drammatici e situazioni dolorose. Soprattutto le
persone più anziane conservano spesso nella loro memoria e nel loro
cuore l'eco angosciante di quelle pagine dell'Imitazione di Cristo,
consigliate da maestri e "direttori" spirituali, che proclamavano la
vanità e la turpitudine delle gioie terrestri, dimenticando che il
Vangelo è per definizione "la buona notizia", e che Gesù stesso auspica
ed augura che la nostra gioia sia "piena" (cf Gv 15.10ss). Dunque senza
limitazioni. Non è forse quella "buona notizia" che fa annunciare ai
pastori da parte dell'angelo "una grande gioia" (Lc 2, 10), e Maria, la madre del Signore, non aveva forse confessato alla cugina Elisabetta che "il mio spirito esulta in Dio, ozio liberatore" (Lc 1,47)?

La gioia è un atteggiamento di tutta la persona: non
si può gioire "spiritualmente", e poi vivere "immusoniti" nella vita
quotidiana, incapaci di cogliere anche nelle piccole cose,
nell'incontro con gli amici e i parenti, nello scambio fraterno di
esperienze e di emozioni, nell'allegria conviviale, i motivi di
felicità e di gioia. Ben sintetizza questo concetto Dietrich Bonhoeffer
quando, sottolineando l'idea a lui teologicamente cara della gioia,
collega l'amore per le realtà terrestri con l'eternità, affermando che
solo chi ama la terra desidera che sia eterna. Scrivendo all'amico
Eberhard Bethge, afferma infatti: "Solo quando si ama a tal punto la
vita e la terra, che sembra che con esse tutto sia perduto e finito, si
può credere alla resurrezione dei morti e ad un mondo nuovo".

Anche la coppia deve imparare questo atteggiamento
dell'animo, frutto di una serena gratitudine per le "opere belle" che
il Signore ha compiuto. La gioia è presente nell'incontro dei due
partners, nella relazione che essi instaurano: nasce dall'esperienza
reciproca dell'amore: la gioia di amare e la gioia di essere amati. Una
gioia piena, non alienante, non banale, che non si lascia intrappolare
dai meccanismi di difesa, rimozionali o sublimatori. È ancora
Bonhoeffer a dire, non senza un certo arguto ammiccamento; "Credo che
dobbiamo amare Dio e avere fiducia in lui nella nostra vita e nel bene
che ci dà, in una maniera tale che quando arriva il momento - ma
veramente solo allora - andiamo a lui ugualmente con amore, fiducia e
gioia. Ma - per dirla chiaramente - che un uomo tra le braccia di sua
moglie debba avere nostalgia dell'aldilà, è a dir poco mancanza di
gusto e comunque non la volontà di Dio".

Eppure la gioia degli sposi, vissuta nel giorno dopo
giorno, negli accadimenti spesso anche difficili della vita quotidiana,
sicuramente anche attraverso momenti di crisi e di aridità, resta il
segno di quella gioia pasquale che percorre tutta la creazione, una
creazione liberata e salvata per sempre. Scrive il carmelitano Alberto
Neglia: "Nella pienezza dell'amore coniugale, nella dolcezza della
comprensione reciproca, nello stupore della vita che si rinnova, la
gioia degli sposi è partecipazione della gioia pasquale del Cristo e
motivo di ringraziamento e di lode. Della dinamica relazionale
dell'amore coniugale fa parte il dono sessuale dell'amore, momento
determinante e costruttivo della realtà di coppia, a cui anche il
sacramento invita i coniugi (GS 49). Questo dono è, per gli sposi
cristiani, esperienza di gioia... È importante allora che gli sposi
cristiani sappiano accettare la sessualità con la serenità e la
cordialità che provengono dalla fede nella bontà intrinseca delle opere
di Dio e sappiano gioire di tutti quei gesti di tenerezza nei quali
l'amore coniugale si incarna, si trasmette ed è accettato...".

Luigi Ghia

Asti

da "Famiglia domani" 1/2000

Pubblicato in Spiritualità Familiare
Domenica, 20 Febbraio 2005 16:59

La festa nuziale - Luigi Ghia - 2a Parte

La festa nuziale

· Una festa a rischio · La nostra festa di nozze · E’ davvero una festa? · L’amore e la gioia, oltre il deserto…

Seconda parte

L'AMORE

Era
l'ora sesta, a Sicar, al pozzo che Giacobbe aveva fatto scavare. Ad una
donna, samaritana, una donna "libera", Gesù chiede da bere (cf Gv 4,7).
Chiedere da bere - lo sa bene chi, anche oggi, deve attraversare per
ragioni di lavoro terre aride e desertiche - significa chiedere
accoglienza. Al gesto accogliente della donna, Gesù risponde offrendo
dell'"acqua viva", il dono dello Spirito. È sempre l'ora sesta, sulla
collina del Golgota. Gesù pronuncia una delle parole più forti e
significative tramandateci da tutto il vangelo di Giovanni: "Ho sete"
(19,28). Anche qui il Maestro, stanco del cammino, chiede accoglienza.
È il culmine di un processo attraverso cui Gesù esprime tutta la sua
creaturalità; si riceve come creatura e chiede da bere. Chiede lo
Spirito. Ha messo tutto non solo nelle mani del Padre, ma anche delle
persone che gli sono accanto, non solo di Maria e di Giovanni, il cui
sguardo è angosciosamente fisso sul volto dell’Amato che sta per
morire, ma anche di quel Giuda, "nostro fratello Giuda", che egli non
ha mai respinto, anche di coloro che rispondono alla sua accorata
richiesta inumidendo le sue labbra con una spugna imbevuta d'aceto,
issata su un ramo d'issopo. Alle nozze di Cana c'erano sei giare piene
d'acqua che Gesù ha trasformato in vino. Sotto la croce c'era un vaso
pieno d'aceto. Al massimo dell'amore la risposta è stata il massimo
dell'odio. Ma ancora una volta la contro-risposta è stata una risposta
d'amore. L'odio è stato definitivamente vinto, non nel senso che i
rapporti umani non saranno mai più improntati ad odio, la storia anche
dei nostri giorni ne è una tragica conferma, ma nel senso che l'odio
non avrà mai più l'ultima parola.

Nessuno di noi, creature oppresse da pesi sovente
insostenibili, da speranze frustrate, da amori non corrisposti, da
desideri irrealizzati, riuscirà mai ad esprimere un amore così.
Scriveva Alex Langer: "...è forse troppo arduo essere individualmente
dei portatori di speranza: troppe le attese che ci si sente addosso,
troppe le inadempienze e le delusioni che inevitabilmente si
accumulano, troppe le gelosie e le invidie di cui si diventa oggetto,
troppo il carico d'amore per l'umanità e di amori umani che
s'intrecciano e non si risolvono, troppa la distanza tra ciò che si
proclama e ciò che si riesce a compiere". Pur senza giungere al limite
di gesti estremi di sconforto, è un'esperienza condivisa da molti. Si,
il rischio è davvero di sentire un'infinita distanza tra quell'amore
infinito e la nostra fragile, inespressa capacità di amare. Eppure
l'amore di un uomo e di una donna, il nostro amore, per quanto
imperfetto, è chiamato ad essere segno, non solo simbolo, ma segno
realizzatore, sacramento, di un amore così. Dobbiamo accettarci come
siamo, non pretendere d'amare di un amore impossibile, accontentarci
d'amare di un amore debole e non robusto, finito e non infinito, perché
il termine "infinito" non esiste nel vocabolario dell'essere
creaturale. Questa creaturalità investe tutto il nostro essere: sia il
nostro essere spirituale che il nostro corpo. Senza richiamare equivoci
dualismi, entrambi sono infinitamente lontani da Dio, come
infinitamente lontana è una creatura dal suo Creatore. Ma è proprio da
questa distanza, come ricordava David Maria Turoldo in una delle sue
appassionate omelie, che nasce l'infinita inquietudine e l'infinito
desiderio del cuore, l'insufficienza delle cose, l'insufficienza
perfino di questi amori, finché non si raggiunge l'Amore. "Chiunque beve di quest'acqua avrà di nuovo sete..." (Gv 4,13). È il rischio perenne dell'amore, il rischio perenne della gioia sempre imperfetta che in esso si vive.

Eppure, è solo attraverso il percorrere passo dopo
passo l'insufficienza di questi amori che si raggiunge l'Amore. Perché
la relazione, il confronto con il volto dell'altro, è l'unico luogo in
cui è possibile costruire la nostra identità: non nella cattura
dell'altro, ma proprio nell'incontro con il suo volto, che mi consente
di conoscerlo e di ri-conoscerlo, e nel contempo di conoscere e di
ri-conoscere me stesso. Quando nella coppia esiste amore vero e
profondo, non solo l'innamoramento, l'infatuazione di tipo fusionale,
ma l'amore di reciprocità, frutto della volontà d'amare e non solo del
sentimento d'amore, questo incontro si fa "evento"; "attimo", non
istituzione, per il credente "sacramento"; dono, gioiosa meraviglia,
non possesso; orizzonte, non meta raggiunta; cammino dalla solitudine
all'intimità. Ma spesso, anche, cammino a ritroso: dall'intimità alla
solitudine. Per poi rifare ancora il cammino, e passare finalmente
dall'intimità alla comunione. Oltre il deserto. E anche nel deserto (o
forse solo in esso) è possibile incontrare l'Amore e la gioia.

"Chi siede nel deserto per custodire la quiete con
Dio è liberato da tre guerre: quella dell'udire, quella del parlare, e
quella del vedere. Gliene rimane una sola, quella del cuore".

 

Luigi Ghia

Asti

da "Famiglia domani" 1/2000

Pubblicato in Spiritualità Familiare
Domenica, 20 Febbraio 2005 16:58

La festa nuziale - Luigi Ghia - 1ma Parte

La festa nuziale

·
Una festa a rischio ·
La nostra festa di nozze ·
E’ davvero una festa? ·
L’amore e la gioia, oltre il deserto…

Prima parte

Cana, piccola località della Galilea, un
paesino di montagna a quindici chilometri da Nazareth, sarà sempre
ricordata, finché durerà memoria d'uomo, per questo fatto che in sé non
ha nulla di straordinario: una festa di nozze che rischia di fallire,
una tranquilla gioia amicale e familiare - sostenuta anche da un buon
vino - che è in procinto di spegnersi, e due giovani sposi un po'
inesperti, che non hanno saputo prendere le misure giuste, destinati ad
una "brutta figura" ed a sopportare le critiche, quanto spesso acide e
malevole, degli invitati. Poi interviene Gesù, sollecitato da Maria, e
ridà senso e vigore a quella festa. Le ridona quelle caratteristiche
che ogni festa nuziale dovrebbe possedere: l'amore e la gioia. E’ il
vero "miracolo". Da una festa a rischio di fallimento, ad una ancora
più piena di quella sperata.

Forse era questo il discorrere (su cui evidentemente
nessun esegeta si sofferma, ma il cui contenuto è lasciato alla nostra
sensibilità emotiva; tra Maria, Gesù, i suoi fratelli e i discepoli nel
lungo cammino del ritorno, in quei poco più di 40 chilometri che
portano da Cana a Cafarnao, sul lago di Galilea, un cammino tortuoso,
impervio e faticoso, dove il parlare assume il significato profondo e
liberatorio dell'aprirsi reciprocamente il cuore, e fa apparire meno
aspra la fatica, e meno lontana la meta.

Anche la nostra rivista nell'anno 2000 vuole
idealmente ripercorrere quel cammino da Cana a Cafarnao. Riflettere non
solo sul tema delle nozze di Cana - colto nella prospettiva esegetica,
filosofica, teologica, pastorale - ma soprattutto su quella "festa
nuziale" di cui le nozze di Cana così come ci sono state tramandate
dall'evangelista Giovanni rappresentano un segno.

Una festa nuziale

Come spesso accade per gli scritti di
Giovanni, sarebbe vano ricercare nel noto brano delle nozze di Cana una
chiave di lettura storica, nel tentativo di ritrovare in esso quei
riferimenti di natura teologica ed etnologica atti a collocarlo
nell’alveo di una tradizione per poi collegarvi una concreta esperienza
di vita. La lettura del quarto Vangelo si situa prevalentemente su di
un piano teologico (anche se varrebbe forse la pena sollecitare una
lettura da parte dei teologi non sulla base della "loro" teologia, ma
cercando di entrare a fondo senza le loro precomprensioni teologiche
nella teologia di Giovanni) e gli elementi che in esso si evidenziano
hanno sempre un contenuto fortemente simbolico sul quale, di volta in
volta nel corso dell’anno, tenteremo di riflettere. Così il tema delle nozze,
secondo tutti gli esegeti, è figura dell’alleanza che Dio ha instaurato
col suo popolo, alleanza che Gesù sostituisce con una "Nuova Alleanza"
(ed è questa sintomaticamente la prima delle "sostituzioni" evidenziate
da Giovanni nel suo Evangelo: subito dopo l’episodio di Cana ci sarà
poi quello di Nicodemo in cui si manifesta la "sostituzione" della
Legge e poi ancora quello della Samaritana in cui viene significata la
"sostituzione" del culto…).

Mentre l’antica era fondata sulla Legge mosaica, la
nuova alleanza è fondata sull’amore, e simbolo di questo amore, e della
gioia ad esso collegata, è il vino. Viene subito in mente l’incipit del
Cantico: "Mi baci con i baci della sua bocca! / Sì, le tue tenerezze sono più dolci del vino…" (1,2).

E ancora, nello stesso poema, ma, quando durante la
danza a due schiere, tipica - anche se non esclusivamente - delle feste
nuziali, nel dialogo ideale che intercorre tra il coro e i due giovani,
la ragazza prorompe in un incontenibile grido d'amore verso il suo
innamorato: "Il tuo palato è come vino squisito, / che scorre dritto verso il mio diletto / e fluisce sulle labbra e sui denti..."
(7,10). Sì, una festa senza vino che festa è? Che festa è una festa
senza amore, quando non c'è la festa nel cuore, e i convitati sorridono
solo per buona educazione, o per ipocrisia? Anche se apparentemente la
festa riesce, c'è in essa una sorta di forzatura, di crisi di senso.
Solo l'amore è in grado di dare senso e pienezza alle cose, ad ogni
cosa, ad ogni avvertimento. Ed è quanto è venuto a fare Gesù.

Eppure, come dare colpe agli sposi che rimangono
senza vino, non sempre per negligenza, o per superficialità, per
presunzione, ma quanto più spesso per mancanza di risorse? Sovente
fanno quello che possono, e non rimane loro - per restare nella
metafora - che confidare nell'aiuto, nel buon senso, nella sensibilità
di chi hanno invitato alla festa... Anche noi ci ritroviamo spesso,
come loro, senza vino, sprovveduti e confusi... E allora, o cediamo al
non senso, desistendo dalla incessante ricerca del significato profondo
dell'esistenza, o accettiamo di riempire d'acqua le giare. Gesù
trasformerà quest'acqua in vino, perché è lui a dare pienezza alla vita
attraverso una relazione intima con Dio, realizzata nella relazione
intima tra un uomo e una donna che si vogliono bene, un amore i cui,
detto in linguaggio povero, non solo noi ma anche Dio ha bisogno per
continuare a vivere nel mondo.

A noi pare - e vorremmo bandire ogni intenzione
polemica - che all'interno della comunità cristiana quando si parla di
nozze, di matrimonio, di incontro di coppia, di due che si vogliono
bene insomma, ci sia ancora un po' la tendenza a mettere in evidenza i
compiti, i vincoli, i "paletti", gli aspetti morali (e frequentemente
moralistici) della relazione, a restare cioè sul piano dell'"antica
alleanza", dimenticandone o sottovalutandone gli aspetti ludici, di
festa, in definitiva di gioia. La felicità, il godimento anche fisico,
è stato spesso tabuizzato da una certa cultura cattolica, cd è un tabù
che da un lato molti di noi stentano a scrollarsi di dosso, e
dall'altro lato richiama, per reazione opposta, estreme banalizzazioni.
A dire il vero, è un rischio che a poco il poco pare vada
dissolvendosi, grazie anche al peso sempre maggiore che coppie mature e
responsabili rivestono nell'impianto e nella formulazione dei documenti
ecclesiali sul matrimonio e sulla famiglia, ma ci sembra che il cammino
sia solo iniziato. Occorre continuarlo.


Luigi Ghia

Asti

da "Famiglia domani" 1/2000

Pubblicato in Spiritualità Familiare

Un popolo in ascolto. Per «fare quello che ci dirà»

Il Figlio in ascolto

Imparò l'obbedienza dalle cose che patì

L'icona mariana

Le sue vie non sono le nostre vie

· In questo numero si vuole «porre la questione» dell’obbedienza da punto di vista biblico- esegetico · da tale ricognizione emerge che essere (meglio: diventare) obbedienti è accettare di essere figli, come Gesù, il Verbo fatto carne · Un modello di obbedienza non deresponsabilizzante.

Una delle preghiere quotidiane di Israele fin dai tempi di Gesù comincia con le parole tratte da Dt 6,4 «š ma’, yisrāël: ascolta, Israele!». Non un comandamento sul fare, né l'invito a prendere un’iniziativa qualsiasi. È il precetto fondamentale: Israele diviene il popolo dell'ascolto, della passività, della docilità di Dio che guida la sua storia. Né il vero israelita dell'antica alleanza, né l'autentico cristiano sono rappresentati dalla Scrittura come eroi che compiono grandi imprese: la via comune è piuttosto la via dell'abbandono, del seguire Dio là dove egli chiama. I profeti dell'Antico Testamento vengono sradicati dalle loro attività, dai loro villaggi per seguire le esigenze tenere e forti allo stesso tempo della Parola divina: questa Parola è come un fuoco che brucia dentro; chi la può trattenere? I discepoli del Nuovo Testamento sono chiamati a seguire Gesù e a rimanere con lui: non si tratta soltanto di una sequela momentanea o di un fate qualcosa per lui, ma di entrate in profonda comunione con lui, lasciandosi guidare. Da Abramo in poi, ogni credente è figlio della promessa; si affida e parte, senza sapere dove andrà: «Per fede Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava. Per fede soggiornò nella terra promessa come in una regione straniera, abitando sotto le tende, come anche Isacco e Giacobbe, coeredi della medesima promessa. Egli aspettava infatti la città dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio stesso» (Eb 11,8-10).

Essere obbedienti è dunque semplicemente essere figli. Accettare di essere figli. Accettare cioè la dipendenza da un Altro. È la nostra verità: la tentazione costante del popolo di Israele è quella di costruirsi cisterne con le proprie mani, ma sono cisterne screpolate, che non possono trattenere l'acqua (cf Ger 2). Una sola è la Sorgente dell'Acqua viva, e il figlio che ricerca la propria indipendenza pretendendo di fare a meno della casa paterna si autocondanna alla sterilità (cf Lc 15,11-32). Accettare di essere figli è il primo passo per vivere l'obbedienza. È accettare di essere creature, con i propri limiti, con il proprio peccato, con la propria storia, riconoscere di dipendere in tutto e per tutto.

Il Figlio in ascolto

A questo atteggiamento ogni uomo è - di fatto - restio. L’Adamo originale - cioè l'uomo di sempre, l'uomo di ogni tempo e di ogni luogo - vive costantemente la tentazione della disobbedienza non tanto come rifiuto di leggi o di norme esterne, quanto piuttosto come non accettazione della propria creaturalità e della propria figliolanza. Il peccato originale consiste proprio nel voler essere come Dio (cf Gn 3,5), nel mangiare il frutto dell'albero della conoscenza del bene e del male: l'uomo vuole impadronirsi della morale, vuol essere legge a se stesso, vuole bastare a se stesso! Gli idoli - opera delle mani dell’uomo - sono il segno più evidente della difficoltà di Israele ad accettare di essere salvati da Dio, senza cercare la salvezza con le proprie mani. La critica profetica contro l'idolatria è l'invito al ritorno all'obbedienza vera, un'obbedienza che renda ragione alla nostra verità.

C'è però un uomo che ha vissuto fino in fondo tutte le esigenze del proprio essere figlio: il Figlio Unigenito di Dio, il Verbo fatto carne per guidarci nella strada di questo ascolto. Il prologo del Vangelo di Giovanni ci offre l'icona originale dell'obbedienza, guidandoci a contemplare il Verbo (cioè la Parola!) nel senso della Trinità, in atteggiamento di perfetta e totale obbedienza. Giovanni inizia il suo vangelo con questa contemplazione, che ci rimanda allo splendore epifanico di tante icone orientali (penso in particolare alla celebre icona della Trinità di A. Rublëv): «in principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio» (1,1). L'espressione greca pròs ton theòn, che traduciamo con «presso Dio», in realtà vuole offrirci l'immagine del Verbo che sta «di fronte a Dio». Padre e Figlio sono contemplati l'uno di fronte all'altro; il Verbo è in atteggiamento di ascolto, di accoglienza e di disponibilità a tutto ciò che il Padre dice. Il Verbo fatto carne dirà tutto e solo ciò che avrà udito dal Padre: egli e il Padre sono una cosa sola (cf Gv 5,19-47; 8,28-29).

 

 L'obbedienza cristiana nasce dal cuore della Trinità, dal Figlio che ascolta ciò che il Padre dice da sempre, lo guarda negli occhi e quasi pende dalle sue labbra. Non c'è obbedienza se non in questo rapporto personale e in questa comunione d'amore.

 

Allora la preghiera del figlio: «sia fatta la tua volontà» (Mt 6,10), preparata e fortificata dalla preghiera angosciata del Figlio: «non come voglio io, ma come vuoi tu!» (Mt 26,39), non è la rassegnazione sfiduciata e remissiva di chi sa che non si può fare altrimenti! È piuttosto il grido gioioso del figlio che desidera fare ciò che al Padre piace, cerca le cose che gli sono gradite, quasi anticipandone la manifestazione e prevenendone i desideri (cf Gv 8,29).

«Imparò l'obbedienza dalle cose che patì»

L'autore della lettera agli Ebrei ci dice fino a che punto si sia spinta questa obbedienza esemplare del Figlio: «pur essendo Figlio, imparò l'obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono» (5,8-9). Cristo non ha vissuto la sua figliolanza come un tesoro geloso o come un motivo di superiorità, ma l'ha compresa come una consegna totale. Il suo essere Figlio consiste nell'«imparare» l'obbedienza. La vita di Gesù ci dice che non si è obbedienti: lo si diventa se ci si lascia condurre da Dio, che ci educa come un padre fa con i suoi figli. Gesù stesso ha compiuto questo cammino di educazione all'obbedienza! Anche nelle relazioni fraterne la via è dunque l'educazione all'ascolto, all'accoglienza dell'altro per imparare ad accogliere ed ascoltare l'Altro. Questa strada si è imposta al Figlio di Dio soprattutto attraverso la via della sofferenza. L'esperienza di Gesù valorizza il momento della prova, della difficoltà, di ogni crisi come il momento privilegiato per l'educazione all'obbedienza. La notte è simbolicamente il luogo in cui l'uomo smette di fare, di lavorare, di essere il protagonista, per lasciarsi fare e condurre da Dio. Ogni «notte» dell'esistenza umana (crisi, aridità, sofferenze, distacchi) può aprire la strada a un «di più» di ascolto; la sofferenza accolta, accettata e vissuta può affinare la capacità di ascolto di ogni uomo, perché la sofferenza è il momento della verità.

Era questa anche l'esperienza del popolo di Israele, condotto per mano da Dio, liberato dalla schiavitù egiziana e in cammino verso la terra della promessa. Il libro del Deuteronomio ricorda ad un popolo stanco, sfiduciato, tentato dal dubbio, in continua mormorazione contro il Signore, che l'esperienza del deserto fa parte di un cammino di educazione all'obbedienza: «ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che tu avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandamenti. Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto o provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma vive di quanto esce dalla bocca del Signore. (…) Riconosci dunque in cuor tuo che, come un uomo corregge il figlio, così il Signore tuo Dio corregge te» (8,2-3.5).

Se non fossero venuti a mancare la carne, i pesci, i cocomeri, i meloni, i porri, le cipolle e l'aglio che Israele mangiava gratuitamente in Egitto (cf Nm 11,45), se il popolo non avesse fatto l'esperienza dell'essenzialità, della rinuncia e della fatica del deserto, Dio non avrebbe potuto educarlo all'ascolto. Invece è proprio in quell'assenza e in quella fatica che i figli d'Israele possono nutrirsi del dono divino e sentir crescere in sé la fame e il desiderio della parola che esce dalla bocca di Dio.

 

L'icona mariana

Il vangelo ci dona in Maria un'icona dell'umanità docile ed obbediente. La Vergine dell'Annunciazione, creatura del "si", è lo specchio fedele e il risvolto umano di Cristo, l'Amen, il Sì radicale a Dio Padre: egli «non fu "sì" e "no", ma in lui c’è stato il "si"» (2 Cor l,19; cf Ap 3,14). «Avvenga di me seconda la tua Parola» (Lc 1,38) è il grido di gioia di Maria che sa di poter essere la terra fertile in cui Dio potrà seminare la sua Parola.

 

La redazione lucana dei vangeli dell'infanzia ci mostra Maria in questo atteggiamento di ascolto obbediente. Una prima volta in Lc 2,19 ci viene detto che Maria serbava «tutte queste cose/parole» meditandole nel suo cuore, e poi ancora al v. 51 Luca sottolinea questo atteggiamento interiore della Vergine. Nel primo versetto citato, l'evangelista presenta la meditazione di Maria sugli eventi e sulle parole del Figlio con il verbo greco syllambàno, che significa «confrontare, mettere insieme». La madre conserva dunque nel cuore (sede biblica del pensiero, della ragione, dei sentimenti, della volontà) tutte le parole e tutti gli eventi della vita del Figlio, confrontandoli fra loro perché si illuminino a vicenda; di fronte ad ogni situazione, soprattutto di fronte a quelle più difficili (Luca ne parla infatti in occasione di due eventi negativi nella vita di Maria), la Verginità, chiedendosi il perché delle cose: «che cosa vorrà dirmi Dio attraverso quella parola o quella situazione?».

 

Anche l'immagine della spada nelle Parole di Simeone ci porta alla stessa conclusione. Il santo vecchio predice a Maria: «anche a te una spada trafiggerà l'anima» (Lc 2,35). Se è vero che queste parole rappresentano la predizione delle sofferenze future di Maria fino alla croce del Figlio, per cui anche di lei si può dire che «pur essendo figlia, imparerà l'obbedienza dalle cose che patirà», non dobbiamo dimenticare che nella Bibbia la spada simboleggia spesso la Parola di Dio, «viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio» (Eb 4,12). Simeone parla dunque anche del cammino di obbedienza della Madre alle Parola del Figlio.

Le sue vie non sono le nostre vie

Il vangelo non usa mai il verbo greco hypakoùo (obbedire) in riferimento alla relazione di un uomo con un altro uomo, e neppure nei confronti di Gesù: sono gli elementi della natura o gli spiriti maligni che gli obbediscono ciecamente, con un'esecuzione materiale (cf Mt 8,27; Mc 1,27; 4,41; Lc 8,25); anche i discepoli -se solo avessero fede quanto un granello di senape - potrebbero farsi obbedire dalle forze della natura (cf Lc 17,6). Anche il resto del Nuovo Testamento usa questo verbo con una certa parsimonia, e mai nel caso di un uomo che obbedisce ad un altro uomo, se non in pochi testi esortativi dell'epistolario, molto segnati culturalmente e riguardanti precetti di morale familiare (cf Ef 6,1.5; Col 3,20.22; 1 Pt 3,6). Si obbedisce piuttosto a Dio (cf Eb 11,8), al vangelo (cf Rm 10,16; 2 Tes 1,8), alla fede (cf At 6,7), alla parola (cf 2 Tes 3,14), ai desideri della carne o dello Spirito (cf Rm 6,12.16-17). I verbi che meglio caratterizzano l'obbedienza evangelica sono invece i verbi dell'ascolto e dell'accoglienza, che invitano a comprendere l'atto di obbedire più in termini personali e comunionali che giuridici o legalistici

È vero poi che nel vangelo di Luca Gesù dice ai settantadue discepoli inviati in missione: «chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me» (10,16), ma la Bibbia non sottolinea in modo particolare l'obbedienza a mediatori umani: al centro della rivelazione sta un ascolto di Dio che agisce e che parla nella vita di ciascuno e nella vita del nuovo popolo di Dio, che è la Chiesa. Forse una delle presentazioni più sintetiche ed efficaci dell'obbedienza biblica ci è data dalla celebre frase di Rm 8,14, in un contesto che insiste particolarmente sulla filialità: «tutti quelli infatti che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio». Siamo figli, ma in realtà lo diventiamo! Più ci lasciamo guidare dallo Spirito, più viviamo il nostro essere figli! L’obbedienza nella Bibbia non riveste dunque una dimensione di sicurezza: non sappiamo fin dall'inizio che cosa significhi e che cosa comporti obbedire. Ad obbedire s'impara obbedendo! Il figlio obbediente è colui che vive pienamente la speranza teologale, lasciandosi condurre per mano da Dio là dove Dio lo vuole condurre. E poiché le sue vie non sono le nostre vie (cf Is 55,8), può darsi che la sua fedeltà si manifesti nel chiederci oggi cose diverse da quelle che ci ha chiesto fino a ieri. Il cristiano ancorato al suo passato, alle tradizioni puramente umane è l'esatto contrario del figlio obbediente: anche i farisei erano abilissimi ad osservare le tradizioni degli uomini, trascurando il comandamento di Dio e vanificando la sua Parola (cf Mc 7,1-13)!

L'obbedienza secondo la Bibbia non è neppure deresponsabilizzante: non significa delegare ad un altro la fatica di scegliere per me. Gli uomini e le donne che incontrano Gesù nel vangelo sono tutti chiamati ad una scelta libera, responsabile e personale. Prima o poi tutti arrivano ad incontrare Gesù in modo personale e a lasciarsi coinvolgere fino in fondo dalla sua Parola. Gli inviti di Gesù («seguimi, ascolta, rimani in me, se vuoi...») sono inviti personali ed appelli alla libertà di ciascuno. Anche negli Atti degli apostoli la Chiesa delle origini ci appare più come la comunione di persone in ascolto che come una massa di pecoroni intruppati. Basterebbe vedere a tale riguardo l'insistenza con cui l'opera lucana parla della Chiesa come dell'unione di coloro che ascoltano o accolgono la Parola.

Da tutto ciò traspare che l'obbedienza per la Bibbia non è qualcosa di statico e spersonalizzante, ma è una realtà dinamica, è la vita stessa del credente che vive la propria condizione di figlio. Obbedire è ascoltare la Parola, è meditarla con sincerità, è docilità allo Spirito, attenzione alla presenza di Dio, sensibilità nel cogliere i segni dei tempi, è la virtù di chi affina la propria capacità di ascolto, è vittoria sulla pretesa orgogliosa di poter gestire la vita e trovare la salvezza con le proprie mani, è lasciarsi condurre docilmente come Maria. L'obbedienza biblica ha poi una caratteristica fondamentale, che il Nuovo Testamento qualifica con la parola greca parresìa, che potremmo tradurre con una gamma sconfinata di significati: «coraggio, libertà di spirito, franchezza, coerenza, passione per la verità...».

Voglio concludere accennando appunto a due esempi, due icone bibliche di questa obbedienza vissuta con parresìa. La prima, veterotestamentaria, è la vocazione profetica. Ogni profeta - per natura sua - è un uomo in ascolto della Parola, e questa Parola lo conduce spesso là dove egli non vorrebbe (il più emblematico è il caso di Geremia). Ogni profeta ha a che fare con il potere, sia esso incarnato nella persona del re o dei ricchi ingiusti o dei sacerdoti corrotti, come coscienza critica e come voce capace di far risuonare la Parola di verità nella sua integralità. La stessa consacrazione battesimale riveste il credente di questa dimensione profetica che ne fa un uditore della Parola, costi quello che costi, L'altra Icona - questa volta presa dal Nuovo Testamento - è quella dell'apostolo Paolo che, ad Antiochia, non teme di opporsi alle colonne della Chiesa e allo stesso Pietro affinché si affermi la verità. Leggiamo, in conclusione, le sue linee autobiografiche nella lettera ai Galati, non per ricavarne un invito orgoglioso alla ribellione, ma per scoprirvi l'umiltà e la coerenza di una fedeltà alla verità della Parola, caratteristica del vero apostolo: «Giacomo, Cefa e Giovanni, ritenuti le colonne, diedero a me e a Barnaba la loro destra in segno di comunione. (…) ma quando Cefa venne ad Antiochia, mi opposi a Lui a viso aperto perché evidentemente aveva torto. Infatti, prima che giungessero alcuni da parte di Giacomo, egli prendeva cibo insieme ai pagani; ma dopo la loro venuta, cominciò a evitarli e a tenersi in disparte, per timore dei circoncisi. (…) Ora quando vidi che non si comportavano rettamente, secondo la verità del vangelo, dissi a Cefa in presenza di tutti: "Se tu, che sei giudeo, vivi come i pagani e non alla maniera dei giudei, come puoi costringere i pagani a vivere nella maniera dei giudei?"» (Gal 2,9.ll-1214).

Roberto Fornara

Biblista – Roma

Da “Famiglia domani” 3/2000

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Pubblicato in Spiritualità Familiare
Sabato, 13 Novembre 2004 16:36

"Anania e Saffira" (Paola Lazzarini)

 

Anania e Saffira

(At 5, 1-11)

Anania e Saffira vendono un terreno di loro proprietà, il ricavato è buono, probabilmente sopra le attese, e così decidono di trarre due vantaggi in una volta sola: arricchire davanti agli uomini e davanti a Dio (cfr. Lc 12,21). Dopo aver trattenuto per sé una parte del denaro vanno da Pietro a consegnargli la somma rimanente, dichiarando che è per quella cifra che hanno venduto il campo. La fine sarà orribile: uno dopo l’altro cadono morti davanti a Pietro e sono portati via e seppelliti dai giovani della Comunità.
Questo breve brano degli Atti degli Apostoli descrive con precisione e senza fronzoli il processo che porta la coppia da oasi di fecondità, ruolo attribuitele da Dio, a luogo di morte.
Alla coppia è dato tutto: l’amore di Dio si riversa sulla coppia continuamente, è un investimento illimitato del Signore che da quando la costituisce non smette mai di alimentarla e sostenerla, senza chiedere nulla in cambio.
Ma nella coppia può insidiarsi l’ombra astuta del Nemico (come già era accaduto per Adamo ed Eva) e quando il peccato entra in una coppia è ancora più difficile da scacciare, perché i due possono diventare l’uno per l’altro messaggeri di morte anziché di vita.
Il peccato di Anania e Saffira è di aver voluto rompere la logica di Dio. Dio ha donato tutto di sé gratuitamente e mette l’uomo davanti alla scelta: o entri in questa logica di gratuità e di circolo vivificante d’amore, oppure ne stai fuori e trovi il tuo posto nel mondo in cui tutto ha un prezzo.
Anania e Saffira non vogliono scegliere, o meglio, vogliono tutto. Vogliono la benedizione di Dio e vogliono le spalle coperte; dicono di credere nella Provvidenza e poi fanno l’Assicurazione sulla Vita! E questa scelta di non scegliere non può che portare alla morte.
E la morte separata dei due sposi ci svela che quando la coppia si lascia tentare dal Nemico a non fidarsi di Dio muore anch’essa: i due tornano ad essere individui separati, complici ma non più coniugi.
E le giovani generazioni non aspettano, raccolgono i cadaveri di questa coppia disfatta e senza una parola di pietà la seppelliscono e sembrano dire: "per noi sarà diverso".
Il progetto di Dio sulla coppia vuole portarla all’abbandono, non chiede i rimasugli del suo tempo e delle sue energie, chiede piuttosto di diventare la tenda nella quale la coppia dorme serena. Davanti a un Dio crocifisso non si possono fare compromessi e lo "scegliere di non scegliere" porta, come per Anania e Saffira, alla morte. Davanti a quell’Uomo appeso alla Croce dobbiamo decidere - e subito - se vogliamo seguirLo e imitarLo oppure no, dobbiamo scegliere cioè tra la Vita e la Morte.

di Paola Lazzarini

Pubblicato in Spiritualità Familiare
Sabato, 13 Novembre 2004 16:34

"Aquila e Priscilla" (Paola Lazzarini)

 

Aquila e Priscilla

(At 18,1-4 18-19)

La scena si apre su Paolo che, appena lasciata Atene si reca a Corinto. Ad Atene si era scontrato non con le sassate come ad Antiochia, né con le bastonate e il carcere come a Filippi, ma con un uditorio scaltrito e cinico, incapace di farsi coinvolgere, troppo abituato ad ascoltare discorsi e sofismi.

Neanche l’annuncio di Paolo riuscirà a toccare il cuore di quella gente e se ne andrà da quella città amareggiato. La sfida al mondo intellettuale, disincantato e agnostico, rimane aperta e come Paolo, anche noi cristiani presto rinunciamo davanti alle difficoltà di portare la Buona Notizia del Regno a chi ci oppone muri di cinismo e cultura.

Paolo arriva a Corinto ed incontra una coppia, Aquila e Priscilla, che era stata costretta a lasciare l’Italia a causa di un ordine dell’Imperatore che ingiungeva a tutti i Giudei di lasciare Roma, e si ferma ad abitare con loro. Il testo non dice molto di questi due personaggi, non dice neppure se si fossero già convertiti al cristianesimo o meno, dice solo che accolsero Paolo come un fratello e che egli lavorò con loro, tornando al suo antico mestiere, e che ogni sabato si recava nella sinagoga portando il suo annuncio a tutti, indistintamente.

Questa collaborazione e questo sostegno reciproco gettano una luce di speranza sul rapporto tra consacrati e sposi. Ed è soprattutto il verso 18 a colpirci: Aquila e Priscilla accompagnano Paolo fino ad Efeso, gli sono compagni ed alleati.

Davanti a questi pochi versi si infrangono tutte le difficoltà della collaborazione tra laici e consacrati: non ci sono rivendicazioni, non si sottolineano le diversità, perché il fatto che ci siano è naturale e necessario, ma si sceglie la strada del sostegno reciproco, e sono in particolare gli sposi, per la loro vocazione, a saper creare un contesto di accoglienza che rigenera l’apostolo e gli dà forza per proseguire il suo viaggio.

Scendendo un poco più in profondità nel discorso sui rapporti tra le diverse vocazioni bisogna innanzi tutto affermare che c’è una sostanziale incapacità di capire una vocazione diversa dalla propria. E’ un fatto col quale bisogna confrontarsi, per quanto santi e illuminati gli sposati hanno difficoltà a capire che cosa realmente sia una chiamata alla consacrazione, e allo stesso modo i consacrati non hanno modo di vedere fino nel cuore della vocazione matrimoniale, e prima accettiamo questa incomunicabilità, prima finiranno le rivendicazioni sul primato di una vocazione sull’altra, rivendicazioni sterili e inutili per la Chiesa.

Il sacramento battesimale rende tutti i cristiani "abili" all’evangelizzazione, non è necessario alcun sacramento aggiuntivo a questo scopo, per questo tutti abbiamo il dovere di prepararci responsabilmente a questa missione, ma certamente la Chiesa si nutre delle diversità che la fantasia di Dio ha creato, e la diversità delle vocazioni è una di queste. Ed è bellissima, perché nella sua multiformità svela tratti diversi del divino che vuole manifestarsi in noi.


di Paola Lazzarini

Pubblicato in Spiritualità Familiare
Sabato, 13 Novembre 2004 16:34

"Noemi e Rut" (Paola Lazzarini)

 

NOEMI E RUT

(Rut 1, 1-18)

Una coppia particolare, composta da due donne: Noemi e Rut, suocera e nuora, sa parlarci dell’alleanza coniugale all’interno della Chiesa.

Noemi, dopo essere rimasta vedova in terra straniera (a Moab), con le sue due nuore, anch’esse vedove, decide di tornare in Giudea perché ha sentito che il Signore ha visitato il suo popolo. Noemi, che è stata duramente provata dal Signore, non sente questa visita come rivolta anche a lei, ma decide ugualmente di partire sentendo che la promessa del suo popolo può diventare anche sua se ritornerà. Ugualmente Rut, moabita, si "attacca" letteralmente alla suocera, decide di non lasciarla qualunque cosa accada e di seguirla in quella terra.

Possiamo vedere nel popolo di Giuda la Chiesa, "visitata" da Dio e benedetta, alla quale ogni uomo si aggrappa, anche se sfiduciato e senza speranza, perché "ha sentito dire" che là c’è un pane che è per tutti.
E’ esperienza di tutti noi vivere dei periodi di sfiducia e anche disperazione; proprio in quei momenti la Chiesa-madre ci sostiene, perché possiamo sempre pensare che là dove la nostra fede non arriva arriverà la fede degli altri fratelli: questo ci riapre l’orizzonte permettendoci di continuare a credere. Quante volte solo guardando agli altri riusciamo a dire: "se lui/lei crede allora posso credere anch’io, magari appoggiandomi sulla sua fede nei momenti bui".
La scelta di Rut invece ci parla dell’alleanza che può stabilirsi tra due persone. Rut lascia il paese di suo padre e investe tutto ciò che ha e che è, il suo futuro, nel rapporto con Noemi. La promessa di Rut ci fa pensare alla promessa di una sposa: dove tu andrai io andrò, dove ti fermerai mi fermerò, il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo Dio il mio Dio, dove morirai tu morirò anch’io.

Per Rut la conversione al Dio d’Israele passa attraverso la scelta esplicita di stare accanto ad un’altra persona.
Quella promessa che in principio era riservata al popolo e che Noemi fa sua a fatica, ora si allarga fino a diventare anche la promessa di Rut; anche per lei il Signore provvederà il pane e, infatti, le due donne si dirigono a Betlemme che in linguaggio popolare significava "Casa del pane". Proprio da Betlemme verrà poi il Pane della Vita.

Il matrimonio può e deve essere anche questo: il luogo della conversione quotidiana all’unico Dio che sa saziarci; amare e seguire l’altro è – nella vocazione matrimoniale – la via per amare e seguire il Signore.
Il matrimonio cristiano è anche un’alleanza esplicita come quella di Rut ed è una scelta che comprende tutto, che investe tutto e che porta una promessa individuale – quella della salvezza – a diventare una promessa di coppia e di famiglia. Tutto entro le braccia sicure della madre Chiesa che ci permette ogni giorno di ritrovare il Pane che ci dà la vita.

di Paola Lazzarini

Pubblicato in Spiritualità Familiare
Sabato, 13 Novembre 2004 16:32

"La sunammita" (Tony Piccin)

 

La Sunammita

(2 Re 4,8-37)

È impossibile calcolare i doni che abbiamo ricevuto da Dio, ma primo e sopra tutti, senza ombra di dubbio, c'è il dono della vita che ciascuno di noi ha ricevuto. Questo è il dono più bello del Signore; ce lo ha dato e non ce lo toglierà mai più in eterno perché noi, una volta nati, resteremo vivi per sempre pur se con modalità diverse come ci dice la nostra fede. E anche il servizio più grande che ci hanno fatto i nostri genitori. La coppia ha la grande responsabilità di generare, ossia di dare a Dio la possibilità di creare una nuova vita. È un bisogno quello della coppia di generare vita, ogni tipo di vita, da quella fisica a quella spirituale, ma è anche forte la tentazione di voler esserne padroni, di imprigionare "per noi" le vite che pulsano accanto a noi. La vita del partner o del figlio non è nostra, ma ci è stata messa accanto perché la custodiamo, perché la aiutiamo a svilupparsi in pienezza. La donna di Sunem ci si presenta come una persona "viva" ed attenta. Lei non ha figli ma c'è qualcun altro da accogliere: è l'uomo di Dio, il profeta. Ad Eliseo serve cibo per nutrirsi, un luogo in cui sostare: un letto, un tavolo, una sedia e una lampada" (4,10). Il profeta ha bisogno di riposare, ma anche di studiare la Torah e pregare in quella piccola stanza. Quasi come logica conseguenza della maturità interiore della Sunammita ecco il dono del figlio:

"L'anno prossimo, in questa stessa stagione, tu terrai in braccio un figlio" (4,~6). No mio Signore, uomo di Dio, non mentire con la tua serva" (4,16). Non mi illudere, non farmi promesse vuote. Infatti, quasi fosse un presentimento, il bambino che nasce, appena divenuto ragazzo improvvisamente muore.

"Essa salì a stenderlo sul letto dell'uomo di Dio; chiuse la porta e usci" (4,21). La coppia è il luogo (la situazione normale, l'ambiente naturale) dove nasce e fiorisce la vita, ma la vita è di Dio: egli l'aveva donata attraverso la preghiera di Eliseo, occorreva dunque rimettere tutto nelle sue mani.

Il profeta su quel letto non si può stendere perché è occupato da un cadavere. E poi quella donna non lo aveva pregato di non illuderla?

"Egli entrò, chiuse la porta dietro a loro due e pregò il Signore. Quindi salì, si distese sul ragazzo; pose la bocca sulla bocca di lui, gli occhi sugli occhi di lui, le mani nelle mani di lui e si curvò su di lui. Il corpo del bambino riprese calore (...) tornò a curvarsi su di lui; il ragazzo starnutì sette volte - la vita era tornata in pienezza - poi apri gli occhi" (4,33-35). L'atto di Eliseo sembra lasciarci il messaggio che "la vita genera vita" e solo l'amore è capace di compiere questo miracolo, qualsiasi tipo di amore, ma in modo tutto particolare quello che l'uomo nutre per la sua donna e la donna per il suo uomo.

Tony Piccin

Pubblicato in Spiritualità Familiare
Sabato, 13 Novembre 2004 16:28

"Il figlio come dono" (Tony Piccin)

 

IL FIGLIO COME DONO

(1 Sam 1,24-28)

La Bibbia ci presenta parecchie volte la situazione di donne che si trovano in pena perché non possono avere figli.

In ognuno di questi casi si legge un piano provvidenziale del Signore che, attraverso queste situazioni sofferte, prepara un personaggio chiave della storia che Egli sta conducendo col suo popolo eletto.

Ogni volta ci troviamo anche di fronte a coppie che si amano in modo profondo e cercano di superare la mancanza di figli con una sensibilità delicata che le mantiene vive.

E' il caso di Elkana e Anna: "Anna perché piangi? Perché non mangi? Perché è triste il tuo cuore? Non sono forse io per te meglio di dieci figli? "(1 Sam 1,8).

Poi, il dono di Dio: Samuele!

Nel tempio del Signore in Silo prestava il suo servizio il sacerdote Eli e la sua famiglia. Tuttavia i suoi figli erano disonesti e non si curavano del Signore. La Bibbia ci fa capire che si stava creando una grave situazione di disordine sociale e religioso di cui erano responsabili i figli di Eli. Non basta averli, i figli, non basta crescerli in ambiente religioso perché questi seguano il progetto di Dio. Educare significa far scaturire dal cuore le realtà migliori create in noi ma non significa accontentare sempre, evitare ai figli i sacrifici, giustificare i loro errori... tutto ciò non rientra nel progetto di Dio.

"Io onoro chi mi onora, ma chi mi disprezza troverà disprezzo, dice il Signore" (1 Sam. 2,30). Ma il messaggio del Signore non è mai senza speranza, e la speranza questa volta è rappresentata da Samuele, consacrato al servizio del Signore presso il tempio di Silo.

Lo aveva consacrato la mamma con un voto quando, disperata aveva pregato per avere quel figlio:

"Signore degli eserciti, se vorrai considerare la miseria della tua schiava e ricordarti di me, se darai alla tua schiava un figlio maschio, io lo offrirò al Signore, per tutti i giorni della sua vita..." (1 Sam l,11).

Ogni figlio, chiesto o non chiesto, è dono del Signore e deve crescere "in bontà e grazia, davanti a Dio e agli uomini".

Eli ha fallito con i suoi figli ma gli errori insegnano a crescere ed egli sa indirizzare bene Samuele, lo aiuta a riconoscere la voce del Signore: "Vattene a dormire e, se ti chiamerà ancora, dirai: parla, Signore, il tuo servo ti ascolta" (1 Sam 3,9).

Per nostra fortuna c'è "Qualcuno" che sa chiamare ed educare nonostante le nostre contraddizioni e paure: è il Dio della vita e della speranza.

Tony Piccin

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Sabato, 13 Novembre 2004 16:27

"Osea e Gomer" (Tony Piccin)

 

OSEA E GOMER

il coraggio di amare

Quando Osea scrive (750 anni prima di Cristo), nel popolo di Israele c’è una profonda crisi di fede. Da un lato c’è la fede in JHWH, il Dio dell’Esodo, ma dall’altro ci sono le divinità cananee, con i templi per la prostituzione sacra e i riti di fecondazione,e così la gente è divisa tra Dio e le urgenze dettate dalle stagioni e dai raccolti.

L’intuizione del profeta è originale: i rapporti uomo-donna sono qualcosa che assomiglia al rapporto dell’uomo con Dio, anzi sono "sacramento" di Dio. Ed Osea paragona il rapporto tra Dio e Israele alle sue vicissitudini personali. Egli aveva sposato una donna che amava tanto, ma questa, che prima di sposarsi faceva la prostituta, lo lascia e ritorna a fare la prostituta. Osea si dibatte, è geloso, la accusa, ma non la abbandona.

Perché questa donna si comporta così? Perché guadagna parecchio con poca fatica, è attratta dalla vita facile e piena di emozioni, tutte cose negate ad una brava moglie. L’amore vero perseguita questa donna, riesce ad impedirle di raggiungere gli amanti e la obbliga a vivere nella povertà e nel deserto.

La ricchezza, lo stordimento portano facilmente fuori strada, portano alla corruzione, agl’idoli, a credere in cose inutili e passeggere... ecco che cosa significa prostituirsi.

Il deserto, il silenzio è il luogo sacro dell’incontro con lo sposo: "la attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore" (Os 2,16).

Hanno di nuovo inizio inviti, attenzioni, tenerezze, corteggiamenti... fino alla restituzione dei beni della terra che sono cosa buona se non sono vissuti come gli idoli.

Tutto quello che stiamo dicendo va riferito a Dio sposo che vuole riconquistare Israele sua sposa che si è allontanata da lui. Ma resta vero che l’immagine realistica di Osea e sua moglie sono sempre una realtà viva ed attuale: poco o molto tutti ci prostituiamo, tutti siamo infedeli.

Il termine che ricorre e chiarisce tutta questa situazione è "alleanza". Alleanza di Dio con il suo popolo significa che egli è sempre fedele anche se noi non lo siamo. "E avverrà in quel giorno - oracolo del Signore - mi chiamerai: marito mio, e non mi chiamerai più: mio padrone"(Os 2,18).

L’esperienza di sofferenza ha fatto maturare, ha fatto aprire gli occhi sull’uguaglianza del rapporto di coppia. Ritroverà un marito e non un padrone. Il padrone ricorda solo l’obbligo, la legge, i diritti e i doveri... e questo non basta in un rapporto amoroso di coppia. La coppia, il matrimonio sono il luogo, l’opportunità dove si impara a ricominciare da capo nell’amore, dove si cresce e si matura per saper vivere un vero rapporto personale umanizzante.

"Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza e nell’amore (Os 2,21)

Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza e nell’amore (Os 2,21)

Tony Piccin

("Gruppi Famiglia" )

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