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Noi delle strade. Madeleine Delbrêl

Il 13 ottobre 1964 moriva improvvisamente Madeleine Delbrêl proprio nel giorno in cui un laico prendeva la parola per la prima volta al Concilio Vaticano II. Un caso, oppure, come diceva Madeleine Delbrêl, "ci sono luoghi in cui soffia lo Spirito, ma c'è uno Spirito che soffia in tutti i luoghi?". Una donna straordinaria, Madeleine, che pur vivendo le contraddizioni e le sfide del proprio tempo testimonia l'amore di Dio come "abbagliata da Lui... dal suo invisibile amore". Dopo la conversione vive e manifesta questo autore nella quotidianità della famiglia, con gli amici, nel lavoro, nella parrocchia, nella sua città, ma "facendo nuove tutte le cose", dalle più piccole alle più grandi. Madeleine Delbrêl è ormai conosciuta come una delle figure più significative della Chiesa francese di questo secolo, e parlare di lei, o approfondire i suoi scritti, significa dare la possibilità ad ognuno di conoscere di più "la fede" come lei la intendeva, quando scriveva: "La fede è realismo, siamo noi che ne facciamo un'astrazione.., essa è la scienza del reale che ci supera e quando sembra mancare è perché ha bisogno di essere vissuta e noi l'abbiamo confusa con una semplice "mentalità cristiana" o il "buon senso"".

Dalla notte della negazione alla notte della fede

Madeleine Delbrêl nasce a Mussidan in Borgogna nel 1904. Vive una giovinezza brillante, dedita alla musica, alla pittura, alla poesia e segue i corsi di filosofia alla Sorbona. C'è in lei una grande voglia di vivere un'eterna giovinezza. È circondata da professori, veri uomini di cultura, che il padre aveva scelto per lei e che a poco a poco la portano all'agnosticismo. Nei suoi diari compariranno molto presto le parole del "non senso dell'essere" e dell’assurdità della vita". La morte non sarà solo nei suoi pensieri ma anche nei suoi diari. Dirà della morte: "Lei è dappertutto, invisibile, efficace, dà un piccolo tocco e, toc, l'amore cessa d'amare, il pensiero di pensare, un bimbo di ridere... Non c’é più niente". Tra i 17 e i 20 anni c'è una dura battaglia all'interno della sua anima tra la disperazione e l'angoscia. Assume la morte come orizzonte ultimo dell'esistenza, insieme tuttavia con l'incessante ricerca del piacere immediato. Madeleine preferisce la festa e l'azione, e con il divertimento vuole dimenticare e scegliere di essere giovane "qualunque cosa accadesse", Un'amica che seguiva i suoi stessi corsi alla Sorbona dirà, molto tempo dopo: "essere giovani: ecco la nostra vocazione, lei ha mantenuto la parola". L'incontro con un gruppo di cristiani trasforma, quasi come un fulmine, la sua vita. L'aveva sorpresa e colpita che questi giovani universitari, pur conducendo la sua stessa vita avessero qualcosa più di lei. Toccata dalla testimonianza del gruppo, scriverà: "Se volevo essere sincera, non essendo più Dio rigorosamente impossibile, non doveva essere trattato come rigorosamente inesistente. Scelsi allora ciò che mi sembrava il miglior modo di tradurre il mio cambiamento di prospettiva e decisi di pregare. In seguito, leggendo e riflettendo - sono sempre le sue parole - ho incontrato Dio". Dalla orribile notte della "negazione è passata alla notte cena della fede". Siamo nel 1924, l'anno della sua conversione, l'anno dei suoi vent'anni. Da quel momento, Dio occupa tutto l'orizzonte della sua vita e decide di appartenergli totalmente in Cristo. Sperimenta una gioia fino allora sconosciuta perché tutto, proprio tutto, è strappato all'annientamento della morte. Ogni minuto dell'esistenza acquista una dignità singolare, ogni avvenimento diventa un nuovo incontro con il Signore, "un vero appuntamento" che, se vissuto nella carità, si trasforma in evento eterno. Madeleine pensa di entrare in Carmelo, ma la malattia del padre glielo impedisce e rinuncia alla vita consacrata per non lasciare sola la mamma. Quell'anno, dopo la sua conversione, un secondo incontro che segna radicalmente il cammino di Madeleine è quello con don Jacques Lorenzo, un giovane sacerdote arrivato da pochi mesi nella sua parrocchia di Ivry. "Il modo con cui predicava il Vangelo - racconta Madeleine - il suo rispetto infinito per la parola di Dio, l'amore che vi metteva a pronunciare le parole stesse del Signore, provocavano la presa di coscienza brutale di un avvenimento di cui non si poteva perdere niente. Il Signore appariva talmente vivo che poteva parlare... e ciascuno si sentiva interpellato dal Signore stesso". La Delbrêl nei suoi scritti riaffermerà: "il Vangelo non è un libro come gli altri, è come un appuntamento che Cristo dà ad ognuno di noi... un appuntamento personale, un vero cuore a cuore, intimo, concreto".

Noi, gente della strada...

Nel 1927, Madeleine è certa di fare la volontà di Dio restando a lavorare per Lui nel mondo. Padre Lorenzo la incoraggia, la sostiene e Madeleine scopre la sua personale vocazione (soprattutto singolare a quei tempi) come "laica" e sceglie di lavorare a Ivry sur Seine, tutta città operaia e scristianizzata: questa sarà la sua terra di missione. Il suo stile di vita, radicato sull'"essenziale evangelico", attiva presto alcune amiche dell'ambiente scout in cui si era inserita alla fine del 1926. Ne nasce un progetto di vita comune proprio a Ivry, nella periferia sud di Parigi. Attorno a lei si formerà un piccolo gruppo di laiche che fanno vita in comune senza darsi alcuna strutturazione, non ci sono voti, non ci sono momenti particolari nella giornata; ci si raduna una volta la settimana per confrontarsi con il Vangelo e vivere con la preoccupazione non tanto di "lavorare per Cristo", quanto di "essere il Cristo per fare quello che egli ha fatto", in una "vita di Vangelo integrale" al di là di ogni specializzazione apostolica e metodo spirituale e offrendo questa testimonianza in pieno mondo come "gente della strada". Ivry, sobborgo parigino abitato prevalentemente da operai, viene destinato dal comunismo a diventare "città laboratorio"; Madeleine viene così a contatto con il problema della povertà e delle ingiustizie sociali, ma è colpita dalla speranza di riscatto che l'ideologia marxista infonde nel mondo proletario. Non si scoraggia e con grande disponibilità di cuore e di spirito, sorretta da "indistruttibile speranza", ella ama, aiuta, crea legami, si spende senza risparmio; prega molto, e di fronte a questa gente per cui Dio è l’"Inesistente" rifomula in chiave apostolica il grido di Teresa d'Avila: "Signore, è ora che ti vedano". Una frase che ripete spesso è: "i nostri passi marciano sulla strada, ma il nostro cuore batte nel mondo intero". C'è in lei una sorta di equilibrio strano - ricordano le sue compagne - fra un assoluto spirituale e un assoluto di vita umana. Si fa così tramite dell'amore di Dio e si mescola in lotte difficili, come la guerra di Spagna e la guerra di Algeria, in solidarietà con gli scioperanti che rischiano la pena di morte. Non si risparmia nemmeno nel caso Rosemberg, che vide nel 1951 la condanna di due coniugi ebrei in America accusati di spionaggio in favore dell'Unione Sovietica. In Italia è conosciuta per le sue implicazioni nell'esperienza dei preti-operai, mediando fra le posizioni oltranziste di alcuni di loro e quelle critiche da parte ecclesiastica. La Chiesa per lei resta rappresentata da Roma, il cuore e il centro, di cui teneva una fotografia sul suo tavolo di lavoro al pianterreno di via Raspail, dove ha sempre continuato a vivere, porta a porta con il contesto operaio e scristianizzato. È chiamata a intervenire in colloqui, sessioni ecumeniche, dibattiti sulla pace e sulla vocazione dei laici: affascina ed interessa in Francia, come in Polonia o in Africa. La sua scelta di vita la porta a contribuire in qualche modo ai lavori del Vaticano II: l'arcivescovo di Tananarive, monsignor Sartre, le invia un questionario per illuminare l'azione missionaria, e Madeleine dispone di un'appropriata esperienza per raccogliere e confrontare informazioni obiettive.

Una spiritualità incarnata

Attraverso di lei, il richiamo del Carmelo risuona in periferia. La vocazione e l'impegno sociale si realizzano nel cercare un cammino di fede alla frontiera dei due mondi in cui è dato a lei e alle sue compagne di vivere, quello della Chiesa e quello dei compagni di strada atei che la circondano. Madeleine muore un pomeriggio del 13 ottobre 1964. Le sue amiche la trovano nella sua stanza, spenta da una congestione cerebrale. È in corso la causa di beatificazione. Il nucleo della sua vita e della sua esperienza religiosa è stato servire i fratelli e testimoniare Cristo nel cuore del mondo in quel moto di rinnovamento della Chiesa francese che si sviluppa nel ventennio tra le due guerre e che tende alla evangelizzazione della Francia diventata "terra di missione". Monsignor Martini le aveva del resto detto che nelle esperienze francesi si cuoceva il pane della cristianità.

Massimo Marcocchi individua i seguenti tratti salienti della spiritualità di Madeleine Delbrêl:

  1. l'intensità con cui accoglie Dio, riscattando anche i gesti più comuni;
  2. la sensibilità per il mondo urbano, i passanti sconosciuti, il lavoro, le canzoni al bar…;
  3. la lucidità con cui esamina la società in cui vive;
  4. la piena coscienza dell'altezza della missione;
  5. un senso della fede forte, pugnace, combattivo; irriducibile al mondo, ma immerso nel mondo e lucidamente reattivo di fronte alle sfide del mondo.

Fondatrice dei missionari della Charité ("Noi, missionari della parola - diceva - siamo una sorta di sacramento..."), Madeleine, al di sopra di ogni approfondimento è semplicemente una mistica sulle strade del mondo che si è impegnata per dare al mondo "il senso della sua pena e una gioia che nessuno può togliergli". Leggere i suoi scritti di forte densità interiore, in prosa e in poesia, significa essere attratti dalla sua testimonianza, e se è vero che il mondo operaio che lei conobbe non c'è più, restano la "miseria dello spirito", gli ateismi, la disperazione, l'anarchia nella ricerca di senso. Riguardo a ciò, Madeleine "degli operai" può dirci ancora molto. Tutto questo può riassumersi in questo suo scritto, autentica poesia, così aderente alta sua personalità e scelte di vita: "Signore, facci vivere la nostra vita non come un gioco di scacchi in cui ogni mossa è calcolata, ma come una partita in cui tutto è difficile, non come un teorema che ci fa rompere la, testa, ma come una festa senza fine in cui si rinnova l'incontro con Te, come un ballo, come una danza, tra le braccia della tua Grazia, nella musica universale dell'Amore. Signore, vieni ad invitarci!".

Lidia e Dante Colli

Carpi (Modena)

Da "famiglia domani" 4/99

Pubblicato in Spiritualità Familiare
 

"CHI OPERA LA VERITA’ VIENE ALLA LUCE…" (GV 3,21)

· Una pagina in cui vengono condensate le idee fondamentali della teologia giovannea · Ma anche un discorso kerigmatico che riassume l’intero messaggio cristiano della redenzione · Chi "fa la verità"? Tutti coloro che sinceramente vivono in coerenza con le proprie convinzioni: perché tutti, senza distinzione alcuna, siamo fratelli in cammino verso la luce… · Il mondo infatti non si divide tra coloro che cercano e coloro che hanno già trovato: tutti siamo in ricerca.

Prima parte

"Chi opera la verità viene alla luce..." (Gv 3,21): questa affermazione conclude la pericope Gv 3,13-21 che R. Schnackenburg, facendola precedere da 3,31-36, titola "Il Kerigma giovanneo", cioè la testimonianza della rivelazione di Gesù come la concepisce e sviluppa Giovanni nel suo vangelo. Secondo il grande esegeta tedesco, il colloquio con Nicodemo, che precede immediatamente questo testo, dovrebbe concludersi col v. 12; i vv. 13-21 sarebbero quindi una "aggiunta" dell'evangelista. E giustifica così questa sua interpretazione: "Le ultime parole di Gesù a Nicodemo (v. 12) sono una interrogazione che induce a più di una riflessione: sulla rivelazione di Gesù prima di tutto, ma anche sulla necessità di credere a questo rivelatore escatologico che è fonte di salvezza, ed infine sull'effettivo comportamento degli uomini che a quei tempi udirono il messaggio di Gesù e furono oggetto del suo appello. E possibile, perciò, che l'evangelista al colloquio con Nicodemo abbia aggiunto una sua riflessione, o meditazione, che vuol dare una risposta a queste suggestive domande" (...). "Infatti - conclude - questo discorso... supera di gran lunga la situazione del dialogo notturno. Si può dire che in esso sono condensate le idee fondamentali del vangelo di Giovanni e della teologia giovannea: l'annuncio... dell'invio del Figlio di Dio da parte del Padre per la salvezza del mondo; la "via" del ritorno di questo redentore, attraverso la croce, nella gloria celeste; il suo appello agli uomini a seguirlo nella fede e la necessità ineluttabile di prendere una decisione in cui con tale appello gli uomini sono stati posti...".
 

Seconda Parte

Credere è "dire di si" in verità all'autorivelazione di Gesù come unico salvatore

Tenendo presente l'obiettivo che si propone questo numero di "Famiglia Domani", mi sembra utile partire nella nostra riflessione da Gv 3,35s: "Il Padre ama il Figlio e gli ha dato in mano ogni cosa. Chi crede nel Figlio ha la vita eterna; chi invece rifiuta di credere al Figlio non vedrà la vita, ma l’ira di Dio incombe (gr. "ménei" = rimane) su di lui". Abbiamo qui, come in altre 35 volte nel Vangelo di Giovanni, il verbo "credere" (gr. "pistéuo") con "in" (gr. "éis") e l'accusativo: "Chi crede nel Figlio...". Anche nel nostro esprimerci è chiara la differenza tra il "credere a te-" (...a quello che mi dici), e il "credere in te" (..a quello che tu sei). L’adesione di fede affermata qui in modo così solenne - soprattutto se si tiene conto dell'affermazione contraria del v. 36, con la terribile minaccia dell'ira di Dio, chiaramente contrapposta all'amore del Padre (v. 35) - è rivolta e legata alla persona di Gesù. "Credere" perciò significa "dire di sì", non solo con le parole, ma in verità, all'autorivelazione di Gesù; è legarsi a lui come all'unico salvatore, per possedere così con lui la vita eterna.

Inoltre è importante sottolineare che qui, come in molti altri punti del IV Vangelo, il verbo è al presente: "Chi crede nel Figlio ha la vita eterna". A differenza dei sinottici che presentano la vita eterna come un bene da conseguire nel futuro escatologico (cf Mt 10,17; Lc 10,25; Mt 25,46...), per Giovanni la vita eterna è già posseduta attualmente da "chi crede in Gesù". Il pensiero è chiarissimo in 6,54: "Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue - quale altra espressione può dire meglio l'intima "comunione" con la persona di Gesù? - ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno". Credendo "in lui" io lo "accolgo in me", entro in comunione con lui e mi lascio condurre da lui alla comunione col Padre: "Io sono nel Padre e voi in me e io in voi" (14,20). Oh ineffabile mistero! Mentre accolgo lui in me, egli accoglie me in se stesso e insieme entriamo nella comunione col Padre.

Sempre in Giovanni i rapporti tra Gesù e i suoi discepoli sono analoghi a quelli che uniscono Gesù al Padre (cf 6,57; l0,14s; 15.9; ecc.).

La seconda parte del versetto illustra lo stesso concetto dal lato negativo (Giovanni usa rivolto spesso il parallelismo antitetico, efficacissimo per rafforzare un concetto): se l'uomo rifiuta di credere in colui che dà la vita, non può partecipare alla vita di Dio. Come nella fede in Gesù l'uomo possiede già ora la salvezza, e quindi la certezza della risurrezione nell'ultimo giorno che lo introdurrà nella vita eterna, così nella incredulità, che è deliberata chiusura alla rivelazione di Gesù - disobbedienza al Figlio di Dio - l'uomo si esclude da solo dalla vita di Dio e rimane nella morte; per questo incombe su di lui l'ira di Dio (v. 36). In altre parole, il giudizio escatologico di Dio è già operante nel presente. Per chi rifiuta deliberatamente di credere in Gesù, quella missione che è di salvezza per il credente, diventa per lui "giudizio" e quindi destino di sventura. "Io sono venuto nel inondo per giudicare - dice Gesù dopo la guarigione del cieco nato - perché coloro che non vedono vedano, e quelli che vedono diventino ciechi". Alla domanda dei farisei: "Siamo forse ciechi anche noi?", Gesù risponde: "Se foste ciechi non avreste nessun peccato, ma siccome dite : "Noi vediamo", il vostro peccato rimane" (Gv 9,39-41). 

Terza Parte

Tenebre e luce. Nella gloria attraverso la croce

La seconda parte del "kerigma" (vv. 13-21) parte dall'affermazione: "Nessuno è salito al cielo all'infuori di colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell'uomo" (v. 13), concetto che si rifà chiaramente a quanto detto nei vv. 31-35. L'"ascesa" del Figlio dell'uomo al cielo, il ritorno del Figlio di Dio al Padre (cf 13,1; 16,28; 20,17) comincia con la sua "esaltazione" sulla croce e svela così il suo significato salvifico per tutti credenti: "come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell'uomo, affinché chiunque creda abbia in lui la vita eterna" (v. 13). Gesù stesso in 12,31 dichiarerà solennemente: "Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me". E l'evangelista dichiara subito: "Questo diceva per indicare di qual morte doveva morire". E’ la crocifissione-elevazione di Gesù che porta la salvezza e che nello stesso tempo è "esaltazione e glorificazione" del salvatore. Il pensiero è chiarissimo anche in 13,3i ss; l'evangelista scrive: "Preso il boccone, quello (Giuda) uscì subito. Era notte". Giuda esce dal cenacolo, illuminato per la festa (ma anche: "dove c'è Gesù, c'è la luce"); l'evangelista lo vede come ingoiato dal "buio" (la tenebra che non può cogliere, comprendere la luce: cf 1,5). Il traditore esce per consegnare Gesù al Sinedrio: è l'inizio dell'ora delle tenebre (cf anche Lc 22,53), ma per Gesù è l'ora della sua glorificazione da parte del Padre. Infatti: "Quand'egli (Giuda) fu uscito, Gesù disse: Ora è stato glorificato il figlio dell'uomo e Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà in se stesso e lo glorificherà subito."

Lascio ora a Schnackenburg il commento a 3,16: "In una frase, formulata in maniera scultorea per tutti i tempi, il discorso kerigmatico riassume l'intero messaggio cristiano della redenzione. Per il piano salvifico, che si è realizzato nell'entrata del "Figlio dell'uomo" nella gloria attraverso la croce, non c'è in fondo alcun altro motivo che l'incomprensibile amore di Dio per il "mondo", cioè per il mondo degli uomini, che si era estraniato da lui, aveva perduto la vita divina che aveva attirato su di sé la sua ira (cf v. 36). Dio colmò l'abisso che si era aperto fra lui e gli uomini per i loro peccati...". E dopo aver richiamato 1 Gv 4,9s ("In questo si è manifestato l'amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo unico Figlio nel mondo perché noi avessimo la vita per lui…") che, dice, concorda e chiarisce Gv 3, 16, conclude: "Dio ha donato al mondo questo suo unico Figlio, a lui strettamente unito ed amato sopra ogni cosa, per strappare il mondo alla rovina".

I vv. 18-20 riprendono l'idea del giudizio che avviene, secondo Giovanni, qui e ora e viene pronunciato in base alla fede o all'incredulità nei riguardi dell'unigenito Figlio di Dio. Dio di per sé non vuole "giudicare", ma "salvare"; se tuttavia si arriva al "giudizio", la colpa è unicamente degli uomini che non credono nel Figlio suo. Per Giovanni "Chi non crede è già giudicato", è già caduto nella condizione del condannato a morte, definitivamente, "escatologicamente", nella misura e fino al momento in cui egli non crede nella persona del Figlio di Dio come donatore di vita e non permette perciò che egli doni la vita. "Con questa decisione l'uomo toglie a se stesso l'ultima possibilità di sfuggire al regno della morte (cf 5,24)".

E il motivo del giudizio di condanna è là, dove gli uomini preferiscono le tenebre alla luce; in altre parole perché si chiudono nell'incredulità.

La ragione di tutto questo Giovanni la vede nel fatto che "le loro opere erano malvagie"(v. 19). L’idea, espressa anche in 11,9s, è questa: chi ha intenzioni cattive e vuoi fare il male, cerca il buio, si nasconde, fugge la luce. "Chi ama suo fratello - precisa l'Autore di 1Gv - dimora nella luce, e non v'è in lui occasione di inciampo, ma chi odia suo fratello è nelle tenebre, cammina nelle tenebre e non sa dove va, perché le tenebre hanno accecato i suoi occhi" (1 Gv 2,l0s). Però l'evangelista non si ferma a questo quadro tenebroso. Come spesso, anche nella prima Lettera di Giovanni, sullo sfondo oscuro viene sovrapposto il disegno del comportamento contrario. 

Don Giacomino Piana

Genova

Da "famiglia domani" 4/99

Pubblicato in Spiritualità Familiare
Sabato, 13 Novembre 2004 15:48

L'inquietudine del credente (Battista Borsato)

 

L’INQUIETUDINE DEL CREDENTE

· Il dubbio, l’opportunità di crescita per il credente e strada che porta alla ricerca · Gesù non respinge chi ha dubbi, ma lo invita a trovare delle risposte attraverso il dialogo e l’ascolto fiducioso degli altri · Assillo del credente è la ricerca della parola di Dio, senza arroganza, senza mai cessare di desiderare · Vivere l’inquietudine in maniera positiva, sapendo che Dio è sempre "oltre", anche alle teologie, e crescendo nella capacità di confronto.

Prima parte

La nostra educazione cattolica, almeno nel sud dell'Europa, era indirizzata a dare certezze. L'avere dubbi era considerato una mancanza di fede. Non si potevano avere domande perché le risposte c'erano già tutte; anzi, perché non sorgessero domande, si obbligava la gente a non leggere certi libri, a non frequentare certi spettacoli, a non dialogare con persone di diversa religione o non credenti. E se per caso, da vari incontri, o per altri motivi, sorgevano domande che scuotevano le convinzioni religiose dovevano essere semplicemente respinte come tentazioni a cui ci si doveva opporre con tutte le forze e con tutta l'anima. E quando la cultura esterna sembrava mettere in discussione, o semplicemente interrogare, le affermazioni di fede, veniva respinta decisamente senza per nulla domandarsi se qualcosa di vero vi si potesse annidare. Siccome il mondo cosiddetto "laico" non poteva non porre problemi e domande al mondo credente, sempre più esso è stato rifiutato, e tra i due mondi si è scavato un fossato sempre più profondo: tra i credenti e quelli che si interrogavano è nato così un dissidio, se non una lotta. Eppure anche nell'ambiente cattolico sono sorte delle voci che guardavano alle domande sulla fede e addirittura ai dubbi come opportunità per crescere come credenti. Ma queste voci sono state messe a tacere come devianti e come conturbanti la fede dei semplici o la fede in se stessa. Non possiamo non ricordare tra gli altri Antonio Rosmini, Romano Guardini, Primo Mazzolari, Lorenzo Milani, che tentavano di comporre fede e ragione, fede e storia. 

Seconda parte

La verità è nomade

Romano Guardini scriveva: "La fede adulta è quella che sa sopportare i dubbi". Questa affermazione contiene almeno due significati. Il primo: nella fede non tutto è chiaro. Credere non è vedere, è cercare nella vespertinità la verità. Ci si deve togliere la presunzione di arrivare alla verità in maniera frettolosa, sicura, totale. Il modo per avvicinarsi alla verità è il non volerla padroneggiare, ma servire. E il servire la verità comporta l'atteggiamento non solo dell'ascolto, ma anche dell'ammissione dei propri sbagli e dei propri errori. La fallibilità fa parte di questo cammino. Il pretendere di non sbagliare presupporrebbe l'evidenza della verità e di Dio. E se Dio fosse evidente, e quindi afferrabile e catturabile, non sarebbe più Dio. Lo stesso Giovanni Paolo II ammette questo cammino tortuoso verso la verità. Ha avuto il coraggio di ammettere questi errori: "Come tacere delle tante forme di violenza perpetrate anche in nome della fede? Guerre di religione, tribunali d'inquisizione e altre forme di violazione dei diritti delle persone... Bisogna che anche la Chiesa, alla luce di quanto il Vaticano II ha detto, riveda di propria iniziativa gli aspetti oscuri della sua storia valutandoli alla luce dei principi del Vangelo... Ciò non danneggerà in alcun modo il prestigio morale della Chiesa che anzi ne uscirà rafforzato per la testimonianza di lealtà e di coraggio nel riconoscere gli errori commessi dagli errori suoi e, in certo senso, in nome suo". Il secondo significato: i dubbi sono la strada che porta alla ricerca. La fede cresce attraverso i dubbi. Anche la scienza si è sviluppata attraverso le domande e i dubbi. Il dubbio può essere definito come un interrogativo forte che pone in discussione una verità, ma ponendola in discussione il credente è spinto alla ricerca e questa condurrà inevitabilmente a pulirla da false incrostazioni, oppure ad approfondirla e allargarla. Il filosofo viennese Karl Popper, conosciuto come il filosofo della fallibilità, nel senso che, secondo lui, la vita è un processo verso la verità attraverso gli errori, così si esprimeva: "Noi dobbiamo considerare il mondo come un luogo meraviglioso che noi, come giardinieri, possiamo ancora migliorare e coltivare, usando però la modestia di un giardiniere esperto il quale sa che molti dei suoi tentativi falliranno. Il futuro, però, è aperto sia biologicamente che culturalmente. C'è sempre del nuovo sotto il sole, perché il futuro non sarà mai come il passato. Il peggio che si possa avere a scuola - dice sempre Popper - è educare in maniera autoritaria: educare alla infallibilità. La mente dei bambini non va considerata un recipiente, ma una facoltà creatrice di sensi, e produttrice di critica. La pedagogia del versare nella mente il sapere, è la pedagogia delle risposte senza domanda. Prima, invece, ci devono essere le domande" 

Terza parte

Gesù è dalla parte delle certezze?

Di solito viene interpretato l'episodio di Tommaso apostolo, che non si fida dei suoi compagni i quali affermano di aver visto Gesù, come un'accusa verso chi dubita. E il personaggio di Tommaso è stato descritto come l'emblema contro la cultura "del sospetto", non disponibile ad accettare supinamente le concezioni teologiche e filosofiche rassicuranti del passato. Egli sarebbe la condanna della nostra attuale cultura che dà più rilevanza alla disobbedienza che all'obbedienza, alla coscienza più che all'autorità. È del tutto aderente al testo questa interpretazione? Tommaso non si fida dei suoi amici: possiamo dire, con linguaggio moderno, che egli vive la cultura del sospetto e del dubbio ante litteram. Vuole rendersi conto di persona, dà spazio alla sua coscienza. E come si comporta Gesù di fronte a questo atteggiamento poco obbedienziale verso i suoi amici e verso Pietro che ne era il capo? Gesù dice: "Tu hai creduto perché mi hai veduto. Beati quelli che, pur non avendo visto, crederanno". Non è una frase facile da capire. Comunque Gesù non rimprovera Tommaso; il fatto stesso che riappaia e offra all’apostolo i riscontri che cercava vuol dire che Tommaso non era in una posizione distorta o scorretta. Ciò che Gesù in parte rimprovera a Tommaso, è il voler arrivare alla verità da solo, anziché anche attraverso l'ascolto degli altri. Gesù dunque non respinge la persona che ha dubbi, vuole solo marcare che, per fugare i dubbi e cercare risposte, occorrono disponibilità al dialogo, la fiducia anche negli altri. Mi sembra dunque che vadano evitati i due estremi: quello dell'obbedienza cieca e conformista, e quello dell'individualismo autosufficiente. Se uno abbraccia il conformismo, deve abdicare alla sua coscienza e rinunciare ad interrogarsi: questo è un atteggiamento oggi emergente, in quanto c'è nella gente la voglia di certezze e di sicurezze. Il singolo individuo preferisce perdere la sua irriducibile singolarità per non navigare nel mare del rischio e dell'incertezza. C'è in molti il fascino della consolatoria certezza e della anestetizzante sicurezza. Il credente invece è chiamato ad andare continuamente: "Parti e va", è l'invito che Dio rivolge ad Abramo. Il cristiano è chiamato ad essere un incessante viandante, perché, come si diceva, la verità è nomade: dovrebbe dunque il cristiano, più di ogni altro uomo, essere appassionato del relativo, dell'incerto, perché dentro si può intuire progressivamente l'emergere della verità. Chi si conforma al passato, a leggi, decreti, travedi più pace, tua noti crescerà nell'intelligenza della verità. Il credente è autentico quando è inquieto. Essere appassionati del relativo, essere esposti all'incertezza, non vuol dire però cedere all'indifferenza; anzi, è vero il contrario: chi vive il relativo e l'incerto è chiamato a leggere il presente e ad assumere le proprie responsabilità, ad impegnarsi con la propria intelligenza e capacità.

Certamente questa volontà di sottrarsi all'esistenza come destino, questo rifiuto della fatalità per abbracciare invece l’impegno di decifrare e di cambiare l'esistenza, non devono portare all'individualismo autosufficiente. Solo insieme, però con coscienze vive, i credenti possono interpretare la storia per poi modificarla. 

Quarta parte

La fede come ricerca del pensiero di Dio

Il problema che dovrebbe assillare e impegnare il credente è la ricerca del pensiero di Dio. Si dà troppo per scontato di conoscerlo e poi di imporlo con una sicurezza che rasenta l'arroganza. Chi può presumere di sapere ciò che Dio pensa su nuovi e interroganti problemi senza la fatica della ricerca e senza riconoscere l'oscurità o l'ascondità in cui sono avvolti i suoi disegni? La "nube" è uno dei simboli biblici più densi per indicare Dio. Egli è una presenza, ma avvolta nel mistero. Penetrare questa nube è il desiderio e il compito del credente, ma senza che egli possa pretendere di cogliere con assoluta certezza l'inesauribile ricchezza e alterità dei pensieri di Dio. Un alone di modestia dovrebbe avvolgere la ricerca dei credenti e soprattutto le decisioni di ogni Chiesa e di ogni religione perché è sempre possibile scambiare per il pensiero di Dio ciò che è semplicemente un pensiero umano.

Nel romanzo "Danny l’eletto" un giovane e intelligente rabbino rivolgendosi ad un suo amico afferma: "Io credo in Dio, ma non so che cosa pensi". Lévinas stesso, rivolgendosi ai cristiani con un sobrio piglio polemico diceva: "Voi credete di conoscere Dio perché vi appoggiate a Cristo. Anche Cristo non svela totalmente Dio e comunque non dà risposte ai problemi attuali". Come non rilevare come spesso anche la Chiesa si è contrapposta aspramente a dottrine e ad affermazioni di filosofi o di scienziati ritenendolo fuorvianti dal pensiero di Dio, mentre poi sono state rivalutato ed accolte? Come discernere il pensiero di Dio? Certamente la preghiera può essere il luogo privilegiato, purché per preghiera si intenda l’uscire dai propri pensieri per ascoltare "altri" pensieri. È sempre indiscusso il rischio di fermarsi su ciò che si è conquistato anche positivamente. Una riforma della Chiesa da tempo sognata: poi finalmente realizzata, tende a trattenere il cuore tanto da impedire di sognare altro. Questo vale anche nel matrimonio e nella famiglia: certe scelte fatte a cui si è attaccati possono a volte togliere lo slancio per andare oltre. Anche il popolo ebraico e gli apostoli erano così attaccati a Mosè e ad Elia, cioè alla legge del passato e ai messaggi dei profeti, da pensare che lì ci fosse tutto. Non volevano, o non sapevano, accettare Gesù che proponeva di andare oltre Mosè ed Elia. Gesù, invece, va oltre perché nella preghiera col Padre scopre altri orizzonti e altre prospettive. Solo Dio è assoluto, solo Dio è infinito, ogni altra cosa, ogni altra scelta è sempre finita e parziale, sempre da rivedere, da modificare, da perfezionare. La preghiera è aprirsi a questa capacità di relativizzare ogni esperienza e conquista, per continuare a desiderare ed esplorare. Di fronte a Pietro che tende a fermare l'esperienza delta trasfigurazione, Gesù invita a "scendere dal monte". Il vero e più profondo peccato dell'uomo è cessare di desiderare. Insistere a pregare è ostinarsi a desiderare altro.

Forse ad Abramo, ricco di parentela e di benessere, non bastava il presente, egli covava nel suo animo qualcosa di più. Dentro questo suo desiderare, Dio trova la via per manifestarsi e per portare a compimento il sito desiderio, anzi per mostrare un modo di essere tra gli uomini che supera i desideri stessi dell'uomo. Pregare è cogliere i desideri di Dio per desiderare alla sua alta maniera. La persona orante è quella che si apre agli orizzonti di Dio. 

Quinta parte

Come vivere l'inquietudine in maniera positiva?

Pensare che Dio è altro. Nessuno può dire di conoscere Dio pienamente, perché egli è sempre oltre, sempre di più. La fede è un cammino di ascolto di Dio, di ricerca di Dio che non cessa mai di svelarsi e di rivelarsi. Occorre avere, quindi, l'atteggiamento della sorpresa e della meraviglia per accorgersi di questo incessante venire di Dio. Ci si scandalizza perché la Chiesa cambia: essa deve cambiare, perché è una Chiesa pellegrinante, viandante. È mancata, purtroppo, l'educazione al cambiamento e all'accoglienza del nuovo. Dio è diverso dalle nostre logiche, dal nostro modo di pensare. Dio non è la maggiorazione delle nostre idee e dei nostri progetti. Dio abita, invece, un'altra terra, è di un altro paese. Occorre lasciare la nostra terra per andare verso un'altra terra: è un continuo spaesamento, come lo fu per lo stesso Abramo.

. Nessuno può dire di conoscere Dio pienamente, perché egli è sempre oltre, sempre di più. La fede è un cammino di ascolto di Dio, di ricerca di Dio che non cessa mai di svelarsi e di rivelarsi. Occorre avere, quindi, l'atteggiamento della sorpresa e della meraviglia per accorgersi di questo incessante venire di Dio. Ci si scandalizza perché la Chiesa cambia: essa deve cambiare, perché è una Chiesa pellegrinante, viandante. È mancata, purtroppo, l'educazione al cambiamento e all'accoglienza del nuovo. Dio è diverso dalle nostre logiche, dal nostro modo di pensare. Dio non è la maggiorazione delle nostre idee e dei nostri progetti. Dio abita, invece, un'altra terra, è di un altro paese. Occorre lasciare la nostra terra per andare verso un'altra terra: è un continuo spaesamento, come lo fu per lo stesso Abramo.

Non vivere le idee religiose come assolute. Il biblista Ortensio da Spinetoli ha svolto, in un convegno dal titolo "Né maestri né padri", promosso dalle comunità di base italiane, il tema: "Le religioni: la prepotenza degli assoluti". Egli distingue tra fede-teologia-religione. Sostiene che solo Dio è assoluto: teologia e religioni sono strade che spingono ad avvicinarsi a Dio, ma non possono sentirsi scompigliare dai fatti dove Dio continua a parlare. L'intransigenza di certe teologie o di certi principi impedisce a Dio di parlare, come è avvenuto per Gesù di Nazareth.

Il biblista Ortensio da Spinetoli ha svolto, in un convegno dal titolo "Né maestri né padri", promosso dalle comunità di base italiane, il tema: "Le religioni: la prepotenza degli assoluti". Egli distingue tra fede-teologia-religione. Sostiene che solo Dio è assoluto: teologia e religioni sono strade che spingono ad avvicinarsi a Dio, ma non possono sentirsi scompigliare dai fatti dove Dio continua a parlare. L'intransigenza di certe teologie o di certi principi impedisce a Dio di parlare, come è avvenuto per Gesù di Nazareth.

Crescere nella capacità di ascolto e di confronto. Oggi, giustamente, si sta riscoprendo il valore della coscienza, e si deve riconoscere che questa è obbligante anche se erronea. Però la parola "coscienza" deriva da "consentire". Essa è chiamata a "consentire" alla verità, ma la preposizione "con" indica che questa ricerca va fatta insieme. Il dialogo, l'ascolto reciproco è l'essenziale in questo cammino d'approccio alla verità. Sappiamo poco ascoltare: ascoltiamo, spesso, per ribadire o per difendere le nostre idee. Questo atteggiamento è indice di non libertà. Si ascolta veramente quando si pensa che il pensiero dell'altro può essere più ricco del proprio. Il "fare Chiesa" dovrebbe essere il modo in cui ci si incontra per ascoltarsi reciprocamente, per insieme cercare il volto di Dio. In questo incedere c'è la presenza dell'autorità a cui va riconosciuto il carisma di guida, di stimolo, di accompagnamento. Dovrebbe, quindi, rinascere un dialogo più aperto e leale tra fedeli e coloro che sono rivestiti di autorità nel decifrare i pensieri di Dio e nel cercare insieme nuove soluzioni dei problemi attuali, perché lo Spirito è consegnato non solo ad alcuni, ma a tutta la Chiesa.

. Oggi, giustamente, si sta riscoprendo il valore della coscienza, e si deve riconoscere che questa è obbligante anche se erronea. Però la parola "coscienza" deriva da "consentire". Essa è chiamata a "consentire" alla verità, ma la preposizione "con" indica che questa ricerca va fatta insieme. Il dialogo, l'ascolto reciproco è l'essenziale in questo cammino d'approccio alla verità. Sappiamo poco ascoltare: ascoltiamo, spesso, per ribadire o per difendere le nostre idee. Questo atteggiamento è indice di non libertà. Si ascolta veramente quando si pensa che il pensiero dell'altro può essere più ricco del proprio. Il "fare Chiesa" dovrebbe essere il modo in cui ci si incontra per ascoltarsi reciprocamente, per insieme cercare il volto di Dio. In questo incedere c'è la presenza dell'autorità a cui va riconosciuto il carisma di guida, di stimolo, di accompagnamento. Dovrebbe, quindi, rinascere un dialogo più aperto e leale tra fedeli e coloro che sono rivestiti di autorità nel decifrare i pensieri di Dio e nel cercare insieme nuove soluzioni dei problemi attuali, perché lo Spirito è consegnato non solo ad alcuni, ma a tutta la Chiesa.

BATTISTA BORSATO

Teologo- Vicenza

Da "famiglia domani" 4/99

Pubblicato in Spiritualità Familiare
Sabato, 13 Novembre 2004 15:46

Pellegrino nel tempo (Giovanni Scalera)

 

PELLEGRINO NEL TEMPO

· Spazio e tempo nell’immaginario dell’essere umano non possono essere negati, né annullati · Il tempo, con la sua saggezza, ci mostra l’effimera gerarchia delle dignità · "Chi sei tu Signore, e chi sono io?". Questo interrogativo, che può essere fatto proprio da ogni essere umano il quale voglia "fermare il tempo" per guardarsi dentro, è in fondo la suprema domanda religiosa, una domanda di senso · "Dio è un ospite scomodo: anche quando lo metti alla porta sta in attesa che tu gli apra di nuovo" (Pascal).

Spazio e tempo nell’immaginario dell’essere umano non possono essere negati, né annullati · Il tempo, con la sua saggezza, ci mostra l’effimera gerarchia delle dignità · "Chi sei tu Signore, e chi sono io?". Questo interrogativo, che può essere fatto proprio da ogni essere umano il quale voglia "fermare il tempo" per guardarsi dentro, è in fondo la suprema domanda religiosa, una domanda di senso · "Dio è un ospite scomodo: anche quando lo metti alla porta sta in attesa che tu gli apra di nuovo" (Pascal).

Prima parte

Le evoluzioni che sottolineano i vari momenti della nostra esistenza ci mettono in condizione di recuperare, ogni volta che lo vogliamo, le coordinate della nostra vita individuale e di relazione. Da sempre diciamo che qui ed ora rappresentano i tratti ineludibili entro i quali l’uomo realizza le proprie potenzialità: sono talmente correlati con la nostre vicende umane, che rimane impossibile concepire mi evento disancorato da queste dimensioni. Spazio e tempo, nell'immaginario umano, non possono essere negati, né annullati. Le grandi conquiste di questo secolo ci hanno convinti che sì può essere protagonisti degli spazi; ora è lecito chiedersi: quale sensazione hanno le attuali generazioni dell’inarrestabilità del tempo? Fino a che punto la nostra evoluzione può essere considerata in cammino senza fine? Che senso ha per la nostra gioventù il possesso e la padronanza di strumenti che solo una generazione fa sarebbero stati definiti da fantascienza? In un congresso tenutosi negli USA agli inizi degli anni '70, uno studioso di estrazione araba, un futurologo, assentì che alla fine del secolo, delle professioni che avrebbero occupato l'uomo, ben oltre il 40% dovevano ancora essere inventate. Una così categorica affermazione suscitò, oltre allo scetticismo dei pragmatisti irriducibili, una certa ilarità generale: cosa ci poteva essere di così tanto vasto da essere ancora inventato che l'uomo non conoscesse già? A conti fatti, oggi, qualcuno sostiene che siamo agli albori delle invenzioni e che in poco tempo potremmo rivoluzionare tutto il nostro sistema di vita. Comunque vadano le cose, il cammino dell'uomo, ha una variabile che non conosce modernità. I cambiamenti, gli stili di vita, gli spostamenti, le occupazioni, le nuove malattie, le ultime terapie... tutto può essere modernizzato, ma il tempo che scorre e che travolge tutto e tutti, rimane il mistero affascinante che, al termine del secondo millennio, conserva la veste e l'originalità del primo giorno della Creazione. 

Seconda Parte

Non per fuga

È l'argomento di tutti e mai come in questo caso appare legittimo parlare di un evento che, ben a ragione, può delinearsi l'avvenimento del secolo: la fine del millennio. Nella gran parte di quella umanità che costituisce la classe dei benestanti, si sta dando sotto a tutte le risorse, pratiche e virtuali, per escogitare qualcosa da vivere, immortalandolo, il momento del "trapasso" in modo unico e irripetibile. Se ne parla da così tanto tempo che qualcuno, dopo aver più volte sognato tutti i percorsi praticabili dalla fantasia, si sta già tarlando dalla noia, ben consapevole che, come tutti i momenti di quel prima e dopo mezzanotte, quell'attimo sarà un attimo impercettibile, non diverso dagli altri: molto più banale e meno concreto dell'attraversamento di una porta. L'evento è talmente chiacchierato che si assiste da tempo alla incessante fioritura di pubblicazioni e di trasmissioni radiotelevisive nelle quali vengono raccolte le più svariate e illustri opinioni sul fatto. Qualcuno spera che un evento simile porti delle novità nella storia dell'uomo, come se i grandi cambiamenti possano essere disancorati dalla presa di coscienza e dalla buona volontà. Altri, al contrario, sostengono che il destino dell'uomo è segnato da fatti ben più significativi di un capodanno, anche se singolare come questo. Qualche altro, animato da fare realistico e spirito contestatore, sostiene che un simile appuntamento nasce solo dalle convenzioni degli uomini e che, pertanto, questo momento non potrà essere diverso o più importante di tutti quelli che lo hanno preceduto o che faranno la storia umana. Altri ancora, scrollandosi di dosso ogni tentazione ad elucubrare, si sforzano di vedere in questa scadenza un'occasione per vivere un momento diverso e sfruttarlo nella maniera più godereccia possibile. Altri, infine, dopo aver esaminato i risvolti più misteriosi delle leggi naturali e scorso con meticolosità le cabale meno note, attenderanno, con trepidazione e timore l'avvento di questa notte. Finché, sedati i contrasti tra le opinioni, ci riscopriamo tutti in marcia, tutti in ordine, tutti obbedienti. Non ci sono più distinzioni né favoritismi. Cessano le elusioni e le fughe furbesche. Il tempo, con la sua primitiva saggezza, ci ripropone l'uguaglianza dei primitivi, mostrandoci l'effimera gerarchia delle dignità. Se c'è un creditore esigente e incorruttibile, questo è il tempo: non fa sconti e non è amico di nessuno. E gli scatti con i quali cerchiamo o crediamo di bruciare i nostri compagni di corsa? Tentativi maldestri di procurarsi un posto in prima fila, quando sappiamo bene che di fronte all'eternità saremo, in egual misura, tutti spettatori e protagonisti. La differenza sarà forse segnata dallo spirito e dalla caparbietà con cui ci saremo ostinati a stare dalla parte dell'ideologia o della legge morale. Tanti uomini fanno percorsi estenuanti e si vantano di profondere energie senza riserve per arrivare a constatare che, con i propri sforzi, sono arrivati là dove altri avevano cristallizzato il loro pensiero. Altri, in maniera anonima e silenziosa, dipingono il trascorrere del tempo con la delicatezza del saggio che avverte l'imperativo categorico di occupare ogni attimo di questo incessante respiro vitale per preservare il Giardino e metterlo a disposizione dei fratelli meno fortunati.

Lo fa la pigra zolla del campo e il fiore scosso dal trastullo del vento e bagnato dalla pioggia sonnolenta. Lo fa tutto il Creato, mostrando ad ogni mutamento il proprio abito nuovo. Solo i morti hanno nel cuore una dolcezza spenta: ma loro possono contemplare l'eternità e la lotta con il tempo ora non può riservare altre sorprese. 

Terza parte

La legge dello stupore

I nostri attimi, di fronte alla imperturbabilità delle epoche, ci possono dare facilmente il senso dello smarrimento. Penso alla notte di S. Francesco di fronte al Crocifisso ed avverto che il suo grido di angoscia "chi sei tu, Signore, e chi sono io?" potrebbe essere fatto proprio da ogni uomo che cerca di fermare il tempo per guardarsi dentro. In questo interrogativo ci sono così tante sfumature che, chiunque desideri scrutarsi, ora con chiarezza, ora con indulgenza e sfrondare la propria immagine da accessori inutili, trova infinite occasioni per conoscersi a fondo, ma anche per essere portato fuori strada. C'è la supplica di chi non si accetta e vorrebbe un intervento dall'alto (?) in grado di mettere fine alla propria ambiguità; c'è l'angoscia di chi vuole il bene, ma non sa resistere all'attrazione del male e trasforma la profonda esistenza in un labirinto di errori-pentimenti-contrizioni-propositi-errori-pentimenti…; c'è una calma piatta di chi, nell'avvertire che non deve lottare ogni giorno per garantirsi una sopravvivenza, è convinto che, in fondo. Dio sappia bene quali sono le brave persone e come vadano premiate già da questa vita; c'è il plastico adattarsi di chi sentenzia ad ogni propria battuta d'arresto "era troppo dura: sarà per quest'altra volta"; c'è la ribellione di chi non concepisce che per assaporare la gioia senza conflitti si debba attendere un'altra vita... Il grido che scaturisce in questi casi è proprio delle nature passionali, le quali per loro peculiare costituzione sono lontane da ogni forma di logica. In questo tormento le tentazioni esistenziali più avviluppanti ci circuiscono come la brutalità dei marosi fa con il naufrago. Raramente riusciamo a dare una risposta compiuta a un così ampio interrogativo. Ho pensato allora a come passo dalla teoria alla pratica quando, nel mio lavoro, una persona chiede aiuto per un proprio disagio, scendendo su un piano più propositivo e stabilendo con questa le linee essenziali di un percorso da seguire: "Dove voglio arrivare?". L’interrogativo questa volta è più scarno, ma mi permette anche di vedere con più chiarezza i tratti di una mappa intricata e logorata, forse, dai troppi enigmi che la compongono. Anche qui i progetti si accavallano ai propositi; i traguardi si sovrappongono ai miraggi; la fretta sa prendere il posto della riflessione. Poi, quando si è scelto il metodo e l'ordine che ci si vuoi dare, si mettono da parte le utopie e le retoriche e ci si affida al senso pratico: piccoli passi, ma con finalità precise e secondo disegni ordinati. Pinocchio fin quando fu animato dal proposito scolastico "oggi imparo a leggere, domani a scrivere e dopodomani i numeri fino a venti" non combinò niente di buono. Il suo passaggio da burattino a bambino iniziò quando si decise di ubbidire, eseguendo con responsabilità un incarico piccolo, ma preciso. È giusto, allora che anche questo interrogativo venga in qualche modo ridimensionato: perché chiedersi dove vogliamo arrivare se ognuno di noi è in viaggio per nessun dove? Piano piano ci accorgiamo di essere immersi in questo pellegrinaggio senza sosta e di oltrepassare di continuo barriere ed ostacoli che, solo se contemplati con un occhio da narratore, possono dare un senso di nostalgia e di stupore. Ma il vero stupore diventa percepibile quando tutta la nostra avventura prende il sapore di un racconto. Ciò che nelle ipotesi fiabesche poteva apparire difficile e involuto, irrealizzabile nella stranezza dei rapporti, diventa semplice e trasparente nella scontata realtà quotidiana. E la nostra narrazione, ossia il nostro viaggio, oltre a fornire figure ricche di occasioni e di esperienze, diverte e illumina l'esistenza di grandi e piccini. Il narrare è il tempo dello stare con l'altro il cui filo conduttore è dato dallo stupore del racconto, del protagonista e dell’ascoltatore; uno stupore che ci prende quando cose incontenibili dall'animo umano, come la grandezza di un innamoramento, improvvisamente diventano vere e, a ragione, pretendono di essere credute. Altro che la porta del terzo millennio! Ci aspettiamo da questo evento tanto stupore da averne fatto un luogo comune quasi maniacale pur nella consapevolezza che ignorarlo sarebbe come voler chiudere gli occhi sulla storia. A pensarci bene, in ogni universo in cui tutto si dissolve come in un sogno, non ci perdoneremmo di durare per sempre. 

Quarta parte

Fuori della porta

Gli eventi annunciati finiscono per essere scrutati, sorvegliati, attesi da lontano; quelli infausti o proibiti, poi, secondo un'iconografia nota nel mondo delle narrazioni, fanno di questo tratto il loro punto di forza, come accade ad una donna che, impaziente di raggiungere il proprio amante, aspetta che la sera sia completamente scesa. La storia dei nostri giorni ricalca quella dell'umanità dal suo inizio, con le varianti che la cultura ha apportato man mano che il tempo ha livellato le inquietudini. Fece così anche il figlio prodigo: pretese la sua parte e programmò la sua fuga che - ormai tutti se l'aspettavano - mise in atto di lì a pochi giorni. Poi, fuori della porta, inizia la storia nuova. Una esaltazione folle, una gioia incontenibile si impossessano dell'animo che vede a portata di mano tutto ciò che fino a poco fa era intoccabile perché era preservato. Si parte per un'esperienza nuova, tutta da vivere, la cui promessa di felicità appare sconfinata. Ci sono persone che da queste esperienze modificano così artificiosamente i tratti della propria condotta, da perdere ogni connotazione umana, come il cuoio lavorato e cesellato ci nasconde di essere stato, una volta, pelle frustata e scorticata di animale. E noi?, quanti momenti abbiamo scelto di trascorrere fuori della porta? In quante occasioni abbiamo voluto provare, sempre sapendo di osare? Era una colpa? No di certo, almeno fin qui. La nostra inquietudine ci ha fatto vedere un mondo che poteva essere bello e l'abbiamo voluto visitare. Poi ci siamo imbattuti nella legge dei numeri ed abbiamo scoperto una realtà dall'apparenza indefinita e ipnotizzante come una spirale colorata: i numeri sono sempre aumentabili e mettono nell'animo dell'uomo una sete insaziabile. È così che si scopre che non c'è pace per noi. Si crede di soffocare quando si vive nel benessere, nell'abbondanza e si avverte l’angoscia e la dispersione quando siamo abbandonati dalla sorte, dagli amici e possiamo confrontarci solo con il nostro destino. Le trasgressioni, come le nuove religioni, hanno impianti sempre più frequenti e rappresentano un'attrazione e un’ammirazione che solo un fondo di decenza impedisce ad una gran massa di emulare, ma sono anche fragili e dappertutto finiscono per essere rappresentate come una peste di cui ci si sbarazza volentieri e alla svelta perché rappresentano un'attrazione irresistibile per i miserabili di cui la terra, purtroppo, continua ad essere maledettamente prolifica. Terra bruciata, quella che si scopre al brusco risveglio da una fortuna che ci ha voltato le spalle. Il nostro grido, allora, è sempre lo stesso: "Non ce la faccio più; qualcosa mi sta soffocando". La stessa riflessione che ci aveva spinto a fuggire, è quella che ora ci fa tornare, Pochi considerano che il ricordo e il rimpianto della casa dove c'è abbondanza è già una garanzia. Ma la grazia più grossa si tocca con mano quando scaturisce dal profondo una volontà di cambiamento. Alla domanda più ovvia che si potrebbe fare ad uno che torna dopo tanto tempo: "cosa hai portato?". C'è in questi casi una sola risposta capace di esaurire ogni curiosità: "Ho portato me stesso...". Ritrovarsi a versare lacrime insieme, non di tristezza per una vita che è finita, ma di gioia per ciò che quella vita ha insegnato, è certamente bello. E’ ancora più bello, di fronte ad una gioia ritrovata, scoprire che ci ha fatto bene stare fuori della porta. Dio, per primo, ci dà un esempio. Pascal dice "Dio è un ospite scomodo: anche quando lo metti alla porta resta in attesa che tu gli apra di nuovo". In questo attendere e fidarsi non si possono mettere in conto gli attimi di una dimensione temporale tutta umana. I percorsi della nostra anima non hanno il termine del "conto fino a..." Sappiamo troppo poco per sentenziare sul mistero della vita e della morte: porte opache che si richiudono in fretta e bene. Il nostro muoverci nel tempo ci fa scoprire che non si perde la capacità di amare neanche dopo le contraddizioni e le infedeltà; ci fa scoprire che l'amicizia è prima di tutto certezza e che questa è la prima ricchezza dell'amore.

GIOVANNI SCALERA

Psicologo – Siena

Da "famiglia domani" 4/99

Pubblicato in Spiritualità Familiare
Sabato, 13 Novembre 2004 15:43

Dire Dio oggi (Ermis Segatti)

 

Dire Dio oggi

· Cifra caratteristica del mondo occidentale è la presenza di una negazione spesso esplicita di Dio · Questo fa sì che lo sviluppo della civiltà occidentale rivesta dimensioni tipicamente idolatriche · Ma Dio non può essere fatto oggetto di possesso, sotto qualsivoglia forma, per cui fondamentale appare la ricomposizione di un orizzonte di senso.

Nel nostro mondo occidentale riscontriamo la presenza di una negazione esplicita e riflessa di Dio. Potremmo dire, militante. Questa negazione ebbe la sua manifestazione più vistosa nei sistemi di ateismo ufficialmente organizzato all'interno di certi paesi, manifestazione che a sua volta derivava da una corrente minoritaria, ma influente, nel mondo occidentale, la quale ritenne suo punto di onore morale escludere Dio dagli sviluppi futuri dell'umanità. Si tratta di un prodotto tipico della civiltà occidentale: al di fuori di essa nessun'altra culture espresse una concezione del genere. Forse non è senza senso chiedersi come si poté verificare tutto ciò.

ALCUNE POSSIBILI RISPOSTE

La risposta stereotipa, che convince solo in parte, sarebbe che la causa risiede nel cattivo comportamento dei cristiani o, se si vuole, nello scandalo delle chiese cristiane col loro concreto sviluppo storico, per la eccessiva invadenza nella realtà mondana, al punto da ingenerare una radicale rivolta della coscienza civile, che avrebbe poi assunto caratteri irreligiosi e atei. Questa risposta è senz'altro fondata su dati storici evidenti, ma è incompleta e non pienamente soddisfacente. Mi pare più vicino al vero chi sostiene che l'ateismo militante sorse a prescindere, o almeno non soprattutto a partire, da pesanti responsabilità della tradizione cristiana. Essa trasse e trae origine piuttosto da certi orientamenti intrinseci della civiltà occidentale, per alcuni versi incompatibili con la fede cristiana e con le esigenze religiose in generale. A questi orientamenti la religione apparve inutile o addirittura ingombrante perché fu ritenuta non funzionale allo sviluppo della civiltà. Conseguentemente, conveniva farne a meno. Era intrinseco ad un certo modo di concepire il grande slancio ideologico, tecnologico e sociale degli ultimi tre secoli un disegno di onnipotenza, di autosufficienza tale che sarebbe entrato in forte collisione con il concetto di uomo creaturale della tradizione biblica. Nelle ultime propaggini di questo certo tipo di civiltà passò in primo piano l'idea che solo ciò che è funzionale ad un particolare tipo di prospettiva socioeconomica ha diritto di essere preso in considerazione. Ora, la religione - nel suo essere più profondo - non rende immediatamente e non si presta solo a calcoli di una certa funzionalità. Talora questa idea si rivestì, pure, della aureola onnipotente della scienza (di questo o di quel ramo e nel suo complesso), quando si ritenne che essa sola fosse in grado di offrire risposte esaurienti e definitive all'uomo e a tutti i suoi problemi esistenziali. Quale spazio per la considerazione dell'uomo come mistero e tanto più del suo aprirsi all'Assoluto, se questo mistero e questo Assoluto non potevano essere verificabili sperimentalmente? In realtà, non si può dimostrare sperimentalmente l'esistenza di Dio, ma neppure che non esista, perché Dio non è equiparabile a ciò che è oggetto di scienza. Si può solo dimostrare che è ragionevole credere in Lui. Ma Dio rimane comunque sempre oltre ogni possibilità di possederlo totalmente anche per via razionale. Si parla di "vie" che portano dal mondo e dall'uomo a Dio. Vie in senso biblico, cioè richiami, indicazioni dì percorso. Quanto basta per mettersi in viaggio, come Abramo, verso una terra di cui si avverte che è piena di senso e di significato, ma che non si attinge in vita se non come speranza. Un'ulteriore manifestazione di alternativa onnipotente alla religione si rese visibile nella programmazione di società perfette all'insegna del soddisfacimento dei bisogni dell'uomo in termini di totale pianificazione. Non per nulla questi sistemi richiesero e imposero ai loro cittadini di essere non solo partecipi, ma anche convinti assertori di vivere nel migliore dei mondi possibili, con la promessa di un benessere globale. La prospettiva della società perfetta si espresse nella versione hard delle forme totalitarie del razzismo nazionalsocialista e dei sistemi a socialismo forzato, e si esprime nella versione soft quando si promette e si configura una società virtuale tutta protesa alla consumazione inesauribile, scambiata per appagamento pieno e immediato di ogni esigenza.

CONTRO OGNI IDOLATRIA, PER LA RICOMPOSIZIONE DI UN ORIZZONTE DI SENSO

Si potrebbe meditare sul fatto che nel nostro mondo contemporaneo la religione rinasca anche con le stimmate della reazione a questo sogno e (talora) delirio di onnipotenza sia sotto forma di negazione forte e veemente della sua presunzione sia attraverso la dedizione disinteressata alle sue vittime, nella ricomposizione di un orizzonte di senso più alto e meno illusoriamente appetibile. Certe dimensioni dello sviluppo della civiltà occidentale sono tipicamente idolatriche e la coscienza religiosa ribadisce di fronte ad esse il "non serviam", il diritto di non piegare la mente e il cuore in asservimento. In questo senso l'affermazione di Dio si configura come rifiuto di vendere la propria anima, come barriera invalicabile contro ciò che intende farla oggetto di possesso sotto ogni forma, hard o soft che sia. Quando la religione attinge alla sua sorgente più intima, che è anelito alla trascendenza e sforzo di unione con essa, non si esaurisce in un puro e semplice prodotto o in una variabile dipendente della civiltà in cui si esprime. Vive dentro la civiltà, ma non si identifica né si può identificare con il suo orizzonte. La vera lotta della religione è sempre antiidolatrica, sia quando il credente si trova dentro una civiltà che si presume atea e vorrebbe intenzionalmente non sentir parlare di Dio, sia quando convive con una civiltà che tende a esaurire l'esperienza del divino alla stregua di un bene di largo consumo.

ERMIS SEGATTI

Teologo - Torino

Da "Famiglia Domani" 4/99

Pubblicato in Spiritualità Familiare
Sabato, 13 Novembre 2004 15:42

La tenerezza e i suoi gesti (Rosetta Albanese)

 

LA TENEREZZA E I SUOI GESTI

· Quando vogliamo essere accoglienti, sappiamo anche essere "teneri"? · "Tenerezza", il modo sublime con cui Dio ama ed accoglie: un termine che può tuttavia indurre ad equivoci, da non confondere con altri aspetti della sensibilità, come la fragilità, la delicatezza… · Quando la spiritualità scopre la tenerezza di Dio… · La tenerezza è di casa nella Chiesa? · Un atteggiamento frutto di una lunga disciplina interiore e alla portata di tutti uomini e donne in una Chiesa ancora forse troppo "maschile" · Ma la fonte di ogni tenerezza è Lui, il Dio che ama l’uomo e la donna teneri di un amore innamorato.

Prima parte

Prima parte

Accogliere come ospitare, ricevere presso di sé, contenere. Sono tre possibili accezioni di questo verbo, il cui tratto sostanziale è tuttavia "la tenerezza" il modo sublime con cui ama Dio. Sorge perciò spontanea la domanda: quando ci proponiamo di essere accoglienti, contempliamo la necessità di essere anche teneri?

Su questo aggettivo, "tenero" l’equivoco è facile. Tenero è il bambino con la sua evidente debolezza; tenero è il gattino dal musetto furbo; tenera è la vecchietta che chiede aiuto per attraversare la strada; tenero è il pèluche così morbido al tatto... Tenero quindi come equivalente di fragile, delicato, facile a spezzarsi. Concretamente o psicologicamente. Ma è un approccio semantico che ci allontana dalla reale sostanza della tenerezza o può indurci a considerarla soltanto un aspetto della sensibilità. Da alcuni anni in ambito cattolico si è iniziato a valorizzare la maternità di Dio, di cui la tenerezza è il volto sostanziale; ma le scelte e gli atteggiamenti della Chiesa e delle comunità cristiane risentono ancora di una tradizione secondo la quale la volontà e la forza, così necessarie nella lotta contro le passioni, sono più importanti. La scoperta della tenerezza di Dio ha aperto nuovi percorsi per la nostra spiritualità; ma assistiamo più a proclamazioni di principio che ad attuazioni nel quotidiano.

È accogliente la Chiesa?

Alla domanda: "è accogliente la Chiesa?", possiamo rispondere che dal punto di vista sociale, lo è senz'altro più di un tempo. Ma alla domanda: "la tenerezza è di casa nella Chiesa?" la risposta è meno perentoria. Converrebbe anzi dire che a fronte di una Chiesa che come istituzione accoglie tutti, i suoi membri - dal clero ai credenti - a volte sono incapaci di offrire tenerezza. Questa affermazione potrebbe a prima vista scandalizzare e urtare chi fa della sua vita una continua offerta di tempo e di denaro, di impegno fisico e psichico al servizio della chiesa. E tuttavia assistiamo, all'interno della comunità, nei rapporti tra clero e laici, credenti e non credenti, a tanti piccoli eventi in cui la tenerezza vacilla. O addirittura è assente.

Il suo primo nemico è l'efficientismo, l'agitarsi per fare il massimo in opere di assistenza e beneficenza, senza lasciarsi "pungere il cuore" dal bisogno del fratello. Come se la quantità delle opere fosse più importante della loro qualità.

E’ più difficile catalogare i gesti che pur se indirizzati al bene lo compiono solo a metà per mancanza di tenerezza. Si tratta di sfumature: tipologia di sorrisi, tonalità di parole, capacità di farsi piccoli coi piccoli, umiltà nell'accettare minuscoli doni di contraccambio, disinteresse per la salute e i problemi pratici dell'altro. Amare con amore di tenerezza richiede forse un buon carattere, ma soprattutto un lungo lavorio interiore. La tenerezza, sulla scia di quella divina, è accoglienza e accettazione del vicino con tutti suoi limiti e difetti: è così che Dio ci ama. Bisognerebbe saper vedere i difetti dell'altro conte uno specchio delle nostre manchevolezze, per quanto diverse. Ciò presuppone il riconoscimento della nostra personale debolezza. Riconoscimento che possiamo raggiungere solo con una lunga frequentazione del Signore nella profondità del nostro cuore, là dove la creatura, incontrando il Creatore, scopre la sua totale fragilità, insieme con il suo destino divino. L’efficientismo quasi mai attinge a quelle profondità. È sempre un'espressione del nostro intelletto, alla fin fine una manifestazione d'orgoglio: ecco come sono bravo io! Quanto più uno si interna nella sua profondità tanto più scopre la propria inadeguatezza alla perfezione dell'amore, di cui la tenerezza è espressione sublime. Da sempre la Chiesa ci invita a questo ponendoci dinanzi le parole dì Gesù: "imparate da me che sono mite e umile di cuore!". Ma fra l’insegnamento e l’attuazione, quale frattura, a volte!

Nelle stesse comunità cristiane, parrocchiali, di gruppo, persino conventuali, la tenerezza non sempre è di casa. Ci si da una mano, magari ci si vuole bene, come accade in una famiglia, ma rara è quell’accoglienza vigile, dolce e profonda che fa in modo che l'altro si senta ospitato, ricevuto nel nostro cuore sino ad esservi contenuto. Quanti possiedono il dono dell’ascolto totale, per esercitare il quale ogni proprio moto o pensiero deve essere rimosso? Magari un ascolto breve – perché manca il tempo - ma completo. Un tale tipo di ascolto a volte manca persino ai sacerdoti, in confessionale o fuori. Mi è capitato, durante una confessione di essere più io ad ascoltare le "esternazioni" del Prete che ad aprire il mio spirito.
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Seconda parte

Un supplemento di tenerezza.

Il mondo lo attende, da tutti i credenti

La Chiesa, questa Chiesa di fine secolo, è apertissima a tutte le categorie sociali, non emargina, invita sempre all'accoglienza, eppure non si è ancora intrisa di tenerezza. I gruppi non hanno ancora appreso sino in fondo la scienza e la sapienza della tolleranza fra i propri membri: la critica reciproca è ancora un'abitudine serpeggiante. Le meschine lotte per i posti "di potere" - una presidenza, un segretariato - ricalcano le modalità del mondo. Permane anche l'abitudine a "coltivare il proprio orticello", negando - non sempre, naturalmente, ma spesso - la collaborazione ad altre iniziative analoghe o confinanti. Ognuno tende a "tenersi stretti" i suoi soci, gli indirizzi, il proprio periodico… Anche questo è non-accoglienza, tanto meno tenerezza. Il guasto provocato da simili atteggiamenti è tanto più evidente considerando il bene che si riesce a fare quando più associazioni o parrocchie si uniscono per dar vita a un'iniziativa unica.

Il mondo si aspetta dai credenti un supplemento di tenerezza, di pazienza e tolleranza, di "ospitalità psicologica" e di serenità, di ottimismo. Ogni volta che un cristiano, che tale si dichiara, scivola nell'opposto, trascina nella sua caduta la vitalità del messaggio evangelico. La gente si aspetta fatti, non prediche. E’ terribile vedere un sacerdote che si comporta in modo duro, che manca di gentilezza, di attenzione. In una libreria cattolica mi sono vista scavalcare da un prete. Entrato dopo di me, non si è neppure guardato intorno e si è fatto subito servire. E quando finalmente mi ha visto, non ha chiesto scusa. Un altro, incontrando una sua parrocchiana che era stata a lungo malata, non le ha chiesto niente della sua salute. Una catechista, dopo anni di lavoro assiduo, colpita da sclerosi, si è sentita abbandonata... Al contrario, ho conosciuto sacerdoti di grande delicatezza, di profonda umanità. Una mattina ero seduta in una chiesa a meditare. Entrano alcune persone con il loro sacerdote, uomo dolce e "innamorato" della gente. Una di quelle persone ha esclamato: "Don Egidio, sei un gioiello!" Ed era vero. Se dovessi definire con un aggettivo don Egidio, ora passato oltre l’orlo del cielo, userei la parola "tenero". Lo era nei gesti, in confessione, durante l’omelia. Una volta, in cui lo vidi un po’ alterato rimasi turbata, rendendomi così conto di quanto il suo esempio mi fosse di stimolo.
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Terza parte

Una Chiesa troppo "maschile"?

La dolcezza, la tenerezza sono purtroppo poco frequentate dagli uomini di chiesa È più facile trovarla tra le suore. E allora sorge la domanda: non è troppo "maschile" la Chiesa? Normalmente sì. E questo si evidenzia in vari modi: nell’"uso" della collaborazione della donne sempre in forma subordinata e dandola per scontata; nel considerare de secondaria importanza la stampa femminile, nell'escludere le donne dalle posizioni decisionali. Si attua così una non-accoglienza subdola, si sottovalutano le loro possibilità creative e dirigenziali, si mortificano carismi di valore, E quel che è peggio si delega alle donne la parte "tenera" dell’accoglienza, accreditando così il principio che la tenerezza sia compito esclusivamente femminile. Ma Dio è insieme hesed e emet, misericordia et veritas, tenerezza e saldezza. Come sarebbe più salvifico se le due componenti coabitassero in chi lo rappresenta in questo mondo, uomo o donna che sia. Quanto più convincenti saremmo noi tutti che ci proclamiamo cristiani se la forma "tenera" dell'amore improntasse ogni gesto: in famiglia, nei luoghi di lavoro, sui mezzi pubblici, nei negozi e nei supermercati.

La fonte della tenerezza è Lui… Ma per attingerla dobbiamo lasciarci disarmare

Ma dove prendere tenerezza, a quale fonte attingere? Spesso ci ritroviamo con un carattere inasprito dalle circostanze, siamo stressati dalle incombenze pesanti, inseguiti dalle scadenze, debilitati dalle malattie, afflitti da convivenze difficili, incompresi in famiglia, schiacciati da colleghi prepotenti, irritati dal traffico... Come conservarsi dolci e disponibili aperti e accoglienti? Dove troveremo la forza e la speranza per esserlo? Lasciandoci disarmare. Disarmare del nostro orgoglio e della supponenza, accettando come normale l’inadeguatezza umana alla perfezione. Il segreto della riuscita è nel riconoscimento della nostra fragilità, della nostra sorte di peccatori recidivi, che mai però disperano della misericordia divina. Essa, che è tutta e soltanto tenerezza, ci insegnerà la strada. E allora, da questa posizione di estrema debolezza riconosciuta e accettata, il mio occhio inspiegabilmente assumerà una vista più acuta, capace di entrare nella vita dell'altro, del mio simile, simile in quanto fragile e peccatore come me. Mi sarà così più agevole mettermi sul suo stesso piano. Egli avvertirà questa posizione fraterna e mi sentirà accanto davvero. Diventerò tenero con lui perché saprò accettarlo, avendo prima accettato me stesso. Un uomo o una donna così Dio lo ama di un amore innamorato. E non tarderà a farglielo capire. Questa sarà la fonte dove attingere a piene mani e felice cuore tutta la tenerezza che serve.

ROSETTA ALBANESE

Giornalista. Direttrice di "Nuova e Nostra" – Milano

(da "famiglia domani" 2/99)

Pubblicato in Spiritualità Familiare
 

AMARSI L’UN L’ALTRO È DIMORARE IN DIO-AMORE

Esegesi di 1 Gv 4,7-21

· Il comandamento nuovo di Gesù · Il volersi bene come fratelli rende ancora presente in noi il Maestro · L’amore infatti viene da Dio che è amore · · E questo Dio-amore dimora in noi e scaccia la paura · L’amore diventa così la "vocazione" che racchiude tutte le vocazioni (Teresa di Lisieux).

Il comandamento nuovo di Gesù · Il volersi bene come fratelli rende ancora presente in noi il Maestro · L’amore infatti viene da Dio che è amore · · E questo Dio-amore dimora in noi e scaccia la paura · L’amore diventa così la "vocazione" che racchiude tutte le vocazioni (Teresa di Lisieux).

Prima parte

All'inizio del discorso di addio nell'ultima cena, Gesù lascia ai suoi discepoli, quasi come disposizione testamentaria, il comandamento "nuovo": "Vogliatevi bene gli uni gli altri; come io vi ho amato, così anche voi dovete amarvi a vicenda". E aggiunge: "Da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri" (Gv 13,34 ss). Queste parole seguono immediatamente e perciò sono strettamente collegate con l'annuncio che Gesù fa della sua prossima e dolorosa separazione: "Figlioli (notare l'affettuoso "tèknìa"), ancora per poco sono con voi; voi mi cercherete... ma dove vado io voi non potete venire" (Gv 13,33). In altre parole: "Quando io non sarò più fisicamente con voi, il volervi bene come fratelli mi renderà presente tra voi". Nel Vangelo di Matteo lo stesso pensiero chiude il discorso di Gesù alla comunità dei fratelli: "In verità vi dico: se due di voi sopra la terra si accorderanno per domandare qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli ve la accorderà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro" (Mt 18, 19ss) Mi è sembrato utile partire da qui, perchè il brano di Gv 4,7-21 su cui proponiamo di meditare, può essere considerato come una lunga e profondissima riflessione sul "comandamento nuovo" lasciato da Gesù come suo testamento. Il Brown, nel suo ampio e preciso commento di questo brano, propone questa divisione e questi titoli:

  1. L'amore (agàpe) è dal Dio che è amore (agàpe): 1 Gv 4, 7-10 .
  2. Il Dio di amore dimora in noi: 4, 11-16b
  3. L’amore ha raggiunto la perfezione in noi scacciando il timore: 4, 16c-19,
  4. Amare il proprio fratello come comandato da Dio: 4, 20-21.

1.L'amore è dal Dio che è amore

Osserviamo subito che l’Autore di 1Gv si rivolge ai suoi lettori con l'appellativo "agapetòi", tradotto con "carissimi" o "diletti". Nel greco dei LXX "agapetos" viene spesso usato per tradurre l’ebraico "jâhîd" = "diletto in modo unico", "figlio prediletto" (es Isacco) o anche l’"unigenito" ed è l'aggettivo usato spesso per designare il popolo diletto di Dio, Israele. In Marco, il Padre celeste presenta così lo stesso Gesù, sia nel battesimo al Giordano, sia nella trasfigurazione. Tu sei il Figlio mio "prediletto", in te mi sono compiaciuto (Mc 1,11; cf 9,7). Paolo del resto si rivolge ai cristiani di Roma chiamandoli "Diletti di Dio, chiamati santi" (Rm 1,7) E ai "diletti" l'Autore ripropone in prima persona coinvolgendo quindi se stesso come aveva già fatto in 3,23, il comandamento: "Vogliamoci bene l’un l’altro, dal momento che l’"agàpe" è da Dio. Ognuno che ama è generato da Dio e conosce Dio". L’agàpe dunque non è un amore che abbia la sua origine dal cuore umano, "ma è un amore spontaneo, immediato, creativo, che scende da Dio nel cuore del cristiano e dal cristiano passa, sempre attraverso l’azione di Dio, ad un altro cristiano". E’, cioè, dono di grazia, è il carisma a cui Paolo invita ad aspirare come al più grande dei carismi e che ci indica come "via migliore di tutti" (I Cor 12,31; 13,13).

In 3,1 l'Autore di 1 Gv aveva esclamato: "Quale grande amore (agàpe) ci ha donato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!". Qui ci dice che i figli di Dio fanno vedere, manifestano di essere veramente tali proprio nell'amore. E’ amandosi che i cristiani scoprono di avere in comune la natura di figli di Dio. Ed è amando che i figli arrivano a "conoscere" il Padre.

Il v.8 riprende al negativo, nel caratteristico stile semitico del parallelismo antitetico, lo stesso concetto, ricalcandolo: "Chi non ama non ha conosciuto Dio" e conclude con la grande affermazione: "Perché Dio è amore!".

Viene spontaneo ripensare alle altre affermazioni giovannee, sia del Vangelo che delle Lettere: "Dio è Spirito" (Gv 4,24); "Dio è luce" (1Gv 1,5 ) e a quelle che, in prima persona, Gesù proclama solennemente con i ripetuti "io sono" (Egô eimi = YHVH): "Io sono la luce del mondo" (Gv 8,12); "il pane di vita" (Gv 6,48), "la risurrezione e la vita" (Gv 11,25); "la via, la verità e la vita" (Gv 14,6). ecc.

S. Agostino, commentando questa definizione di Dio, esclama: "Se niente altro a lode dell'amore fosse stato scritto nella lettera, o meglio nel resto della S. Scrittura, e noi avessimo udito dalla bocca dello Spirito di Dio solo questa asserzione: "Dio è amore", non dovremmo cercare niente altro".

"E l'amore di Dio si è manifestato a noi da questo: che Dio ha mandato il suo Figlio "unico" nel mondo, perché noi avessimo la vita per mezzo di Lui" (v. 9). Qui, tenendo presente Gv 3,16, possiamo parafrasare: "da questo siamo venuti a conoscere che cosa significhi l' "agàpe" di Dio: per noi Cristo diede la sua vita". In altre parole ci viene rivelato che Dio ha un solo Figlio "prediletto", che è disposto a offrirlo in sacrificio fino alla morte ed è disposto a fare questo per noi, per la remissione dei nostri peccati e perché possiamo avere la vita in Lui.

E conclude questa prima parte: "In questo consiste l'amore: non è che siamo noi che abbiamo amato Dio, ma è Lui che amò noi e mandò il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati" (v.10). L'amore dunque è da Dio: non sono io che ho scelto per primo di amare Lui (cf Gv 15,16), ma è Lui che ha scelto me da amare. Sono venuto all'esistenza per una sua scelta, perché mi ha voluto bene. Esisto, perché Lui continua a volermi bene, mi fa oggetto continuo del suo amore. Accogliendomi come "dono suo per me", accolgo il dono supremo che Egli mi fa: il suo Figlio "prediletto", che si offre in sacrificio per i miei peccati, per darmi la vita eterna. Accogliendo l'altro (fratello, sorella, fidanzato/a, sposo/a, amico/a, ecc) come "dono di Dio per me", e donandomi all'altro come "dono di Dio per lui", entro in questo vortice dell'amore di Dio.

Amare è perciò anzitutto accogliere; "lasciarsi amare" da Lui, prendere coscienza che Lui mi vuole bene, è entrare nella sua pace e riposare nell'amore. Ma è anche capire che l'altro, quello che io incontro (tutti, ma in modo particolarissimo il compagno o la compagna dalla mia vita - fidanzato/a, sposo/a), è stato pensato da Lui per me. Non sono in fondo io che l'ho scelto, è Lui che me lo ha fatto incontrare e me lo "dona" ogni giorno, ogni istante. Scoprire l'altro come "il dono di Dio per me", mi aiuta a scoprire Dio in lui, un Dio che diventa "Dio per me", un Dio Padre che, attraverso l’altro, mi dona il suo Figlio. Prendere coscienza di queste verità, proporcele come norma di vita, esercitarci ogni giorno a realizzarle nel quotidiano: è questa la strada o il cammino per educarci all’amore.

 

Seconda parte

2. Dio che è amore dimora in noi (cf 1Gv 4,11-16)

La Lettera riprende: "Carissimi, se Dio ha voluto bene a noi così, bisogna che noi a nostra volta ci vogliamo bene l'un l'altro. Nessuno ha mai visto Dio. Tuttavia se ci vogliamo bene l'un l'altro, Dio dimora in noi e il suo amore ha raggiunto in noi la perfezione" (vv. 11-12). Qui troviamo la conseguenza già intravista in quanto detto sopra: il comando di volerci bene l'un l'altro è la logica conseguenza dell'amore che Dio ha per noi. Nel IV° Vangelo Gesù dice: "Voi dimorate nel mio amore, se osserverete i miei comandamenti, proprio come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e dimoro nel suo amore... Questo è il mio comandamento: "vogliatevi bene l'un l'altro"" (Gv 15,10.12). Se Dio è amore, là dove egli è deve esserci amore. Noi non abbiamo mai visto Dio: tuttavia il volerci bene tra noi fa si che Dio dimori in noi. L'amore che ci doniamo e che accogliamo l'un l'altro è il segno-sacramento dell’amore che il Padre ci dimostra mandando il suo Figlio a morire per noi. È questo amarci l’un l’altro come membri vivi dei Corpo di Cristo, che realizza la nostra "comunione" (Koinonìa) con Lui e la presenza di Lui in noi: "Come il Padre ha amato me, così anche io ho amato voi: rimanete nel mio amore" (Gv 15,9)

La Lettera continua: "Da questo possiamo conoscere che dimoriamo in Dio ed Egli dimora in noi, perché ci ha fatto dono del suo stesso Spirito" (v.13). S. Paolo trova appunto nel dono dello Spirito Santo e nella sua presenza attiva in noi la ragione per cui, con il suo aiuto, possiamo gloriarci persino nella tribolazione, perché, dice, "questa produce pazienza, la pazienza (produce) una virtù provata e la virtù provata la speranza. La speranza poi non delude, perché l'amore (agàpe) di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato donato" (Rm 3,3-5). È la promessa fatta da Gesù nel suo discorso di addio che si realizza: "Io pregherò il Padre ed Egli vi darà un altro "Consolatore", perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito di verità… che voi conoscete perché dimora presso di voi e sarà in voi... Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi mi ama. Chi mi ama sarà amato dal Padre mio e anche io lo amerò... e noi (il Padre ed io) verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui" (Gv 14,16-23). "Con Gesù che si apre così intimamente ai discepoli, anche il Padre viene a loro; essi verranno immersi nella comunione di vita e di amore con Dio. Le parole di Gesù circa le "molte dimore nella casa del Padre" (Gv 14,2) si adempiono già ora: Gesù e il Padre dimoreranno presso quel discepolo". Ne. consegue che in ogni rapporto di persona a persona, ma in modo unico irripetibile nel rapporto tra fidanzati o soprattutto tra sposi, quando c'è amore (agàpe), è Lui che incontriamo, è Lui che in definitiva "dà pienezza, porta a compimento" il nostro amore.

Tutti abbiamo fatto l'esperienza che quanto più amiamo una persona, tanto più troviamo inadeguati a esprimere quello che sentiamo dentro, i segni, i gesti con cui tentiamo di esprimere il nostro amore. C'è in noi qualcosa di infinito, dobbiamo "dirlo" con gesti così finiti! Per questo ci son sempre tante nostalgie, c'è sempre il senso della nostra finitudine, del "fino a quando?".

E’ Lui che mi garantisce che il mio amore per te entra nell'eterno, perché è Lui che lo salva dal tempo. È per Lui che, quando ti dico che "ti voglio un bene infinito e per sempre" sono "vero", perché, sì, ti dico qualcosa che sento profondamente vero, ma come può la mia finitudine garantirti l'infinito e il "per sempre"? È ancora Lui, il Salvatore, che mi dona giorno dopo giorno la grazia del "per sempre". Ecco perché il mio amore per te entra nell'eterno…!

 

Terza parte

3. L'amore ha raggiunto in noi la perfezione, scacciando il timore (1Gv 4,16-19)

Se il cristiano "dimora nell’amore, dimora in Dio e Dio dimora in lui, perché Dio è amore" e l'amore raggiunge la perfezione nel fatto che, vicendevolmente, Dio dimora in colui che ama e colui che ama dimora in Dio. Ne consegue, aggiunge la Lettera, che possiamo aver fiducia nel giorno del giudizio, perché già in questo mondo siamo come Lui, il Cristo, cioè abbiamo già in questa vita una somiglianza con Lui, perché siamo in mutua comunione col Cristo, e in Cristo col Padre. E allora, perché aver paura? L'amore non lascia spazio alla paura, anzi, l’amore perfetto scaccia il timore (v. 18); per cui, sembra dirci S. Giovanni: "Rifletti bene su te stesso: se sei ancora timoroso, è segno che il tuo amore non ha ancora raggiunto la perfezione". "Quanto a noi, ripete, noi amiamo perché Egli ci ha amati per primo" (v. 19).

4.Amare il proprio fratello come comandato da Dio (1Gv 4,20-21)

I vv. 21-22 che chiudono il capitolo, richiamano quanto l'Autore aveva già detto in 3.16-17: "Da questo abbiamo conosciuto l'amore: Egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli. Ma se uno ha ricchezze di questo mondo e vedendo il suo fratello nella necessità gli chiude il proprio cuore, come dimora in lui l'amore di Dio?". Qui precisa: l’amore - agàpe - che viene da Dio, si deve esprimere nell'amore del fratello: "Chi infatti non ama il fratello che vede, non può amare Dio che non vede" (4,21). In altre parole, "l’amore per Dio e l'amore per il fratello sono due aspetti dello stesso amore, cosicché, quando è assente l'uno è assente anche l’altro… E la ragione è che il proprio fratello è un figlio del Dio, dal quale viene l’amore, e Dio Padre esprime l'interesse per i suoi figli attraverso l'amore che ciascun figlio ha per l'altro".

Se riflettiamo bene, siamo nella logica del giudizio finale di Mt 25,31-46: " ...In verità vi dico: ogni volta che avete fatto (o non avete fatto) queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, lo avete fatto (non l'avete fatto) a me" (Mt 25,40.45>.

Ecco perché per Teresa di Lisieux, come per noi - con tutti i nostri limiti -, scegliere l'amore-agàpe come "vocazione" è "comprendere che l'AMORE racchiude tutte le vocazioni, che l'amore è tutto, che abbraccia tutti i tempi e tutti i luoghi, in una parola che l'amore è eterno…!".

E, se al termine della nostra vita saremo giudicati sull’amore, sforziamoci, come ci esorta S. Paolo, di "Farci imitatori di Dio, quali figli carissimi, e di camminare nell'agàpe, nel modo che anche Cristo ci ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore"

(Ef 5,1-2)

DON GIACOMINO PIANA

Genova

(da "famiglia domani" 2/99)

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EDUCARE ALL’AMORE

Quarta parte

Una revisione di vita

Seguendo il percorso della Revisione di Vita ci viene spontaneo confrontare ora la nostra riflessione con la parola di Dio. In Giovanni 13,34, Gesù, al momento di lasciare i discepoli, dà loro un ultimo ma nuovo comandamento che supera quelli antichi consegnati a Mosè, un insieme di norme date per regolare la vita del popolo di Dio in cammino verso la terra promessa. Egli non si dilunga più in un elenco di regole fisse, di leggi tradizionali, di codici di comportamento, ma semplicemente dà un comando avallato dall'esperienza di amore vissuto che deve condurre all'amore donato: Amatevi gli uni gli altri! Amatevi come io vi ho amati!

Già in altre occasioni (Mt 22,37-40), Egli aveva annunciato la grande novità dell'amore come fondamento della legge e dei Profeti stessi e la essenzialità dei due grandi comandamenti dell'amore verso Dio e verso il prossimo che comprendono e giustificano tutti gli altri. Paolo nel suo insegnamento evidenzia con vigore la primaria importanza dell'amare su ogni altro mezzo di appartenenza a Cristo... (l’amore soltanto fa crescere nella fede, I Cor 81). La sua fiducia nella potenza della carità sopra ogni altra virtù lo conduce fino alle parole forti e chiare di quel brano della lettera ai Corinzi che tutti conosciamo sotto il titolo esplicito di "inno all'Amore". Là egli non insegna il modo di amare, ma proclama in modo affermativo e diremmo quasi perentorio com'è colui che ama, ci rende viva e reale le la figura dell'uomo che ama in verità spingendosi ad affermare che anche il sacrificio estremo di se stessi se compiuto senza amore non ha alcun valore! lì suo modo di esprimersi si ispira alla chiarezza evangelica del "sì-sì, no-no", scandisce con efficacia che chi ama è... chi ama non è ( cf 1Cor 13).

Al termine di questa breve analisi e confortati dalla parola di Dio sentiamo di poter proporre con ancora maggior consapevolezza e fiducia il binomio EDUCAZIONE-AMORE. A nostro avviso esso indica il cammino sofferto e al tempo stesso entusiasmante dell'umanità sempre alla ricerca dell'amore vero che si raggiunge soltanto attraverso un lavoro costante di purificazione e di conversione che costituisce appunto la e-ducazione del cuore.

MARINELLA ed ENRICO GUALCHI

Segretari diocesani C.P.M.- Torino

(da Famiglia domani 2/99)

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EDUCARE ALL’AMORE

Terza parte

(Educare...)...all'amore

Passo dopo passo dalla parola educare siamo giunti alla parola amore.

Noi speriamo che tutti i nostri lettori abbiano fatto, sebbene in modi diversi, l’esperienza di amare, e da quell'esperienza, se si tratta di amore autentico cioè di volere (il) bene ricordino che quando si ama davvero si desidera che l'amato sia sempre al meglio di sé, che esprima i suoi lati migliori, che sia in armonia con se stesso, con noi, con tutto il mondo. Per aiutare l'altro, cioè per educarlo, per farlo crescere forte, equilibrato e sicuro cerchiamo di dissipare i suoi pensieri negativi, gli sottolineiamo tutto ciò che di bello e di costruttivo c'è in lui: non diamo troppo peso ai suoi limiti che conosciamo certamente e non nascondiamo ad entrambi, ma che l'amore e il desiderio di star bene insieme ci fanno apparire meno pesanti!

L'azione educativa si dipana così in un rapporto di fiducia, di arricchimento reciproco, di serenità che pone la persona in uno stato di migliore ricettività dove ogni seme di educazione e di crescita interiore troverà buon terreno per portare molto frutto. Se per nostra fortuna abbiamo l'esperienza dì essere amati o di essere stati amati sappiamo bene quanto ci ha donato in fiducia e sicurezza la presenza di chi ci ama. Chiediamoci quale risultato hanno dato le parole lette sull'amore, parole detteci sull'amore, parole insegnateci sull'amore e d’altro canto quale effetto hanno prodotto in noi molti gesti autentici di amore! Oggi notiamo come sempre più le figure di forte ed autentica testimonianza lascino segni profondi nell'opinione pubblica e siano oggetto di rispetto e di considerazione. Spesso il loro messaggio non è stato trasmesso a parole, ma la testimonianza concreta della loro vita spesa nell’amore rispettoso del prossimo ha potuto più di molte teorie educative. Ecco perché sentiamo serenamente di poter affermare alla luce della nostra modesta esperienza che educare all’amore consiste prima di tutto amare autenticamente perché chi è amato sperimenta e apprende l’amore e a sua volta amerà con suoi carismi ed i suoi modi.

MARINELLA ed ENRICO GUALCHI

Segretari diocesani C.P.M.- Torino

(da Famiglia domani 2/99)

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EDUCARE ALL’AMORE

Seconda parte

Educare...

Ci pare perciò utile innanzitutto analizzare i due vocaboli chiave dell’espressione "educare all'amore" per scoprirne il significato reale e confrontarlo con le interpretazioni a volte distorte che abbiamo costruito nella prassi quotidiana. Educare: questa parola è presente quasi esclusivamente nel linguaggio degli adulti e perlopiù a senso unico in direzione dei cosiddetti "sottoposti", siano essi figli, allievi. "catechizzandi" o simili; a volte l'oggetto dell'azione educatrice è rappresentato da persone che semplicemente non rientrano nei formali schemi di comportamento e perciò ritenute bisognose di interventi educativi che spesso vanno letti come limitativi o peggio coercitivi.

Non siamo forse caduti tutti almeno una volta nella tentazione di approfittare del nostro ruolo di educatori per proporre le nostre soluzioni, le nostre maniere, le nostre idee con la malcelata convinzione che fossero il meglio per i nostri giovani senza magari tenere conto della loro realtà? Se facciamo un passo in più arriviamo a dare alla parola educare una valenza di dono che comunque scende sempre dall'alto di chi ha già accumulato esperienza e conoscenza (l'educatore) verso chi è del tutto sprovvisto di risorse (l'educando). La maggior parte dei cosiddetti educatori è convinta che il soggetto da educare sia un contenitore vuoto in cui riversare concetti ed esperienze già filtrati e che gli permetteranno di camminare sicuro nella vita secondo i parametri e le valutazioni dell'educatore stesso. Leggiamo dunque dal vocabolario: Educare = dal latino Ex (fuori) - Ducere (trarre). Sorprendentemente l'etimologia della parola va al contrario del nostro convincimento: non si tratta di mettere dentro, bensì di tirare fuori qualcosa. Da dove? E da chi?

Il primo "dove" è il cuore dell'educando che, anche se a volte lo dimentichiamo, ha in sé tutti i doni che Dio gli ha riservato come creatura fatta a Sua immagine e somiglianza; doni che noi non abbiamo costituito ma che responsabilmente dobbiamo scoprire e rivelare alla persona che ci è stata affidata.

Poco alla volta il vero senso dell'educazione si delinea più impegnativo e più coinvolgente: non si tratta dunque di trasmettere in modo distaccato e scolastico un insieme di nozioni o anche di valori, ma di accogliere una creatura per conoscerla profondamente ed aiutarla a conoscersi e ad accogliersi a sua volta. Dunque il presupposto dell'educazione è l'accoglienza. Qui scopriamo il secondo "dove", e cioè il nostro cuore di educatori, e sottolineiamo cuore e non mente, raziocinio! Per tirare fuori il profondo di una persona nel senso detto di e-ducare dobbiamo prima capirla, cioè contenerla in noi, accoglierla com'è veramente perché cosi Dio la conosce e la ama. Per farle posto nel nostro cuore dovremo però tirare fuori e buttare via qualcosa che da troppo tempo vi giaceva inutile, qualche pregiudizio, qualche luogo comune, qualche immagine preconfezionata che si sovrappone all’immagine autentica dell'educando che dobbiamo invece raggiungere insieme. L'amore ci aiuterà nel compito educativo a volte più che scientifici programmi tecnicamente perfetti ma comunicati con freddezza!

MARINELLA ed ENRICO GUALCHI

Segretari diocesani C.P.M.- Torino

(da Famiglia domani 2/99)

Pubblicato in Spiritualità Familiare

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