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Sabato, 01 Ottobre 2005 14:19

MA BISOGNAVA FAR FESTA E RALLEGRARSI

         MA BISOGNAVA FAR FESTA E RALLEGRARSI

 

Il capitolo 15 di Luca è un canto di gioia che celebra la felicità di chi ha ritrovato ciò che aveva smarrito. Allo stesso modo, il ritorno alla comunità di un fratello che si «converte» è festa di tutta la chiesa. E ancor più quale sarà la gioia del Padre per il ritorno di noi, suoi figli?

Mi sembra bene fare alcune premesse perché risalti come «la festa» sia veramente il vertice, non solo della parabola del «padre misericordioso», ma di tutto il capitolo 15 del Vangelo di Luca.

Rileviamo innanzitutto, con J. Dupont, che tale capitolo «costituisce un'unità letteraria. La sua struttura è semplice. Dopo l'introduzione (vv. 1-3), le due brevi parabole del pastore che ritrova la sua pecora (vv. 4-7) e della massaia che ritrova la sua dramma (vv. 8-10) sono perfettamente simmetriche e inseparabili l'una dall'altra. La terza parabola, molto più sviluppata (vv. 11-32), illustra l'insegnamento delle parabole precedenti: è la storia di un padre che ritrova suo figlio; e questa viene introdotta semplicemente con "Disse poi”.

Possiamo inoltre osservare che tutto il capitolo è guidato come da un filo conduttore dai verbi "perdere-perduto"', "ritrovare-ritrovato"; " rallegrarsi -far festa". Sono ripetuti rispettivamente sei - sette volte.

I vv. 7 e 10 con un efficace "Così vi dico..." dichiarano il messaggio delle due parabole: la gioia del pastore e della massaia sono pallido simbolo della gioia che "ci sarà in cielo" (v. 7), "davanti agli angeli di Dio" (v. 10) "per un solo peccatore che si converte" (id.)».

 

Una gioia di tutta la comunità

II particolare del pastore e della massaia che chiamano i vicini a rallegrarsi con loro (vv. 6 e 9) per aver ritrovato la pecora e la dramma perdute, ci lasciano intuire che, se Dio prende l'iniziativa di cercare instancabilmente l'uomo che si è smarrito, e quando lo ritrova esulta di gioia, questa gioia non la tiene per sé, ma vuole che tutta la comunità faccia festa con lui per il ritorno del figlio-fratello che si era perduto.

Il ritorno nella Chiesa di un fratello che si con verte è festa di tutta la Chiesa!

E questo «a differenza dei novanta-nove giusti che non hanno bisogno di conversione» (v. 7b), chiaro riferimento ai farisei che per Luca sono «coloro che presumono di essere giusti e disprezzano gli altri» (cf Le 18,9-14: la parabola del fariseo e del pubblicano al tempio).

Ci rendiamo conto dello stretto rapporto che unisce la parabola del padre misericordioso alle due precedenti soprattutto dalla somiglianza delle conclusioni che costellano il capitolo come un ritornello:

«Rallegratevi con me, perché ho ritrovato la mia pecora che era perduta» (v. 6);

«Rallegratevi con me, perché ho ritrovato la dramma che avevo perduta» (v- 9);

«Mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato» (v. 24).

Notiamo come il padre risponde al figlio maggiore ripetendo la stessa frase precedente, unendo i due verbi «far festa e rallegrarsi», preceduti da «bisognava» (gr. édei, era necessario). Ed è con questa frase che si conclude il capitolo.

 

Un «crescendo» nella gioia della festa...

Possiamo dunque senz'altro dire che tutto il capitolo è come un canto di gioia che celebra la felicità di chi ha ritrovato ciò che aveva smarrito.

Si passa, cioè dalla sofferenza del «perdere» - per il padre è quasi strazio di morte: «questo mio figlio era morto...» - all'ansia del ricercare ciò che si è perduto o dell'attendere con angoscia  il ritorno di chi se ne è andato, lasciandoli un vuoto incolmabile.

Ma, ecco, quanto più grande è stata questa sofferenza e quest'ansia, tanto più veemente esplode la gioia del «ritrovare» e del «ritorno». C'è, infatti, se osserviamo attentamente il testo, un evidente «crescendo» nella gioia della festa che il padre vuole per il ritorno del figlio, in confronto a quella del pastore che ritrova la pecora e la massaia che ritrova la dramma.

La festa con tutti i segni che l'accompagnano e la celebrano domina tutta la parte della parabola dal v. 20 fino al v. 34. «Bisognava far festa e rallegrarsi...».

Perché la festa?

Perché un figlio rimane un figlio per un padre, come mette bene in evidenza J.Dupont:

«Rileggiamo la descrizione sconcertante che i vv. 20-24 fanno del comportamento del padre all'arrivo del figliol prodigo. Com'è possibile commentare un testo simile senza attenuarne il vigore? Si osservi l'emozione del padre quando scorge il proprio figlio, ancora lontano; il verbo greco significa con esattezza che il padre fu afferrato nell'intimo del suo essere da un impeto di pietà e di compassione. Questo turbamento interiore si traduce immediatamente in movimenti precipitati: vediamo innanzitutto, non senza stupore, questo rispettabile orientale mettersi a correre incontro al figlio; questi incomincia a recitare la sua frase, ma non ha il tempo di finirla; il padre ha troppa fretta: «Presto!», dice ai servi. Senza perdere un istante, gli fa indossare la veste più bella, gli fa mettere un anello al dito e calzature ai piedi, ordina di macellare il vitello grasso e di mettersi a tavola per celebrare l'avvenimento. «Presto!».

Tutta questa agitazione si spiega come un'esplosione di gioia. La gioia del padre è così traboccante ch'egli non riesce a trattenersi. Il v. 24 conclude l'episodio fornendo la ragione profonda di questa gioia: «Mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». Per quanto peccatore, il prodigo rimane un figlio per suo padre. Solo questo conta ai suoi occhi. Egli non ha mai cessato di amare suo figlio. Partito per andare lontano, questo figlio era perduto; ora, eccolo ritrovato. Che importa il passato, dal momento che il figlio è ritornato? Il padre da libero sfogo alla gioia, perché ama come solo un padre può amare.

Ai farisei che si limitavano a vedere l'indegnità del figlio colpevole, Gesù non risponde discutendo sul comportamento del figlio, ma mettendo in luce l'amore del padre. D'altra parte non dimentica a chi è destinato il suo racconto. Si ammiri la delicatezza con cui evita ogni parola rivolta dal padre al figlio. Il padre parla unicamente con i servi, che diventano i testimoni della sua gioia e del suo amore paterno».

 

La festa nel Regno di Dio...Un banchetto di nozze

Vorrei sottolineare ancora che molti testi della Bibbia presentano la festa escatologica nel Regno di Dio come un grande banchetto: «Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli su questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati... Eliminerà la morte per sempre; il Signore Dio asciugherà le lacrime su ogni volto... questi è il Signore in cui abbiamo sperato, rallegriamoci, esultiamo!...» (Is 25,6-9).

Così Matteo vede nel banchetto di nozze del Figlio del Re, che già nell'Antico Testamento era simbolo per eccellenza della comunione gioiosa di Dio col suo popolo, il simbolo della festa che il Signore prepara per gli eletti nel suo Regno. Ed è lo stesso Gesù che dice: «Molti verranno dall'Oriente e dall'Occidente e spederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel Regno dei cieli» (Mt 8,11).

Questo pensiero che troviamo in molti altri testi biblici, raggiunge il suo vertice nell'Apocalisse, quando il Profeta vede «un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non c'era più. Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme (simbolo dell'umanità redenta) scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii allora una voce potente che usciva dal trono:

Ecco la dimora di Dio

con gli uomini!

Egli dimorerà tra di loro

ed essi saranno suo popolo

ed egli sarà il "Dìo-con-loro ".

E tergerà ogni lacrima

dai loro occhi;

non ci sarà più la morte,

né lutto, né lamento, né affanno,

perché tutte le cose di prima

sono passate...»

(ap 21, 1-4)

 

Si concluderà così quella «festa» annunciata dagli angeli alla nascita di Gesù: «Vi annuncio una grande gioia che sarà di tutto il popolo», disse l'angelo ai pastori. «E subito apparve con l'angelo una moltitudine dell'esercito celeste che lodava Dio e diceva: "Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che Dio ama"» (Luca 2,10-14).

Quale festa più grande?

Quale festa possiamo immaginare più grande di quella che celebra le nozze del Figlio di Dio con l'umanità? L'aveva predetta il Profeta:

«Gerusalemme,

tu sarai chiamata Mio compiacimento

e la tua terra, Sposata,

perché il Signore si compiacerà di te

e la tua terra avrà uno sposo.

Sì, come un giovane sposa

una vergine,

così ti sposerà il tuo architetto;

come gioisce lo sposo per la sposa

così il tuo Dio gioirà per te»

(Is 62,4-5).

 

Ripensando alla gioia del padre che fa festa per il ritorno del figlio prodigo, vorrei ricordare le parole che ho udito dire al padre Bevilacqua, il grande amico e guida spirituale di Paolo VI, agli universitari di Genova, concludendo una “tre giorni” in preparazione alla Pasqua in cui aveva commentato questa parabola:  “Tante volte andrete a confessare i vostri peccati per avere la pace nel cuore. E fate bene. Ma provate d’ora innanzi a farlo soprattutto per fare la gioia del Padre… e sarà molto meglio!”.

 

Don Giacomino Piana

Tratto da “Famiglia Domani – aprile 2002”

 

 

 

Pubblicato in Spiritualità Familiare
Martedì, 26 Luglio 2005 20:16

Un rapporto che fa crescere

Un rapporto che fa crescere

· Gesù instaura con i suoi discepoli un rapporto particolare · Essere «discepoli» è infatti un’elezione: è Lui, il Maestro, che ci sceglie · Seguire Gesù significa un’adesione permanente e strettissime alla sua persona · I discepoli di Gesù si distinguono da questo: l’amore come unico criterio delle loro scelte di vita.

È l'osservazione che Giovanni fa dopo che Gesù ha dato «inizio ai suoi miracoli in Cana di Galilea» dove aveva cambiato l'acqua in vino manifestando la sua gloria. Il primo dei segni - è questo il termine più vicino all'originale greco piuttosto che miracoli - vuole esprimere il carattere rivelatorio rispetto al Cristo dei prodigi che questi compie. Mediante ciò che Gesù opera è rivelato ciò che Gesù è. In questo caso si è svelato come lo sposo del popolo di Dio che ha saputo assicurare il vino migliore per tutto il tempo del banchetto nuziale (cf v. 10).

L'evangelista che, a distanza di anni, riflette su ciò che è accaduto per offrirlo ai suoi lettori, dice che in quella circostanza e in quel modo Gesù «manifestò la sua gloria». Non è ovviamente una gloria mondana, ma lo svelarsi della sua operazione di salvezza e dello splendore della sua divinità, uno svelamento che è percepibile solo con gli occhi della fede.

Ma la fede che, nel suo primo movimento, è anzitutto l'apertura del cuore verso Dio, non sboccia dalla forza dimostrativa del segno o dall'insegnamento senza una previa attrazione del Padre. È l'iniziativa di Dio che dona Gesù agli uomini (cf Gv 6,37). Parlando a Cafarnao, Gesù aveva detto: «Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato... Chiunque ha udito il Padre e ha imparato da lui, viene a me» (6,44-45): l'adesione al Cristo è conseguente a un'azione del Padre (cf 10,29) e senza il sostegno di Dio si conclude in un triste abbandono (cf 17,12).

«...e i suoi discepoli»

Coloro che Gesù ha scelto sono gli stessi che il Padre gli ha dato: l'iniziativa del Cristo e quella di Dio sono due facce della stessa medaglia. Anche l'esperienza del discepolato acquista fin dall’inizio dei tratti nuovi rispetto alle consuetudini del tempo. Nel racconto del quarto Vangelo è avviata dalla mediazione del Battista e incoraggiata da Gesù stesso, mentre nei sinottici l'iniziativa di Gesù è evidentissima (cf Mc 1,16-20; 2,13ss e paralleli). Generalmente era richiesto ai rabbini di essere ammessi alla loro scuola e per questa ragione essi aspettavano di essere interpellati; l’esperienza dei discepoli è esattamente il contrario.

Ogni rabbì può dire: «ecco i miei discepoli», ma sono quelli che si è trovato intorno; se Gesù dice: «ecco i miei discepoli», sono coloro che lui stesso ha scelto. La differenza salta agli occhi subito perchè il rapporto appare originato dalla gratuità e dalla libertà del maestro. È un'elezione vera e propria.

Maestri e discepoli

Per cogliere la singolarità e la grazia di essere annoverati fra i discepoli del Signore - esperienza spiccatamente religiosa - è bene fare una digressione dicendo alcune cose sul discepolato in generale. Il primo anello nella trasmissione della fede e della pratica religiosa era costituito dalla famiglia (cf Es 12,26s; 13, 8.14; Dt 6,20s), mentre il secondo anello, che non esclude il primo, era costituito dal rapporto «maestro-discepolo». Dicendo rabbì, titolo che appare più frequentemente solo verso la fine del I sec. d. C., non si intendeva indicare un mestiere in senso stretto perché tutti i «maestri» esercitavano normalmente una professione di carattere manuale e commerciale.

Alla scuola dì un rabbì, che era un'esperienza di perfezionamento sia della dottrina che della pratica religiosa, si era ammessi avendo conoscenze di base. Almeno per quanto riguarda i maschi, dall'età di cinque anni si era già stati avviati alla lettura delle Scritture; a tredici anni - ingresso nella maggiore età - era necessario conoscere e praticare i precetti della Torà (i 613 comandamenti) e avere dimestichezza con le più antiche discussioni delle scuole rabbiniche su di essi contenute nella Mishnà (insegnamento), allora ancora orale; infine, prima del matrimonio consigliato a 18 anni, tre anni di studio del Talmud, cioè moltissimi altri insegnamenti sviluppati dalle scuole rabbiniche attorno ai paragrafi della Mishnà. Il discepolo (talmid) frequentava un maestro per diventare a sua volta rabbì. La durata dell'apprendistato non era fissata perché dipendeva anche da come il discepolo maturava mentre acquisiva le conoscenze necessarie. Il discepolato terminava con l'ordinazione a maestro fatta dal proprio rabbì imponendo le mani.

Se vogliamo comprendere ancora meglio il valore del discepolato cristiano, occorre aggiungere qualche altra annotazione sul discepolato all'epoca di Gesù.

Venerazione e insegnamento

Andare a scuola, ascoltare una lezione, non era un atto ordinario che può fare qualsiasi persona in qualsiasi situazione psicologica, perché è il ripetersi, quotidiano, della rivelazione sul monte Sinai. Tutto è già stato dato nella Legge e solo il lavoro incessante delle scuole rabbiniche può offrire, partendo dalla parola rivelata, le indicazioni sulle sue applicazioni alla vita quotidiana per renderla santa, come Dio è santo. Quindi, come ai piedi del monte Sinai, si stava con timore, con tremore, e sudando per la paura. Per questo motivo, ma non solo per questo, si deve al proprio maestro la stessa venerazione che si ha verso i genitori anche se, nella scala dei valori, i rabbini tendono a far prevalere le loro prerogative e i loro diritti su quelli dei genitori. La ragione è che, se il padre ha dato la vita al figlio in questo mondo, il maestro, che gli trasmette la saggezza, lo conduce invece alla vita nel mondo futuro. Quello col maestro è dunque un rapporto sacro, privilegiato. Come non si entra in sinagoga in stato di impurità, così non si entra alla presenza del maestro se si è impuri per leggerezza.

Trasmissione e creatività

La vera religiosità si conquista con la conoscenza e la coscienza di ciò che si deve fare. Per questo lo studio con un maestro diventa indispensabile. Il ricorso ad un maestro, oltre che per la convenienza didattica, si spiega per la particolare metodica di trasmissione della cultura ebraica che non conosce l'uso di testi scritti, per la riluttanza dei maestri a lasciare testimonianze della loro attività. Si ricorre al maestro perché trasmette una tradizione anzitutto orale, distinta dalla Bibbia considerata insegnamento scritto. E ciò clic si apprende a voce non lo si trova in alcun libro. Il rabbi non è però solo colui che tramanda e conserva un patrimonio spirituale, ma anche colui che continua a crearlo. Perciò seguire un maestro significa poter avere un criterio di sicurezza, un punto dì riferimento necessario nella vita religiosa. Allora non ci si può fermare dal primo maestro che si incontra: un adulto - dal tredicesimo anno in su - era tenuto ad andare dai maestri più celebri nel luogo dove trasmettevano la loro dottrina.

Imitazione e servizio

Ma il rabbì non solo possiede conoscenze e capacità intellettuali; la sua rettitudine e l'amore per la parola di Dio lo rendono anche un esempio morale, un maestro di vita. Ogni suo atto, anche minimo, poiché suscitato, illuminato, pervaso dalla conoscenza della Torà, mostra qual è il modo più autentico di comportarsi, il discepolo deve portargli perciò rispetto: deve alzarsi quando lo vede arrivare, non deve chiamarlo col nome proprio, deve stare seduto al suo cospetto e non farsi trovare sdraiato, non deve sospettare di lui, non deve esprimere dissenso udendo i suoi insegnamenti né entrare in lite con lui. Non si può apprendere la perfezione del comportamento del maestro se non lo si segue nella vita privata, se non si conoscono tutte le sue necessità quotidiane, come può farlo solo un servitore, un valido collaboratore. In una sua celebre opera, M. Bulier ricorda che «Rabbi Leb, figlio di Sara, lo zaddik... raccontava: Se io andai dal magghid non fu per ascoltare insegnamenti da lui, ma solo per vedere come egli slaccia le scarpe di feltro e come se le allaccia».

«...credettero in lui»

Queste poche cose sono sufficienti per gettare una luce nuova sull'esperienza dei discepoli di Gesù e su come Gesù stesso concepisce il suo ruolo in mezzo a loro. La sequela si presenta nei vangeli legata ad eventi di portata immensa, impensabile, insuperabile e che vanno molto al dì là del pensiero di un comune rabbì anche del più illuminato. Rimanendo al quarto vangelo, sono evidenti alcuni richiami sul discepolato. Anche Giovanni usa, come nei sinottici, il verbo «seguire», che è un termine tecnico per indicare il proprio associarsi al maestro (1,37-38.40; ecc.), ma è usato anche da Gesù per chiamare a sé (cf 1,43; 8,12; ecc.).

Ma seguire Gesù comporta un'adesione non temporanea, bensì permanente e strettissima, alla sua persona. «“Chi ha sete venga a me, e beva chi crede in me; come dice la Scrittura: fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo seno”. Questa egli disse riferendosi allo Spirito che avrebbe, ricevuto i credenti in lui» (7,38-39); «in verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e non bevete il sito sangue, non avrete in lui la vita… chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui, come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, cosi anche colui che mangia di me vivrà per me» (6,53.56-57). Queste poche, sono già affermazioni inaudite: Gesù fonte dello Spirito; carne e sangue che assunti immettono nella comunione con lui, danno la vita eterna e preparano la risurrezione. Agli orecchi di un comune rabbì sono parole intollerabili, insensate, blasfeme, parole di una persona che ha perso il lume della ragione. Ancora qualche altra affermazione, tratta dal quarto Vangelo, lontana dalla consuetudine delle scuole rabbiniche: «Chi accoglie i miei comandamenti (il mio insegnamento) e li osserva, questi mi ama. Chi mi ama sarà amato dal Padre mio e anche io lo amerò e mi manifesterò a lui» (14,21); «Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (8,12); «Chi ha visto me ha visto il Padre. Come puoi dire: Mostraci il Padre? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me?» (14,9s): «Dio non ha mandato il figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui» (3,17); «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Patire se non per mezzo di me. Se conoscete me, conoscerete anche il Padre: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto» (14,6-7).

Non è il caso di moltiplicare le citazioni; è un rabbì totalmente «altro»: riconosce l'amore alla sua persona nell'attaccamento al suo insegnamento che non ripropone quello di altri maestri; seguire lui equivale a essere sottratti dalle tenebre dell'ignoranza e del peccato; chi contempla Gesù contempla l'agire stesso di Dio, l'opera di misericordia di Dio; chi aderisce a lui si trova nella via che porta alla conoscenza del Padre e alla vita eterna.

Il perchè della missione

Dopo il segno di Cana i discepoli «credettero in lui». L'espressione «credere in lui» compare 36 volte nel quarto vangelo e significa l'adesione al Cristo conforme alle cose che Gesù ha svelato di sé. I discepoli di Gesù si distinguono quando assumono la manifestazione piena dell'amore del Cristo come unico criterio ispiratore delle proprie scelte di vita: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (13,34-35). Queste parole di Gesù, clic esprimono il dono di sé senza misura, fondano la sua comunità e le conferiscono quell'identità che la fa essere nel mondo ma non del mondo (cf 17,15-18). La missione nel quarto vangelo nasce dalla risposta all’amore ricevuto (cf 1,16) e si realizza a partire dalla comunità, spazio in cui si sperimenta l'amore del Cristo insieme con quello dei Fratelli. La missione prende forza da qui e si esprime in termini di testimonianza: «Quando verrà il Consolatore che io vi manderò dal Padre, lo Spirito di verità che procede dal Padre, egli mi renderà testimonianza; e anche voi mi renderete testimonianza, perché siete stati con me fin dal principio» (15,26-27).

Il matrimonio cristiano non sospende il discepolato, anzi lo precisa e lo rinnova: rimane pur vero anche per gli sposi che sono fratelli nel Signore e che solo credendo in lui», aderendo ogni giorno al Vangelo, possono fare della propria famiglia luogo di comunione e della loro vita una testimonianza in quell'amore che si impara solo da Gesù e che solo Lui fa rifiorire. La sua parola e testimonianza sono alla base del credere dei discepoli e diventano motivo costitutivo della loro missione: ciò vale oggi, come allora, per la nostra storia personale e/o dì coppia: si tratta di comunicare la buona notizia, di annunciare gratuitamente il Cristo che ci precede.

Per concludere...

A conclusione si può citare un dialogo del rapporto maestro-discepolo tratto dal Midrash: «Un rabbino era solito domandare al suo discepolo: "Quand'è che termina la notte ed inizia il giorno?", ma il discepolo, dopo vari tentativi di risposta, scoraggiato, si rimise al suo maestro per la risposta. Il rabbino gli disse infine: "Quando tu vedi sul volto di un altro il volto di un fratello, è allora che termina la notte e inizia il giorno"».

Antonia Fantini

Carpi (Modena)

Da “Famiglia domani” 4/2000

Pubblicato in Spiritualità Familiare

Fate quello che vi dirà. Ascoltare e «fare» la Parola

 

· Il Verbo ha assunto la carne perché noi potessimo ricevere lo Spirito · È lo Spirito che ci consente di «ascoltare» quando vuole dire a noi la parola di Dio e dunque di «fare» quanto ci viene richiesto nella storia e dalla storia · Dando così sempre l’inizio ad un’opera sempre nuova.

Introduzione

Il Vangelo di Giovanni si apre con la proclamazione dell'incarnazione del Verbo e si chiude con l'insufflazione, da parte del Risorto, dello Spirito nei discepoli. È possibile perciò sintetizzarlo, come ha fatto il teologo ortodosso Evdokimov, con l'espressione: «Il Verbo ha assunto la carne perché noi potessimo ricevere lo Spirito». Ripartiremo da qui nella seconda pane della nostra riflessione.

Il testo del racconto delle nozze di Cana presenta l'unica difficoltà interpretativa nelle parole di Gesù che precedono immediatamente l'espressione che ci farà da guida. Il loro tenore suona alle nostre orecchie quanto meno irriguardoso. Le versioni tentate sono perciò molte. Personalmente ritengo molto buona quella della traduzione interconfessionale: «Donna, perché me lo dici? L’ora mia non è ancora giunta» Come dire: «D’accordo, però...». Dal proseguimento dell'azione risulta comunque chiaro che Maria ha percepito come positiva la risposta di Gesù. Altrimenti non si rivolgerebbe immediatamente ai domestici dicendo: «Fate tutto quello che vi dirà».

Il testo greco mette bene in evidenza il fatto che Maria non conosce con precisione il pensiero di Gesù. Ma ha in lui una fiducia illimitata. Tanto che ordina ai servi, senza incertezze: «Fate...». Anche questo imperativo in greco suona in modo particolare. Si tratta di un imperativo aoristo che fa assumere al verbo il significato di dare inizio a una azione nuova.

Svilupperemo questi concetti di fiducia e di azione nella seconda parte.

 

Parte prima – Ascoltare

Invito all'ascolto

L'invito all'ascolto è qui indiretto, ma presupposto dallo sviluppo della frase. Ed è espresso in un contesto - quello ebraico - in cui l'ascolto è un'attività assolutamente preminente per quanto riguarda la comprensione. L'ebreo è stato educato da secoli di rivelazione divina all'ascolto della parola, piuttosto che all'analisi del mondo circostante.

Ripercorrendo l'AT possiamo ascoltare il grido dei Profeti (ad es., Am 3,1; Ger 7,2). «Ascolta Israele», prega quotidianamente il pio israelita. Tenendo ben presente che per l'ebreo «ascoltare Dio» non significa solo prestare attenzione al messaggio, ma piuttosto aprire il proprio cuore (cf l'episodio di Lidia in Ai 16,14) e mettere in pratica quanto ascoltato (Mt 7,24ss). È in questo contesto che Maria, che è ben conscia dell'eccezionalità di suo figlio e forse ne ha già colto la dimensione divina, invita i servitori ad ascoltarlo.

Va tuttavia ricordato che all'ascolto della Parola ci si può anche rifiutare. E quest'esperienza è già registrata nella Bibbia. Possiamo ricordare le espressioni di Ger 6,10 su coloro che fanno oggetto di scherno le parole di Dio, l'insensibilità del cuore richiamata in At 7,51, la denuncia di Gesù in Gv 8,43.47.

Nell'episodio di Cana, però, i servitori rispondono positivamente, contribuendo alla manifestazione di Dio. E rientrando tra coloro che Gesù loda: «Beati coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano» (Lc 11,28).

 

La parola di Dio è percepibile

È un presupposto di tutta la Bibbia che Dio parla agli uomini ed essi lo comprendono. Non a livello di speculazione, ma di esperienza. All'inizio (AT) Dio parla a uomini privilegiati (i profeti) che devono trasmettere a tutto il popolo quanto loro rivelato (cf Eb 1,1). Ma nella pienezza dei tempi (NT) la Parola stessa si è fatta consanguinea di tutta l'umanità. «Dopo aver parlato ai nostri padri per mezzo dei profeti, Dio ci ha parlato per mezzo del Figlio suo» (cf Eb 1,1ss).

Attraverso la Parola, Dio si mette in comunicazione con l'uomo in due modi: rivelandosi e agendo. In particolare si rivela:

-         come legge da seguire (Decalogo: Es 20,1-17; Dt 5,6:22), che però è sorgente di felicità (Sal 119);

-         come soggetto che dà senso alle cose (Gs 24,2-16)

-         come promessa annunzio del futuro (Es 3,7-10; Gv 15,13-16).

E agisce:

-         nella creazione (Sal 33,6-9)

-         nella storia umana (1 Re 2,4)

-         nel disegno di salvezza (Is 40,8).

È quindi possibile cogliere Dio non solo nel silenzio della meditazione, ma anche nel clamore della storia, grande o piccola che sia.

 

L'uomo dinanzi alla parola di Dio

L'uomo non può non prendere posizione di fronte alla parola di Dio. Che lo voglia o no, che ne sia più o meno cosciente, lì si gioca il suo destino.

Secondo la decisione presa l'uomo è introdotto in una vita fatta di fede, di fiducia e di amore, o invece rigettato nella malvagità del mondo (inteso in senso giovanneo). Si veda il discorso della montagna, dove Gesù oppone la sorte di coloro che «ascoltano la sua parola e la mettono in pratica» alla sorte di coloro che l'ascoltano senza metterla in pratica (Mt 7,24.26; Lc 6,47.49). Giovanni drammatizza la divisione tra gli uomini provocata dalla venuta di Gesù. Da un lato le tenebre non l'hanno accolto, dall'altro vi sono quelli che hanno ereditato nel suo nome. Nel nostro episodio l'ubbidienza dei servitori è leggibile come adesione a Gesù che li ricompensa oltre ogni aspettativa umana: l'acqua è trasformata in vino, e in vino abbondante e squisito.

È però esperienza comune che l'ascolto e la risposta dell'uomo sono fragili, temporanei, parziali. Per altro tutta la Scrittura ci testimonia che Dio ricomincia sempre con pazienza a intessere il rapporto d'amore con la sua creatura. Su questa indefettibilità è fondata la fiducia del credente, ed è ancorata la possibilità di non disperare.

 

Parte seconda - Come ascoltare

L'azione dello Spirito

Abbiamo ricordato all'inizio la sintesi del Vangelo di Giovanni proposta da Evdokimov. Lasciarsi inabitare dallo Spirito è quindi la meta di ogni credente in Cristo. Ed è pure il presupposto per ascoltarne rettamente la parola e comprenderne nel giusto significato l'azione che si è manifestata in modi diversi prima del tempo, nella vita di Gesù, e continua a manifestarsi ancora oggi nella storia. Perché il Cristo storico è morto e non ci è più possibile né vederlo né udirlo, la sua parola è cristallizzata in una Scrittura redatta con le categorie mentali e l’autocomprensione di uomini vissuti migliaia di anni fa, ed il senso della storia non è mai immediatamente percepibile. Per comprendere il messaggio di Dio occorre allora il pedagogo superiore alla legge e alla storia, lo Spirito (cf Rm 8,2) che ci è stato espressamente donato (cf Gv 20,22).

Tutta la Tradizione conferma che è solo nell'accettazione della subordinazione allo Spirito che possiamo sperare nella retta comprensione della parola di Dio. D'altra parte è rivelato che tutta la vita del cristiano è una vita nello Spirito (cf Gal 5,25). Illuminanti a questo proposito sono le esperienze dei mistici, per nessuno dei quali la comprensione di Dio è frutto dell'ascesi personale, pur presupponendola. Entriamo così nel campo delle disposizioni dell'uomo.

 

Le disposizioni dell'uomo: fiducia in Dio e nell’uomo

Tutta la storia della Chiesa è illuminata dall'esempio di tante anime credenti che hanno lasciato tracce, anche scritte, del loro cammino di avvicinamento alla verità.

Ne riportiamo qualche suggerimento, a solo titolo di esempio, lasciando a ciascuno di scoprire come predisporsi all'azione dello Spirito. Va però ricordato che se non è l’ascesi che garantisce la comunione con Dio, è anche vero che senza uno sforzo personale di purificazione mai si riuscirà a coglierlo nella sua alterità. Perché se è vero che Cristo si è incarnato per accostarci in modo mirabile a Dio, è altrettanto vero che Dio è sempre totalmente altro da noi e quindi difficile da raggiungere.

Il punto di partenza del cammino verso Dio sembra essere per tutti una umiltà sincera di fondo che consenta di riconoscere l'iniziale incapacità a comprendere e a scegliere Dio. Diciamo «iniziale», perché nel prosieguo dell'itinerario spirituale questa capacità si affina.

La seconda condizione indispensabile è avere assoluta fiducia nella possibilità che Dio si comunichi a noi. Senza questa fiducia non sarebbe neppure immaginabile, per esempio, il cammino che S. Ignazio propone negli Esercizi Spirituali.

Alcuni iniziano la loro avventura verso la parola di Dio affrontando la Bibbia. Non si tratta qui di lettura, intesa in senso profano, ma di una vera lectio divina, sulla quale ormai molto si è detto e scritto.

Altri ritengono che Dio manifesti nella storia, forse ancor più chiaramente che nella Scrittura, la sua volontà (cf per esempio la teologia dei «segni dei tempi» del Vaticano II). Questa strada va percorsa però con molta circospezione perché è molto facile, in proposito, lasciarsi fuorviare da preoccupazioni ideologiche. S. Ignazio parlerebbe qui della necessità del discernimento degli spiriti.

È quasi istintivo quando si cerca la volontà di Dio chiedergli con insistenza: «Cosa vuoi da me?». L’esperienza dei grandi maestri spirituali insegna però che è più opportuno chiedergli: «come posso stare con te?». Dio infatti non assegna compiti dall'alto, ma a chi sta con lui ispira i medesimi suoi sentimenti.

Un'altra condizione è stata sempre ritenuta necessaria per accostarsi con frutto alla parola di Dio: lo spirito di preghiera. Per fare un riferimento non comune si potrebbe leggere: Calvino, Istituzione della religione cristiana, Libro III capitolo XX che ha per titolo: «La preghiera è il principale esercizio della fede; per mezzo di essa riceviamo quotidianamente i benefici di Dio» (ed. UTET pp. 1014ss).

Ancora una condizione è predicata e vissuta dalle grandi anime: per comprendere la volontà di Dio è necessario accettare la croce di Gesù. Questo è sempre stato e sempre sarà l'ostacolo maggiore alla comprensione della volontà ultima di Dio, dell'accettazione della Parola, intesa sia come persona, sia come legge normativa.

C'è anche tutta una serie di attitudini psicologiche che andrebbero coltivate per un proficuo ascolto della parola. Si pensi a generosità, maturità spirituale, senso di Dio, altitudine alla ricerca, senso del positivo, senso della Chiesa ecc.

 

Ascolto per l'azione

Maria chiede ai servitori del banchetto di Cana di fare, senza porre condizioni, quello che Gesù dirà.

È lo scopo di ogni ascolto della parola di Dio, il mettere in pratica la parola di Dio, andando oltre una religiosità puramente formale, non solo è richiesto da tutta la Bibbia (cf, ad es., Is 58,6-11) ma è visto da Gesù come la manifestazione della vera intelligenza spirituale (cf Lc 6,46-49).

Il fare va però inteso come fedeltà interiore alla grazia, non come un fare per il fare o un fare per esibire il proprio potere. Il giudizio infatti verrà dato non sulle azioni eccezionali (cf Mt 7,22), ma sulle opere di misericordia (cf Mt 25,31-46). Con una notazione interessante: l'accusa del Signore contro i condannati non è di aver attivamente fatto il male, ma semplicemente di essersi disinteressati dei bisognosi. Mentre il Samaritano che ha compassione di chi soffre è portato da Gesù come esempio di colui che erediterà la vita eterna (cf Lc 10,25-37).

È però vero che l'azione nuova, giusta, conforme al volere di Dio, non può nascere dalla sola volontà dell'uomo, che continua ad albergare nel suo cuore il peccato, ma è piuttosto il frutto di una fusione della volontà umana e della volontà divina e quindi, in ultima analisi, un dono da chiedere.

A questo proposito la fede cattolica riconosce un luogo privilegiato per coltivare tale fusione: la Chiesa. Solo la Chiesa con la sua vita sacramentale assicura le condizioni ordinarie per consentire all'uomo la vera unione con Cristo nello Spirito.

S. Ignazio conferma: «Tra Cristo sposo e la Chiesa sua sposa c'è un solo Spirito che ci governa e ci regge per la salvezza di noi tutti».

Oggi purtroppo la visione della Chiesa è molto distorta: c'è chi la riduce ad una setta di santi in cui non ci sia posto per la debolezza umana; c'è chi pensa ad una Chiesa puramente interiore, senz'altra norma che la propria ispirazione personale.

Non è questa la dottrina del Vaticano II che nella Lumen Gentium afferma: «Il Sacro Concilio insegna che i vescovi per divina istituzione sono i successori degli apostoli quali pastori della Chiesa e chi li ascolta ascolta Cristo. Chi li disprezza disprezza Cristo» (10,16). E: «Questa è l'unica Chiesa di Cristo… che il Salvatore nostro, dopo la sua resurrezione, diede a pascere a Pietro, affidandone a lui e agli altri apostoli la diffusione e il governo e la costituì per sempre colonna e sostegno della verità».

Per accettare questa realtà è però necessario aver raggiunto una dimensione profondamente evangelica frutto dello Spirito, dove possano fiorire l'umiltà e lo spogliamento di sé (Fil 2,7ss), la libertà con cui Cristo ci ha liberati (Gal 4,31; 5,13) e l'obbedienza salvifica (Rm 5,19).

 

Conclusione

A riassunto e conclusione di quanto esposto si potrebbe, a nostra esortazione, parafrasare l'invito di Maria ai servitori: «Ascoltate Gesù, che è Parola vera di Dio, comprendete bene quello che vuole dirvi nel suo grande amore, dopo aver tolto dal vostro cuore ogni affezione disordinata, e dalla vostra mente i pregiudizi ideologici, e lasciandovi guidare dallo Spirito date inizio con fiducia all'opera nuova che lui vi indica, senza preoccuparvi se suona strana ai vostri orecchi, perché con lui tutto potrete e grande sarà la vostro ricompensa». E ripetere con Isaia: «Come la pioggia e la neve scendono… così sarà della parola uscita dalla mia bocca, non ritornerà a me senza aver operato ciò che desidero» (55,11).

Sergio Riccardi

Milano

Da “Famiglia domani” 3/2000

 

 

 

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Sabato, 21 Maggio 2005 22:39

Mi apro alla speranza di un Dio che mi ama

per un discernimento spirituale

Mi apro alla speranza di un Dio che mi ama

TONY e VALERIA PICCIN Vallà (Treviso)

Il mistero dell'Amore che vivifica ogni amore e che risveglia la speranza richiede un atteggiamento umile di silenzio e la disponibilità alla contemplazione.

«Alzati, amica mia, mia bella, e vieni!

Perché, ecco l'inverno è passato;

è cessata la pioggia, se n'è andata;

i fiori sono apparsi nei campi,

il tempo del canto è tornato

e la voce della tortora

ancora si fa sentire nella nostra campagna.

Il fico ha messo fuori i primi frutti

e le viti fiorite spandono fragranza.

Alzati, amica mia, mia bella, e vieni!».

(Cantico dei Cantici 2,10-13)

L'autore sacro del Cantico dei Cantici di fronte al tema dell'AMORE si abbandona alla fantasia, all'immaginazione. Le parole diventano povere per esprimere la realtà, occorrerebbe il pennello, lo strumento musicale, il profumo della primavera che ogni anno risveglia la natura.

È la luce e il calore del sole che fa muovere la vitalità di fiori e piante. Alcune più ricche di linfa sbocciano con prepotenza, altre più debolmente e qualche pianta ogni anno non viene più risvegliata dalla primavera: è seccata, è morta e verrà ben presto tagliata o divelta dal terreno perché non è bello vedere quello scheletro in mezzo a tanto verde e a tanti colori.

Di fronte alla realtà dell'amore di Dio che risveglia la nostra speranza personale e di coppia è più opportuno fermarsi in silenzio a contemplare che costruire complicati ragionamenti. E il mistero dell'AMORE che vivifica ogni altro amore. Una ricca vitalità di sentimenti e pulsioni diverse sale dal nostro cuore, l'amore che Dio dona gratis con tanta esuberanza fa fiorire il bene, ogni bene, tutto il bene.

«A noi, poveri di Dio, hai affidato un mistero di speranza. Esso diventa per noi una luce interiore...»

(Frère Roger, di Taizé)

Dalle prime pagine della Bibbia quando Dio decise di creare l'uomo e la donna a sua immagine e somiglianza, intendeva dar vita a creature che ispirassero il loro comportamento all'amore; perché Dio è amore. Adamo ed Eva, così come escono dalla mano creatrice di Dio possiedono una natura profondamente orientata all'amore. Per impulso naturale c'era in loro il bisogno di due fondamentali relazioni: amore verso Dio ed amore reciproco tra di loro. Natura orientata come quella degli animali e delle piante, ma con una differenza: mentre le piante e gli animali si comportano nel loro sviluppo necessariamente secondo le rispettive nature, nel caso di Adamo ed Eva Dio ha messo in mezzo una grossa complicazione, un grosso rischio per Dio e per l'uomo: la libertà.

L'uomo avrebbe agito secondo la sua natura, ma nella misura in cui egli lo avrebbe voluto. Adamo giocò male la sua carta e quel peccato ferì la stirpe umana negli orientamenti naturali che essa portava scritti nel suo «codice genetico interiore» al momento della creazione. Da quel momento l'apertura verso Dio e verso il prossimo divennero faticose e tutta la storia dell'umanità è li a testimoniare come in ogni epoca Adamo diventa ingeneroso verso Eva, Caino continua ad uccidere Abele. Individualismo ed egoismo portano di continuo verso forme conflittuali a vantaggio dei forti sui deboli e spingono verso una cultura di morte. La storia del mondo per la maggior parte è storia di sofferenze. Dio non si rassegna a questo grosso insuccesso e soprattutto a tanta sofferenza. Dopo aver tentato in vario modo con il «Popolo eletto», gli Ebrei, decise di diventare lui stesso uomo, il nuovo uomo, l'«Adamo» aperto per la vita intera all'amore del Padre e dei fratelli. Ma non è sufficiente dare l'esempio, presentare un modello, occorre dare la forza e cambiare l'uomo nel suo interno, occorre togliere il «cuore di pietra», per un cuore «di carne». Cristo con la sua morte e risurrezione dona all'uomo il suo stesso «cuore», Spirito Santo. Nel battesimo che ci unisce intimamente allo spirito di Cristo avviene un reimpasto profondo della nostra stessa natura. Questa seconda natura, come un innesto, tenderà a portare frutti nuovi, aiuterà l'uomo a superare le chiusure, gli egoismi per farlo entrare in una relazione d'amore, di perfetta libera armonia con il Padre e con i fratelli. É la meraviglia che avviene ogni volta che su di un ramo di vite selvatica si innesta un tralcio di una specie buona. L'uva risente dell'innesto che è entrato in una strana e profonda combinazione di vita con la natura della vite e avrà caratteristiche assolutamente nuove. Avviene il «mistero» della profonda mescolanza dell'amore di Dio e dell'amore umano che produce «risurrezione», o se vogliamo, «speranza» in ciascuno di noi.

«Soffio dell'amore di Cristo,

Spirito Santo, in ciascuno deponi la fede:

è una fiducia semplicissima... tu accendi un fuoco

che non si spegne mai...»

(Frere Roger, di Taizé)

Ascoltare lo Spirito di Cristo che agisce nella mia storia, nella nostra storia di coppia e famiglia diventa l'esercizio più bello ed anche il più necessario. L'ascolto richiede silenzio esteriore ed interiore per accogliere tanta ricchezza di vita nuova. Il silenzio esteriore è minacciato dal frastuono, dalla fretta, dall’efficientismo, dalla TV; quello interiore dall'incapacità di mettersi in discussione, dal perbenismo, dal vivere di sensazioni.

La vitalità dipende da questo «ascolto» che dà il senso alla vita e la arricchisce di speranza, di coraggio, di perseveranza. I semplici, gli umili, quelli che socialmente sono anche meno influenti, sono capaci di ascolto e diventano profeti di speranza, profeti dello Spirito che agisce nella storia. Possiamo vivere il silenzio come un momento di pace, di tranquillità raggiunta, ma più spesso il silenzio assomiglia al vuoto, al buio, alla crisi. I vangeli non spendono molte parole ma riescono tuttavia a farci capire la situazione di sofferenza che doveva sconvolgere l'anima della coppia di Nazareth prima di sentirsi dire: «Non temere, Maria...», «Non temere, Giuseppe...»!

Aprirsi non da rassegnati ma per alimentare la speranza anche quando Dio, di cui mi posso fidare e che certamente mi ama, non si spiega troppo, non intende farmi capire. Non temere... se la coppia e la famiglia è in crisi; non temere... se tutto quello che avevamo tentato di costruire è andato perduto per una fuga nell'infedeltà. Non temere... Dio riesce a rifare nuova e più bella ogni cosa! Proprio in queste situazioni di divisione e di morte nella coppia si può scorgere quasi una nuova forza rigeneratrice capace di ricostruire un rapporto più vero. É Dio che vuole manifestarsi in mezzo alle nostre debolezze. È una teofania quando si decide di mutuo accordo di ricominciare tutto da capo, è l'amore che trionfa sulla morte.

Nella Bibbia il «deserto» rappresenta uno dei temi fondamentali ricco di messaggi. Accenniamo solo a qualcuno.

- Il deserto è un luogo di passaggio dove nessuno pensa di restare.

Il deserto ci insegna che la vita è cammino: così anche le situazioni di crisi non sono fatte per ristagnare, ma diventano dei passaggi più o meno obbligati da attraversare per raggiungere la meta. Forse che coppie «bene», adagiate e ferme nel freddo ritualismo di tradizione potranno mai raggiungere qualche meta?

- Il deserto insegna quanto è fragile l'uomo.

Nella debolezza si impara ad essere umili, ad aver bisogno. Tra le famiglie più deboli di questa nostra società moderna nasce spesso una grande capacità di comprensione, si sviluppa una solidarietà inconscia, ma vera. È la grande sensibilità di Dio che soccorre il povero attraverso il povero, perché non lo vuole umiliare con la carità del ricco.

- Il deserto è luogo di prova. La tentazione più forte è rappresentata dall'isolarsi, dal chiudersi in se stessi cancellando la speranza di poter riuscire a raggiungere una qualche «terra promessa». Il matrimonio per costoro diventa davvero la «tomba dell'amore» umano che non si è lasciato investire dall'amore divino.

Ed infine possiamo dire che la coppia è il luogo privilegiato per esperimentare la tenerezza di Dio.

L'intimità spirituale e fisica diventa teofania. Uomo e donna si aprono al reciproco dono uno dell'altro nella gioia più profonda. È un attimo di eternità che Dio vuole regalare agli sposi, perché possano annunciare al mondo quanto è grande il suo amore.

Tony e Valeria Piccin

Pubblicato in Spiritualità Familiare
Sabato, 30 Aprile 2005 22:34

Aquila e Priscilla. In due per il Vangelo

Aquila e Priscilla. In due per il Vangelo

 

Erano due sposi, presumibilmente giovani, quelli che aiutarono Paolo nel suo difficile inserimento a Corinto . Con l'apostolo condividevano il lavoro - erano come lui fabbricatori di tende - il vitto e la casa . Condividevano anche il lavoro pastorale, le preoccupazioni per la diffusione dell'Evangelo. Una evangelizzazione che prosegue anche a Roma dopo la morte di Paolo, e fatta a due a due, da due coniugi.

 

Al capitolo 18 degli Atti degli Apostoli si racconta che!' apostolo Paolo, durante il prolungato soggiorno nella città di Corinto, si stabilì nella casa di Aquila e Priscilla, due coniugi ebrei convertiti e allontanati da Roma per decreto dell'imperatore Claudio nell'anno 50, e di mestiere fabbricatori di tende.

Paolo: l'apostolo, il servitore di Cristo, il prigioniero del Signore, è uno skenopoios, un fabbricatore di tende. Può sembrare un titolo poco aristocratico, per niente episcopale, ma è la qualifica che lo inserisce abilmente nella trama del Regno.

 

La Chiesa: una tenda!

     La Chiesa, una tenda! Quella universale, quella particolare, quella domestica: non sono che attendamenti per cui Dio abita tra noi.

Giovanni 1,14: E il Verbo si fece carne e piantò la sua tenda tra noi... Si allude a Mosè, che nelle soste dell' esodo nel deserto faceva erigere una grande tenda delle riunioni: il luogo in cui il popolo si incontrava con il suo Signore ed era abbagliato dalla sua gloria. La tenda a Gerusalemme fu rimpiazzata dal tempio di pietra di cui Cristo-lo Sposo - è la pietra angolare. È lui, con la sua carne donata all'umanità, la tenda in cui abita corporalmente tutta la pienezza della divinità. Apocalisse 21: ...Ecco la tenda di Dio con gli uomini...

Quante tende ha costruito Paolo? Sul suo telaio nella casa di Aquila e Priscilla gli orditi per le tende ai clienti si dilungavano prodigiosi nelle carte geografiche del nuovo Regno, ovunque accorreva per piantarvi la chiesa.

La preoccupazione primaria dell' Apostolo è di impiantare una comunità di fede che invochi coralmente il Risorto e dove il cristiano diventi nuova creatura in Cristo. Una volta avviata una comunità Paolo, instancabile, continua a seguire, visitare, esortare, ingelosirsi, amare, facendosi tutto a tutti. Le sue tende hanno dei paletti, pioli, tiranti e assi dai nomi grondanti affetto, collaborazione: Aquila e Priscilla, Onesimo e Filemone, Tito e Timoteo, e tanti altri legati al suo ministero.

 

La tenda affonda i paletti nella continua disponibilità degli sposi

È come se attorno al suo animo, bruciato dalla passione per Cristo e per le sue comunità, si attizzassero i tepori di un focolare e i ritmi incessanti dell'amicizia coniugale. Voi siete il corpo di Cristo: a chi si ispira Paolo con questa forte immagine? Romani 16,3-5: Salutate Priscilla e Aquila, miei collaboratori in Cristo Gesù e la comunità che si raccoglie nella loro casa. In 1 Corinti 16,19 conclude con i saluti: Vi salutano Aquila e Priscilla con la comunità che si raccoglie nella loro casa.

La tenda per Dio e per l'uomo che Paolo tesse con la sua parola irruente, con la sensibilità del cuore che equilibra l'energia della sua volontà, affonda i suoi paletti di sostegno nella continua disponibilità di questi sposi a tenere sempre aperta la loro casa perché in essa l'embrione della comunità cristiana, avviata da Paolo, possa essere accolto e maturi nella fede.

Dall'anno 50 scorre un diario avvincente: arrivo di Paolo a Corinto e accoglienza nella casa di Aquila e Priscilla e comunanza nel lavoro; partono per la Siria, e Paolo lascia ad Efeso i due sposi impegnatissimi nel fare proseliti del calibro di Apollo, grande oratore; ritorno di Paolo ad Efeso, la città della magia, della dea Artemide, e battesimo di Apollo; prigionia di Paolo a Roma presso la casa di Aquila e Priscilla, rientrati nella capitale, e arresto di Paolo forse proprio nella loro casa.

 

Un cammino che può prevedere anche il martirio...

Le vie imperscrutabili dell'apostolato di Paolo proseguono fino al martirio. Non conosciamo, oltre i calorosi saluti in Romani 16,3 per Aquila e Priscilla, il seguito del loro cammino. Certamente, prima del loro martirio - come farebbe supporre la catacomba intitolata a Priscilla - i due sposi, mandati dal Maestro a due a due ad evangelizzare, hanno continuato a fare della loro casa quella chiesa accogliente e fraterna, luogo di catechesi e di tenerezza, delimitata dalle mura domestiche ma protesa ad impiantarsi come tenda di rifugio nella fede.

Floriano Vassalluzzo

 

Pubblicato in Spiritualità Familiare
Sabato, 30 Aprile 2005 22:29

Innamoramento, sogno, amore

vita di coppia

Innamoramento, sogno, amore


TONY PICCIN Vallà (Treviso)


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Innamorarsi, sognare ed amare rappresentano la forza fondamentale del nostro essere, un cammino che va dall'amore di sé, all'amore dell'altro per sé, e infine all'amore dell'altro per l'altro e Per poter compiere questo passaggio - una «conversione» che può durare tutta la vita - occorre saper ascoltare l'altro, avvicinarsi a lui senza paure, essere capaci di meraviglia.

 

Il piccolo principe chiese alla volpe: «Che cosa vuoi dire "addomesticare"?». «È una cosa da molto dimenticata. Vuol dire "creare dei legami"...», rispose la volpe. (...) «Creare dei legami?». «Certo» disse la volpe. «Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno dite. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addornestichi, noi avremo bisogno l'uno dell'altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo». «Comincio a capire», disse il piccolo principe. «C'è un fiore... credo che mi abbia addomesticato..». (...) Ma la volpe tornò sulla sua idea: «La mia vita è monotona. Io do la caccia alle galline, e gli uomini danno la caccia a me. Tutte le galline si assomigliano, e tutti gli uomini si assomigliano. E io mi annoio, perciò. Ma se tu mi addomestichi, la mia vita sarà come illuminata. Conoscerò un rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi fanno nascondere sotto terra. Il tuo, mi farà uscire dalla tana, come una musica. E poi guarda! Vedi, laggiù in fondo, dei campi di grano? Io non mangio il pane e il grano, per me è inutile. I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo è triste! Ma tu hai dei capelli color dell'oro. Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano...». La volpe tacque e guardò a lungo il piccolo principe: «Per favore... addomesticami», disse. «Volentieri», rispose il piccolo principe, «ma non ho molto tempo, però. Ho da scoprire degli amici, e da conoscere molte cose». «Non si conoscono che le cose che si addomesticano», disse la volpe. «Gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose già fatte. Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici. Se tu vuoi un amico addomesticami!». «Che bisogna fare?», domandò il piccolo principe. «Bisogna essere molto pazienti», rispose la volpe. «In principio tu ti siederai un po' lontano da me, così, nell'erba. Io ti guarderò con la coda dell'occhio e tu non dirai nulla. Le parole sono una fonte di malintesi. Ma ogni giorno tu potrai sederti un po' più vicino...».

Nella pagina riportata da «Il piccolo principe» di Antoine Saint-Exupéry (Ediz. Bompiani) ricorre spesso il verbo «addomesticare» che suscita l'idea immediata di dipendenza. E curioso provare a sostituire il termine «addomesticare» con «innamorarsi» prima, quindi con «sognare» ed infine con «amare» ripetendo ogni volta la lettura di queste poche righe. Ne risulta una descrizione interessante e concreta del rapporto amoroso di una coppia che rompe la solitudine, il male più grave dell'uomo, ma nello stesso tempo crea legami di dipendenza che possono essere causa di rivalità e conflitti, produce un progressivo movimento di avvicinamento ma senza investire e sopraffare. E poi il tempo da dedicare ai «riti» e ai «simboli» che permettono di scoprire e scoprirsi. Sempre che l'amore alla fine riesca a realizzare il miracolo dell'unione dell'uomo e della donna.

«Se tu vieni tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò ad essere felice. Col passare dell'ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro, incomincerò ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore... Ci vogliono i riti».

 

Le stagioni della vita

Innamorarsi, sognare ed amare rappresentano la forza fondamentale del nostro essere, ma come ogni realtà che evolve con l'età, nel bambino c'è un forte movimento accentratore, una richiesta continua ed assoluta di tante attenzioni, un amore di sé. In questa fase della vita il bambino impara a prendere coscienza di se stesso. La stima di sé non è un fattore negativo neppure per il giovane o l'adulto, purché l'amore non ristagni nella miope visione di se stessi e del proprio piccolo orizzonte. E uno stadio destinato a tra-scendere negli altri stadi ma rimane la base necessaria su cui costruire. Infatti una persona non può donare e donarsi ad altri se prima non si possiede, se non si stima ed ama.

Un passo più avanti nella vita ci si accorge dell'«altro», la mamma, il papà, l'amichetto,... ma il bambino ama questi «altri» per sé, per ricevere, per avere, per soddisfare un amore egocentrico. E l'amore dell'altro per sé, perché al centro rimane l'«io». E pur vero che anche da adulti senza un pizzico di soddisfazione personale non si muove nessuno. Tuttavia è anche questo un gradino da salire per arrivare all'amore dell'altro per l'altro.

Ci si mette in viaggio per incontrare e per accogliere qualcuno che è diverso da noi, un viaggio verso l'ignoto, verso una terra straniera da scoprire giorno dopo giorno, di avventura in avventura.

La saggezza antica dell' autore del libro di «Tobia» esprime questo concetto con chiarezza nel racconto metaforico della storia di due famiglie.

Abbiamo poi un ulteriore passaggio:nell'altro amiamo tutti gli altri. Voglio dire che nessuno può amare gli altri se non in un altro. Se non si impara ad amare davvero concretamente qualcuno non si riesce ad amare gli altri. Come risulta importante un vero rapporto di coppia in cui venga esperimentato l'innamoramento, il sogno, l'amore; oppure un vero «incontro» con Cristo e in lui abbracciare un mondo intero di persone!

 

Un'epoca che dà grande significato al «sentire»

Dopo aver accennato alle varie stagioni della vita che preparano l'evento giovanile del primo e di successivi innamoramenti occorre guardare alla cultura attuale sull'amore. Oggi si dà molta importanza al «sentire» e assai meno all'impegno-dovere. La persona cerca prima e soprattutto la propria realizzazione e comunque una sua autonomia economica ed affettiva che le permetta di essere libera nelle sue decisioni. La tendenza è completamente opposta al passato che vedeva l'innamoramento come un momento di infatuazione che estraniava dalla realtà, e perciò pericoloso, ma tuttavia di una certa utilità per il fatto che faceva approdare all'amore vero. Ora invece si vorrebbe, se non far rientrare il termine «amore» in quello di «innamoramento», almeno legarli in maniera stretta, per cui non ci si può amare se non si rimane innamorati. Sappiamo però che l'instabilità del sentimento può creare non poche difficoltà alla coppia. Le conseguenze di tali atteggiamenti sono già ben visibili nelle numerose separazioni e nuove unioni non legalizzate, nella paura dei giovani di affrontare il matrimonio (in futuro almeno un terzo di persone adulte non si sposeranno), nei rapporti occasionali e con partner diversi sempre più frequenti.

Senza inutili rimpianti e senza demonizzare nulla e nessuno cerchiamo gli aspetti positivi di questa nuova tendenza:

l'amore, quando esiste, è spontaneo, unisce in modo profondo ed è grande fonte di gioia. Va scomparendo la «tomba dell'amore», ossia l'amarsi «per amore o per forza»;

- l'amore, quando esiste, è visibilmente sincero, diventa perciò autentica testimonianza. Non c'è più bisogno di ostentare forzati sorrisi di giorno in pubblico quando il cuore piange per le violenze in privato di notte;

- l'amore quando esiste, è vero, aperto ad accogliere e a donare vita al coniuge, ai figli e ad ogni altra creatura.

 

Se l'amore non esiste è inutile fingere o creare barriere sociali protettive; la sfiducia, l'ansia, il pessimismo trasudano in ogni caso con quella acidità che avvelena ogni cosa.

Forse occorre vedere con occhio più sereno la realtà dell'amore, e più che imbrigliarlo dileggi e divieti, dargli la possibilità di nascere, crescere e svilupparsi anche come «sentimento». Si tratta di coltivare il «sentire» e il «piacere».

E il nuovo importante impegno degli sposati: vivere e sviluppare questa realtà tipica della coppia e renderla visibile contagiando in modo particolare i giovani che si incamminano verso il matrimonio. E la buona notizia, il vangelo che devono predicare coloro che vivono il sacramento del matrimonio.

C'è un'altra convinzione che si deve radicare nella nostra mente: l'amore, per quanto povero, è sempre vita, l'odio è peggiore.

Da qui possiamo prendere motivo per una più serena valutazione di chi ha ricominciato una nuova avventura di coppia dopo il fallimento del primo matrimonio.

 

Dalle parole ai fatti

«Voglio bene a tutte due, a mia moglie e all'altra». L'amore, come ogni realtà umana, non si può scindere in tutto e nulla. È importante tenerlo presente perché si può sempre cercare di ravvivare ciò che si è affievolito e limitare qualcosa che per capriccio, novità, spirito di trasgressione sta ingigantendo e soffocando l'armonia di coppia.

Le occasioni della vita spesso non favoriscono 1' «istituzione matrimonio». Si pensi alla collega o ai capoufficio accanto al quale si vive la maggior parte della giornata, mentre alla famiglia si riesce a dedicare solo qualche ora stanca di sera.

Questo strano amore è come un uccello imprigionato nel cavo delle mani; se si vuole costringere l'«altro» si finisce per soffocarlo, se lo si lascia libero si rischia di perderlo... ma se ritorna a posarsi di sua iniziativa sulla mano aperta è una gran gioia.

 

Occasioni da reinventare

Si dice che le principali agenzie matrimoniali siano oggi le discoteche. Considerato il frastuono, l'affollamento ed altri fattori che si preferisce non nominare, non mi sembrano all'altezza di svolgere questo delicato compito.

Innamoramento, sogno e amore, queste tre realtà che non vogliamo distinguere e separare perché le sentiamo come tre aspetti di un unico «amore» hanno bisogno di nutrirsi di silenzio, di ascolto, di vicinanza, di contemplazione.

Nella relazione di coppia il silenzio è fondamentale. È nel silenzio che la persona ritrova se stessa, che difende la propria interiorità ed originalità di uomo e di donna. Ogni volta che usciamo da noi stessi per incontrare l'altro dobbiamo poi rientrare per essere «due» e rimanere «due», senza cadere in una fusione spersonalizzante, per non invadere ed essere invasi. È importante non perdere se stessi, la propria identità, perciò occorre il silenzio.

«La voce infatti non giunge durante una tempesta (...)

è la voce di un silenzio simile a un sof­fio ed è facile soffocarla. (...)

Qui inizia il cammino dell'uomo.

Il ritorno decisivo a se stessi è nella vita dell'uomo l'inizio del cammino...» (MARTIN BUBER, Il cammino dell'uomo, Ed. Qiqajon, Bose, pp. 22-23).

 

L'ascolto:         non posso avvicinarmi all'«altro» partendo dalle mie idee, schemi, cultura. E un «altro» che mi interpella, di altre origini, di altre convinzioni, di altri vissuti, di un'altra spiaggia.

 

L'avvicinarsi gradualmente senza impaurire o impaurirsi per le grandi differenze. Abitudini diverse, gusti che diventano bisogni importanti per la persona e vanno rispettati e assecondati.

«Lasciate che vi sia un moto di mare tra le sponde delle vostre anime. (...)

Così come le corde del liuto son sole benché vibrino della stessa musica(…)

E restate uniti, benché non troppo vicimi insieme:

poiché le colonne del tempio restano tra loro distanti,

e la quercia e il cipresso non crescono l'una all'ombra dell'altro»

Kahlil Gibran, Il Profeta, Ed. Guanda).

 

La contemplazione è la meraviglia di scoprire sempre qualcosa di nuovo nella persona che amiamo.

Questa nostra società che investe così tanto nel «sentire», ha per contro spazzato molti simboli e riti dell'amore. La banalizzazione, la nudità mercificata, l'occasionalità, la fretta, i rapporti precoci hanno fatto dimenticare i tempi lunghi del corteggiamento e di tutte le delicate attenzioni che servono a tener desta l'attesa, il desiderio, la sorpresa. Denaro, regali, corse sfrenate vorrebbero col-mare il «sogno» che il cuore coltiva e protegge delicatamente come il tesoro più prezioso. Innamorarsi è bello perché proietta la persona più in là della prosaicità quotidiana. Tutti abbiamo bisogno di queste motivazioni e di questo slancio per non finire nell'appiattimento. Occorre l'impegno di continuare ad innamorarci e di far innamorare ogni giorno il nostro partner con molta fantasia. Occorre godere profondamente il piacere di essere vicini, di amare e di essere amati.

Il bisogno dei riti e dei simboli dell'amore lo cogliamo nella fastosità delle cerimonie di nozze, peccato che siano così artificiose e vuote di significato.

 

Il simbolo più profondo del movimento di affettività reciproca che unisce l'uomo alla donna è senz'altro l'alleanza. Uomo-donna diventano immagine visibile dell'amore fedele e perenne di Dio.

Nulla riuscì a cancellare dal mondo questo segno, neppure le acque del diluvio

 

Tony Piccin

 

Pubblicato in Spiritualità Familiare
Sabato, 30 Aprile 2005 22:25

Il rischio inaudito del credere

Il rischio inaudito del credere

 

Ed ecco che Maria porta a termine ciò che ha iniziato. È stata lei la prima a vedere ciò che mancava alla festa: tutte quelle caraffe vuote sul tavolo delle nozze. Ed è stata lei a rivolgersi a Gesù, all’insaputa di tutti, perché lei, la madre, sapeva che il figlio sarebbe stato in grado di porre rimedio a quella mancanza.

Ma in prima battuta Gesù ha resistito, come i figli resistono alle madri. Per tenere la giusta distanza. Per non confondere il proprio desiderio con quello di Maria. Per poter essere lui stesso a scegliere ciò a cui è stato chiamato dal Padre.

E poi quella parola che schiocca come una frusta sulla sollecitudine materna: «Che ho da fare con te, o donna? Non è ancora giunta la mia ora».

Un modo per farci rientrare nei ranghi, noi che siamo sempre così pronti ad indicare a Dio la strada da seguire.

Ed è appunto qui, in questo ridisporsi dello spazio che le è proprio, che può avere inizio la fede. Rinunciando a sapere ciò che è bene, anche quando abbiamo già in qualche misura interiorizzato la stessa idea di bene. Per rimettersi all’Altro, subito ed incondizionatamente. Quell’Altro che meglio di noi conosce ciò di cui abbiamo bisogno.

Alla risposta del figlio, Maria avrebbe potuto risentirsi. Sentirsi ferita e tenergli il broncio. Ma in lei c’è qualcosa di infinitamente superiore al gioco emotivo della carne. C’è quell’ondata di fiducia che la domina fin dal momento dell’Annunciazione. C’è quell’accondiscendenza d tutto l’essere a Dio, quella dolcezza derivante dall’aver detto sì ricevendone poi ogni giorno il frutto. È questa la ragione per cui può comprendere la replica, senza scomporsi.

E dunque il tempo dei conciliaboli finisce, perché la storia deve andare avanti. Maria conclude ora il ruolo della donna vigilante eclissandosi: «Fate quello che vi dirà». Non sa ancora del «dire» del Figlio, ma chiede solo che gli si presti fede, e soprattutto che si «faccia» di conseguenza. Che si faccia tutto il possibile affinché la Parola di vita si sviluppi – come si sviluppa un fuoco – all’internodi quella festa che sta andando a rotoli.

«Fate quello che vi dirà» è quanto aveva già detto il Faraone al suo popolo riferendosi a Giuseppe, che aveva fatto riporre del frumento nei granai in previsione della carestia che s’annunciava in Egitto (Gn 41,55).

È, inoltre. La parola di Mosè che annuncia un altro profeta come lui e nel quale l’apostolo Pietro riconosce il Cristo: «Voi lo ascolterete in tutto quello che vi dirà» (At 3,22).

È così che Maria qui si riappropria del gesto antico della fede, quando l’essere umano rinuncia ad abitare solo con se stesso per aprirsi ad un qualcuno che lo trascende per ri-posarsi in un Altro-da-sé. Non per pigrizia, né in un atteggiamento rinunciatario, ma perché è là che si trova la verità della sua umanità. Non esistiamo se non per essere strettamente connessi al Dono della vita. A quel Dono di cui non ci sarà mai dato di sapere quale sarà l’esito odierno, né come riuscirà ad incarnarsi nel grumo delle nostre storie.

«Fate quello che vi dirà». È davvero necessario, a questo punto, che intendiamo l’imperativo di credere la Parola più forte delle evidenze che si fanno prepotentemente strada in noi, più forte anche delle resistenze che rendono opaco il nostro cammino.

Ancora una volta Maria ci indica la strada. Grazie a lei, comprendiamo che i segni posti da Dio nelle nostre esistenze non possono essere il risultato di un qualsivoglia accanimento spirituale – una sorta di mobbing, di molestia esercitata sul divino! – ma che al contrario si manifestano in quegli spazi in cui accettiamo di lasciare la presa e di lasciarci lavorare dalla Grazia.

Ma c’è ancor più che il credere. C’è l’invito a passare all’azione, nel cuore stesso delle nostre oscurità. «Fate quello che vi dirà». Quel giorno, a Cana, sulla parola di Gesù i servi della casa hanno rischiato quel gesto, tanto inaudito quanto incongruente, di riempire le giare destinate al rito della purificazione. Equivaleva a trasgredire ad un ordine stabilito, a mettersi automaticamente fuori alle pie abitudini. Occorreva osare, occorreva credere.

Ora, quel gesto loro l’hanno fatto. E non metà. Hanno riempito le giare “fino all’orlo”, precisa il testo.

Andare fino in fondo nei nostri gesti, «abitare» pienamente il richiamo che ci viene rivolto ad essere vivi.Ascoltare la Parola che parla in noi, rischiare quei comportamenti che possono anche stupire. Entrare nella domanda sena conoscere la risposta, rimettersi a Colui attraverso cui proviene il nuovo, come Gesù ha fatto col Padre… ecco dunque il lavoro della fede che deve sempre essere rimessa in questione nelle nostre esistenze. Non è forse l’unico lavoro davvero essenziale? Quello in cui tutto acquista un senso?

 

Francine Carrillo

Pastora evangelica – Plan-des-Ouates (Svizzera)

Da “Famiglia domani” 3/2000

Pubblicato in Spiritualità Familiare
Mercoledì, 30 Marzo 2005 20:24

Famiglia e ricchezza

FAMIGLIA E RICCHEZZA

(Itinerari verso la povertà...)

TONY PICCIN

Vallà (Treviso)

- Il godere delle cose è uno dei messaggi che la famiglia è tenuta a dare al mondo - Ma le cose sono di tutti e servono a tutti per una vita più serena - Le cose possono diventare causa di profonde discordie se non servono per creare il bene di tutti e a coltivare un amore reciproco - Un itinerario verso la povertà da percorrere in famiglia, sapendo che «poveri non si nasce, si può nascere poeti, ma non poveri, poveri si diventa» (Tonino Bello)

Sono andato di recente con mia moglie in casa di due sposi in occasione del loro primo anniversario di matrimonio. L'abitazione si trovava in una nuova zona residenziale circondata da una curata vegetazione. L'arredamento di ogni stan­za era lussuoso, l'ordine meticoloso, l'il­luminazione, il riscaldamento, la zona cottura con gli accorgimenti più sofisti­cati; tutto curato con gusto straordinario e naturalmente una spessa porta blindata munita di antifurto non poteva mancare all'ingresso. Nel tempo trascorso in quella casa non ho sentito una sola volta squil­lare il telefono o il citofono, non sono riu­scito a vedere da nessuna parte un libro od una rivista di qualsiasi genere… Poveri­ni, come dovevano sentirsi soli lì dentro in quella mostra d'avanguardia del mobi­le; e probabilmente saranno pure oggetto d'invidia da parte di vicini e conoscenti.

«Poveri» non si nasce, si diventa...

Eppure il Signore ha creato le cose per la felicità degli uomini; i beni di questo mondo, proprio perché usciti dalla ma­no generosa di Dio, sono «cose buone» che dovrebbero rendere contento il cuo­re dell'uomo.

L'uomo rincorre queste cose, cerca in tutti i modi di accaparrarle per sé e per la sua famiglia e alla fine si accorge di avere, di amare, di cercare continuamente e soltanto «cose» che non potranno mai soddisfare la sua sete di felicità.

La situazione in questo nostro mo­mento storico non è per molte famiglie molto rosea: il lavoro scarseggia, gli sti­pendi perdono del loro valore d'acquisto, le tasse aumentano di continuo; a volte le situazioni diventano drammatiche, spesso sono di grave disagio o di pesante sacrificio in stridente contrasto con una minoranza di persone che abbonda e sperpera.

La povertà materiale è una strada si­cura verso la felicità? O al contrario è la ricchezza che ci fa davvero «star bene» in famiglia?

Un noto proverbio afferma che «il de­naro non fa la felicità» ... e qualcuno con sottile ironia aggiunge: «figuriamoci la miseria!». La frase così scherzosamente completata ci fa intravedere che la tran­quillità di un'economia materiale permet­te di essere più sereni, permette di colti­vare valori intellettuali, sociali, spiritua­li, permette infine di poter avere dei mo­menti di relax e di svago che rendono si­curamente la vita più bella ed interessan­te. Il cielo, il mare, le montagne... sono fatti perché qualcuno li veda e ne gioisca; la casa, l'auto, la TV... sono realtà altret­tanto utili e buone per la nostra vita, ma ogni «cosa» non è fine o scopo della vita bensì un mezzo che ci permette di amare di più le persone e di renderle felici.

Il godere delle cose è uno dei messag­gi che la famiglia è tenuta a dare al mon­do. Infatti in famiglia possono servire per rendere migliori i rapporti tra le persone: le cose sono di tutti e servono a tutti per una vita più serena. Tuttavia esse posso­no anche diventare causa di profonde di­scordie se non servono per creare il bene di tutti, se non contribuiscono a coltiva­re un amore reciproco. La famiglia allo­ra può diventare esempio vivo di come te­nere ed usare la poca o molta ricchezza che vi può essere sia al suo interno sia nel nostro paese.

Ora che sono caduti gli ideali socio-politici comunisti o socialisti costruiti su fredde teorie filosofiche dovrebbe final­mente prendere piede il giusto comuni­smo che è quello basato sull'amore che Cristo ha riacceso in questo mondo. Cre­do che la famiglia sia uno dei luoghi più adatti per esperimentare la condivisione dei beni, la loro destinazione ed insieme la loro relatività rispetto ai valori fonda­mentali dei quali sono a servizio.

Si tratta allora di coltivare uno stile di vita familiare orientato alla povertà perché «poveri non si nasce, si può na­scere poeti, ma non poveri; poveri si di­venta (...) richiede un tirocinio difficile» (Tonino Bello). Si può nascere nell'indi­genza e nella miseria, ma queste riguar­dano la condizione economica, la pover­tà invece è una virtù del cuore.

La povertà come virtù del cuore, come stile di vita, nasce da alcune convinzioni...

Uno stile di vita «povero» prende mo­tivo da alcune convinzioni profonde:

- La netta supremazia della persona sul creato.

Verrà un tempo in cui questo mondo finirà, crollerà come un castello di sabbia ma ognuno di noi è destinato a vivere per l'eternità. Il più limitato degli operai e più im­portante della macchina su cui lavora, lo scolaro è più importante della lezione che deve imparare, l'emarginato seduto sui gradini a chiedere l'elemosina supera di gran lunga l'importanza del duomo di S. Maria del Fiore che gli sta sopra la testa. E questo la famiglia lo sa bene quan­do ogni giorno è costretta a recuperare i suoi membri feriti dall'impatto con l'e­sterno in cui fanno testo uomini che dan­no troppo valore alle cose;

- Il valore assoluto dell'«essere» ri­spetto all'«avere».

Anche il Vangelo ci sprona a cercare delle amicizie con il de­naro della iniquità. Si tratta di coltivare ciò che serve ad arricchire lo spirito, ciò che è utile a scuotere l'intelligenza, a sviluppare le doti personali.

La famiglia ha esperienza di quanta pressione viene fatta dall'uno o dall'al­tro dei suoi membri per spese inutili e a volte assurde soltanto perché «gli altri ce l'hanno», e come è difficile orientare gli acquisti in senso opposto alla mentalità consumistica;

- Filtrare l'entrata di messaggi errati attraverso una grande capacità di dialo­go e di critica.

E' l'antidoto più efficace che riesce a togliere l'ansia della ricerca di beni e soddisfazioni immediate rispet­to invece ai valori meno appariscenti ma veri. Solo perché c'è amore tra gli sposi e con i figli si riesce a «scherzare» e perciò a smontare il culto esagerato del corpo, del vestito e gli atteggiamenti stereotipa­ti assorbiti dalle varie agenzie di turno. Insomma a disappiccicare le persone pic­cole e grandi da modelli che non aiutano sicuramente a creare la semplicità dei rap­porti;

- Il valore delle scelte di vita.

Non è facile vivere con coerenza la tensione ver­so occasioni e momenti arricchenti piut­tosto che lasciarsi trascinare dalla folla che corre allo stadio, alle discoteche, al­le più sciocche forme di divertimento.

Il proverbio ci suggerisce che «il tem­po è denaro», forse in altra chiave lo po­tremmo meglio tradurre in: «il tempo è occasione di crescita personale e familia­re» per chi ne vuole approfittare;

- La ricchezza è un bene per tutti, non destinato a ristagnare in tasca a qualcu­no.

L'attuale situazione economica rap­presenta un grave scandalo contro il quale tutti noi, che siamo Chiesa, dovremmo fortemente protestare: l'uso a scopi per­sonali ed egoistici del denaro pubblico, le troppo consistenti disparità di salario, la cattiva amministrazione... sono scandali ai quali non ci si deve rassegnare. Ogni grave disordine o distorsione del piano del Creatore è destinato ad esplodere in for­me violente. La famiglia vive fortemente il suo di­sagio davanti alle pressioni provocate da queste ingiustizie e tiene a fatica il con­traccolpo.

...e si attua attraverso qualche esercizio pratico

Per imparare l'arte della povertà fa­miliare è utile fare anche qualche eserci­zio pratico come:

- soccorrere o accogliere chi è nel bi­sogno. Vivere il problema così da vicino lasciandoci coinvolgere aiuta a relativiz­zare la nostra sete di avere, e a dare la giu­sta importanza al denaro;

- evitare lo spreco per non impoverire ulteriormente chi è nell'indigenza a causa di certo sconsiderato sfruttamento e per non inquinare ulteriormente l'ambiente;

- accostarsi ad esperienze di essenzia­lità a misura di famiglia, forme che van­no moltiplicandosi in questi ultimi anni per opera di gruppi e movimenti. Convi­venze di breve durata che aiutano a met­tere in comune con altre famiglie il pane e il sorriso, senza tutte le abituali como­dità che ognuno si è creato nella propria casa. Queste occasioni servono a riscopri­re tutta una serie di valori che il nostro «benessere» tiene assopiti.

Tutto questo può formare il piedestal­lo su cui costruire un rapporto sereno tra famiglia e ricchezza e diventa motivo di maggior serenità per quelle famiglie che si trovano in difficoltà. Ma l'ultima paro­la è di Gesù che vuole espressamente no­minare come primi «beati» i «poveri in spirito», ossia coloro che la povertà la cercano e la coltivano come virtù perché egli regna in loro e attraverso loro. 

Tony Piccin

Pubblicato in Spiritualità Familiare
Sabato, 26 Febbraio 2005 11:42

Parlare d’amore

Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo… · Allora Maria disse:- Eccomi sono la serva del Signore. Avvenga di me quello che hai detto… (Luca, 1,26-38).

La salvezza del mondo è dipesa da uno scambio tra Dio e una giovane donna. Il brano di Luca ce ne fa sentire l’eco, sempre sconvolgente. Un dialogo in cui Dio ha preso l’iniziativa. È in suo nome che l’angelo Gabriele parla alla Vergine Maria.

Pubblicato in Spiritualità Familiare
Domenica, 20 Febbraio 2005 17:03

La festa nuziale - Luigi Ghia - 4a Parte

La festa nuziale

· Una festa a rischio · La nostra festa di nozze · E’ davvero una festa? · L’amore e la gioia, oltre il deserto…

Quarta parte

ALCUNE DOMANDE, PER CONCLUDERE

Viene spontaneo collegare la festa,
"questa" festa che abbiamo tentato dì delineare in modo così
imperfetto, alla giovinezza della vita. Rifiutandone però ogni
retorica. Sapendo che l'ideale sarebbe una festa capace di disvelare il
volto segreto dell'altro, ma rifiutando nel contempo ogni illusione:
nel nostro mondo, attorno a noi, forse nella nostra stessa famiglia, ci
sono persone ripiegate su se stesse che non hanno mai sperimentato la
festa. Fa festa chi è, o chi si sente, giovane. Rifiuta la festa chi è,
o indipendentemente dall'anagrafe, si sente vecchio. Purtroppo sono
molti i giovani che rifiutano di "fare festa". Sotto molti coloro che
non accettano più di sorridere, che si chiudono nel mutismo, che cedono
alla depressione, che hanno paura della aldilà. E a questo punto ci
poniamo alcune domande inquietanti. Il mondo secolarizzato è un mondo
felice? La dinamica e la comunicazione dell'esperienza religiosa
trasmettono gioia o stanchezza? Apertura o chiusura? Senso o non senso?
La nostra "vecchia" Chiesa conserva ancora quel cuore umile e povero
per saper sorridere, con quello stesso riso di Sara che aveva sì il
seno avvizzito, ma il cuore giovane? In questa Chiesa è lo scambio
paritario e gioioso della relazione autentica di coppia a rappresentare
il paradigma del reciproco rapportarsi, oppure ad imporsi è il modello
autoritario, fondamentalista, clericale, pessimista? Ed ancora:
sappiamo cogliere e valorizzare quel religioso che è in noi e negli
altri, come struttura autonoma della coscienza, indipendentemente dalla
nostra e altrui collocazione nelle chiese o al di fuori di esse? La
ricerca di un senso all'esistere può essere vissuto nell'orizzonte
della gioia e della libertà? E infine: che fare perché questa festa -
non questa gabbia, questa condanna, questa attenzione ossessiva al
dato, alla casistica, ma questa festa sempre nuova sempre rinnovatrice
- diventi lieto annuncio, regno, beatitudine, fiducia, speranza,
missione, dono che rivela finalmente l'ineffabile volto di Dio?

Luigi Ghia

Asti

da "Famiglia domani" 1/2000

Pubblicato in Spiritualità Familiare

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