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Sabato, 13 Novembre 2004 16:24

"Maria e Giuseppe" (Tony Piccin)

 

LA COPPIA DI NAZARETH.

LA NOSTRA STORIA NELLA STORIA DI DIO

Dio è presente nella coppia come amore, come salvezza, come tenerezza, ma non ci appiana le difficoltà e ci chiede di servirlo amando la vita

Le parole mistero, sacramento, grazia, vocazione possono farci l’effetto strano di qualcosa di magico, di occulto, di entità invisibili che non possiamo controllare; realtà che esistono fuori di noi con le quali prima o poi abbiamo a che fare perché determinano la felicità o l’infelicità della nostra esistenza. Per fortuna c’è la storia di Maria di Nazareth e di Giuseppe, una coppia che i Vangeli ci presentano, ad aiutarci a capire il significato vero di queste parole.

Nei due racconti di Luca e Matteo possiamo cogliere una prima verità: Dio parla alla coppia. Parla a Maria, ma parla anche a Giuseppe perché la cosa riguarda anche lui come sposo di Maria. Dio ci parla attraverso gli avvenimenti, le situazioni, attraverso le persone, nella riflessione personale, nella preghiera, attraverso la sua "Parola". Ci chiede di ascoltare, di riflettere, di scegliere, ossia di fare discernimento. Ciò che ne risulterà è quello che egli desidera da noi.

"Il Signore è con te". Non si può pensare che Dio se ne stia lontano, semmai siamo noi che pretendiamo di agire senza di lui, senza il suo aiuto. Non si può pensare neppure che Dio, con la sua "Parola" dica una cosa diversa allo sposo e alla sposa. Dio parla a tutti e due e parla perché sposo e sposa si formino uno stesso modo di pensare, camminino in uno stesso cammino di coppia, si unifichino nella vocazione. Dio è presente come AMORE nella coppia. Quando Dio parla, nello stesso tempo trasforma la coppia. La parola di Dio non assomiglia alla luce fredda di una lampada al neon, ma al sole che illumina e nello stesso tempo riscalda ed asciuga la pozza d’acqua. La nostra religione non è la religione del "libro", della "sapienza" (anche se questa è necessaria) ma dell’AMORE. L’AMORE è lo Spirito di Dio presente nella coppia e di cui la coppia è segno (sacramento). Il bene che l’uomo e la donna si vogliono, tutto il bene dal desiderio al dono, sono manifestazione, se pur limitata, dell’amore immenso di Dio. Dio è presente come salvezza nella coppia. Il sacramento del matrimonio, come gli altri sacramenti, è cristologico e cristocentrico. Cristo è presente nella vita di coppia, per tutta la durata della vita della coppia, non solo nell’istante della celebrazione davanti all’altare. Il frutto che per opera dello Spirito viene accolto dalla coppia di Nazareth è Cristo, colui che salverà il genere umano con il suo sacrificio sulla croce e la risurrezione. Quante croci e risurrezioni nella coppia, quante volte si dona e si perdona; così come spesso siamo per l’altro motivo di risurrezione e vita. A dar senso al nostro agire sta il "mistero", quella realtà tanto profonda del Cristo sposo della sua Chiesa. Dio presente nella coppia non ci appiana le difficoltà. La situazione sia per Maria sia per Giuseppe si presenta in modo assai problematico. "Maria disse all’angelo: "Come è possibile? Non conosco uomo" (Lc 1,34). Queste poche parole fanno capire che è stata una cosa sofferta a lungo ed è il risultato di una profonda lotta interiore. La fede di Maria è stata grande perché ha creduto, ha espresso un atto di fede in Gesù Cristo ancor prima che egli cominciasse ad esistere come uomo.

Maria non ha nessuna prova, nessuna garanzia per dire di sì; è all’oscuro di quanto poi avverrà. Ma c’è dall’altra parte la sofferenza di Giuseppe che nutre un grande amore per Maria. Perché non poteva coronare il suo sogno come gli altri, come era tradizione di tanti patriarchi? Perché quella realtà fuori del comune piena di incognite? La coppia è al servizio del Dio della vita. "Gesù nacque a Betlemme" (Mt 2,1). Il "sì" di Maria e di Giuseppe ed il loro mettersi a servizio del piano di Dio fu la condizione della nascita di Gesù, di colui che dirà: "Io sono la vita". Fecondità non è discutere sul numero dei figli ma mettersi a disposizione della "VITA".

Dio è presente nella coppia come tenerezza. Nei vangeli non c’è molto a questo proposito, ma quel poco lascia intuire una profonda intimità spirituale ed affettuosa anche se in un contesto di castità. "Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa..." (Mt 1,24). E quando Erode vuole uccidere il bambino Gesù, si vede ancora l’intimità della famiglia: "Giuseppe, destatosi, prese con sé il bambino e sua madre..." (Mt 2,14).

Perché ci sposiamo in Chiesa? Meglio sarebbe dire: perché ci sposiamo in Cristo? Per vivere la nostra storia d’amore dentro la grande storia dell’AMORE.

Tony Piccin

(GRUPPI FAMIGLIA N° 42 marzo2003)

Pubblicato in Spiritualità Familiare
Sabato, 13 Novembre 2004 16:23

"Mosè e Zippora" (Tony Piccin)

 

MOSÉ E ZIPPORA

"Tu sei per me uno sposo di sangue".

La grande importanza data all'evento dell 'Esodo, dalla fede ebraica prima e da quella cristiana poi, ha messo in secondo piano il Mosè figlio, fratello, sposo, padre. Eppure, ad una lettura attenta, questi aspetti non sono affatto trascurati nel testo biblico. La Bibbia ci parla di una mamma e di una sorella di Mosè, ci parla di Zippora (Sefora) sua moglie e del figlio Gherson (da gher = ospite in paese straniero) (cfr. Es 2,22). Dunque la vita familiare di Mosè è strettamente correlata alla sua vita pubblica.

Un figlio della tribù di Levi.

Mosè è figlio di papà e mamma ebrei della tribù di Levi; la mamma studia uno stratagemma per farlo vivere a tutti i costi contro gli ordini del faraone. Abbandona il bambino in un cesto che galleggia sull'acqua del canneto sulle sponde del Nilo e lascia lì vicina, di guardia, la sorellina. Le vicende che seguono sono note. il racconto preso in modo superficiale ha i contorni di fiaba, però letto dentro il suo contesto contiene messaggi profondi. Infatti le levatrici Sifra e Pua fanno, si direbbe oggi, "obiezione di coscienza", ossia si rifiutano di far abortire o di lasciar soffocare i maschietti al momento della nascita per obbedire al Signore piuttosto che al faraone (cfr. Es I ,1 6). Nella storia della prima infanzia di Mosè viene sottolineato un tema di fondo: il tema della VITA. Il faraone capo e simbolo di un popolo e di una cultura di potere e di sopraffazione, dove l'interesse materiale appare come il valore a cui tutti e tutto può essere sacrificato, teme la forza vitale del popolo del Dio della vita.

Educato con la cultura egiziana.

Mosè diventa adulto in casa del faraone (di un egiziano) perfettamente consapevole di essere ebreo. Tuttavia quarant'anni di vita egiziana, come sostiene la tradizione rabbinica, lascia in lui il segno di una cultura di morte e violenza, come pure di efficienza, ricchezza, potere. Il "figlio della vita", al suo primo intervento pubblico, vuole instaurare la giustizia e il rispetto con i mezzi propri della sopraffazione e della morte. Mosè uccide l'egiziano che maltrattava l'ebreo (cfr. Es 2,12).

La storia, purtroppo, anche quella recentissima, è piena di maldestri tentativi di portare pace, giustizia, uguaglianza con il fucile, con le armi in pugno, con mezzi e strumenti di morte.

La fuga nel privato.

La fuga verso il "privato" a Madian in casa dì Ietro fa maturare due esperienze fondamentali per la vita e la missione di Mosè: la vita di famiglia e il deserto (il silenzio).

Nella vita di famiglia l'amore di Zippora e la nascita del figlio lo porta a vivere in pienezza, ad essere disponibile all'incontro con Dio, perché di nuovo capace di progetto e di meraviglia. Nel deserto Mosè pastore vive le sue lunghe giornate e trascorre le notti sotto le stelle silenziose. Questo tempo lo aiuta ad entrare nel profondo di sé, lo aiuta ad eliminare le contraddizioni della presunzione come della paura, dei calcoli umani come degli ideali ispirati,... lo aiuta ad eliminare la frammentazione della sua vita politica passata e di cogliere ciò che davvero è essenziale: l'ESSERE.

Il Signore rivela a Mosè il suo nome: "Io sono" (Es. 3, i 4). Soltanto "IO SONO" è l'unico riferimento di VITA.

Una famiglia per liberare un popolo.

Sposa e figlio condivideranno con lui le difficoltà del ritorno in Egitto e del progetto di liberazione del popolo.

"Lungo il viaggio, durante una sosta notturna, il Signore affrontò Mosè e voleva farlo morire. Allora Zippora tagliò con una pietra affilata il prepuzio del figlio, e con quello toccò il sesso di Mosè dicendo: -Tu per me sei uno sposo di sangue!-. Aveva detto 'sposo di sangue', perché aveva circonciso il figlio" (Es 4, 24-26 ABU).

I genitali sono gli organi che donano la vita, il sangue rappresenta la vita stessa. Il coltello di pietra ci fa capire che ci troviamo chiaramente in un contesto rituale (i coltelli di pietra si usavano solo per i riti) e Zippora inaugura il rito dell'iniziazione degli ebrei: la circoncisione.

Non è dunque un Mosè solitario che entra in Egitto, ma, di fronte ad un progetto tutto nuovo ed estremamente impegnativo, è la famiglia al completo che fa appello a tutte le sue forze vitali, le unifica simbolicamente attorno al punto centrale della famiglia stessa che è il legame sponsale tra Mosè e Zippora.

La cultura del popolo nuovo, il popolo di Mosè, è una cultura di vita, di timore di Dio, di solidarietà, di servizio, di condivisione,... ma anche di speranza in una vita sempre nuova; tutto ciò germoglia e fiorisce all'interno del calore domestico.

Tony Piccin

e con quello toccò il sesso di Mosè dicendo: -Tu per me sei uno sposo di sangue!-. Aveva detto 'sposo di sangue', perché aveva circonciso il figlio" (Es 4, 24-26 ABU).

I genitali sono gli organi che donano la vita, il sangue rappresenta la vita stessa. Il coltello di pietra ci fa capire che ci troviamo chiaramente in un contesto rituale (i coltelli di pietra si usavano solo per i riti) e Zippora inaugura il rito dell'iniziazione degli ebrei: la circoncisione.

Non è dunque un Mosè solitario che entra in Egitto, ma, di fronte ad un progetto tutto nuovo ed estremamente impegnativo, è la famiglia al completo che fa appello a tutte le sue forze vitali, le unifica simbolicamente attorno al punto centrale della famiglia stessa che è il legame sponsale tra Mosè e Zippora.

La cultura del popolo nuovo, il popolo di Mosè, è una cultura di vita, di timore di Dio, di solidarietà, di servizio, di condivisione,... ma anche di speranza in una vita sempre nuova; tutto ciò germoglia e fiorisce all'interno del calore domestico.

Tony Piccin

Tony Piccin

Pubblicato in Spiritualità Familiare
 

IL LINGUAGGIO DEL CORPO

NEL "CANTICO DEI CANTICI"

Soffermarsi su alcuni versi senza aver presente tutto lo sviluppo poetico di questo libro della Bibbia può far sorridere per la stravaganza delle immagini usate. Perciò cercheremo di capirne alcune, traducendole in linguaggio corrente, posandoci qua e là come farfalle, mantenendo tuttavia il filone narrativo.

Il Cantico non ha alcuna preoccupazione etica, è la descrizione dell’amore tra l’uomo e la donna. Presenta il tentativo della donna di farsi amare dall’uomo e quello dell’uomo di dimostrare alla donna il suo amore forte ed impulsivo.

(Ct 1,1) "Cantico dei Cantici": significa "Il più bel canto". Davvero non c’è canto più bello, più esaltante, più forte di quello dell’"amore". Per esso la vita continua da millenni nel mondo.

: significa "Il più bel canto". Davvero non c’è canto più bello, più esaltante, più forte di quello dell’"amore". Per esso la vita continua da millenni nel mondo.

(Ct 1,2) "Mi baci con i baci della sua bocca!". La parola "bacio" significa in ebraico "respiro": baciare l’altro è come trasmettergli la vita. È il gesto con il quale Dio trasmette la vita all’Adaham alle origini del mondo.

. La parola "bacio" significa in ebraico "respiro": baciare l’altro è come trasmettergli la vita. È il gesto con il quale Dio trasmette la vita all’Adaham alle origini del mondo.

(Ct 1,2) "Sì, le tue tenerezze sono più dolci del vino. Per la fragranza sono inebrianti i tuoi profumi...". Il vino ubriaca, anche l’innamorarsi è una sorta di ubriacatura che permette di essere veraci, immediati, spontanei; di vivere l’esperienza amorosa senza calcolo prima ancora di valutarla con il freddo ragionamento, perché è esaltante.

. Il vino ubriaca, anche l’innamorarsi è una sorta di ubriacatura che permette di essere veraci, immediati, spontanei; di vivere l’esperienza amorosa senza calcolo prima ancora di valutarla con il freddo ragionamento, perché è esaltante.

(Ct 1,4) "A ragione le ragazze ti amano!". Le ragazze rimangono incantate davanti a lui, ma lui ha scelto me. Ecco ciò che fa gioire. Nella cerimonia delle nozze ci esprimiamo proprio in questo modo: "Prendo te", ossia ho posato la mia attenzione su di te, ti ho scelto fra tanti e tante che potevo scegliere.

. Le ragazze rimangono incantate davanti a lui, ma lui ha scelto me. Ecco ciò che fa gioire. Nella cerimonia delle nozze ci esprimiamo proprio in questo modo: "Prendo te", ossia ho posato la mia attenzione su di te, ti ho scelto fra tanti e tante che potevo scegliere.

(Ct 1,5) "Bruna sono, ma bella!". Lei si guarda allo specchio per prepararsi per l’incontro, ma lo specchio le riflette anche dei limiti (specchiandoci nell’altro ci si accorge dei propri lati negativi). Ha la pelle scura (non ci aveva fatto caso prima, la differenza si nota accanto a lui), e questo non è il massimo della bellezza per il mondo orientale. Si tratta non tanto dell’aspetto esteriore, ma della paura di non avere le qualità sufficienti per saper corrispondere all’amore, per essere alla pari.

. Lei si guarda allo specchio per prepararsi per l’incontro, ma lo specchio le riflette anche dei limiti (specchiandoci nell’altro ci si accorge dei propri lati negativi). Ha la pelle scura (non ci aveva fatto caso prima, la differenza si nota accanto a lui), e questo non è il massimo della bellezza per il mondo orientale. Si tratta non tanto dell’aspetto esteriore, ma della paura di non avere le qualità sufficienti per saper corrispondere all’amore, per essere alla pari.

(Ct 1,8) "Segui le orme del gregge...". Vai. Esci. Il termine ebraico esprime il concetto "va’ fuori da te stessa". Per amare occorre uscire e rischiare, non rimanere ripiegati narcisisticamente su se stessi, o timidamente segregati.

. Vai. Esci. Il termine ebraico esprime il concetto "va’ fuori da te stessa". Per amare occorre uscire e rischiare, non rimanere ripiegati narcisisticamente su se stessi, o timidamente segregati.

(Ct 1,12) "Mentre il re è nel suo recinto, il mio nardo spande il suo profumo...". Sembra esprimere tutta l’affettività dell’incontro, la ricchezza di emozioni: sono uno accanto all’altra, si ammirano, si accarezzano, parlano.

. Sembra esprimere tutta l’affettività dell’incontro, la ricchezza di emozioni: sono uno accanto all’altra, si ammirano, si accarezzano, parlano.

(Ct3,5) "Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme (...) non destate, non scuotete dal sonno l’amata...". Come vorremmo vivere sempre nel sogno, nell’idealizzazione! Ma così non si ama l’altro, si ama solo se stessi.

. Come vorremmo vivere sempre nel sogno, nell’idealizzazione! Ma così non si ama l’altro, si ama solo se stessi.

(Ct5,2) "lo dormo, ma il mio cuore veglia. Un rumore! È il mio diletto che bussa...". Ma allora l’incontro non è ancora avvenuto; quanto fin qui è stato detto è solo fantasia di lei, un’immaginazione così forte da sembrare realtà.

. Ma allora l’incontro non è ancora avvenuto; quanto fin qui è stato detto è solo fantasia di lei, un’immaginazione così forte da sembrare realtà.

(Ct 5,3) "Mi sono tolta la veste; come indossarla ancora? Mi sono lavata i piedi; come ancora sporcarli?". Ora appare tutta la contraddizione dell’incontro reale. Nel sogno, nell’immaginazione tutto è scontato, tutto è semplice perché ci siamo costruiti un "altro" ad immagine di noi stessi, secondo i nostri desideri, secondo i nostri bisogni; quando poi ci si trova a tu per tu le parole non escono, i gesti sono impacciati, non siamo disposti ad abbandonare le nostre piccole pigrizie... L’amore bussa e ribussa alla porta, poi si stanca e se ne va. Rimane allora una grande delusione.

. Ora appare tutta la contraddizione dell’incontro reale. Nel sogno, nell’immaginazione tutto è scontato, tutto è semplice perché ci siamo costruiti un "altro" ad immagine di noi stessi, secondo i nostri desideri, secondo i nostri bisogni; quando poi ci si trova a tu per tu le parole non escono, i gesti sono impacciati, non siamo disposti ad abbandonare le nostre piccole pigrizie... L’amore bussa e ribussa alla porta, poi si stanca e se ne va. Rimane allora una grande delusione.

(Ct 5,6) "Ho aperto allora al mio diletto ma il mio diletto già se n’era andato...". Corre allora a cercarlo. Si ricorda delle amiche e le invita ad aiutarla a cercare e quelle le rispondono:

. Corre allora a cercarlo. Si ricorda delle amiche e le invita ad aiutarla a cercare e quelle le rispondono:

(Ct 5,9) "Che ha il tuo diletto di diverso da un altro?". Non preoccuparti tanto, le dicono, ne troverai un altro. Sembra strano, ma solo quando "si perde" qualcuno ci si accorge della sua statura, dei suoi valori. Chi non vive il momento magico dell’innamoramento non può capire che la persona amata è unica al mondo, non perché è la più dotata, ma perché è stata scelta e ci ha scelto.

Non preoccuparti tanto, le dicono, ne troverai un altro. Sembra strano, ma solo quando "si perde" qualcuno ci si accorge della sua statura, dei suoi valori. Chi non vive il momento magico dell’innamoramento non può capire che la persona amata è unica al mondo, non perché è la più dotata, ma perché è stata scelta e ci ha scelto.

(Ct 6,3) "lo sono per il mio diletto e il mio diletto è per me". Il ritrovamento dopo essersi smarriti è ancora più bello perché conquistato.

. Il ritrovamento dopo essersi smarriti è ancora più bello perché conquistato.

(Ct 8,6-7) "Mettimi come sigillo sul tuo cuore...". La grande nemica dell’uomo è la morte ed il contrario di morte non è vita, ma amore.

. La grande nemica dell’uomo è la morte ed il contrario di morte non è vita, ma amore.

Tony Piccin

Pubblicato in Spiritualità Familiare
 

Una parola molto vicina

· Può un laico introdursi allo studio della Sacra Scrittura? · E come fare per passare da un’attenzione "curiosa" ad un’attenzione più adulta? · La Bibbia non è un libro che ci parla di Dio, ma un libro in cui Dio ci parla · E la sua parola è sempre molto vicina ad ognuno di noi, nella nostra concreta situazione storica ed esistenziale · Purché acconsentiamo che lo Spirito ci aiuti a leggerla ed a farla penetrare nel nostro cuore.

Può un laico introdursi allo studio della Sacra Scrittura? · E come fare per passare da un’attenzione "curiosa" ad un’attenzione più adulta? · La Bibbia non è un libro che ci parla di Dio, ma un libro in cui Dio ci parla · E la sua parola è sempre molto vicina ad ognuno di noi, nella nostra concreta situazione storica ed esistenziale · Purché acconsentiamo che lo Spirito ci aiuti a leggerla ed a farla penetrare nel nostro cuore.

Con queste poche righe non intendiamo svolgere una trattazione esaustiva dell'argomento: "Laici e lettura della Bibbia"; le esperienze in proposito possono essere le più molteplici ed ognuna con una sua validità. Vogliamo piuttosto tentare di inquadrare, all'interno di riferimenti biblici ed ecclesiali, il nostro percorso di avvicinamento alle Sacre Scritture.

Introdotti al cristianesimo ai tempi del catechismo di Pio X e delle liturgie in latino, siamo stati infatti poco educati a far risalire direttamente alla Parola di Dio la nostra fede.

La straordinaria atmosfera suscitata dal Concilio Vaticano II, prima, e l'incontro con un biblista, un padre del PIME, poi, sono stati per noi i punti di appoggio per una svolta decisa nel senso dell'approfondimento, della conoscenza e dello studio dell'Antico e del Nuovo Testamento.

  1. Lo dici perché lo ricavi dal testo, o...? 5

    Non sapremmo indicare esattamente quando nacque in noi l'attenzione alle Sacre Scritture: probabilmente ai tempi del Concilio, quando la riforma liturgica, sostituendo il latino con la lingua italiana, facilitò la comprensione delle letture della messa.

    Possiamo però dire con certezza in quale momento questa attenzione "curiosa" si trasformò in attenzione adulta.

    Erano gli inizi degli anni '80 e stavamo partecipando ad un corso sul libro della Genesi, condotto dal sopra citato padre del PIME.

    Trattando, al capitolo 3, della condanna del serpente, e della donna che gli avrebbe schiacciato il capo, l'oratore si rivolse al pubblico chiedendo chi mai fosse questa donna. Alla risposta di qualcuno (ma probabilmente ognuno dei presenti avrebbe dato la stessa risposta) che quella donna era Maria, la madre di Gesù, il biblista sorprese tutti uscendo con questa battuta: "Lo dici perché lo ricavi dal testo, o perché te l'hanno insegnato al catechismo?".

    In quel momento ci fu chiaro che la lettura della Bibbia era una lettura del tutto particolare, che andava affrontata senza pregiudizi e/o pre-interpretazioni, e che richiedeva una specifica preparazione.

  2. La Bibbia: un libro in cui Dio ci parla 5

    Si, perché la Bibbia non è un libro che ci parla di Dio, ma un libro in cui autori vissuti in tempi e situazioni diverse, hanno scritto, per tramandarla, la loro esperienza di Dio così come si è realizzata all'interno del loro gruppo di riferimento, della loro comunità, del loro popolo.

    O, se vogliamo dirlo dal punto di vista dell'ispirazione, la Bibbia è un libro in cui, con la mediazione di un autore, Dio ci parla (manifesta la sua Parola = Logos = Verbo) attraverso storie di uomini, di comunità, di popoli che hanno colto la sua presenza e la sua essenza.

    Leggere la Bibbia con profitto, quindi, vuoi dire riuscire a cogliere il messaggio trascendente che l'autore ci ha trasmesso attraverso il racconto di vicende umane.

    Questa considerazione, se è valida per la Bibbia in generale, lo è a maggior ragione per i Vangeli: la nostra fede in Gesù Cristo figlio di Dio si basa sulla testimonianza dei suoi discepoli e apostoli, sul percorso da loro compiuto per comprendere che colui che poteva sembrare solo un affascinante rabbi, altri non era che il Messia atteso ("Molti altri segni fece Gesù in presenza dei suoi discepoli ma non sono stati scritti in questo libro. Questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome", (Gv 20,30-31).

  3. L'interpretazione delle Scritture 5

    Non ci sembra questo lo spazio sufficiente per una esauriente esposizione dei metodi per l'interpretazione della Sacra Scrittura (non ne avremmo nemmeno la competenza): ci sembra tuttavia importante sollecitarne la conoscenza perché la comprensione dei testi biblici sia più consapevole.

    Per questo rimandiamo al capitolo III della costituzione conciliare "Dei Verbum" che definisce i principi dell'interpretazione mentre per una conoscenza più approfondita dei testi suggeriamo la lettura dei volumi citati nella breve nota bibliografica a fine articolo, avvertendo che non sono ovviamente tutti i possibili, ma quelli che abbiamo effettivamente letto sull'argomento.

    Vorremmo peraltro preservare il lettore da quello che a noi appare come un errore: considerare questi metodi un affare per "specialisti", per "addetti ai lavori", per intellettuali sfiziosi o per studiosi che si accostano alla Bibbia solo dal versante culturale prescindendo dal versante della fede. In realtà, la Bibbia è una somma di libri antichi, scritti originariamente in lingue diverse, da e per persone con riferimenti culturali, problemi e bisogni diversi dai nostri; è quindi improbabile che la si possa leggere con una comprensione immediata, senza cercare di calarsi nella cultura, nelle situazioni, nello spazio/tempo degli autori e dei loro immediati lettori. I ritrovati delle moderne scienze bibliche aiutano il lettore "comune" a scoprire i significati originali delle Scritture, significati che sarebbero sfuggiti con una lettura superficiale. Se ci viene permesso un paragone profano, il lettore "comune" della Bibbia trae beneficio da questi studi "specialistici" così come l'automobilista "comune" trae vantaggio dagli studi e ricerche di "Formula 1".

  4. Questa Parola è molto vicina a te 5

    Abbiamo spaventato qualcuno? Speriamo proprio di no, perché il nostro intento è anzi di invogliare alla lettura della Bibbia (come del resto sollecita la "Dei Verbum" al paragrafo 22), con un accorgimento, però: non accontentarsi di una lettura solamente "spirituale", ma accompagnarla con la fatica di una lettura "critica", in una simbiosi di fede e razionalità; la lettura assumerà allora un gusto nuovo e più intenso perché, come leggiamo in Dt 30,11-14: "Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te, né troppo lontano da te. Non è nel cielo, perché tu dica: Chi salirà per noi in cielo, per prendercelo e farcelo udire e lo possiamo eseguire? Non è di là dal mare, perché tu dica: Chi attraverserà per noi il mare per prendercelo e farcelo udire e lo possiamo eseguire? Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica".

  5. I gruppi di ascolto 5

    Se, come abbiamo detto, all'origine dei testi vi è l'esperienza di una comunità (il popolo d'Israele o la Chiesa primitiva), è solo ponendosi all'interno di una esperienza analoga che si può migliorare la comprensione dei testi stessi.

    Così, ad imitazione delle prime comunità cristiane che "erano assidue nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell'unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere" (At 2,42), si sono sviluppati in diocesi di Milano i gruppi di Ascolto della Parola (GdA).

    I GdA sono gruppi di laici (mediamente una decina di persone), condotti/moderati da un laico, che si ritrovano mensilmente, nella casa di un componente del Gruppo, per la lettura di un brano biblico (sia dell'AT che del NT) attinente ad un tema generale annuo proposto dalla diocesi. Il conduttore introduce alla comprensione del testo inquadrandolo nel periodo storico, tracciando un profilo dell’autore e dei suoi lettori, evidenziando gli aspetti problematici e/o gli elementi sostanziali: il gruppo si apre poi al confronto, alla ricerca del significato attuale del brano. Se infatti crediamo, come crediamo, che queste parole limitate racchiudono l'infinito mistero di Dio, allora crediamo anche che queste parole, al di là del loro significato originale, lasciano trasparire per l'uomo di ogni tempo un barlume di questo mistero.

  6. I gruppi di ascolto 5

    Se, come abbiamo detto, all'origine dei testi vi è l'esperienza di una comunità (il popolo d'Israele o la Chiesa primitiva), è solo ponendosi all'interno di una esperienza analoga che si può migliorare la comprensione dei testi stessi.

    Così, ad imitazione delle prime comunità cristiane che "erano assidue nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell'unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere" (At 2,42), si sono sviluppati in diocesi di Milano i gruppi di Ascolto della Parola (GdA).

    I GdA sono gruppi di laici (mediamente una decina di persone), condotti/moderati da un laico, che si ritrovano mensilmente, nella casa di un componente del Gruppo, per la lettura di un brano biblico (sia dell'AT che del NT) attinente ad un tema generale annuo proposto dalla diocesi. Il conduttore introduce alla comprensione del testo inquadrandolo nel periodo storico, tracciando un profilo dell’autore e dei suoi lettori, evidenziando gli aspetti problematici e/o gli elementi sostanziali: il gruppo si apre poi al confronto, alla ricerca del significato attuale del brano. Se infatti crediamo, come crediamo, che queste parole limitate racchiudono l'infinito mistero di Dio, allora crediamo anche che queste parole, al di là del loro significato originale, lasciano trasparire per l'uomo di ogni tempo un barlume di questo mistero.

  7. I gruppi di ascolto 5

    Se, come abbiamo detto, all'origine dei testi vi è l'esperienza di una comunità (il popolo d'Israele o la Chiesa primitiva), è solo ponendosi all'interno di una esperienza analoga che si può migliorare la comprensione dei testi stessi.

    Così, ad imitazione delle prime comunità cristiane che "erano assidue nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell'unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere" (At 2,42), si sono sviluppati in diocesi di Milano i gruppi di Ascolto della Parola (GdA).

    I GdA sono gruppi di laici (mediamente una decina di persone), condotti/moderati da un laico, che si ritrovano mensilmente, nella casa di un componente del Gruppo, per la lettura di un brano biblico (sia dell'AT che del NT) attinente ad un tema generale annuo proposto dalla diocesi. Il conduttore introduce alla comprensione del testo inquadrandolo nel periodo storico, tracciando un profilo dell’autore e dei suoi lettori, evidenziando gli aspetti problematici e/o gli elementi sostanziali: il gruppo si apre poi al confronto, alla ricerca del significato attuale del brano. Se infatti crediamo, come crediamo, che queste parole limitate racchiudono l'infinito mistero di Dio, allora crediamo anche che queste parole, al di là del loro significato originale, lasciano trasparire per l'uomo di ogni tempo un barlume di questo mistero.

  8. Filippo e l'Etiope 5

"Filippo, udito che leggeva il profeta Isaia, gli disse: "Capisci quello che stai leggendo?". Quegli rispose: "E come lo potrei, se nessuno mi istruisce?…Ti prego, di quale persona il profeta dice questo? Di se stesso o di qualcun altro?". Filippo, prendendo a parlare e partendo da quel passo della Scrittura, gli annunziò la buona novella di Gesù" (At 8,30-31a; 34b-35).

(At 8,30-31a; 34b-35).

Ci sembra che questo brano degli Atti degli Apostoli possa bene ricapitolare il nostro percorso e suggerirci alcuni principi cui attenersi per una proficua lettura:

  • La Bibbia deve essere letta nella Chiesa e con la Chiesa.
  • La Bibbia deve essere interpretata con la Bibbia.

In sostanza, come ci suggerisce la "Dei Verbum" al paragrafo 12, la Bibbia deve "essere letta e interpretata con l'aiuto dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta", perché anche noi, come i discepoli di Emmaus, possiamo esclamare "Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?" (Lc 24,32).

Carla e Paolo Borgherini - Milano

Da "Famiglia domani" 3/2000

  1. Bibliografia essenziale 5
Bibliografia essenziale 5
  • CONCILIO VATICANO II, Costituzione Dogmatica "Dei Verbum" sulla Divina Rivelazione, 1965
  • PONT. COMM. BIBLICA, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, Libr. Ed. Vaticana , Roma, 1965
  • JOSEF IMBACH, Come leggere e capire la Bibbia, Città nuova, Roma, 1992
  • AaVv, Vademecum per il lettore della Bibbia, Morcelliana, Brescia 1996
  • ALESSANDRO SACCHI, Cos’è la Bibbia. Breve corso introduttivo, Ed S Paolo, Cinisiello B. 1999
Pubblicato in Spiritualità Familiare
Sabato, 13 Novembre 2004 16:18

Dio e Cesare (Paolo Ricca)

 

Dio e Cesare

· Una trappola, per mettere Gesù in difficoltà · Una risposta che non delude · Il rapporto complesso e mutevole tra fede e politica, e tra comunità cristiana e potere politico · Non solo il popolo deve restituire a cesare ciò che è di Cesare, ma anche Cesare deve restituire al popolo ciò che è del popolo · Ogni accettazione del potere non può che situarsi all’interno di una critica del potere · Noi non siamo "di Cesare": ma fino a che punto il potere – ogni potere, tecnico politico, militare, religioso, economico – ha proiettato la sua immagine dentro di noi? · Una esegesi di Matteo 22,15-22.

Prima parte

Pochi passi della tradizione evangelica sono così conosciuti ma anche così controversi e di difficile interpretazione come questo. È riferito dai tre evangelisti sinottici (Mt 22,15-22; Mc 12,13-17; Lc 20,20-26) e i loro racconti, pur contenendo alcune varianti, coincidono nell'essenziale, cioè nei gesti e nelle parole di Gesù e nella collocazione dell'episodio nella fase finale del suo ministero pubblico, quando il conflitto con le autorità ebraiche si andava inasprendo di giorno in giorno e il suo esito drammatico si andava profilando sempre più chiaramente all'orizzonte come ineluttabile. Secondo i tre evangelisti la domanda sul tributo è una trappola tesa a Gesù dai suoi avversari "per cercare di metterlo in difficoltà" (Mc 12,13), e per "coglierlo in fallo nelle sue parole" (Mt 22,15). Anche se la domanda non è una vera domanda (il suo obiettivo infatti non è di ottenere una risposta ma di mettere Gesù in difficoltà), il problema sollevato dalla domanda é un vero problema. Il tributo a Cesare era il segno per eccellenza della sottomissione a Roma. Pagarlo significava riconoscere, almeno esteriormente, la sua autorità, accettare, sia pure controvoglia, la sua sovranità. Perciò gli zeloti - i partigiani ebrei impegnati nella guerriglia per liberare la terra promessa da una dominazione pagana come quella di Roma - rifiutavano di pagarlo anche a costo di correre alti rischi. Questo rifiuto era, per loro, un imperativo religioso.

Una pseudo-domanda solleva un problema vero e cruciale non solo per la generazione di Gesù ma per tutte le generazioni di credenti da allora fino ad oggi: il problema del rapporto tra fede e politica, tra comunità cristiana e comunità civile, tra Chiesa e Stato. Potrebbe sembrare a prima vista che alla pseudo-domanda postagli Gesù replichi con una pseudo-risposta. Ma è un'impressione errata: quella di Gesù è una vera risposta, che elude abilmente il trabocchetto degli avversari ma non elude il problema sollevato. Gesù dribbla, per così dire, gli avversari, lasciandoli a bocca asciutta, ma non delude i discepoli nè tutti coloro che, in tutti i tempi, riconoscono in lui il "Maestro verace che insegna la via di Dio secondo verità" (Mt 22,16), come dicono gli avversari, per adularlo. Gesù risponde alla domanda fasulla, ma la sua risposta non è quella che tutti, avversari e discepoli, vorrebbero udire: un "sì" o un "no". È diversa. A prima vista è più sconcertante che convincente. La sua verità non è immediatamente riconoscibile. È nascosta aldilà delle apparenze e delle evidenze. Sta oltre il "sì" e il "no". Li trascende. È più grande di un "sì" o un "no" 

Seconda parte

Esegesi di Matteo 22,15-22

Percorreremo ora il testo facendo qualche nota esegetica essenziale nella versione di Mt 22, 15-22.

v. 15 - L'iniziativa è degli avversari ("i Farisei" secondo Mt; i capi religiosi d'Israele, senza precisazioni, secondo Mc; "gli scribi e i capi sacerdoti" secondo Lc. Costoro inviano "i loro [dei Farisei] discepoli con gli Erodiani" secondo Mt; "alcuni dei Farisei e degli Erodiani" secondo Mc; delle "spie" secondo Lc). Gli avversari vogliono indurre Gesù a pronunciare parole compromettenti che possano diventare un capo d'accusa contro di lui davanti alle autorità romane. Gli avversari non vogliono discutere con Gesù, vogliono eliminarlo. Essi vedono in lui - chi sa? - un esaltato, un eretico, un irresponsabile, forse un temibile concorrente, sicuramente un pericolo pubblico, una voce molesta da zittire, una presenza scomoda da cancellare.

v. 16 - Gli Erodiani erano - lo dice il nome stesso - i sostenitori della famiglia regnante che collaborava con i Romani. L'elogio rivolto dagli avversari a Gesù ("Maestro, noi sappiamo che sei verace...") è naturalmente simulato, adulatorio, anche se, paradossalmente, dice la verità su di lui.

v .17 - "È lecito?" s’intende secondo la legge divina che qui Gesù è chiamato ad interpretare, dato che la legge di Mosè, ovviamente, non parla del "tributo a Cesare". Gli avversari speravano che, alla loro domanda, Gesù rispondesse con un "sì" o con un "no". Se così avesse fatto, avrebbe potuto facilmente essere messo in stato d'accusa. Se avesse risposto "sì" lo si sarebbe accusato di collaborazionismo nei confronti dei Romani davanti a un'opinione pubblica che li odiava; se avesse detto "no" lo si sarebbe accusato di lesa maestà imperiale davanti alle autorità romane. Il trabocchetto era stato studiato bene.

v. 18 - Gesù smaschera gli interlocutori rivelando le loro vere intenzioni. "Perché mi tentate?" significa qui "Perché mi tendete un tranello?" o – come rende efficacemente la T.U.C. - "Perché cercate di imbrogliarmi?" Ciò nondimeno Gesù risponde alla loro pseudo-domanda.

v. 19 - La "moneta del tributo" era una moneta romana: il tributo a Cesare si poteva pagare solo con monete romane. Quelle ebraiche non recavano l'effige dell'imperatore, aborrita dagli ebrei per i suoi contenuti idolatrici.

v. 20 - Ai tempi di Tiberio l'iscrizione sulle monete di un denaro era la seguente: "Tiberio Imperatore Divino Figlio di Augusto".

v. 21 - Gesù non risponde né "si" né "no". Dice di dare a Cesare quel che è suo, cioè la moneta su cui c'è la sua effigie e il tributo che il denaro rappresenta, e di dare a Dio quel che è suo, cioè noi stessi, sui quali Dio ha posto la sua "effige", l'"immagine e somiglianza" secondo la quale siamo stati creati (Genesi 1,.27). Il tentativo di "incastrare" Gesù fallisce: in base alla stia risposta non lo si può accusare né di essere contro Roma né di tradire la fede dei padri.

v. 22 - La meraviglia degli interlocutori è dovuta non solo all'abilità di Gesù a eludere la trappola tesagli, ma anche alla qualità della sua risposta dalla quale essi stessi si sentono, segretamente, interpellati.
 

Terza parte

Cercare le nostre risposte

Gesù, con la sua risposta, ha evitato di cadere nella trappola, ma ora la sua risposta potrebbe diventare una trappola per noi. Lo è diventata tante volte nella storia del cristianesimo. Oggi ancora, dopo secoli di esegesi e di critica biblica, è una di quelle parole che è più facile fraintendere che intendere. Cerchiamo di fissare alcuni punti.

  1. "Rendete a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio" solleva immediatamente la domanda: ma chi stabilisce quel che è di Cesare? Cesare stesso? Dio? Noi? E che cosa non è di Dio? Tutto è suo, Cesare compreso! Ecco che la risposta di Gesù si scompone immediatamente in una fitta serie di domande. Da interrogato Gesù diventa interrogatore. Risponde in modo che siamo ora noi a dover rispondere. Chi si mette a dialogare con lui (anche solo per finta come in questo caso gli avversari), dovrà prima o poi anche rispondere, non solo chiedere.
  2. Gesù rifiuta di rispondere alla domanda postagli con un "sì" o con un "no". Perché? Evidentemente perché i rapporti tra Dio e Cesare, quindi di riflesso tra comunità cristiana e potete politico, sono complessi e mutevoli, e non si lasciano inquadrare nello schema rigido di un "si" incondizionato o di un "no" pregiudiziale. Il problema di questi rapporti non può essere risolto in astratto, teoricamente, una volta per sempre. Ogni generazione cristiana deve chiedersi se, nella condizione storica in cui si trova, possa continuare a dire "Dio e Cesare" o non debba piuttosto imparare a dire "Dio o Cesare", o addirittura "Dio contro Cesare".
  3. Dicendo "Rendete a Cesare quel che è di Cesare" Gesù riconosce che Cesare, cioè il potere costituito in tutte le sue espressioni (potere politico, economico, tecnologico, militare, religioso), esiste, ha una funzione da svolgere ed ha il diritto di tassare i cittadini per poterla svolgere. Gesù non è un anarchico. In sé il potere, cioè la forza di cui un'autorità costituita dispone per farsi valere, non è demoniaco. Può diventarlo (è accaduto innumerevoli volte e accade sempre di nuovo) quando degenera ponendosi conte assoluto e sottraendosi a ogni controllo. Inversamente, l'assenza di ogni autorità riconosciuta e di potere costituito scatenano il caos politico-sociale, nel quale vige la legge della giungla, cioè la legge del più forte, la legge della barbarie. Dove non c'è potere, c'è pre-potere, prepotenza, arbitrio, sopruso. Certo anche il potere costituito e legale può diventare prepotente, arbitrario e, alla fine, omicida. Nel corso di questo secolo l'abbiamo constatato molte volte, in tutti i continenti. Questo però non de-legittima Cesare, neppure agli occhi di Gesù, il quale davanti a Pilato che sta per condannarlo a morte ingiustamente, non lo criminalizza ma dice: "Tu non avresti alcun potere contro di me, se ciò non ti fosse stato dato dall’alto" (Giovanni 19,11).
  4. D'altra parte, il riconoscimento della legittimità di Cesare non può comportare una sua accettazione supina ed acritica. Se è vero che il popolo deve "rendere a Cesare quel che è di Cesare", è altrettanto vero che in tante situazioni (non solo del passato ma anche contemporanee) Cesare deve restituire al popolo quel che è del popolo; non c'è lo spazio per esemplificare nel dettaglio, ma lo slogan d'un tempo "la terra ai contadini" esprimeva bene l’esigenza della restituzione di beni o poteri usurpati dai poteri economici o politici, sovente coalizzati tra loro. Questo significa che ogni accettazione di Cesare, cioè di un potere costituito, non può che situarsi all'interno di una critica del potere, grazie alla quale si sappia quel che è di Cesare e quel che non lo è, e quindi si renda, sì, a Cesare quel che è suo, ma soltanto quel che è realmente suo e non che egli ha usurpato.
  5. "Rendete a Cesare..." indicando una moneta con sopra l'effigie e l’iscrizione dell'imperatore romano significa, concretamente: "Questa moneta è di Cesare, c'è sopra il suo nome e la sua immagine, se ve la chiede dategliela pure". Voi però non avete, in voi, l'immagine di Cesare e sulla vostra fronte non è scritto il suo nome (cf Apocalisse 13,16-18). Voi recate l'immagine di Dio e nel vostro cuore c'è scritto il suo nome. Perciò voi siete di Dio così come la moneta è di Cesare. Cesare conia monete, Dio conia l'uomo. Cesare può rivendicare le monete ma non l'uomo. A Cesare potete dare la moneta, ma non voi stessi.

Quarta parte

Non siamo di Cesare

Questo è il senso della parola di Gesù, dobbiamo chiederci fino a che punto l’immagine.di Dio dentro di noi non sia stata segretamente sostituita da quella che i vari Cesari invisibili ma tanto più insidiosi del nostro tempo hanno impresso nella nostra anima, quasi a nostra insaputa. Dobbiamo chiederci ad esempio, in che misura il potere economico con il suo bombardamento pubblicitario non abbia proiettato la sua immagine dentro di noi e non ci abbia "coniati" così da consumare noi stessi nei consumi e dissolvere il nostro essere nell'avere. Dobbiamo chiederci fino a che punto l'intreccio dei poteri costituti - da quello scientifico a quello militare, da quello tecnico a quello politico - non abbiano proiettato la loro immagine dentro di noi così da renderci scettici riguardo alla possibilità di creare cose nuove nella storia, e da spegnere dentro di noi l'attesa del Regno, soffocando l'iniziativa creatrice, immobilizzando le nostre coscienze. Dobbiamo chiederci fino a che punto il potere religioso non abbia proiettato la sua immagine dentro di noi e non ci abbia anch’esso riplasmato a sua immagine e somiglianza, trasformandoci in sudditi timorosi anziché in liberi figli di Dio. Tutte queste cose dobbiamo chiederci, e molte altre, per essere in grado di non dare a Cesare - ai tanti Cesari del nostro tempo, palesi e nascosti - quel che non è suo, cioè noi stessi, il nostro cuore, la nostra vita.

Parafrasando I Corinzi 3,22 potremmo dire per concludere: Voi non siete di Cesare, semmai Cesare è vostro, e voi siete di Cristo, e Cristo è di Dio. 

Quinta parte

È lecito o no pagare il tributo a Cesare?

Molti intendono la risposta di Gesù alla domanda trappola dei Sadducei circa il tributo a Cesare come un invito a separare lo spirituale dal temporale, la fede dalla politica.

E questo diventa, per alcuni, alibi a non occuparsi dei problemi sociali, professionali e familiari che si fanno loro incontro con la scusa di dare a Dio il primo posto, e viceversa permette ad altri di lasciarsi ingolfare negli impegni domestici, politici, sociali trascurando la ricerca di Dio e della sua volontà. Quando poi non diventa mezzo per giustificare comportamenti al limite della liceità o proprio scorretti visto che "in politica non si può mica andare per il sottile"

Mi sembra invece, tenendo conto anche di altri passi del Vangelo, che la risposta di Gesù situi il cristiano di fronte alla politica in una posizione, insieme, di libertà e di impegno.

Di libertà perché so che qualunque grande della terra è pur sempre creatura di Dio, che non c'è nessun altro Signore, e che bisogna obbedire a Dio prima che agli uomini (cf Atti 4,19). Finché ci serviamo della moneta di Cesare è giusto che gli versiamo le imposte - se siamo contro Cesare, dobbiamo anche contestarlo pagandone le conseguenze -. Finché usufruiamo delle leggi di uno stato e dei diritti che ci concede è giusto assolvere anche i doveri e gli impegni che ne derivano, pronti se occorre all'obiezione di coscienza accettandone il prezzo. Basta non prostrarsi davanti al potente, sapendo che si tratta di Cesare e non di Dio e quindi non farne un assoluto, rimanere in piedi al suo cospetto.

Di impegno perché più che dì restituire a Cesare quel che è di Cesare, Gesù ci chiede di rendere a Dio quel che è di Dio. E dov’è impressa l'immagine di Dio se non sul volto dell’uomo e della donna? "A immagine di Dio li creò; maschio e femmina li creò" (Gn 1,27). Ci chiama dunque a lavorare affinché l'immagine di Dio che è impressa in ogni essere umano non risulti appannata.

Diventare pienamente uomini, pienamente donne è il compito che Dio ci affida. E lottare dunque perché venga riconosciuta e promossa la dignità di ognuno, anche degli ultimi, dei più piccoli.

Forse oggi in Occidente non ci sono più i signori di una volta, ma c’è un potere che ancora divinizziamo: l’economia di mercato detta legge, senza che qualcuno osi mettere in dubbio la sua sovranità. Un potere spesso spietato che noi risparmia nessuno e tanto meno il debole e il povero.

Il cristiano non è dunque esentato dall’impegno politico-sociale, deve difendere l'uomo da tutti i Cesari che vogliono farsi Dio, deve impegnarsi nella costruzione di una società più umana.

Piuttosto gli è indicato uno stile con cui. agire: un servizio generoso, attento, disinteressato e libero dal manichiesmo. In politica è indispensabile utilizzare il potere, il rischio è di avvalersene come strumento di dominio sull’uomo e per avere privilegi per sé, pur presentandosi come servitori. Invece ci è chiesto di fare come il Figlio dell'uomo che "non è venuto per essere servito ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti" (Mc 10,45)

La tentazione del potere come dominio è sempre presente sulla strada di chi vuole difendere l’uomo, perfino Gesù nel deserto era stato tentato di servirsene per portare il bene. L'importante è esserne consapevoli, senza per questo preferire l’inerzia al rischi di sporcarsi le mani. Ogni attività umana ha una dimensione politica. E il cristiano – e ogni uomo che vuol essere uomo - non può disinteressarsene, anche se poi il modo di parteciparvi dipenderà dal suo carattere, dalla sua storia, dalle sue particolare capacità.

Qualunque strada scelga non deve però rifiutare nè misconoscere l'apporto di chi non crede o segue una fede diversa. La storia degli uomini e quella di Dio sono sempre mischiate, noi crediamo infatti che la nostra sia la storia di Dio con gli uomini. Anche nelle vicende più "laiche", dunque, Dio è all'opera e noi siamo chiamati a coinvolgerci. Per questo ritengo che ogni progresso nel cammino di umanizzazione vada accolto, pure se è avvenuto fuori dalla Chiesa. Dio si serve anche di un re straniero, per ricondurre a sé il suo popolo (cf Is 45,1)
 

Paolo Ricca

Facoltà Valdese di Teologia -Roma

Da "famiglia domani" 3/99

Pubblicato in Spiritualità Familiare
 

Famiglia. Piccola, grande Chiesa

· Per mezzo del matrimonio, la coppia si impegna a costruire un’intima comunità di vita e di amore, in cui Dio è costantemente presente · La famiglia fondata dalla coppia assume la missione della custodia, della rivelazione e della comunicazione dell’amore · Ne derivano alcuni compiti fondamentali, messi in evidenza al Magistero della Chiesa: la formazione di una comunità di persone, il servizio alla vita, la partecipazione allo sviluppo della società e, per la famiglia cristiana, la partecipazione alla vita e alla missione della Chiesa.

Per mezzo del matrimonio, la coppia si impegna a costruire un’intima comunità di vita e di amore, in cui Dio è costantemente presente · La famiglia fondata dalla coppia assume la missione della custodia, della rivelazione e della comunicazione dell’amore · Ne derivano alcuni compiti fondamentali, messi in evidenza al Magistero della Chiesa: la formazione di una comunità di persone, il servizio alla vita, la partecipazione allo sviluppo della società e, per la famiglia cristiana, la partecipazione alla vita e alla missione della Chiesa.

Prima parte

L'elemento caratterizzante del matrimonio cristiano è dato dall'intervento di Dio nell'unione della coppia.

Nel pronunciare la formula del matrimonio la coppia crea, all'interno di sé, e, quindi, assieme a Dio, un patto con cui sorge l'impegno a costruire "un'intima comunità di vita e di amore coniugale" ove Dio stesso è costantemente presente.

Il Signore, nel chiedere agli sposi di amarsi prendendo come modello il suo amore, un amore fedele, fecondo, paziente, misericordioso, salvifico, dona loro la Grazia che li rende capaci di amarsi come Egli li ama.

Agli sposi è chiesto di modellare il proprio amore su quello del Cristo e di viverlo nel modo e nelle finalità proposte da Cristo stesso.

In questo modo, nel disegno di Dio, la famiglia scopre non solo la propria "identità" (ciò che essa è), ma anche la propria "missione" (ciò clic essa può e deve fare). I compiti che la famiglia è chiamata da Dio a svolgere scaturiscono dal suo stesso essere e ne rappresentano il naturale sviluppo dinamico ed esistenziale.

Ne consegue che la famiglia che voglia conoscersi, e quindi realizzarsi, secondo la verità del proprio essere e del proprio agire storico, non può che sentire l'esigenza di risalire al "principio" del gesto creativo di Dio con la consapevolezza che la sua missione è quella di diventare sempre di più il fondamento della propria creazione custodendo, rivelando e comunicando amore.

L'attuazione concreta di questa fondamentale missione diventa compito specifico della famiglia, ed in linea con tale principio i documenti del Magistero della Chiesa hanno evidenziato, nel corso degli anni, quattro fondamentali compiti della Famiglia cristiana:

  1. la formazione di una comunità di persone;
  2. il servizio alla vita;
  3. la partecipazione allo sviluppo della società;
  4. la partecipazione alla vita ed alla missione della Chiesa.

Seconda parte

La formazione di una comunità di persone

L'uomo e la donna, in forza del patto d'amore coniugale, sono chiamati a crescere giorno per giorno nella loro comunione attraverso la fedeltà quotidiana rispetto alla promessa matrimoniale del reciproco dono totale.

La comunione coniugale, quale intima unione e reciproca donazione tra due persone, esige la piena fedeltà dei coniugi e ne reclama l'indissolubilità.

Radicata nella personale donazione dei coniugi, l'indissolubilità del matrimonio è richiesta anche dal bene dei figli e trova la propria verità ultima nel disegno che Dio ha manifestato nella Rivelazione. Dio vuole e dona l’indissolubilità matrimoniale come frutto, segno ed esigenza del proprio amore verso l'uomo.

Secondo il Magistero della Chiesa, la testimonianza del valore dell'indissolubilità e della fedeltà matrimoniale è uno dei doveri più urgenti e preziosi delle coppie cristiane del nostro tempo: esse, facendo ciò, assolvono al compito di essere, nella società, spesso pervasa da ben diverse impostazioni dell'etica matrimoniale, un segno tangibile della presenza di Dio.

La famiglia può assolvere coerentemente ai compiti per i quali è stata creata, incidendo positivamente nella società con una testimonianza forte e significativa, solo se i coniugi crescono, innanzitutto, nell'indissolubilità del proprio vincolo e la professano scegliendo in ogni istante di fare vivere la famiglia stessa.

Fare in modo che la vocazione all'indissolubilità insita nel rapporto coniugale si realizzi nella vita concreta delle nostre famiglie è, in ogni modo, oggi, compio forse ben più difficile di un tempo. Lo si scorge nelle preoccupazioni dei giovani che si apprestano a scegliere il proprio compagno o la propria compagna per la vita. Essi sanno come sia più difficile di un tempo evitare i fallimenti in parte proprio perché non si è più disposti - secondo quello che è il pensiero comune - a sopportare un rapporto che non sia vitale ed, in parte, perché non tutti sono in grado di affrontare i mutamenti e a farli diventare motivo per rinsaldare l'affetto.

Ciò impone ai coniugi di essere costantemente vigili e di rinnovare continuamente il proprio amore, evitando di adagiarvisi dandolo per scontato, ridandogli, quindi, ogni giorno, linfa nuova e facendolo crescere nella comunicazione e nella condivisione.

L'amore, in ogni sua manifestazione, richiede questo sforzo continuo e va giorno per giorno alimentato con la consapevolezza della sua grande forza, nonostante le delusioni, le sfiducie, i ripensamenti. Ciò capita innanzitutto nel rapporto con Dio che appare spesso così devalorizzato perché l'uomo non riesce sempre a concentrarvisi, a crederci ed a scegliere di renderlo sempre nuovo e vivo. 

Terza Parte

Il servizio alla vita

Creati ad immagine e somiglianza di Dio, gli uomini e le donne sono chiamati ad essere collaboratori del Creatore nella trasmissione del dono sacro della vita umana.

La Chiesa sta profondendo sempre maggiori sforzi nel riconsiderare la grande vocazione dei genitori alla paternità ed alla maternità come dono ed impegno.

Dono per i genitori stessi, innanzitutto, perché sono associati all'opera di Dio creatore e perché il loro amore, nella fecondità, raggiunge l'unità e la gioia più vera, si apre alla fiducia, alla speranza ed alla gratuità.

Dono anche per i figli, i quali hanno bisogno di trovare un riferimento insostituibile nei genitori e nella famiglia che i genitori stessi siano in grado di costruire.

Nel percorso pensato da Dio per ogni creatura risplende la sua sapienza e la sua bontà. Vi è un "percorso" anche nel concepimento e nell'evoluzione della famiglia.

Se tale percorso viene rispettato, la positiva esperienza fatta in famiglia dai bambini e dai ragazzi potrà facilitare la loro esperienza umana e cristiana. Ciò coinvolge le istituzioni perché sostengano la paternità e la maternità e tutelino il diritto dei figli a nascere e crescere in una vera famiglia.

L'opera risanatrice delta vita di tante famiglie parte proprio dalla convinzione di vivere nell'abbraccio di Dio.

Con tale coerente convincimento le famiglie possono trovare la forza di chiudersi alla tentazione dell'egoismo per aprirsi alla civiltà dell'amore, segno concreto della presenza di Dio nel nostro vivere terreno. Di fatto anche questa dimensione della famiglia deve essere gradualmente costruita con un affiatamento sempre più diretto tra i nuclei familiari e le istituzioni della Chiesa che hanno, in tal senso, il compito determinante di tentare, nel modo più coerente possibile, di arginare fenomeni di dispersione della famiglia, sia in termini materiali, che spirituali, rispetto al "tracciato" di Dio che ne consacra la sua ragion d'essere. 

Quarta parte

La partecipazione alla vita ed allo sviluppo della società

La famiglia possiede vincoli vitali ed organici con la società, poiché ne costituisce il fondamento e l'alimento continuo mediante il suo compito di servizio alla vita.

L'esperienza di comunione e di partecipazione che deve caratterizzare la vita quotidiana della famiglia, rappresenta il primo e fondamentale contribuito della famiglia stessa alla società.

In tal modo, come è stato più volte ricordato nei documenti della Chiesa, la famiglia costituisce lo strumento più efficace di umanizzazione e di personalizzazione.

Essa collabora in modo originale e profondo alla costruzione del mondo, in particolare estendendo e trasmettendo valori e virtù.

Secondo la dottrina della Chiesa il compito sociale della famiglia è chiamato ad esprimersi anche in forma di intervento politico. Le famiglie, cioè, per prime debbono adoperarsi affinché le leggi e le istituzioni dello stato non solo non offendano, ma, anzi, sostengano e difendano positivamente i diritti e i doveri della famiglia. In tal senso le famiglie debbono crescere nella coscienza della cosiddetta "politica familiare" ed assumersi la responsabilità di trasformare la società.

Il compito sociale proprio di ogni famiglia compete, ad un titolo nuovo ed originale, alla famiglia cristiana, fondata sul sacramento del matrimonio. Assumendo la realtà umana dell'amore coniugale in tutte le sue implicazioni, il sacramento abilita ed impegna i coniugi ed i genitori cristiani a vivere la loro vocazione di laici e, pertanto, a cercare il Regno di Dio, trattando le cose temporali ed ordinandole secondo Dio.

Quinta parte

La partecipazione alla vita ed alla missione della Chiesa

La famiglia cristiana è chiamata a prendere parte viva e responsabile alla missione della Chiesa in modo proprio ed originale, ponendo cioè al servizio della Chiesa e della società se stessa nel suo essere ed agire, in quanto intinta comunità di vita e di amore.

Alla luce della fede e in virtù della speranza, anche la famiglia cristiana partecipa in comunione con la Chiesa all'esperienza del pellegrinaggio terreno verso la piena rivelazione e realizzazione del disegno di Dio.

La famiglia cristiana è comunità i cui vincoli sono rinnovati da Cristo mediante la fede e i sacramenti. La sua partecipazione alla missione della Chiesa deve poter avvenire secondo una mentalità comunitaria: i coniugi in quanto coppia, i genitori ed i figli in quanto famiglia, debbono vivere e debbono essere messi in grado di vivere il loro servizio alla Chiesa ed al mondo.

La famiglia cristiana, poi, edifica il Regno di Dio nella storia mediante quelle stesse realtà quotidiane che riguardano e contraddistinguono la sua condizione di vita: è allora nell'amore coniugale e familiare che si esprime e si realizza la partecipazione della famiglia cristiana alla missione profetica, sacerdotale e regale di Gesù Cristo e della sua Chiesa.

Lo ricorda il Concilio Vaticano II quando scrive: "La famiglia metterà con generosità in comune con le altre famiglie le proprie ricchezze spirituali. Perciò la famiglia cristiana, che nasce dal matrimonio come immagine e partecipazione del patto d'amore del Cristo e della Chiesa, renderà manifesta a tutti la viva presenza del Salvatore del mondo e la genuina natura della Chiesa, con l'amore, la fecondità generosa, l'unità e la fedeltà degli sposi" (G.S., 48).

Maria Paola e Marco Iurilli

Genova

Da "Famiglia domani" 3/99

Pubblicato in Spiritualità Familiare
Sabato, 13 Novembre 2004 16:12

Torna a casa Figlio (Enzo Bianchi)

Dall’ "uccisione del padre" alla "riscoperta del Padre"

TORNA A CASA FIGLIO

Trent’anni fa, quel complesso di convinzioni ed eventi che avrebbe assunto il nome di "Sessantotto" era percepito, e da alcuni anche definito, come l’ora della "ribellione contro il padre", addirittura come l’anno dell’"uccisione del padre". Noi oggi possiamo discernere in quell’ora la denuncia, la contestazione del fantasma del padre, del paternalismo, del padre-padrone allora dominante nella società e nelle istituzioni, il rifiuto dell’autorità abusiva dei padri terreni, a volte proiettata purtroppo anche sull’immagine di Dio.

Pubblicato in Spiritualità Familiare
 

Nei primi due capitoli della Genesi

I primi due capitoli del libro della Genesi sono fondamentali per l’antropologia cristiana. Infatti essi sono una risposta alle domande presenti nel cuore dell’uomo di ogni tempo e latitudine. Tra i tanti interrogativi c’è anche quello delle relazioni uomo-donna. Perché il sesso? Che senso ha il maschile e il femminile? Questa dualità influenza o no le relazioni umane? Come?

Prima parte

"A immagine di Dio" - La gioia della diversità

...Troviamo infatti che culmine della creazione è la differenza sessuale. Singolarmente presi i testi ci offrono alcune coordinate per orientarci nel territorio della relazione uomo-donna. Tre termini possono illuminarci. Dal primo capitolo della Genesi emerge il tema dell'immagine di Dio. (Gn 1,27). Dal secondo capitolo il tema dell'unità in un reciproco "vis-à-vis" (Gn 2, 18). Poi c'è il sonno di Adamo (che non è ancora sessuato), c'è la separazione (a partire dal "lato", zela') che precede la differenza e le dà luogo. È da sottolineare che, se in un celebre racconto (Platone, Il convito), il mito degli "androgini", questa separazione era interpretata come una punizione e una maledizione, qui essa è accolta come una cosa buona. È con un'esclamazione di gioia che Adamo, nella prima parola articolata che pronuncia, accoglie "costei" (Gn 2,23). La sessualità non è uno spiacevole incidente, ma un compimento. L'uomo è creato a immagine di Dio in una relazione strutturale con un partner diverso da lui e sperimenta nella sua stessa carne l'ordine della differenza che egli corona e abita.

Vedere la sessualità come negativa è sbagliato. Significa non riconoscere la pienezza e la sapienza del disegno di Dio. Egli l'ha voluta come sigillo della sua immagine. Dio non è sessuato, infatti! Ma la sua immagine sì! Egli l’ha voluta come un rimando intensivo a ciò che lo costituisce più in profondità e più lo unifica. La relazionalità. Guai se si prendesse la sessualità come un bene in sé. Se ne farebbe un idolo. Guai se fosse guardata come un semplice strumento (procreativo!). La si falsificherebbe immettendola in un circuito utilitaristico, economico e, oggi, tecnico!

Giungeremmo nuovamente a una visione cinica o ascetica negativa, immemori dello sguardo di Dio su di essa come realtà molto buona. (Gen 1,31).

La differenza sessuale sta nella spazio dell'impronta di Dio. Una traccia. Una ferita aperta nel cosmo di Dio. La sua attesa, forse! È un rimando alla unità di Dio.

Riconosciamo, infatti, che nella differenza maschio-femmina si nasconde la cifra di una relazionalità che c'è anche in Dio. 

Parte seconda

"L'alleanza" - Il senso della relazione

L'unione, l'alleanza tra l'uomo e la donna, può essere segno efficace del patto che Dio stipula con l'umanità: non indifferenziazione, non confusione, ma rapporto tra partners differenti e distinti. Il rapporto uomo-donna può essere vissuto come il senso fondamentale di ogni differenza e riconosciuto come una chiamata alla relazione amorosa e creatrice. La coppia umana è veramente feconda se acconsente a vivere la differenza come luogo possibile dell'accoglienza e del sorgere dell'altro: Dio, il partner nella coppia, il figlio.

La distanza espressa nell'alterità reciproca dell'uomo nei confronti della donna e della donna nei confronti dell’uomo "non è tanto una questione… di differenze constatate e oggettive: si tratta piuttosto del fatto che una persona non è tale senza un’altra persona, senza un vis-à-vis, distinto eppure conosciuto, al medesimo livello di essa" (J.-Y. Calvez "Homme ete femme"). Ne risulta che nessuna immagine dell'uomo è soddisfacente. Nessun soggetto preso singolarmente può essere rappresentativo di tutto l'umano. Chi dunque è nella posizione migliore per sapere che cosa significhi essere "uomo": l'uomo o la donna? Difficile dirlo! Ciascuno è per l'altro il suo "altro" che manca, ma che riconosce. In questa mancanza, in questa distanza è possibile l'incontro. Una traduzione buona in italiano di Gen 2,18 dice: "Non è cosa buona che il terrestre sia solo. Farò per lui un aiuto contro di lui". Perché contro? La donna è posta davanti all'uomo, in suo aiuto, ma contro. Perché? Per impedire all'uomo di rinchiudersi. Per evitare un ripiegamento senza via d'uscita su se stesso. Nell'immagine che si fa di se stesso. Perché al cuore della coscienza di sé, la coscienza di essere sessuato rinvii necessariamente all'altro sesso. Così l'uomo comincia ad esistere. Viene fuori, cioè. Viene alla luce. Sostenuto dall'altro. Il "maschile" non ha senso se non in rapporto al "femminile", e viceversa. L'identità al cuore dell'umano è differenza. È relazione con l'altro
 

Parte terza

"Una sola carne" - La comunione di vita

Nella polarità "aiuto-contro", sta la ricchezza e la grandezza del rapporto fra i due, ma anche la fragilità che lo minaccia: l'uomo deve trovare il suo bene nello spazio della relazione. Dio rifiuta la felicità dell'uomo isolato, perché non può essere autentica felicità. Prima di condurre all'uomo la donna. Dio porta ad Adamo gli animali. I rabbini commentano questo corteo davanti all'uomo dicendo che essi si accoppiavano sotto i suoi occhi. Essi cioè gli rivelano un tipo di sessualità: l'accoppiamento come soddisfazione di un bisogno; ma questo non basta all'uomo. Non lo colma nel suo isolamento. L'unione uomo-donna è molto più dell'unione maschio-femmina. Essa tende verso "una sola carne", cioè alla comunione personale, che trascende enormemente l'accoppiamento animale. Dio allora separa per unire, separa in vista della comunione e crea la donna dal lato dell'uomo. È una creazione di cui l'uomo non sa nulla. Non ha visto nulla. Su di lui è sceso un sonno profondo. Non può dire nulla sul come di questa creazione. Resta un mistero. Dono di Dio. L'ultimo grande dono di Dio. Simbolicamente, l'autore del testo, fa parlare l'uomo solo ora! L'uomo, sembra averci voluto dire, parla quando ha di fronte a sé l'altro. Solo allora è capace di dialogo. Ed è un inno di gioia: "finalmente un essere che è osso dalle mie ossa e carne dalla mia carne: la si chiamerà ‘ishshah perché è dall’ ‘ish che è stata tratta". (Gen 2,23). I due termini ‘ISH (‘J?) e ‘ISHSHAH (’H?) sono intraducibili nella nostra lingua che non dispone di vocaboli che indichino nello stesso tempo comunione e differenza. Si può fare, invece, un’osservazione interessante su questi due termini: se noi riteniamo, di entrambi, le due lettere che fanno la differenza, abbiamo lo J (jod) e la H (he). vale a dire JH, l'inizio del tetragramma JHVH. È il nome santo e impronunciabile di Dio rivelato a Mosè nella fiamma del roveto ardente. Tra l'uomo e la donna, nella loro differenza e nel loro amore, sta, come in controluce, l'inizio della rivelazione del nome di Dio. È quello che canta uno dei due amanti del Cantico dei Cantici:

"Mettimi come sigillo sul tuo cuore,

come sigillo sul tuo braccio;

perché forte come la morte è l'amore,

tenace come gli inferi è la passione:

le sue vampe sono vampe di fuoco,una fiamma di JH!" (Ct 8,6).
 

!" (Ct 8,6).
 

Parte quarta

Accoglienza - Invito a superare le paure

Nella relazione uomo-donna l'invito che, oggi, i testi della Genesi, simbolicamente, ci fanno è, a mio avviso, di superare tre paure. La paura della donna. Dell'estranea per eccellenza! La paura della vita. Del senso della vita. La paura di Dio. Della sua presente assenza. La donna che continuiamo a voler superare nei giochi di seduzione, nelle guerre o nel lavoro. La vita, che ci ostiniamo a "fare". Dio, che rinchiudiamo nei tabernacoli e nelle visioni. Ciliegina sulla torta!

Della sua presente assenza. La donna che continuiamo a voler superare nei giochi di seduzione, nelle guerre o nel lavoro. La vita, che ci ostiniamo a "fare". Dio, che rinchiudiamo nei tabernacoli e nelle visioni. Ciliegina sulla torta!

Tutto questo sta nello spazio dell'alterità. Dell'estraneità rifiutata o accolta. In una prossimità possibile con sé, gli altri, Dio (l'Altro per eccellenza) proprio per la distanza mai colmata che abita ogni uomo e donna là al fondo dell'abisso imperscrutabile della propria esistenza. Questo spazio, che a volte sentiamo come vuoto, solitudine, dolore è come un sigillo di gratuità. Del dono che noi, gli altri, Dio, siamo gli uni per gli altri, l'uno di fronte all'altro. È la luce nel colore. È lo spazio bianco fra le lettere. È il respiro prima e dentro ogni parola.

Per trovare ciò che ci dicono questi primi capitoli della Genesi, non dobbiamo spingerci a un chissà quale passato mitico andato perduto, insieme a una purezza primitiva e idilliaca. No. Lo troviamo sempre, ogni volta, nella profondità del nostro cuore. Nostro principio...

Francesco Belluzi

Da "Scout. Proposta educativa" 2/2003

Pubblicato in Spiritualità Familiare
Uomo e donna, festa e danza del creato

· Uomo e donna, base di ogni nucleo familiare, sono mistero, festa, danza di tutto il creato · Per questo, il loro incontro deve contribuire a trasmettere un autentico "gusto per la vita" · Il "come" è da scoprire, attraverso un lungo cammino in cui sono presenti difficoltà e festa · Come a Cana.

Prima parte

La festa in una famiglia nasce dall'incontro dell'uomo e della donna, dalla sessualità maschile che si accosta a quella femminile. Volendo parafrasare il racconto della "Creazione", descritto dalla Bibbia, potremmo dire che l'autore sacro aggiunge, giorno dopo giorno, degli elementi per arricchire e completare la scena del creato, ma solo con la comparsa dell'Adam, maschio e femmina, tutto prende ad animarsi e come d'improvviso inizia la "danza" di tutti gli esseri. Tutto acquista un senso nel bene e nel male, proprio perché l'uomo e la donna sono stati creati ad immagine di Dio. Essi, con la loro intelligenza e la loro affettività, danno un senso al creato e possono ricondurre ogni cosa a Dio creatore.

L'uomo e la donna formano la base di ogni nucleo familiare e rappresentano quella realtà che fa fremere di gioia e di spavento.

La sessualità maschile e femminile, una per l'altra, sono "mistero" che esalta emozioni, ma che impone un cammino di continua scoperta, pieno di dubbi, di incertezze, ma anche di gradite sorprese. La vita emotiva di una coppia muta nel tempo, ma il legame rimane e si approfondisce. Una coppia distratta ed addormentata non può vivere il mistero e perciò non sa godere della festa. (1- segue)
 

Seconda Parte

La Festa Del Creato

Quella danza iniziata dal primo Adam ha dato un'impronta particolare alla vita dell'uomo e della donna sulla terra: essi, uomo e donna, esiliati dall'Eden, bersagliati dalla natura, con fatica e con dolore, ma con speranza, sono stati chiamati a rimettere ordine nel caos. Canto e danza sono all'origine di questo tentativo incessante di ordinare la natura e gli avvenimenti significativi della storia personale e della storia della comunità.

Il canto/danza forse più trascinante della nostra storia di salvezza è quello di Maria: "Magnifica il Signore, anima mia, e il mio spirito esulti in Dio...". Lo immaginiamo come grido di gioia, non certo come tiepido e composto sussurro, e accompagnato dalla danza, dal movimento di tutto il corpo che si fa musica, e che attira gli altri nella stessa danza, come ci mostrano ancora oggi, per esempio, i gospels, cantati e danzati da un popolo che fu schiavo, ma pieno di gratitudine e d'amore. Nella Bibbia ritroviamo altri stupendi e potenti canti che si trasformano in danza per l'amato, per la bellezza del creato, per la vittoria conseguita.

Noi non sappiamo più danzare.

L’umanità occidentale è povera spiritualmente rispetto a quelle società che riescono ancora ad esprimere, con l'uso rituale della danza gli affetti, i sentimenti e le speranze. Dolore e gioia, amore e lutto, nascita, crescita e morte, presso di noi non hanno più l'espressione potente di cui avrebbero bisogno. Pensiamo al dolore del lutto che viene sempre meno manifestato e condiviso, né trova più una forma che lo possa contenere, e alle conseguenze emotive e culturali di questa negazione e rifiuto della morte, sotto l'insegna del "meglio non pensarci".

La nascita, il matrimonio, tutti i riti più significativi della vita di una persona, troppo frequentemente ormai si trasformano più in manifestazioni di sfarzo e di prestigio convenzionale che in momenti di autentica festa, di celebrazione di un passaggio a un più maturo stadio della vita.

Danzare in una festa è significativo della gioia.

Nella danza uomini e donne esprimono la gioia di far parte del creato, con il corpo si uniscono alla musica che è poi il battito del loro cuore e perciò è musica del cosmo... Il creato è musicale nei suoni del mare, del vento, nel fragore delle cascate, nel crepitio del fuoco; gli amanti amano la musica, avvertono i profumi, guardano le stelle, i paesaggi. L'altro, nell'espressione consapevole della danza, diventa più attraente.

Niente è più bello e confortante di un uomo e di una donna che si abbracciano, si sentono in sintonia con il creato, si cullano come in una danza, perché si sono ritrovati e non si lasceranno più. (2 - segue)
 

Parte terza

Mettimi come un sigillo sul tuo cuore…

Nel nostro universo culturale, fatto di immagini e discorsi, riviste e romanzi, la sessualità e l'amore sono spesso rappresentati con ombre cupe, drammatiche; pensiamo, per esempio, a "Ultimo tango a Parigi" o al più recente "Titanic".

Di solito, le allusioni al sesso e le questioni di cuore, scritte o raccontate, si portano dietro drammi, contorsioni psicologiche, colpe e malessere. Non c'è semplicità, non c'è una grande aria di festa in tali rappresentazioni, a meno che non si confonda la festa con la volgarità, come capita in talune commedie.

Non c'è dubbio che una concezione malinconica e complicata del sesso non regala libertà, ma problemi, vincoli e frustrazioni.

E ben più triste è il fatto che nella nostra società il sesso si è progressivamente mescolato ed assimilato al concetto di merce di scambio, in una visione mercificata capillarmente diffusa.

In questa condizione la percezione del sesso, come viene fuori da un tale impatto massiccio di condizionamenti impliciti, più forti di qualsiasi predica, permeata dal gusto del proibito, di violenza, di superficialità. L'amore degli sposi riesce in un tale contesto pressoché incomprensibile. Non solo, ma se la sessualità automaticamente viene collegata al potere, al prendere possesso di un altro, se infine non si lega mai ad un donare qualcosa, a un donarsi a qualcuno, non sarà mai possibile integrare nella sessualità il momento dialogico, di incontro spirituale, affettivo, dunque amoroso in senso pieno, del tutto in antitesi ad una pura eccitazione dei sensi. Il nesso tra i due sposi che si donano l'uno all'altro e l'eterno, sta proprio nelle caratteristiche di unione che la sessualità permette a coloro che si amano veramente: uscire dai confini dell’individualità per gettare un ponte percorribile verso il cuore dell'altro, sentendosi nel contempo considerato nella propria unicità preziosa.

"Mettimi come sigillo sul tuo cuore": il sigillo del mistero, del rispetto del mistero che è l'altro, della fedeltà, della donazione. (3 -segue)
 

Parte quarta

Dalla separazione al ritrovamento

Tutto ciò che è stato separato - il sesso dall’amore, l'amore sponsale dal corpo, il corpo dalla danza - nel matrimonio cristiano dovrebbe ritrovarsi, riunirsi, rifondersi. Diciamo "dovrebbe", proprio perché la voce degli sposi di oggi è ancora debole, fioca, e tremolante è la loro sicurezza nell'essere così controcorrente, dubbiosa ed insicura la fiducia nelle proprie scelte di testimonianza. Ma se non ci facciamo condizionare dal "già visto", e dal giudizio di ciò che è "attuale", di ciò che è "progresso", di ciò che è televisamente corretto, riusciamo a mettere insieme le dimensioni della sessualità (erotismo), dell’amore (affettività), dell'amicizia-fedeltà (eticità). Riusciremo ad incastonarle in una nuova maturità. Se non si amalgamano queste prospettive non ha più senso, in effetti, la necessità del matrimonio. La fecondità sarà allora la condizione naturale di un matrimonio come questo.

Gioia ed interesse per il nuovo e per il futuro portano, infatti, ai cambiamenti, alla disponibilità e alla accettazione del diverso e degli imprevisti: la nascita di un figlio, i problemi degli altri, le esigenze della comunità, in armonia con quanto la vita ci chiede.

Il matrimonio e la famiglia ed anche le generazioni future dipendono da un gusto per la vita pienamente realizzato.

Ma che cosa vuol dire "gusto per la vita"? (4 - segue)
 

Parte quinta

La festa di Cana

La famiglia di Cana ebbe, al suo matrimonio, come dono segreto di Dio, il vino, che dà l'ebbrezza, fa cantare e danzare, esalta la fisicità, aumenta gli slanci e le risate.

Forse sta qui il gusto per la vita? O forse noi siamo troppo scettici o sofisticati, o disincarnati, per credere clic queste siano "cose serie"?

Gesù trasforma l'acqua in vino, il vino che sarebbe diventato memoria e presenza reale del suo Corpo fra noi, e non fu solo una metafora o una parabola, ma un fatto, preannuncio di quell'altro fatto che verrà: la sua morte, il sacrificio del suo sangue.

Il dono di nozze di Gesù è la gioia.

Perciò torniamo a danzare. Celebriamo ogni piccola e grande festa. (5 - segue)
 

Parte sesta

Siate sottomessi gli uni agli altri

In un'epoca di diritti e di rivendicazioni, nulla risulta più urtante delle parole di Paolo che invita alla sottomissione, non solo le mogli, come voleva un’interpretazione letterale-sociologica del passato, ma anche i mariti, che come Cristo con la sua Chiesa, sono chiamati a dare la vita per la sposa. Eppure, non vi è dubbio che il cammino di una coppia, anzi di una famiglia, come l’esperienza insegna, passa attraverso l’ubbidienza. Non è l’ubbidienza alle regole, alle esigenze, ai capricci dell’altro, ma un accogliere e capire e ascoltare e scambiarsi reciprocamente le scoperte, le difficoltà, le paure e i sogni (specialmente i sogni). Come si fa, se no, ad "andare d’accordo"? (6 segue)
 

Parte settima

Lo stupore

La coppia vive la festa nella propria realtà familiare quando è capace di stupirsi. Lo stupore è la base della spiritualità familiare. Chi non sa stupirsi non sa contemplare la gloria di Dio che si squaderna in tutto l’universo, ma prima di tutto nel sorriso accogliente, negli occhi luminosi, nell’abbraccio avvolgente, nella tenerezza reciproca di due sposi.

"O Signore nostro Dio, quanto è grande il tuo Nome su tutta la terra" (Sal 8).

Lo stupore è la dote dei bambini, nasce dalla semplicità dei loro pensieri.

L’invito di Gesù è: diventare come bambini.

Darsi del "tu"

Si è in festa quando sappiamo darci del "tu". Sembra normale che tra marito e moglie ci si debba dare del "tu", ma non è altrettanto vero che vengano eliminate tante distanze. Le distanze esistono per la nostra origine ed educazione diversa, per le differenti sensibilità ed interessi, per principi ed ideali. Tutte realtà da rovesciare sopra il tavolo della cucina e farle diventare di interesse comune, od almeno farle oggetto di attenzione e condivisione. Darsi del "tu" è impegnarsi ad avvicinare due mondi che il solo sentimento non riuscirà mai ad intersecare.

Sentirsi partners di Dio

Festa è ancora divenire partners di Dio nella nostra famiglia.

"Mio Dio, diceva una giovane sposa, sento di amare mio marito più di Te". "Non preoccuparti, le rispose Dio, per quanto tu lo ami, non riuscirai ad amarlo più di me". Dio non è geloso dell'amore che siamo capaci di donare, vuole invece che questo amore sia in qualche modo segno del suo amore infinito. Perciò le nostre povertà d'amore, le piccole e grandi infedeltà, non ci devono fare paura: qualcuno che ci ama più di ogni altro fa il tifo per noi.

Ed ancora nell'ottica divina la festa della nostra famiglia non può rimanere isolata, bensì insieme con quella di tante altre famiglie contribuisce alla grande festa del Regno. È bene vivere fin d'ora questa realtà condividendo con altre famiglie momenti di vita, particolarmente le ricorrenze significative della nostra esistenza. (7 - segue)
 

Parte ottava

Farsi compagnia

Festa è anche farsi compagnia. La vocazione al matrimonio, a differenza delle vocazioni al celibato ed alla verginità, è camminare a due verso la santità, è darsi una mano, è essere uno accanto all'altra in tutti i momenti gioiosi per esaltare la gioia, come pure nei momenti di incertezza, crisi, disinnamoramento per portarne assieme il peso e la sofferenza. Essere accanto nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia... tutti i giorni della vita. Più che una promessa da mantenere diventa una consolazione, una sicurezza che non saremo mai soli particolarmente nel momento del bisogno.

Farsi profeti

Infine, festa è proiettarsi verso il futuro: essere profeti nella vita e nella vita matrimoniale. Nel nostro cuore c'è una profonda sete di infinito, occorre perciò continuare a guardare lontano, più in là delle faccende domestiche e del bilancio familiare, e senza televisione che mortifica sino all'annullamento le nostre capacità di pensare, perciò di soffrire, per trasformare in meglio noi stessi e il mondo. Occorre sognare e far sognare per riempire i nostri cuori.

Far sognare i nostri figli, stimolarli ad immaginare, a prefigurarsi la capacità di avere coraggio. Oggi, sopraffatti se non addirittura schiacciati da una mentalità troppo concreta, non riusciamo più ad immaginare qualcosa di diverso dal quadretto noioso della famiglia tradizionale, con rapporti avari e ben codificati, mete prefissate di carriera e di apparenza nell'avere. Molte sono le coppie costituite con totale acquiescenza al pensiero material-conservatore "dei due cuori e una villetta", con piscina, fuoristrada e viaggio di nozze in paesi tropicali.

Molte per fortuna sono quelle famiglie ricche di allegria immaginativa e di curiosità che badano al concreto dei sentimenti, degli altri, del futuro. (8 - segue)
 

Parte nona

Allegria immaginativa e curiosità

La famiglia è un ambito di vera crescita se è anche un luogo di educazione alla creatività. Il padre e la madre, attraverso il loro accettarsi come "soggetti creatori", non danno per scontati ruoli, atteggiamenti, obiettivi, ma anzi, stimolandosi reciprocamente nell’inventare il futuro della famiglia stessa, educano, nel contempo, i figli ad essere essi stessi inventori di nuovi uomini e donne, suggeritori di speranza oltre ogni evidenza, promotori allegri e lucidi di cambiamenti, scanzonati e coraggiosi amanti della differenza e delle differenze.

Il padre e la madre, giocando con i figli piccoli e accettando di partecipare a giochi inventati da loro quando i figli sono più grandicelli raccontando loro le fiabe, li aiutano a sognare e ad inserire, nel quotidiano, la dimensione dell’immaginazione.

In tal modo sì raggiungono due scopi: si mantiene viva la famiglia (e in questo consiste la festa presente) e si aiutano i figli a scoprire e valorizzare le proprie potenzialità e a preparare la loro "festa futura".

"Il nostro mondo - scrive Battista Borsato - soprattutto quello occidentale, soffre per mancanza di fantasia (...) Eppure noi discendiamo da un sognatore: Gesù di Nazareth. Egli ha sognato un mondo diverso; per questo nuovo mondo, per questo nuovo modo di pensare ha lottato ed è morto. Egli ha sognato ed ha fatto sognare. Gli apostoli, ed altri con loro, hanno continuato a credere a questo sogno e lo hanno appassionatamente annunciato".

Noi crediamo che faccia parte dello specifico della famiglia annunciare il sogno, far vivere la gioia, la festa. Oseremmo dire che uomo e donna, la coppia che si ama con impegno tra le tante contraddizioni quotidiane, è "il più bel sogno di Dio". (9 - Fine)

Simonetta e Fausto Mignanego - Genova

- Genova

Valeria e Tony Piccin - Vallà (Tv)

- Vallà (Tv)

da "Famiglia domani" 1/2000 

Parte nona

Allegria immaginativa e curiosità

La famiglia è un ambito di vera crescita se è anche un luogo di educazione alla creatività. Il padre e la madre, attraverso il loro accettarsi come "soggetti creatori", non danno per scontati ruoli, atteggiamenti, obiettivi, ma anzi, stimolandosi reciprocamente nell’inventare il futuro della famiglia stessa, educano, nel contempo, i figli ad essere essi stessi inventori di nuovi uomini e donne, suggeritori di speranza oltre ogni evidenza, promotori allegri e lucidi di cambiamenti, scanzonati e coraggiosi amanti della differenza e delle differenze.

Il padre e la madre, giocando con i figli piccoli e accettando di partecipare a giochi inventati da loro quando i figli sono più grandicelli raccontando loro le fiabe, li aiutano a sognare e ad inserire, nel quotidiano, la dimensione dell’immaginazione.

In tal modo sì raggiungono due scopi: si mantiene viva la famiglia (e in questo consiste la festa presente) e si aiutano i figli a scoprire e valorizzare le proprie potenzialità e a preparare la loro "festa futura".

"Il nostro mondo - scrive Battista Borsato - soprattutto quello occidentale, soffre per mancanza di fantasia (...) Eppure noi discendiamo da un sognatore: Gesù di Nazareth. Egli ha sognato un mondo diverso; per questo nuovo mondo, per questo nuovo modo di pensare ha lottato ed è morto. Egli ha sognato ed ha fatto sognare. Gli apostoli, ed altri con loro, hanno continuato a credere a questo sogno e lo hanno appassionatamente annunciato".

Noi crediamo che faccia parte dello specifico della famiglia annunciare il sogno, far vivere la gioia, la festa. Oseremmo dire che uomo e donna, la coppia che si ama con impegno tra le tante contraddizioni quotidiane, è "il più bel sogno di Dio". (9 - Fine)

Simonetta e Fausto Mignanego - Genova

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Parte ottava

Farsi compagnia

Festa è anche farsi compagnia. La vocazione al matrimonio, a differenza delle vocazioni al celibato ed alla verginità, è camminare a due verso la santità, è darsi una mano, è essere uno accanto all'altra in tutti i momenti gioiosi per esaltare la gioia, come pure nei momenti di incertezza, crisi, disinnamoramento per portarne assieme il peso e la sofferenza. Essere accanto nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia... tutti i giorni della vita. Più che una promessa da mantenere diventa una consolazione, una sicurezza che non saremo mai soli particolarmente nel momento del bisogno.

Farsi profeti

Infine, festa è proiettarsi verso il futuro: essere profeti nella vita e nella vita matrimoniale. Nel nostro cuore c'è una profonda sete di infinito, occorre perciò continuare a guardare lontano, più in là delle faccende domestiche e del bilancio familiare, e senza televisione che mortifica sino all'annullamento le nostre capacità di pensare, perciò di soffrire, per trasformare in meglio noi stessi e il mondo. Occorre sognare e far sognare per riempire i nostri cuori.

Far sognare i nostri figli, stimolarli ad immaginare, a prefigurarsi la capacità di avere coraggio. Oggi, sopraffatti se non addirittura schiacciati da una mentalità troppo concreta, non riusciamo più ad immaginare qualcosa di diverso dal quadretto noioso della famiglia tradizionale, con rapporti avari e ben codificati, mete prefissate di carriera e di apparenza nell'avere. Molte sono le coppie costituite con totale acquiescenza al pensiero material-conservatore "dei due cuori e una villetta", con piscina, fuoristrada e viaggio di nozze in paesi tropicali.

Molte per fortuna sono quelle famiglie ricche di allegria immaginativa e di curiosità che badano al concreto dei sentimenti, degli altri, del futuro. (8 - segue)
 

Parte nona

Allegria immaginativa e curiosità

La famiglia è un ambito di vera crescita se è anche un luogo di educazione alla creatività. Il padre e la madre, attraverso il loro accettarsi come "soggetti creatori", non danno per scontati ruoli, atteggiamenti, obiettivi, ma anzi, stimolandosi reciprocamente nell’inventare il futuro della famiglia stessa, educano, nel contempo, i figli ad essere essi stessi inventori di nuovi uomini e donne, suggeritori di speranza oltre ogni evidenza, promotori allegri e lucidi di cambiamenti, scanzonati e coraggiosi amanti della differenza e delle differenze.

Il padre e la madre, giocando con i figli piccoli e accettando di partecipare a giochi inventati da loro quando i figli sono più grandicelli raccontando loro le fiabe, li aiutano a sognare e ad inserire, nel quotidiano, la dimensione dell’immaginazione.

In tal modo sì raggiungono due scopi: si mantiene viva la famiglia (e in questo consiste la festa presente) e si aiutano i figli a scoprire e valorizzare le proprie potenzialità e a preparare la loro "festa futura".

"Il nostro mondo - scrive Battista Borsato - soprattutto quello occidentale, soffre per mancanza di fantasia (...) Eppure noi discendiamo da un sognatore: Gesù di Nazareth. Egli ha sognato un mondo diverso; per questo nuovo mondo, per questo nuovo modo di pensare ha lottato ed è morto. Egli ha sognato ed ha fatto sognare. Gli apostoli, ed altri con loro, hanno continuato a credere a questo sogno e lo hanno appassionatamente annunciato".

Noi crediamo che faccia parte dello specifico della famiglia annunciare il sogno, far vivere la gioia, la festa. Oseremmo dire che uomo e donna, la coppia che si ama con impegno tra le tante contraddizioni quotidiane, è "il più bel sogno di Dio". (9 - Fine)

Simonetta e Fausto Mignanego - Genova

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Parte nona

Allegria immaginativa e curiosità

La famiglia è un ambito di vera crescita se è anche un luogo di educazione alla creatività. Il padre e la madre, attraverso il loro accettarsi come "soggetti creatori", non danno per scontati ruoli, atteggiamenti, obiettivi, ma anzi, stimolandosi reciprocamente nell’inventare il futuro della famiglia stessa, educano, nel contempo, i figli ad essere essi stessi inventori di nuovi uomini e donne, suggeritori di speranza oltre ogni evidenza, promotori allegri e lucidi di cambiamenti, scanzonati e coraggiosi amanti della differenza e delle differenze.

Il padre e la madre, giocando con i figli piccoli e accettando di partecipare a giochi inventati da loro quando i figli sono più grandicelli raccontando loro le fiabe, li aiutano a sognare e ad inserire, nel quotidiano, la dimensione dell’immaginazione.

In tal modo sì raggiungono due scopi: si mantiene viva la famiglia (e in questo consiste la festa presente) e si aiutano i figli a scoprire e valorizzare le proprie potenzialità e a preparare la loro "festa futura".

"Il nostro mondo - scrive Battista Borsato - soprattutto quello occidentale, soffre per mancanza di fantasia (...) Eppure noi discendiamo da un sognatore: Gesù di Nazareth. Egli ha sognato un mondo diverso; per questo nuovo mondo, per questo nuovo modo di pensare ha lottato ed è morto. Egli ha sognato ed ha fatto sognare. Gli apostoli, ed altri con loro, hanno continuato a credere a questo sogno e lo hanno appassionatamente annunciato".

Noi crediamo che faccia parte dello specifico della famiglia annunciare il sogno, far vivere la gioia, la festa. Oseremmo dire che uomo e donna, la coppia che si ama con impegno tra le tante contraddizioni quotidiane, è "il più bel sogno di Dio". (9 - Fine)

Simonetta e Fausto Mignanego - Genova

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Parte settima

Lo stupore

La coppia vive la festa nella propria realtà familiare quando è capace di stupirsi. Lo stupore è la base della spiritualità familiare. Chi non sa stupirsi non sa contemplare la gloria di Dio che si squaderna in tutto l’universo, ma prima di tutto nel sorriso accogliente, negli occhi luminosi, nell’abbraccio avvolgente, nella tenerezza reciproca di due sposi.

"O Signore nostro Dio, quanto è grande il tuo Nome su tutta la terra" (Sal 8).

Lo stupore è la dote dei bambini, nasce dalla semplicità dei loro pensieri.

L’invito di Gesù è: diventare come bambini.

Darsi del "tu"

Si è in festa quando sappiamo darci del "tu". Sembra normale che tra marito e moglie ci si debba dare del "tu", ma non è altrettanto vero che vengano eliminate tante distanze. Le distanze esistono per la nostra origine ed educazione diversa, per le differenti sensibilità ed interessi, per principi ed ideali. Tutte realtà da rovesciare sopra il tavolo della cucina e farle diventare di interesse comune, od almeno farle oggetto di attenzione e condivisione. Darsi del "tu" è impegnarsi ad avvicinare due mondi che il solo sentimento non riuscirà mai ad intersecare.

Sentirsi partners di Dio

Festa è ancora divenire partners di Dio nella nostra famiglia.

"Mio Dio, diceva una giovane sposa, sento di amare mio marito più di Te". "Non preoccuparti, le rispose Dio, per quanto tu lo ami, non riuscirai ad amarlo più di me". Dio non è geloso dell'amore che siamo capaci di donare, vuole invece che questo amore sia in qualche modo segno del suo amore infinito. Perciò le nostre povertà d'amore, le piccole e grandi infedeltà, non ci devono fare paura: qualcuno che ci ama più di ogni altro fa il tifo per noi.

Ed ancora nell'ottica divina la festa della nostra famiglia non può rimanere isolata, bensì insieme con quella di tante altre famiglie contribuisce alla grande festa del Regno. È bene vivere fin d'ora questa realtà condividendo con altre famiglie momenti di vita, particolarmente le ricorrenze significative della nostra esistenza. (7 - segue)
 

Parte ottava

Farsi compagnia

Festa è anche farsi compagnia. La vocazione al matrimonio, a differenza delle vocazioni al celibato ed alla verginità, è camminare a due verso la santità, è darsi una mano, è essere uno accanto all'altra in tutti i momenti gioiosi per esaltare la gioia, come pure nei momenti di incertezza, crisi, disinnamoramento per portarne assieme il peso e la sofferenza. Essere accanto nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia... tutti i giorni della vita. Più che una promessa da mantenere diventa una consolazione, una sicurezza che non saremo mai soli particolarmente nel momento del bisogno.

Farsi profeti

Infine, festa è proiettarsi verso il futuro: essere profeti nella vita e nella vita matrimoniale. Nel nostro cuore c'è una profonda sete di infinito, occorre perciò continuare a guardare lontano, più in là delle faccende domestiche e del bilancio familiare, e senza televisione che mortifica sino all'annullamento le nostre capacità di pensare, perciò di soffrire, per trasformare in meglio noi stessi e il mondo. Occorre sognare e far sognare per riempire i nostri cuori.

Far sognare i nostri figli, stimolarli ad immaginare, a prefigurarsi la capacità di avere coraggio. Oggi, sopraffatti se non addirittura schiacciati da una mentalità troppo concreta, non riusciamo più ad immaginare qualcosa di diverso dal quadretto noioso della famiglia tradizionale, con rapporti avari e ben codificati, mete prefissate di carriera e di apparenza nell'avere. Molte sono le coppie costituite con totale acquiescenza al pensiero material-conservatore "dei due cuori e una villetta", con piscina, fuoristrada e viaggio di nozze in paesi tropicali.

Molte per fortuna sono quelle famiglie ricche di allegria immaginativa e di curiosità che badano al concreto dei sentimenti, degli altri, del futuro. (8 - segue)
 

Parte nona

Allegria immaginativa e curiosità

La famiglia è un ambito di vera crescita se è anche un luogo di educazione alla creatività. Il padre e la madre, attraverso il loro accettarsi come "soggetti creatori", non danno per scontati ruoli, atteggiamenti, obiettivi, ma anzi, stimolandosi reciprocamente nell’inventare il futuro della famiglia stessa, educano, nel contempo, i figli ad essere essi stessi inventori di nuovi uomini e donne, suggeritori di speranza oltre ogni evidenza, promotori allegri e lucidi di cambiamenti, scanzonati e coraggiosi amanti della differenza e delle differenze.

Il padre e la madre, giocando con i figli piccoli e accettando di partecipare a giochi inventati da loro quando i figli sono più grandicelli raccontando loro le fiabe, li aiutano a sognare e ad inserire, nel quotidiano, la dimensione dell’immaginazione.

In tal modo sì raggiungono due scopi: si mantiene viva la famiglia (e in questo consiste la festa presente) e si aiutano i figli a scoprire e valorizzare le proprie potenzialità e a preparare la loro "festa futura".

"Il nostro mondo - scrive Battista Borsato - soprattutto quello occidentale, soffre per mancanza di fantasia (...) Eppure noi discendiamo da un sognatore: Gesù di Nazareth. Egli ha sognato un mondo diverso; per questo nuovo mondo, per questo nuovo modo di pensare ha lottato ed è morto. Egli ha sognato ed ha fatto sognare. Gli apostoli, ed altri con loro, hanno continuato a credere a questo sogno e lo hanno appassionatamente annunciato".

Noi crediamo che faccia parte dello specifico della famiglia annunciare il sogno, far vivere la gioia, la festa. Oseremmo dire che uomo e donna, la coppia che si ama con impegno tra le tante contraddizioni quotidiane, è "il più bel sogno di Dio". (9 - Fine)

Simonetta e Fausto Mignanego - Genova

- Genova

Valeria e Tony Piccin - Vallà (Tv)

- Vallà (Tv)

da "Famiglia domani" 1/2000 

Parte nona

Allegria immaginativa e curiosità

La famiglia è un ambito di vera crescita se è anche un luogo di educazione alla creatività. Il padre e la madre, attraverso il loro accettarsi come "soggetti creatori", non danno per scontati ruoli, atteggiamenti, obiettivi, ma anzi, stimolandosi reciprocamente nell’inventare il futuro della famiglia stessa, educano, nel contempo, i figli ad essere essi stessi inventori di nuovi uomini e donne, suggeritori di speranza oltre ogni evidenza, promotori allegri e lucidi di cambiamenti, scanzonati e coraggiosi amanti della differenza e delle differenze.

Il padre e la madre, giocando con i figli piccoli e accettando di partecipare a giochi inventati da loro quando i figli sono più grandicelli raccontando loro le fiabe, li aiutano a sognare e ad inserire, nel quotidiano, la dimensione dell’immaginazione.

In tal modo sì raggiungono due scopi: si mantiene viva la famiglia (e in questo consiste la festa presente) e si aiutano i figli a scoprire e valorizzare le proprie potenzialità e a preparare la loro "festa futura".

"Il nostro mondo - scrive Battista Borsato - soprattutto quello occidentale, soffre per mancanza di fantasia (...) Eppure noi discendiamo da un sognatore: Gesù di Nazareth. Egli ha sognato un mondo diverso; per questo nuovo mondo, per questo nuovo modo di pensare ha lottato ed è morto. Egli ha sognato ed ha fatto sognare. Gli apostoli, ed altri con loro, hanno continuato a credere a questo sogno e lo hanno appassionatamente annunciato".

Noi crediamo che faccia parte dello specifico della famiglia annunciare il sogno, far vivere la gioia, la festa. Oseremmo dire che uomo e donna, la coppia che si ama con impegno tra le tante contraddizioni quotidiane, è "il più bel sogno di Dio". (9 - Fine)

Simonetta e Fausto Mignanego - Genova

- Genova

Valeria e Tony Piccin - Vallà (Tv)

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da "Famiglia domani" 1/2000 

Parte ottava

Farsi compagnia

Festa è anche farsi compagnia. La vocazione al matrimonio, a differenza delle vocazioni al celibato ed alla verginità, è camminare a due verso la santità, è darsi una mano, è essere uno accanto all'altra in tutti i momenti gioiosi per esaltare la gioia, come pure nei momenti di incertezza, crisi, disinnamoramento per portarne assieme il peso e la sofferenza. Essere accanto nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia... tutti i giorni della vita. Più che una promessa da mantenere diventa una consolazione, una sicurezza che non saremo mai soli particolarmente nel momento del bisogno.

Farsi profeti

Infine, festa è proiettarsi verso il futuro: essere profeti nella vita e nella vita matrimoniale. Nel nostro cuore c'è una profonda sete di infinito, occorre perciò continuare a guardare lontano, più in là delle faccende domestiche e del bilancio familiare, e senza televisione che mortifica sino all'annullamento le nostre capacità di pensare, perciò di soffrire, per trasformare in meglio noi stessi e il mondo. Occorre sognare e far sognare per riempire i nostri cuori.

Far sognare i nostri figli, stimolarli ad immaginare, a prefigurarsi la capacità di avere coraggio. Oggi, sopraffatti se non addirittura schiacciati da una mentalità troppo concreta, non riusciamo più ad immaginare qualcosa di diverso dal quadretto noioso della famiglia tradizionale, con rapporti avari e ben codificati, mete prefissate di carriera e di apparenza nell'avere. Molte sono le coppie costituite con totale acquiescenza al pensiero material-conservatore "dei due cuori e una villetta", con piscina, fuoristrada e viaggio di nozze in paesi tropicali.

Molte per fortuna sono quelle famiglie ricche di allegria immaginativa e di curiosità che badano al concreto dei sentimenti, degli altri, del futuro. (8 - segue)
 

Parte nona

Allegria immaginativa e curiosità

La famiglia è un ambito di vera crescita se è anche un luogo di educazione alla creatività. Il padre e la madre, attraverso il loro accettarsi come "soggetti creatori", non danno per scontati ruoli, atteggiamenti, obiettivi, ma anzi, stimolandosi reciprocamente nell’inventare il futuro della famiglia stessa, educano, nel contempo, i figli ad essere essi stessi inventori di nuovi uomini e donne, suggeritori di speranza oltre ogni evidenza, promotori allegri e lucidi di cambiamenti, scanzonati e coraggiosi amanti della differenza e delle differenze.

Il padre e la madre, giocando con i figli piccoli e accettando di partecipare a giochi inventati da loro quando i figli sono più grandicelli raccontando loro le fiabe, li aiutano a sognare e ad inserire, nel quotidiano, la dimensione dell’immaginazione.

In tal modo sì raggiungono due scopi: si mantiene viva la famiglia (e in questo consiste la festa presente) e si aiutano i figli a scoprire e valorizzare le proprie potenzialità e a preparare la loro "festa futura".

"Il nostro mondo - scrive Battista Borsato - soprattutto quello occidentale, soffre per mancanza di fantasia (...) Eppure noi discendiamo da un sognatore: Gesù di Nazareth. Egli ha sognato un mondo diverso; per questo nuovo mondo, per questo nuovo modo di pensare ha lottato ed è morto. Egli ha sognato ed ha fatto sognare. Gli apostoli, ed altri con loro, hanno continuato a credere a questo sogno e lo hanno appassionatamente annunciato".

Noi crediamo che faccia parte dello specifico della famiglia annunciare il sogno, far vivere la gioia, la festa. Oseremmo dire che uomo e donna, la coppia che si ama con impegno tra le tante contraddizioni quotidiane, è "il più bel sogno di Dio". (9 - Fine)

Simonetta e Fausto Mignanego - Genova

- Genova

Valeria e Tony Piccin - Vallà (Tv)

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da "Famiglia domani" 1/2000 

Parte nona

Allegria immaginativa e curiosità

La famiglia è un ambito di vera crescita se è anche un luogo di educazione alla creatività. Il padre e la madre, attraverso il loro accettarsi come "soggetti creatori", non danno per scontati ruoli, atteggiamenti, obiettivi, ma anzi, stimolandosi reciprocamente nell’inventare il futuro della famiglia stessa, educano, nel contempo, i figli ad essere essi stessi inventori di nuovi uomini e donne, suggeritori di speranza oltre ogni evidenza, promotori allegri e lucidi di cambiamenti, scanzonati e coraggiosi amanti della differenza e delle differenze.

Il padre e la madre, giocando con i figli piccoli e accettando di partecipare a giochi inventati da loro quando i figli sono più grandicelli raccontando loro le fiabe, li aiutano a sognare e ad inserire, nel quotidiano, la dimensione dell’immaginazione.

In tal modo sì raggiungono due scopi: si mantiene viva la famiglia (e in questo consiste la festa presente) e si aiutano i figli a scoprire e valorizzare le proprie potenzialità e a preparare la loro "festa futura".

"Il nostro mondo - scrive Battista Borsato - soprattutto quello occidentale, soffre per mancanza di fantasia (...) Eppure noi discendiamo da un sognatore: Gesù di Nazareth. Egli ha sognato un mondo diverso; per questo nuovo mondo, per questo nuovo modo di pensare ha lottato ed è morto. Egli ha sognato ed ha fatto sognare. Gli apostoli, ed altri con loro, hanno continuato a credere a questo sogno e lo hanno appassionatamente annunciato".

Noi crediamo che faccia parte dello specifico della famiglia annunciare il sogno, far vivere la gioia, la festa. Oseremmo dire che uomo e donna, la coppia che si ama con impegno tra le tante contraddizioni quotidiane, è "il più bel sogno di Dio". (9 - Fine)

Simonetta e Fausto Mignanego - Genova

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Valeria e Tony Piccin - Vallà (Tv)

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da "Famiglia domani" 1/2000 

Parte sesta

Siate sottomessi gli uni agli altri

In un'epoca di diritti e di rivendicazioni, nulla risulta più urtante delle parole di Paolo che invita alla sottomissione, non solo le mogli, come voleva un’interpretazione letterale-sociologica del passato, ma anche i mariti, che come Cristo con la sua Chiesa, sono chiamati a dare la vita per la sposa. Eppure, non vi è dubbio che il cammino di una coppia, anzi di una famiglia, come l’esperienza insegna, passa attraverso l’ubbidienza. Non è l’ubbidienza alle regole, alle esigenze, ai capricci dell’altro, ma un accogliere e capire e ascoltare e scambiarsi reciprocamente le scoperte, le difficoltà, le paure e i sogni (specialmente i sogni). Come si fa, se no, ad "andare d’accordo"? (6 segue)
 

Parte settima

Lo stupore

La coppia vive la festa nella propria realtà familiare quando è capace di stupirsi. Lo stupore è la base della spiritualità familiare. Chi non sa stupirsi non sa contemplare la gloria di Dio che si squaderna in tutto l’universo, ma prima di tutto nel sorriso accogliente, negli occhi luminosi, nell’abbraccio avvolgente, nella tenerezza reciproca di due sposi.

"O Signore nostro Dio, quanto è grande il tuo Nome su tutta la terra" (Sal 8).

Lo stupore è la dote dei bambini, nasce dalla semplicità dei loro pensieri.

L’invito di Gesù è: diventare come bambini.

Darsi del "tu"

Si è in festa quando sappiamo darci del "tu". Sembra normale che tra marito e moglie ci si debba dare del "tu", ma non è altrettanto vero che vengano eliminate tante distanze. Le distanze esistono per la nostra origine ed educazione diversa, per le differenti sensibilità ed interessi, per principi ed ideali. Tutte realtà da rovesciare sopra il tavolo della cucina e farle diventare di interesse comune, od almeno farle oggetto di attenzione e condivisione. Darsi del "tu" è impegnarsi ad avvicinare due mondi che il solo sentimento non riuscirà mai ad intersecare.

Sentirsi partners di Dio

Festa è ancora divenire partners di Dio nella nostra famiglia.

"Mio Dio, diceva una giovane sposa, sento di amare mio marito più di Te". "Non preoccuparti, le rispose Dio, per quanto tu lo ami, non riuscirai ad amarlo più di me". Dio non è geloso dell'amore che siamo capaci di donare, vuole invece che questo amore sia in qualche modo segno del suo amore infinito. Perciò le nostre povertà d'amore, le piccole e grandi infedeltà, non ci devono fare paura: qualcuno che ci ama più di ogni altro fa il tifo per noi.

Ed ancora nell'ottica divina la festa della nostra famiglia non può rimanere isolata, bensì insieme con quella di tante altre famiglie contribuisce alla grande festa del Regno. È bene vivere fin d'ora questa realtà condividendo con altre famiglie momenti di vita, particolarmente le ricorrenze significative della nostra esistenza. (7 - segue)
 

Parte ottava

Farsi compagnia

Festa è anche farsi compagnia. La vocazione al matrimonio, a differenza delle vocazioni al celibato ed alla verginità, è camminare a due verso la santità, è darsi una mano, è essere uno accanto all'altra in tutti i momenti gioiosi per esaltare la gioia, come pure nei momenti di incertezza, crisi, disinnamoramento per portarne assieme il peso e la sofferenza. Essere accanto nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia... tutti i giorni della vita. Più che una promessa da mantenere diventa una consolazione, una sicurezza che non saremo mai soli particolarmente nel momento del bisogno.

Farsi profeti

Infine, festa è proiettarsi verso il futuro: essere profeti nella vita e nella vita matrimoniale. Nel nostro cuore c'è una profonda sete di infinito, occorre perciò continuare a guardare lontano, più in là delle faccende domestiche e del bilancio familiare, e senza televisione che mortifica sino all'annullamento le nostre capacità di pensare, perciò di soffrire, per trasformare in meglio noi stessi e il mondo. Occorre sognare e far sognare per riempire i nostri cuori.

Far sognare i nostri figli, stimolarli ad immaginare, a prefigurarsi la capacità di avere coraggio. Oggi, sopraffatti se non addirittura schiacciati da una mentalità troppo concreta, non riusciamo più ad immaginare qualcosa di diverso dal quadretto noioso della famiglia tradizionale, con rapporti avari e ben codificati, mete prefissate di carriera e di apparenza nell'avere. Molte sono le coppie costituite con totale acquiescenza al pensiero material-conservatore "dei due cuori e una villetta", con piscina, fuoristrada e viaggio di nozze in paesi tropicali.

Molte per fortuna sono quelle famiglie ricche di allegria immaginativa e di curiosità che badano al concreto dei sentimenti, degli altri, del futuro. (8 - segue)
 

Parte nona

Allegria immaginativa e curiosità

La famiglia è un ambito di vera crescita se è anche un luogo di educazione alla creatività. Il padre e la madre, attraverso il loro accettarsi come "soggetti creatori", non danno per scontati ruoli, atteggiamenti, obiettivi, ma anzi, stimolandosi reciprocamente nell’inventare il futuro della famiglia stessa, educano, nel contempo, i figli ad essere essi stessi inventori di nuovi uomini e donne, suggeritori di speranza oltre ogni evidenza, promotori allegri e lucidi di cambiamenti, scanzonati e coraggiosi amanti della differenza e delle differenze.

Il padre e la madre, giocando con i figli piccoli e accettando di partecipare a giochi inventati da loro quando i figli sono più grandicelli raccontando loro le fiabe, li aiutano a sognare e ad inserire, nel quotidiano, la dimensione dell’immaginazione.

In tal modo sì raggiungono due scopi: si mantiene viva la famiglia (e in questo consiste la festa presente) e si aiutano i figli a scoprire e valorizzare le proprie potenzialità e a preparare la loro "festa futura".

"Il nostro mondo - scrive Battista Borsato - soprattutto quello occidentale, soffre per mancanza di fantasia (...) Eppure noi discendiamo da un sognatore: Gesù di Nazareth. Egli ha sognato un mondo diverso; per questo nuovo mondo, per questo nuovo modo di pensare ha lottato ed è morto. Egli ha sognato ed ha fatto sognare. Gli apostoli, ed altri con loro, hanno continuato a credere a questo sogno e lo hanno appassionatamente annunciato".

Noi crediamo che faccia parte dello specifico della famiglia annunciare il sogno, far vivere la gioia, la festa. Oseremmo dire che uomo e donna, la coppia che si ama con impegno tra le tante contraddizioni quotidiane, è "il più bel sogno di Dio". (9 - Fine)

Simonetta e Fausto Mignanego - Genova

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Valeria e Tony Piccin - Vallà (Tv)

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da "Famiglia domani" 1/2000 

Parte nona

Allegria immaginativa e curiosità

La famiglia è un ambito di vera crescita se è anche un luogo di educazione alla creatività. Il padre e la madre, attraverso il loro accettarsi come "soggetti creatori", non danno per scontati ruoli, atteggiamenti, obiettivi, ma anzi, stimolandosi reciprocamente nell’inventare il futuro della famiglia stessa, educano, nel contempo, i figli ad essere essi stessi inventori di nuovi uomini e donne, suggeritori di speranza oltre ogni evidenza, promotori allegri e lucidi di cambiamenti, scanzonati e coraggiosi amanti della differenza e delle differenze.

Il padre e la madre, giocando con i figli piccoli e accettando di partecipare a giochi inventati da loro quando i figli sono più grandicelli raccontando loro le fiabe, li aiutano a sognare e ad inserire, nel quotidiano, la dimensione dell’immaginazione.

In tal modo sì raggiungono due scopi: si mantiene viva la famiglia (e in questo consiste la festa presente) e si aiutano i figli a scoprire e valorizzare le proprie potenzialità e a preparare la loro "festa futura".

"Il nostro mondo - scrive Battista Borsato - soprattutto quello occidentale, soffre per mancanza di fantasia (...) Eppure noi discendiamo da un sognatore: Gesù di Nazareth. Egli ha sognato un mondo diverso; per questo nuovo mondo, per questo nuovo modo di pensare ha lottato ed è morto. Egli ha sognato ed ha fatto sognare. Gli apostoli, ed altri con loro, hanno continuato a credere a questo sogno e lo hanno appassionatamente annunciato".

Noi crediamo che faccia parte dello specifico della famiglia annunciare il sogno, far vivere la gioia, la festa. Oseremmo dire che uomo e donna, la coppia che si ama con impegno tra le tante contraddizioni quotidiane, è "il più bel sogno di Dio". (9 - Fine)

Simonetta e Fausto Mignanego - Genova

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Parte ottava

Farsi compagnia

Pubblicato in Spiritualità Familiare
 

Famiglia conviviale per una società conviviale

· La convivialità si oppone alla produttività: si coniuga in termini di essere, non di avere · E’ un "narrarsi senza fine", e per questo si addice alla famiglia, in particolare a quella che vive nella libertà, nell’amore confidente nello Spirito, nella gioia, nelle disponibilità ospitale, nella sobrietà · Una famiglia impostata su questa basi dona alla società una dimensione di pace.

Prima parte

Quale famiglia, per quale società

Nel parlare comune, il termine "convivialità" assume sfumature ed accenti negativi, a volte in modo marcato; si allude al disimpegno, alla ricerca del piacere per il piacere, e così, ad esempio, una discussione "conviviale" è sinonimo di accademica, non autentica. E tuttavia, soprattutto nelle pagine di Ivan Illich, "società conviviale" è un'idea che presenta una ben diversa pregnanza; Illich, con tale espressione, intende "una società che dà all'uomo la possibilità di esercitare l'azione più autonoma e creativa, con l'ausilio di strumenti meno controllabili da altri. La produttività si coniuga in termini di avere, la convivialità in termini di essere. L'attrezzatura manipolante tende all'esasperazione, l'uso dello strumento conviviale tende all'autolimitazione".

Dopo gli anni Settanta del nostro secolo, la problematica riassunta nella parola d'ordine della convivialità ha perso mordente, soprattutto per l'avvicendarsi delle mode culturali; ma ritengo che, al di là delle parole, le questioni sollevate da Illich siano di grande rilievo, e di intensa attualità ancor oggi; ciò che è in gioco, dal punto di vista culturale, è il superamento della modernità, la necessità di configurare una genuina alternativa, che già alcuni definiscono "post-modernità". La modernità sarebbe in crisi in tre suoi presupposti fondamentali: il primato della ragione "forte" del razionalismo, la centralità del soggetto umano inteso come fondamento di tutto ed infine le falle che si aprono, sempre più vistosamente, in una concezione della storia, intesa come contenitore onnipervadente, continuo e come giudizio inappellabile. La ricerca di valori come l'autenticità e l'autorealizzazione, l'appello che proviene da una diversa qualità della vita, la sfida promanante dalla varietà delle culture, il fascino acuto della comunicazione ed infine la commistione tra il bisogno di ali (la libertà!) e quello di radici: ecco alcune linee di tendenza che caratterizzerebbero, con forte incisività, l'epoca della fuoriuscita dalla modernità, e dell'ingresso in una più o meno mitologica "post-modernità".

In termini educativi, l'alternativa complessiva che si delinea mette a fuoco piuttosto l'efficacia educativa che l'efficienza; rispetto a Prometeo, l'eroe orgoglioso che aveva donato il calendario simbolico della modernità, è il fratello Epimeteo che campeggia, parlando di una nuova tenerezza, e della gioia del dono. E l'identità di ognuno, persa la sua consistenza rigida, tende a configurarsi come un'identità narrativa; nella famiglia che assume un tale volto, non dominano i ruoli statici, ma il venire in luce delle singole personalità nell'avventura di un narrarsi senza fine, in una dimensione in cui nessuno vuol conoscere l'altro al di fuori di quello che l'altro medesimo sente di sé, pensa di sé.

La famiglia che assume la figura conviviale si scopre come una piccola comunità in cammino. Come ci rammenta un famoso dialogo di Platone: "Strada facendo insieme noi due decideremo quello che diremo. Adesso andiamo!" (Convito, 174 D).

Ritrovo nella famiglia ispirata alla convivialità queste cinque caratteristiche, che ora enuncio e poi illustrerò con rapida analisi: libertà autentica, amore confidente nello Spirito, la gioia, la disponibilità ospitale ed infine quella sobrietà che istituisce la famiglia come autentica preparazione all'ascolto degli altri uomini, e dunque come prima scuola di pace. Tali mi sembrano i principali contenuti valoriali di una famiglia d'ispirazione conviviale, vissuti a livello intuitivo-emozionale, ma poi anche meditati, argomentati, scanditi in una progettualità di vita semplice e persuasiva
 

Seconda parte

La ricerca della vera libertà

In una cultura e in un costume dotati di sfaccettature necrofile (innamorate della morte, o perlomeno flirtanti con essa), la famiglia d'ispirazione conviviale testimonia di non temere l'impatto con la storia, e di ricercare una libertà autentica, capace di generare, continuamente, opere nuove e significative. Diversi atteggiamenti e comportamenti, attorno a noi, si rivelano contrari alla vita, eppure sono vissuti, e talora difesi, in nome della libertà e in nome della qualità della vita (tossicomanie e tossicodipendenze, suicidio, ricerca del rischio per il rischio, ottundimento per via di quella musica che conduce, con ritmo sempre più accelerato, fuori dal mondo).

Dal punto di vista educativo, si valorizzerà la libertà come impulso positivo; spirito conviviale può significare porre al centro la necessità di interrogarci sul senso della vita, privilegiando, rispetto alla quantità che ci assedia e soffoca, gli aspetti qualitativi della vita medesima. Vita e libertà, in definitiva, da concepire e testimoniare come due beni indivisibili. Libertà non come fuga e allontanamento, non come il disporre, con gelosa arroganza, di sé, ma come cammino verso una liberazione che emancipi da quelle schiavitù - a volte così nuove che ci riesce difficile riconoscerle - che avviliscono e soffocano l'uomo.

Il cristiano, soprattutto, non rimarrà fermo ad una formulazione negativa detta libertà (libertà dal peccato, dalla legge e dalla morte), ma si batterà per assimilare la pienezza di una formulazione positiva (libertà per la grazia di Dio, per il Vangelo, per il Regno). In definitiva, la libertà scaturisce come energia spirituale che ci fa partecipi della stessa vita di Dio, giacché ne siamo figli; e, "se siamo figli, siamo pure eredi" (Rm 8,l7ss).

Ricapitolando, una tale libertà come dedicazione fa scaturire la circolazione di uno scambio vicendevole, dà slancio per un cammino di maturazione e di ascolto che ha il suo cuore nella vita di coppia e sovrabbonda nella relazione tra figli e genitori, e nel reciproco rapporto che può instaurarsi tra i figli. I nuovi cardini della vita familiare, alla luce di tale cammino: maturazione autonoma e creatività di ogni membro partecipe, orientamento e non manipolazione dall'altro, autorità promuovente e non autoritarismo livellante. (2 - segue)
 

Terza parte

Lasciarsi condurre dallo Spirito

La famiglia, in una prospettiva conviviale e personalista, non è un'istituzione come le altre; non è una società fondata su mutui diritti, come una certa tradizione stancamente ripete, e non è neppure fondata sul produrre e sull'avere (famiglia come impresa e famiglia come salvadanaio). Il mero interesse è un vincolo troppo debole, e il salvadanaio, quando non serve più, si rompe brutalmente: ma le persone sono corpo di carne, e sanguinano anche negli affetti e nelle emozioni. Noti nego che in qualche tempo, in qualche luogo (per esempio, nel mio Veneto) si siano sovrapposti sulla famiglia i valori aggiunti del lavoro e del guadagno, che la compattezza del nucleo familiare pare garantire al meglio; ma tutto il problema consiste nel capire se queste dimensioni, per quanto importanti, sono sopraggiunte a irrobustire un nocciolo che ha ben altra origine e legittimazione... In una parola, penso che la scaturigine della famiglia stia nelle dimensioni dell'essere e dell'amore; nella prospettiva che tali radici indicano, all'assimilazione forzata si sostituiscono cammini d'integrazione armonica, con la solidarietà e l'attenzione assidua - anche se spesso silenziosa - verso i membri più deboli, avvertiti immediatamente con quel cuore più grande, con quella dilatazione del cuore che lo Spirito stesso fa palpitare in noi. È Lui che ci guida verso l'autentica libertà dei figli, che fa germogliare la vita e la fa crescere, che ogni giorno le conferisce nuovamente significato, facendola circolare nelle nostre "ossa inaridite".

Lasciarsi condurre, dalla forza dello Spirito, nella nostra vita familiare di ogni giorno: quello Spirito che fa intuire connessioni tra ogni verità anche distante e remota, e che fa avvertire ogni piccolo germoglio di errore. Lo Spirito aiuta a scoprire la dinamica dell'amore autentico, e dell'apertura volta a far crescere la persona, e non a portare a esasperazione le sue inquietudini. Lo Spirito Santo è il principio interiore e la forza permanente, la meta ultima della famiglia, che consente di sperimentare il valore della gratuità; come gratuitamente abbiamo ricevuto, così gratuitamente dobbiamo donare. Infine, lo Spirito illumina, come un vero maestro interiore, il significato profondo degli avvenimenti, e spinge le nostre famiglie a diventare compartecipi e testimoni nel mondo contemporaneo, nel servizio e nel rispetto dell'altro uomo. (3 - segue)
 

Quarta parte

Dalla noia alla gioia

La tonalità affettiva dominante nella famiglia conviviale: la ricerca in comune, piena di speranza, della sana realizzazione di ogni partecipante, in un clima di gioia, ravvivato dal profondo convincimento di essere, una volta per tutte, passati dalla rete del peccato, alla gran rete del Signore, Dio di misericordia. Tutto ciò spinge a confidare nelle novità, in ciò che è imprevisto e inedito; il tempo che scorre, a volte con una celerità che ci sorprende, aggiunge aspetti essenziali alla nostra vita, la dilata, conferisce a essa risvolti di profondità, che una coscienza cristiana attenta può gustare, assaporare ogni giorno. A questa dimensione della gioia siamo divenuti tutti troppo disattenti: lo scriveva Luigi Accattoli: si è troppo soddisfatti di una famiglia cristiana che dia garanzie, che manifesti una fedeltà da dovere, grave e seria, e molto meno apprezziamo quei lampi di gioia, o perlomeno di ilarità, che potrebbero essere il contrassegno di un'esistenza cristiana che scorre in profondità. Ci sia più spazio, nella vita di famiglia, per l'umorismo, per quel riso che riapre, come per miracolo, il gran ciclo delta vita; nel riso, si manifesta una qualche nostra risurrezione quotidiana, e si celebra la misericordia del Padre e la grandezza della libertà dell'uomo che, comunque, sovrasta i più minuti eventi quotidiani, solo apparentemente cieca e meccanica necessità. La gioia ci ricorda che il cammino di ogni uomo punta - nella reciprocità - verso il compimento di sé, verso quella completa maturazione che non dovremmo vergognarci -per paura della retorica - di chiamare con l'antico nome: felicità.

Nello spirito conviviale più profondo, predomina la capacità di perdonare: non c'è parola o gesto che non possa venir interpretato nella luce migliore, o possedere delle attenuamento, o aver la possibilità di un giudizio di appello. Infine, deve avere il suo pieno rilievo la puntigliosa, gelosa tutela della festa cristiana. La mensa allargata recupera, al suo cuore, la preghiera comunitaria; mai vendere le feste, soprattutto la Domenica, e la Pasqua in particolare; la gioia è, precisamente, il contenuto e il nucleo generatore della festa. Si tratta di riscoprire il senso profondo della festa in una società in cui si tende a far sempre festa, nel senso di una ricerca - spesso spasmodica ed affannosa - del piacere; la civiltà del fine settimana è una sfida per la domenica cristiana. La famiglia conviviale è testimone della gioia cristiana nel perdono reciproco, nell'accoglienza e nell'accettare le debolezze la vulnerabilità di ognuno. In una parola, riscoprire, attraverso la mente e le emozioni, il dono della gioia che si condivide e che è sempre scambio vicendevole: lo Spirito è in grado di trasformare il piacere dell'orgoglio, e anche la voglia di vendetta, in gioia del perdono, e in quello scambio di benevolenza che ci spinge a riabbracciarsi. (4 - segue)
 

Quinta parte

Per una famiglia ospitale

Mi pare, in definitiva, che si disegni una famiglia ospitale, estrovertita, disponibile al momento educativo, aperta alla partecipazione, e dunque anche alla dimensione politica, che, nell'essenziale, si configura - in un'ottica conviviale - piuttosto come comunicazione che come gestione del potere. Tale concezione della famiglia pare poter reintegrare, in un contesto sociale così mutato, i valori più profondi della cultura contadina; in essi brillava, con semplicità, il senso cristiano dell'ospitalità, intesa come condivisione di quel pane quotidiano che, a volte con poco altro, la Provvidenza consentiva di amministrare. Nella luce di tale prospettiva, l'ospite è uno sconosciuto carico di una forza arcana di novità, è un mistero che proviene, come un'epifania, da una storia diversa e sovrastante; dietro all'ospite, in particolare a quello più bisognoso, si profila il volto stesso di Cristo.

Spesso le figure più eminenti della tradizione religiosa hanno svolto le loro più decisive considerazioni seduti al desco: si ricordino i "discorsi a tavola" di Martin Lutero, attorno alla cui ospitalità si raccoglievano, si calcola, 25-30 ospiti alla volta; i modelli della convivialità - nella Scrittura - sono molteplici, e vanno dal "vitello più grasso" della parabola del figliol prodigo al "vino più buono" delle nozze di Cana, considerando l'eros glorificato del Cantico dei Cantici: un tale itinerario, davvero vertiginoso, insegna - alle famiglie che lo vogliono assimilare - che la coesistenza ha una fondamentale dimensione eucaristica, di rendimento di grazie.

Le tavole degli uomini e delle donne in carne e ossa, più o meno modeste, sono figura del banchetto eucaristico, e tale banchetto è, a sua volta, figura della felicità che non passa, contrappunto del "Sabato eterno". Gesù Cristo è il Dio della felicità, e non si dovrebbero dimenticare le acute osservazioni di Nietzsche circa Dioniso, inconsapevole prefigurazione di Cristo: ambedue sarebbero stati messi a morte per il risentimento covante negli uomini, impauriti da tanta felicità promessa. (5 - segue)
 

Sesta parte

Cenno conclusivo sulla sobrietà

A questo punto, Cristo e Dioniso si separano; il Vangelo fa intuire come ogni gioia sia necessariamente un con-gioire, e come ogni soddisfazione senza gli altri, o contro gli altri - come ad esempio nell'episodio riguardante "il ricco epulone" - sfoci in un'autentica dannazione. Per questa ragione la famiglia deve scegliere uno stile di sobrietà, e deve essere capace di educare all'autolimitazione; nella società dello spreco istituzionalizzato, dello spietato e dimentico "usa e getta", recuperare la distinzione necessaria tra bisogni autentici e desideri illimitati, e perciò sfrenati (si consideri la mentalità consumistica esasperata e la distruzione, a volte sistematica, di risorse noti riproducibili, in un mondo che rapidamente degrada, anche - ma non principalmente! - a causa di una crescita demografica esponenziale).

Occorre diffondere, e testimoniare, una mentalità protesa al controllo e alla canalizzazione del desiderio: c'è bisogno di un rinnovato spirito ascetico, il mondo sarà più giusto quando sarà più casto: capace cioè di un sano decentramento rispetto al condizionamento prepotente della soggettività personale. Ogni famiglia, cooperando a un tale cammino educativo, contribuisce al radicarsi di quell'autentica dimensione di pace che comincia proprio dal primo respiro delle nostre famiglie, da quel sorriso che testimonia che siamo di più di quelle circostanze che ci premono, che siamo di più anche di ciò che ci accade. Una tale dimensione, interiorizzata in ognuno e profondamente consaputa, inizia ad affermarsi, investendo, con onde graduali di propagazione, l'intera società in cui abitiamo, e quella cultura che ci nutre, e che noi, a nostra volta contribuiamo ad alimentare.

Igino Giordani lo ripeteva: "la pace comincia da noi", anzi, potremmo sottolineare, noi stessi dovremmo avere quel sapore persuasivo di pace che possa essere condiviso e gustato da chi incontriamo: responsabilità di ogni persona etica, ma anche dono grazioso di quel Dio "nel quale sono tutte le nostre sorgenti", e che ci ha costituito per quel convito che non tramonta. (6 - fine)

Giuseppe Goisis

Giuseppe Goisis

Docente di Filosofia della politica - Università di Venezia

da "Famiglia domani" 1/2000

Sesta parte

Cenno conclusivo sulla sobrietà

A questo punto, Cristo e Dioniso si separano; il Vangelo fa intuire come ogni gioia sia necessariamente un con-gioire, e come ogni soddisfazione senza gli altri, o contro gli altri - come ad esempio nell'episodio riguardante "il ricco epulone" - sfoci in un'autentica dannazione. Per questa ragione la famiglia deve scegliere uno stile di sobrietà, e deve essere capace di educare all'autolimitazione; nella società dello spreco istituzionalizzato, dello spietato e dimentico "usa e getta", recuperare la distinzione necessaria tra bisogni autentici e desideri illimitati, e perciò sfrenati (si consideri la mentalità consumistica esasperata e la distruzione, a volte sistematica, di risorse noti riproducibili, in un mondo che rapidamente degrada, anche - ma non principalmente! - a causa di una crescita demografica esponenziale).

Occorre diffondere, e testimoniare, una mentalità protesa al controllo e alla canalizzazione del desiderio: c'è bisogno di un rinnovato spirito ascetico, il mondo sarà più giusto quando sarà più casto: capace cioè di un sano decentramento rispetto al condizionamento prepotente della soggettività personale. Ogni famiglia, cooperando a un tale cammino educativo, contribuisce al radicarsi di quell'autentica dimensione di pace che comincia proprio dal primo respiro delle nostre famiglie, da quel sorriso che testimonia che siamo di più di quelle circostanze che ci premono, che siamo di più anche di ciò che ci accade. Una tale dimensione, interiorizzata in ognuno e profondamente consaputa, inizia ad affermarsi, investendo, con onde graduali di propagazione, l'intera società in cui abitiamo, e quella cultura che ci nutre, e che noi, a nostra volta contribuiamo ad alimentare.

Igino Giordani lo ripeteva: "la pace comincia da noi", anzi, potremmo sottolineare, noi stessi dovremmo avere quel sapore persuasivo di pace che possa essere condiviso e gustato da chi incontriamo: responsabilità di ogni persona etica, ma anche dono grazioso di quel Dio "nel quale sono tutte le nostre sorgenti", e che ci ha costituito per quel convito che non tramonta. (6 - fine)

Giuseppe Goisis

Giuseppe Goisis

Docente di Filosofia della politica - Università di Venezia

da "Famiglia domani" 1/2000

Quinta parte

Per una famiglia ospitale

Mi pare, in definitiva, che si disegni una famiglia ospitale, estrovertita, disponibile al momento educativo, aperta alla partecipazione, e dunque anche alla dimensione politica, che, nell'essenziale, si configura - in un'ottica conviviale - piuttosto come comunicazione che come gestione del potere. Tale concezione della famiglia pare poter reintegrare, in un contesto sociale così mutato, i valori più profondi della cultura contadina; in essi brillava, con semplicità, il senso cristiano dell'ospitalità, intesa come condivisione di quel pane quotidiano che, a volte con poco altro, la Provvidenza consentiva di amministrare. Nella luce di tale prospettiva, l'ospite è uno sconosciuto carico di una forza arcana di novità, è un mistero che proviene, come un'epifania, da una storia diversa e sovrastante; dietro all'ospite, in particolare a quello più bisognoso, si profila il volto stesso di Cristo.

Spesso le figure più eminenti della tradizione religiosa hanno svolto le loro più decisive considerazioni seduti al desco: si ricordino i "discorsi a tavola" di Martin Lutero, attorno alla cui ospitalità si raccoglievano, si calcola, 25-30 ospiti alla volta; i modelli della convivialità - nella Scrittura - sono molteplici, e vanno dal "vitello più grasso" della parabola del figliol prodigo al "vino più buono" delle nozze di Cana, considerando l'eros glorificato del Cantico dei Cantici: un tale itinerario, davvero vertiginoso, insegna - alle famiglie che lo vogliono assimilare - che la coesistenza ha una fondamentale dimensione eucaristica, di rendimento di grazie.

Le tavole degli uomini e delle donne in carne e ossa, più o meno modeste, sono figura del banchetto eucaristico, e tale banchetto è, a sua volta, figura della felicità che non passa, contrappunto del "Sabato eterno". Gesù Cristo è il Dio della felicità, e non si dovrebbero dimenticare le acute osservazioni di Nietzsche circa Dioniso, inconsapevole prefigurazione di Cristo: ambedue sarebbero stati messi a morte per il risentimento covante negli uomini, impauriti da tanta felicità promessa. (5 - segue)
 

Sesta parte

Cenno conclusivo sulla sobrietà

A questo punto, Cristo e Dioniso si separano; il Vangelo fa intuire come ogni gioia sia necessariamente un con-gioire, e come ogni soddisfazione senza gli altri, o contro gli altri - come ad esempio nell'episodio riguardante "il ricco epulone" - sfoci in un'autentica dannazione. Per questa ragione la famiglia deve scegliere uno stile di sobrietà, e deve essere capace di educare all'autolimitazione; nella società dello spreco istituzionalizzato, dello spietato e dimentico "usa e getta", recuperare la distinzione necessaria tra bisogni autentici e desideri illimitati, e perciò sfrenati (si consideri la mentalità consumistica esasperata e la distruzione, a volte sistematica, di risorse noti riproducibili, in un mondo che rapidamente degrada, anche - ma non principalmente! - a causa di una crescita demografica esponenziale).

Occorre diffondere, e testimoniare, una mentalità protesa al controllo e alla canalizzazione del desiderio: c'è bisogno di un rinnovato spirito ascetico, il mondo sarà più giusto quando sarà più casto: capace cioè di un sano decentramento rispetto al condizionamento prepotente della soggettività personale. Ogni famiglia, cooperando a un tale cammino educativo, contribuisce al radicarsi di quell'autentica dimensione di pace che comincia proprio dal primo respiro delle nostre famiglie, da quel sorriso che testimonia che siamo di più di quelle circostanze che ci premono, che siamo di più anche di ciò che ci accade. Una tale dimensione, interiorizzata in ognuno e profondamente consaputa, inizia ad affermarsi, investendo, con onde graduali di propagazione, l'intera società in cui abitiamo, e quella cultura che ci nutre, e che noi, a nostra volta contribuiamo ad alimentare.

Igino Giordani lo ripeteva: "la pace comincia da noi", anzi, potremmo sottolineare, noi stessi dovremmo avere quel sapore persuasivo di pace che possa essere condiviso e gustato da chi incontriamo: responsabilità di ogni persona etica, ma anche dono grazioso di quel Dio "nel quale sono tutte le nostre sorgenti", e che ci ha costituito per quel convito che non tramonta. (6 - fine)

Giuseppe Goisis

Giuseppe Goisis

Docente di Filosofia della politica - Università di Venezia

da "Famiglia domani" 1/2000

Sesta parte

Cenno conclusivo sulla sobrietà

A questo punto, Cristo e Dioniso si separano; il Vangelo fa intuire come ogni gioia sia necessariamente un con-gioire, e come ogni soddisfazione senza gli altri, o contro gli altri - come ad esempio nell'episodio riguardante "il ricco epulone" - sfoci in un'autentica dannazione. Per questa ragione la famiglia deve scegliere uno stile di sobrietà, e deve essere capace di educare all'autolimitazione; nella società dello spreco istituzionalizzato, dello spietato e dimentico "usa e getta", recuperare la distinzione necessaria tra bisogni autentici e desideri illimitati, e perciò sfrenati (si consideri la mentalità consumistica esasperata e la distruzione, a volte sistematica, di risorse noti riproducibili, in un mondo che rapidamente degrada, anche - ma non principalmente! - a causa di una crescita demografica esponenziale).

Occorre diffondere, e testimoniare, una mentalità protesa al controllo e alla canalizzazione del desiderio: c'è bisogno di un rinnovato spirito ascetico, il mondo sarà più giusto quando sarà più casto: capace cioè di un sano decentramento rispetto al condizionamento prepotente della soggettività personale. Ogni famiglia, cooperando a un tale cammino educativo, contribuisce al radicarsi di quell'autentica dimensione di pace che comincia proprio dal primo respiro delle nostre famiglie, da quel sorriso che testimonia che siamo di più di quelle circostanze che ci premono, che siamo di più anche di ciò che ci accade. Una tale dimensione, interiorizzata in ognuno e profondamente consaputa, inizia ad affermarsi, investendo, con onde graduali di propagazione, l'intera società in cui abitiamo, e quella cultura che ci nutre, e che noi, a nostra volta contribuiamo ad alimentare.

Igino Giordani lo ripeteva: "la pace comincia da noi", anzi, potremmo sottolineare, noi stessi dovremmo avere quel sapore persuasivo di pace che possa essere condiviso e gustato da chi incontriamo: responsabilità di ogni persona etica, ma anche dono grazioso di quel Dio "nel quale sono tutte le nostre sorgenti", e che ci ha costituito per quel convito che non tramonta. (6 - fine)

Giuseppe Goisis

Giuseppe Goisis

Docente di Filosofia della politica - Università di Venezia

da "Famiglia domani" 1/2000

Quarta parte

Dalla noia alla gioia

La tonalità affettiva dominante nella famiglia conviviale: la ricerca in comune, piena di speranza, della sana realizzazione di ogni partecipante, in un clima di gioia, ravvivato dal profondo convincimento di essere, una volta per tutte, passati dalla rete del peccato, alla gran rete del Signore, Dio di misericordia. Tutto ciò spinge a confidare nelle novità, in ciò che è imprevisto e inedito; il tempo che scorre, a volte con una celerità che ci sorprende, aggiunge aspetti essenziali alla nostra vita, la dilata, conferisce a essa risvolti di profondità, che una coscienza cristiana attenta può gustare, assaporare ogni giorno. A questa dimensione della gioia siamo divenuti tutti troppo disattenti: lo scriveva Luigi Accattoli: si è troppo soddisfatti di una famiglia cristiana che dia garanzie, che manifesti una fedeltà da dovere, grave e seria, e molto meno apprezziamo quei lampi di gioia, o perlomeno di ilarità, che potrebbero essere il contrassegno di un'esistenza cristiana che scorre in profondità. Ci sia più spazio, nella vita di famiglia, per l'umorismo, per quel riso che riapre, come per miracolo, il gran ciclo delta vita; nel riso, si manifesta una qualche nostra risurrezione quotidiana, e si celebra la misericordia del Padre e la grandezza della libertà dell'uomo che, comunque, sovrasta i più minuti eventi quotidiani, solo apparentemente cieca e meccanica necessità. La gioia ci ricorda che il cammino di ogni uomo punta - nella reciprocità - verso il compimento di sé, verso quella completa maturazione che non dovremmo vergognarci -per paura della retorica - di chiamare con l'antico nome: felicità.

Nello spirito conviviale più profondo, predomina la capacità di perdonare: non c'è parola o gesto che non possa venir interpretato nella luce migliore, o possedere delle attenuamento, o aver la possibilità di un giudizio di appello. Infine, deve avere il suo pieno rilievo la puntigliosa, gelosa tutela della festa cristiana. La mensa allargata recupera, al suo cuore, la preghiera comunitaria; mai vendere le feste, soprattutto la Domenica, e la Pasqua in particolare; la gioia è, precisamente, il contenuto e il nucleo generatore della festa. Si tratta di riscoprire il senso profondo della festa in una società in cui si tende a far sempre festa, nel senso di una ricerca - spesso spasmodica ed affannosa - del piacere; la civiltà del fine settimana è una sfida per la domenica cristiana. La famiglia conviviale è testimone della gioia cristiana nel perdono reciproco, nell'accoglienza e nell'accettare le debolezze la vulnerabilità di ognuno. In una parola, riscoprire, attraverso la mente e le emozioni, il dono della gioia che si condivide e che è sempre scambio vicendevole: lo Spirito è in grado di trasformare il piacere dell'orgoglio, e anche la voglia di vendetta, in gioia del perdono, e in quello scambio di benevolenza che ci spinge a riabbracciarsi. (4 - segue)
 

Quinta parte

Per una famiglia ospitale

Mi pare, in definitiva, che si disegni una famiglia ospitale, estrovertita, disponibile al momento educativo, aperta alla partecipazione, e dunque anche alla dimensione politica, che, nell'essenziale, si configura - in un'ottica conviviale - piuttosto come comunicazione che come gestione del potere. Tale concezione della famiglia pare poter reintegrare, in un contesto sociale così mutato, i valori più profondi della cultura contadina; in essi brillava, con semplicità, il senso cristiano dell'ospitalità, intesa come condivisione di quel pane quotidiano che, a volte con poco altro, la Provvidenza consentiva di amministrare. Nella luce di tale prospettiva, l'ospite è uno sconosciuto carico di una forza arcana di novità, è un mistero che proviene, come un'epifania, da una storia diversa e sovrastante; dietro all'ospite, in particolare a quello più bisognoso, si profila il volto stesso di Cristo.

Spesso le figure più eminenti della tradizione religiosa hanno svolto le loro più decisive considerazioni seduti al desco: si ricordino i "discorsi a tavola" di Martin Lutero, attorno alla cui ospitalità si raccoglievano, si calcola, 25-30 ospiti alla volta; i modelli della convivialità - nella Scrittura - sono molteplici, e vanno dal "vitello più grasso" della parabola del figliol prodigo al "vino più buono" delle nozze di Cana, considerando l'eros glorificato del Cantico dei Cantici: un tale itinerario, davvero vertiginoso, insegna - alle famiglie che lo vogliono assimilare - che la coesistenza ha una fondamentale dimensione eucaristica, di rendimento di grazie.

Le tavole degli uomini e delle donne in carne e ossa, più o meno modeste, sono figura del banchetto eucaristico, e tale banchetto è, a sua volta, figura della felicità che non passa, contrappunto del "Sabato eterno". Gesù Cristo è il Dio della felicità, e non si dovrebbero dimenticare le acute osservazioni di Nietzsche circa Dioniso, inconsapevole prefigurazione di Cristo: ambedue sarebbero stati messi a morte per il risentimento covante negli uomini, impauriti da tanta felicità promessa. (5 - segue)
 

Sesta parte

Cenno conclusivo sulla sobrietà

A questo punto, Cristo e Dioniso si separano; il Vangelo fa intuire come ogni gioia sia necessariamente un con-gioire, e come ogni soddisfazione senza gli altri, o contro gli altri - come ad esempio nell'episodio riguardante "il ricco epulone" - sfoci in un'autentica dannazione. Per questa ragione la famiglia deve scegliere uno stile di sobrietà, e deve essere capace di educare all'autolimitazione; nella società dello spreco istituzionalizzato, dello spietato e dimentico "usa e getta", recuperare la distinzione necessaria tra bisogni autentici e desideri illimitati, e perciò sfrenati (si consideri la mentalità consumistica esasperata e la distruzione, a volte sistematica, di risorse noti riproducibili, in un mondo che rapidamente degrada, anche - ma non principalmente! - a causa di una crescita demografica esponenziale).

Occorre diffondere, e testimoniare, una mentalità protesa al controllo e alla canalizzazione del desiderio: c'è bisogno di un rinnovato spirito ascetico, il mondo sarà più giusto quando sarà più casto: capace cioè di un sano decentramento rispetto al condizionamento prepotente della soggettività personale. Ogni famiglia, cooperando a un tale cammino educativo, contribuisce al radicarsi di quell'autentica dimensione di pace che comincia proprio dal primo respiro delle nostre famiglie, da quel sorriso che testimonia che siamo di più di quelle circostanze che ci premono, che siamo di più anche di ciò che ci accade. Una tale dimensione, interiorizzata in ognuno e profondamente consaputa, inizia ad affermarsi, investendo, con onde graduali di propagazione, l'intera società in cui abitiamo, e quella cultura che ci nutre, e che noi, a nostra volta contribuiamo ad alimentare.

Igino Giordani lo ripeteva: "la pace comincia da noi", anzi, potremmo sottolineare, noi stessi dovremmo avere quel sapore persuasivo di pace che possa essere condiviso e gustato da chi incontriamo: responsabilità di ogni persona etica, ma anche dono grazioso di quel Dio "nel quale sono tutte le nostre sorgenti", e che ci ha costituito per quel convito che non tramonta. (6 - fine)

Giuseppe Goisis

Giuseppe Goisis

Docente di Filosofia della politica - Università di Venezia

da "Famiglia domani" 1/2000

Sesta parte

Cenno conclusivo sulla sobrietà

A questo punto, Cristo e Dioniso si separano; il Vangelo fa intuire come ogni gioia sia necessariamente un con-gioire, e come ogni soddisfazione senza gli altri, o contro gli altri - come ad esempio nell'episodio riguardante "il ricco epulone" - sfoci in un'autentica dannazione. Per questa ragione la famiglia deve scegliere uno stile di sobrietà, e deve essere capace di educare all'autolimitazione; nella società dello spreco istituzionalizzato, dello spietato e dimentico "usa e getta", recuperare la distinzione necessaria tra bisogni autentici e desideri illimitati, e perciò sfrenati (si consideri la mentalità consumistica esasperata e la distruzione, a volte sistematica, di risorse noti riproducibili, in un mondo che rapidamente degrada, anche - ma non principalmente! - a causa di una crescita demografica esponenziale).

Occorre diffondere, e testimoniare, una mentalità protesa al controllo e alla canalizzazione del desiderio: c'è bisogno di un rinnovato spirito ascetico, il mondo sarà più giusto quando sarà più casto: capace cioè di un sano decentramento rispetto al condizionamento prepotente della soggettività personale. Ogni famiglia, cooperando a un tale cammino educativo, contribuisce al radicarsi di quell'autentica dimensione di pace che comincia proprio dal primo respiro delle nostre famiglie, da quel sorriso che testimonia che siamo di più di quelle circostanze che ci premono, che siamo di più anche di ciò che ci accade. Una tale dimensione, interiorizzata in ognuno e profondamente consaputa, inizia ad affermarsi, investendo, con onde graduali di propagazione, l'intera società in cui abitiamo, e quella cultura che ci nutre, e che noi, a nostra volta contribuiamo ad alimentare.

Igino Giordani lo ripeteva: "la pace comincia da noi", anzi, potremmo sottolineare, noi stessi dovremmo avere quel sapore persuasivo di pace che possa essere condiviso e gustato da chi incontriamo: responsabilità di ogni persona etica, ma anche dono grazioso di quel Dio "nel quale sono tutte le nostre sorgenti", e che ci ha costituito per quel convito che non tramonta. (6 - fine)

Giuseppe Goisis

Giuseppe Goisis

Docente di Filosofia della politica - Università di Venezia

da "Famiglia domani" 1/2000

Quinta parte

Per una famiglia ospitale

Mi pare, in definitiva, che si disegni una famiglia ospitale, estrovertita, disponibile al momento educativo, aperta alla partecipazione, e dunque anche alla dimensione politica, che, nell'essenziale, si configura - in un'ottica conviviale - piuttosto come comunicazione che come gestione del potere. Tale concezione della famiglia pare poter reintegrare, in un contesto sociale così mutato, i valori più profondi della cultura contadina; in essi brillava, con semplicità, il senso cristiano dell'ospitalità, intesa come condivisione di quel pane quotidiano che, a volte con poco altro, la Provvidenza consentiva di amministrare. Nella luce di tale prospettiva, l'ospite è uno sconosciuto carico di una forza arcana di novità, è un mistero che proviene, come un'epifania, da una storia diversa e sovrastante; dietro all'ospite, in particolare a quello più bisognoso, si profila il volto stesso di Cristo.

Spesso le figure più eminenti della tradizione religiosa hanno svolto le loro più decisive considerazioni seduti al desco: si ricordino i "discorsi a tavola" di Martin Lutero, attorno alla cui ospitalità si raccoglievano, si calcola, 25-30 ospiti alla volta; i modelli della convivialità - nella Scrittura - sono molteplici, e vanno dal "vitello più grasso" della parabola del figliol prodigo al "vino più buono" delle nozze di Cana, considerando l'eros glorificato del Cantico dei Cantici: un tale itinerario, davvero vertiginoso, insegna - alle famiglie che lo vogliono assimilare - che la coesistenza ha una fondamentale dimensione eucaristica, di rendimento di grazie.

Le tavole degli uomini e delle donne in carne e ossa, più o meno modeste, sono figura del banchetto eucaristico, e tale banchetto è, a sua volta, figura della felicità che non passa, contrappunto del "Sabato eterno". Gesù Cristo è il Dio della felicità, e non si dovrebbero dimenticare le acute osservazioni di Nietzsche circa Dioniso, inconsapevole prefigurazione di Cristo: ambedue sarebbero stati messi a morte per il risentimento covante negli uomini, impauriti da tanta felicità promessa. (5 - segue)
 

Sesta parte

Cenno conclusivo sulla sobrietà

A questo punto, Cristo e Dioniso si separano; il Vangelo fa intuire come ogni gioia sia necessariamente un con-gioire, e come ogni soddisfazione senza gli altri, o contro gli altri - come ad esempio nell'episodio riguardante "il ricco epulone" - sfoci in un'autentica dannazione. Per questa ragione la famiglia deve scegliere uno stile di sobrietà, e deve essere capace di educare all'autolimitazione; nella società dello spreco istituzionalizzato, dello spietato e dimentico "usa e getta", recuperare la distinzione necessaria tra bisogni autentici e desideri illimitati, e perciò sfrenati (si consideri la mentalità consumistica esasperata e la distruzione, a volte sistematica, di risorse noti riproducibili, in un mondo che rapidamente degrada, anche - ma non principalmente! - a causa di una crescita demografica esponenziale).

Occorre diffondere, e testimoniare, una mentalità protesa al controllo e alla canalizzazione del desiderio: c'è bisogno di un rinnovato spirito ascetico, il mondo sarà più giusto quando sarà più casto: capace cioè di un sano decentramento rispetto al condizionamento prepotente della soggettività personale. Ogni famiglia, cooperando a un tale cammino educativo, contribuisce al radicarsi di quell'autentica dimensione di pace che comincia proprio dal primo respiro delle nostre famiglie, da quel sorriso che testimonia che siamo di più di quelle circostanze che ci premono, che siamo di più anche di ciò che ci accade. Una tale dimensione, interiorizzata in ognuno e profondamente consaputa, inizia ad affermarsi, investendo, con onde graduali di propagazione, l'intera società in cui abitiamo, e quella cultura che ci nutre, e che noi, a nostra volta contribuiamo ad alimentare.

Igino Giordani lo ripeteva: "la pace comincia da noi", anzi, potremmo sottolineare, noi stessi dovremmo avere quel sapore persuasivo di pace che possa essere condiviso e gustato da chi incontriamo: responsabilità di ogni persona etica, ma anche dono grazioso di quel Dio "nel quale sono tutte le nostre sorgenti", e che ci ha costituito per quel convito che non tramonta. (6 - fine)

Giuseppe Goisis

Giuseppe Goisis

Docente di Filosofia della politica - Università di Venezia

da "Famiglia domani" 1/2000

Sesta parte

Cenno conclusivo sulla sobrietà

A questo punto, Cristo e Dioniso si separano; il Vangelo fa intuire come ogni gioia sia necessariamente un con-gioire, e come ogni soddisfazione senza gli altri, o contro gli altri - come ad esempio nell'episodio riguardante "il ricco epulone" - sfoci in un'autentica dannazione. Per questa ragione la famiglia deve scegliere uno stile di sobrietà, e deve essere capace di educare all'autolimitazione; nella società dello spreco istituzionalizzato, dello spietato e dimentico "usa e getta", recuperare la distinzione necessaria tra bisogni autentici e desideri illimitati, e perciò sfrenati (si consideri la mentalità consumistica esasperata e la distruzione, a volte sistematica, di risorse noti riproducibili, in un mondo che rapidamente degrada, anche - ma non principalmente! - a causa di una crescita demografica esponenziale).

Occorre diffondere, e testimoniare, una mentalità protesa al controllo e alla canalizzazione del desiderio: c'è bisogno di un rinnovato spirito ascetico, il mondo sarà più giusto quando sarà più casto: capace cioè di un sano decentramento rispetto al condizionamento prepotente della soggettività personale. Ogni famiglia, cooperando a un tale cammino educativo, contribuisce al radicarsi di quell'autentica dimensione di pace che comincia proprio dal primo respiro delle nostre famiglie, da quel sorriso che testimonia che siamo di più di quelle circostanze che ci premono, che siamo di più anche di ciò che ci accade. Una tale dimensione, interiorizzata in ognuno e profondamente consaputa, inizia ad affermarsi, investendo, con onde graduali di propagazione, l'intera società in cui abitiamo, e quella cultura che ci nutre, e che noi, a nostra volta contribuiamo ad alimentare.

Igino Giordani lo ripeteva: "la pace comincia da noi", anzi, potremmo sottolineare, noi stessi dovremmo avere quel sapore persuasivo di pace che possa essere condiviso e gustato da chi incontriamo: responsabilità di ogni persona etica, ma anche dono grazioso di quel Dio "nel quale sono tutte le nostre sorgenti", e che ci ha costituito per quel convito che non tramonta. (6 - fine)

Giuseppe Goisis

Giuseppe Goisis

Docente di Filosofia della politica - Università di Venezia

da "Famiglia domani" 1/2000

Terza parte

Lasciarsi condurre dallo Spirito

La famiglia, in una prospettiva conviviale e personalista, non è un'istituzione come le altre; non è una società fondata su mutui diritti, come una certa tradizione stancamente ripete, e non è neppure fondata sul produrre e sull'avere (famiglia come impresa e famiglia come salvadanaio). Il mero interesse è un vincolo troppo debole, e il salvadanaio, quando non serve più, si rompe brutalmente: ma le persone sono corpo di carne, e sanguinano anche negli affetti e nelle emozioni. Noti nego che in qualche tempo, in qualche luogo (per esempio, nel mio Veneto) si siano sovrapposti sulla famiglia i valori aggiunti del lavoro e del guadagno, che la compattezza del nucleo familiare pare garantire al meglio; ma tutto il problema consiste nel capire se queste dimensioni, per quanto importanti, sono sopraggiunte a irrobustire un nocciolo che ha ben altra origine e legittimazione... In una parola, penso che la scaturigine della famiglia stia nelle dimensioni dell'essere e dell'amore; nella prospettiva che tali radici indicano, all'assimilazione forzata si sostituiscono cammini d'integrazione armonica, con la solidarietà e l'attenzione assidua - anche se spesso silenziosa - verso i membri più deboli, avvertiti immediatamente con quel cuore più grande, con quella dilatazione del cuore che lo Spirito stesso fa palpitare in noi. È Lui che ci guida verso l'autentica libertà dei figli, che fa germogliare la vita e la fa crescere, che ogni giorno le conferisce nuovamente significato, facendola circolare nelle nostre "ossa inaridite".

Lasciarsi condurre, dalla forza dello Spirito, nella nostra vita familiare di ogni giorno: quello Spirito che fa intuire connessioni tra ogni verità anche distante e remota, e che fa avvertire ogni piccolo germoglio di errore. Lo Spirito aiuta a scoprire la dinamica dell'amore autentico, e dell'apertura volta a far crescere la persona, e non a portare a esasperazione le sue inquietudini. Lo Spirito Santo è il principio interiore e la forza permanente, la meta ultima della famiglia, che consente di sperimentare il valore della gratuità; come gratuitamente abbiamo ricevuto, così gratuitamente dobbiamo donare. Infine, lo Spirito illumina, come un vero maestro interiore, il significato profondo degli avvenimenti, e spinge le nostre famiglie a diventare compartecipi e testimoni nel mondo contemporaneo, nel servizio e nel rispetto dell'altro uomo. (3 - segue)
 

Quarta parte

Dalla noia alla gioia

La tonalità affettiva dominante nella famiglia conviviale: la ricerca in comune, piena di speranza, della sana realizzazione di ogni partecipante, in un clima di gioia, ravvivato dal profondo convincimento di essere, una volta per tutte, passati dalla rete del peccato, alla gran rete del Signore, Dio di misericordia. Tutto ciò spinge a confidare nelle novità, in ciò che è imprevisto e inedito; il tempo che scorre, a volte con una celerità che ci sorprende, aggiunge aspetti essenziali alla nostra vita, la dilata, conferisce a essa risvolti di profondità, che una coscienza cristiana attenta può gustare, assaporare ogni giorno. A questa dimensione della gioia siamo divenuti tutti troppo disattenti: lo scriveva Luigi Accattoli: si è troppo soddisfatti di una famiglia cristiana che dia garanzie, che manifesti una fedeltà da dovere, grave e seria, e molto meno apprezziamo quei lampi di gioia, o perlomeno di ilarità, che potrebbero essere il contrassegno di un'esistenza cristiana che scorre in profondità. Ci sia più spazio, nella vita di famiglia, per l'umorismo, per quel riso che riapre, come per miracolo, il gran ciclo delta vita; nel riso, si manifesta una qualche nostra risurrezione quotidiana, e si celebra la misericordia del Padre e la grandezza della libertà dell'uomo che, comunque, sovrasta i più minuti eventi quotidiani, solo apparentemente cieca e meccanica necessità. La gioia ci ricorda che il cammino di ogni uomo punta - nella reciprocità - verso il compimento di sé, verso quella completa maturazione che non dovremmo vergognarci -per paura della retorica - di chiamare con l'antico nome: felicità.

Nello spirito conviviale più profondo, predomina la capacità di perdonare: non c'è parola o gesto che non possa venir interpretato nella luce migliore, o possedere delle attenuamento, o aver la possibilità di un giudizio di appello. Infine, deve avere il suo pieno rilievo la puntigliosa, gelosa tutela della festa cristiana. La mensa allargata recupera, al suo cuore, la preghiera comunitaria; mai vendere le feste, soprattutto la Domenica, e la Pasqua in particolare; la gioia è, precisamente, il contenuto e il nucleo generatore della festa. Si tratta di riscoprire il senso profondo della festa in una società in cui si tende a far sempre festa, nel senso di una ricerca - spesso spasmodica ed affannosa - del piacere; la civiltà del fine settimana è una sfida per la domenica cristiana. La famiglia conviviale è testimone della gioia cristiana nel perdono reciproco, nell'accoglienza e nell'accettare le debolezze la vulnerabilità di ognuno. In una parola, riscoprire, attraverso la mente e le emozioni, il dono della gioia che si condivide e che è sempre scambio vicendevole: lo Spirito è in grado di trasformare il piacere dell'orgoglio, e anche la voglia di vendetta, in gioia del perdono, e in quello scambio di benevolenza che ci spinge a riabbracciarsi. (4 - segue)
 

Quinta parte

Per una famiglia ospitale

Mi pare, in definitiva, che si disegni una famiglia ospitale, estrovertita, disponibile al momento educativo, aperta alla partecipazione, e dunque anche alla dimensione politica, che, nell'essenziale, si configura - in un'ottica conviviale - piuttosto come comunicazione che come gestione del potere. Tale concezione della famiglia pare poter reintegrare, in un contesto sociale così mutato, i valori più profondi della cultura contadina; in essi brillava, con semplicità, il senso cristiano dell'ospitalità, intesa come condivisione di quel pane quotidiano che, a volte con poco altro, la Provvidenza consentiva di amministrare. Nella luce di tale prospettiva, l'ospite è uno sconosciuto carico di una forza arcana di novità, è un mistero che proviene, come un'epifania, da una storia diversa e sovrastante; dietro all'ospite, in particolare a quello più bisognoso, si profila il volto stesso di Cristo.

Spesso le figure più eminenti della tradizione religiosa hanno svolto le loro più decisive considerazioni seduti al desco: si ricordino i "discorsi a tavola" di Martin Lutero, attorno alla cui ospitalità si raccoglievano, si calcola, 25-30 ospiti alla volta; i modelli della convivialità - nella Scrittura - sono molteplici, e vanno dal "vitello più grasso" della parabola del figliol prodigo al "vino più buono" delle nozze di Cana, considerando l'eros glorificato del Cantico dei Cantici: un tale itinerario, davvero vertiginoso, insegna - alle famiglie che lo vogliono assimilare - che la coesistenza ha una fondamentale dimensione eucaristica, di rendimento di grazie.

Le tavole degli uomini e delle donne in carne e ossa, più o meno modeste, sono figura del banchetto eucaristico, e tale banchetto è, a sua volta, figura della felicità che non passa, contrappunto del "Sabato eterno". Gesù Cristo è il Dio della felicità, e non si dovrebbero dimenticare le acute osservazioni di Nietzsche circa Dioniso, inconsapevole prefigurazione di Cristo: ambedue sarebbero stati messi a morte per il risentimento covante negli uomini, impauriti da tanta felicità promessa. (5 - segue)
 

Sesta parte

Cenno conclusivo sulla sobrietà

A questo punto, Cristo e Dioniso si separano; il Vangelo fa intuire come ogni gioia sia necessariamente un con-gioire, e come ogni soddisfazione senza gli altri, o contro gli altri - come ad esempio nell'episodio riguardante "il ricco epulone" - sfoci in un'autentica dannazione. Per questa ragione la famiglia deve scegliere uno stile di sobrietà, e deve essere capace di educare all'autolimitazione; nella società dello spreco istituzionalizzato, dello spietato e dimentico "usa e getta", recuperare la distinzione necessaria tra bisogni autentici e desideri illimitati, e perciò sfrenati (si consideri la mentalità consumistica esasperata e la distruzione, a volte sistematica, di risorse noti riproducibili, in un mondo che rapidamente degrada, anche - ma non principalmente! - a causa di una crescita demografica esponenziale).

Occorre diffondere, e testimoniare, una mentalità protesa al controllo e alla canalizzazione del desiderio: c'è bisogno di un rinnovato spirito ascetico, il mondo sarà più giusto quando sarà più casto: capace cioè di un sano decentramento rispetto al condizionamento prepotente della soggettività personale. Ogni famiglia, cooperando a un tale cammino educativo, contribuisce al radicarsi di quell'autentica dimensione di pace che comincia proprio dal primo respiro delle nostre famiglie, da quel sorriso che testimonia che siamo di più di quelle circostanze che ci premono, che siamo di più anche di ciò che ci accade. Una tale dimensione, interiorizzata in ognuno e profondamente consaputa, inizia ad affermarsi, investendo, con onde graduali di propagazione, l'intera società in cui abitiamo, e quella cultura che ci nutre, e che noi, a nostra volta contribuiamo ad alimentare.

Igino Giordani lo ripeteva: "la pace comincia da noi", anzi, potremmo sottolineare, noi stessi dovremmo avere quel sapore persuasivo di pace che possa essere condiviso e gustato da chi incontriamo: responsabilità di ogni persona etica, ma anche dono grazioso di quel Dio "nel quale sono tutte le nostre sorgenti", e che ci ha costituito per quel convito che non tramonta. (6 - fine)

Giuseppe Goisis

Giuseppe Goisis

Docente di Filosofia della politica - Università di Venezia

da "Famiglia domani" 1/2000

Sesta parte

Cenno conclusivo sulla sobrietà

A questo punto, Cristo e Dioniso si separano; il Vangelo fa intuire come ogni gioia sia necessariamente un con-gioire, e come ogni soddisfazione senza gli altri, o contro gli altri - come ad esempio nell'episodio riguardante "il ricco epulone" - sfoci in un'autentica dannazione. Per questa ragione la famiglia deve scegliere uno stile di sobrietà, e deve essere capace di educare all'autolimitazione; nella società dello spreco istituzionalizzato, dello spietato e dimentico "usa e getta", recuperare la distinzione necessaria tra bisogni autentici e desideri illimitati, e perciò sfrenati (si consideri la mentalità consumistica esasperata e la distruzione, a volte sistematica, di risorse noti riproducibili, in un mondo che rapidamente degrada, anche - ma non principalmente! - a causa di una crescita demografica esponenziale).

Occorre diffondere, e testimoniare, una mentalità protesa al controllo e alla canalizzazione del desiderio: c'è bisogno di un r

Pubblicato in Spiritualità Familiare