Ma Paul Ricoeur giustamente osserva che si sente oggi il bisogno di passare "dal fantasma del apdre al simbolo della paternità" perché il ciclo di una cultura senza padre appare incapace di trattenere gli uomini dalla deriva. Forse abbiamo toccato il punto zero della figura del padre, ma questa, sempre secondo Ricoeur, è la condizione necessaria per osare infine invocare nuovamente, nella libertà e spinti dall’amore, Dio come Padre.
Questo cammino di riscoperta del padre (con l’iniziale minuscola, nel quotidiano, nelle generazioni) e di ritorno al Padre (con l’iniziale maiuscola) non è però automatico e non può obbedire semplicemente a una reazione o una nostalgia: va operato, ma con discernimento. Si potrebbe dimenticare che in realtà, a causa di nuove tecnologie procreative e di una mancanza di etica della generazione, il padre è addirittura diventato inutile, soppiantabile dal maschio fornitore di seme, e che il generare figli è a intera, autonoma disposizione dei desideri materni? Si potrebbe dimenticare che in quest’epoca di crescita della religione, di uno spiritualismo regressivo e narcisista si cerca di rigettare l’alterità di Dio, dunque la "santità" di un Dio personale che proprio per questo si chiama Padre? Si potrebbe dimenticare che la pretesa di un linguaggio inclusivo, che vorrebbe chiamare Dio "Madre", induce a confondere Dio con l’inconscia nostalgia del seno materno? Molti atteggiamenti religiosi oggi diffusi anche all’interno della comunità cristiana rispecchiano "una voracità religiosa" che ricerca la fusione con il divino, che ha sete di miracoli e di segni straordinari. Sì, siamo di fronte a uno spiritualismo senza oggettività in cui si confonde lo psicologico con lo spirituale, il simbiotico con il simbolico, il calore affettivo del piccolo gruppo o l’entusiasmo condiviso in grandi raduni con la profondità dell’esperienza religiosa: sensazioni e mozioni finiscono per rappresentare l’autenticità dell’esperienza di Dio e così prevale un atteggiamento definibile "a struttura simbolica materna" (Tony Anatrella). Lo stesso rapporto con Dio è vissuto in modo infantile, non attraverso le parole dell’alleanza nell’alterità, bensì attraverso contatti sensazionali e comunicazioni che tendono a una fusione rassicurante e protettiva da prolungarsi indefinitamente. Dio è spersonalizzato, non è più "Altro, tre volte Santo" ma è "energia cosmica", "oceano dell’essere", è la grande madre in cui tutto rifluisce perché il tempo è un aeternum continuum che non conosce inizio né fine. Così si rinuncia a Dio come interlocutore, si rinuncia a invocarlo dandogli del "tu" e, di conseguenza, si rinuncia a cogliere se stessi come partner di Dio in un’alleanza che pone l’uomo nella storia, rendendolo creatura responsabile nel cosmo e di fronte a Dio.
La relazione con il Dio degli ebrei e dei cristiani - che prima di essere invocato come "Dio Padre" è stato a lungo invocato come "Dio dei padri", di Abramo, Isacco e Giacobbe – non è mai fusione ma comunione relativa, dinamica. Donde la necessità di invocare Dio come Padre, ben sapendo che è proprio il padre colui che, intromettendosi nella relazione tra la madre e il bambino, permette a quest’ultimo di iniziare un itinerario di percezione dell’alterità. Claude Geffrè a ragione ricorda che la soluzione della crisi edipica contiene un grande insegnamento sul nostro rapporto di filiazione rispetto a Dio. Sì, il nostro Dio si rivela sotto il segno della distinzione come il padre che si interpone tra la madre e il figlio e gli permette di "venire al mondo", di assumere una propria identità! Certo il "padre" necessario per questa crescita è quello che, come Dio, sa contraddire ogni paternalismo. Paternalismo infatti è resistenza al cammino del figlio verso l’età adulta, ma Dio ci spinge proprio a questa soggettività che fa dell’uomo un co-creatore, assieme a Dio, di se stesso e del mondo. Paternalismo è abuso di potere nella competizione tra padre e figlio, è imposizione dell’autorità e della legge, ma Dio chiede e vuole uomini che siano liberi e che rispondano a lui solo nella libertà. Il nostro Dio non è forse Colui che ha creato gli uomini in modo tale che possano anche essere atei, senza Dio, facendo a meno di lui, il loro creatore? Paternalismo è l’abitudine di non tollerare la creatività dei figli, è chiedere la mimesi del padre, ma il nostro Dio chiede di rispondere a lui solo nell’amore e per amore. Sì, il nostro Dio non vuole essere quella divinità che Marx, Nietzsche e Freud, i tre maestri del sospetto, hanno accusato di essere l’ispiratore dell’ansietà, del senso di colpa e della volontà di potenza. La rivolta contro il Dio Padre è stata in larga misura una rivolta contro la caricatura dell’immagine di Dio presentata, ostentata e anche patita e sofferta da molti cristiani.
Il nostro Dio vuole invece figli che lo ricordino come Padre, che lo chiamino confidenzialmente "Abba, papà", che conoscano il suo cuore e restino in relazione con lui nella libertà e per amore. Gesù lo ha detto: "Lo schiavo – cioè colui che vive senza amore e senza libertà – prima o poi abbandona la casa, ma il figlio – cioè colui che vive nella libertà e per amore – dimora sempre nella casa paterna" (cf. Gv 8,35-36). Comprendiamo allora, nella parabola dei due figli narrata da Gesù, che il figlio "prodigo" ha conosciuto il padre quando lo ha visto che, preveniente, gli è corso incontro e lo ha abbracciato, mentre il figlio maggiore, che era restato sempre a casa in una relazione mercenaria e servile non aveva mai conosciuto il volto autentico del genitore. Allora Dio è "Padre nostro", quando noi vogliamo essere suoi figli nella libertà e per amore: queste sono le due condizioni essenziali e preliminari per poter dire a Dio "Abba, papà!", queste sono le condizioni in cui lo Spirito santo può agire in noi e farci sentire fratelli di Gesù e filgi di Dio. Nella lettura a Diogneto sta scritto: "Se tu desideri ardentemente questa fede cristiana e la accogli, comincerai a conoscere il Padre" (X,1). Dio è Padre innanzitutto perché padre di Gesù Cristo, che così nlo ha invocato, riconoscendolo come vero padre – di cui Giuseppe è stato però il segno e narrazione – fin dalla sua adolescenza: "non sapevate che devo stare nella casa di mio padre?" (Lc 2,49). Gesù lo ha invocato per lodarlo e rendergli grazie (cf. Mt. 11,25; Gv 11,41-42), fino a chiamarlo per restituire nelle sue mani quella vita ricevuta da lui: "Padre, nelle tue mani consegno il mio respiro!" (Lc 23,46).
Dio è Padre perché, come ricordavamo, è stato il "Dio dei padri" e prima di essere il mio Dio è il Dio di chi mi ha preceduto nella vita. Questo Dio lo ricevo da qualcuno che me lo racconta, è il Dio di altri, prima di essere il mio, dunque è sempre il Dio "Padre nostro". Dio è Padre perché ama come un padre autentico: crea per amore, libera e salva per amore, perdona per amore. È Padre, Dio di misericordia e di perdono, ma proprio in questo si rivela capace di tratti materni perché possiede la "compassione" (vocabolo squisitamente femminile in ebraico: rechem-rachamim significa infatti "utero"). Sì, l’immagine del Padre non può essere tralasciata nella fede ebraico-cristiana, ma proprio perché questa immagine non si indurisca nel paternalismo, né si irrigidisca nell’essere "padrone", il nostro Dio ha assunto anche tratti materni, sponsali, i lineamenti di un amico. Dio Padre è allora soprattutto il Dio con noi, il Dio per noi, che nell’amore ci chiede di rispondergli nella libertà, in un’obbedienza che ci fa vivere in pienezza.
Enzo Bianchi