CHIAMATI A UNA NUOVA VITA
La parabola del figliol prodigo mi da lo spunto per alcune considerazioni sulle difficoltà, ma anche sulle opportunità che l'itinerario di conversione offre all' uomo d'oggi. In quest'ottica, il termine parabola potrebbe essere inteso non solo nel senso tecnico che assume nei Vangeli e nella loro esegesi, ma anche in quello fisico di traiettoria caratterizzata inizialmente da un progressivo allontanamento dall'origine cui fa seguito un radicale mutamento di direzione che porta a ripercorrere in senso inverso la regione già esplorata, senza peraltro ricondurre al punto di partenza. Potrebbe essere questa, infatti, un'icona pertinente del cammino del figliol prodigo il cui percorso può essere, senz'altro, assunto a paradigma di molte conversioni.
Esperienza che si può rifiutare
Chi riflette sulla propria vita o sull'esperienza degli altri, può facilmente accorgersi che viene sempre il tempo in cui si avverte come urgente la necessità di cambiare. A spingere in questo senso sono, alle volte, situazioni traumatiche esterne - come nel caso, ad esempio, del figliol prodigo -, ma può essere anche un progressivo affinamento spirituale a portare a giudicare il modo di vivere finora adottato non più compatibile con il desiderio che emerge dal profondo del cuore. Tuttavia - anche questa è esperienza comune - i richiami alla conversione non sempre portano ad un vero e, soprattutto, definitivo cambiamento. Perché?
Sembra che si possa rispondere: perché nel soggetto in crisi mancano le condizioni psicologiche e spirituali minime per andar oltre la pulsione emotiva e approdare a scelte fondate sulla volontà.
Manca, quasi sempre, la sincerità con se stessi, intesa questa come la capacità di cogliere i veri motivi della crisi. È ovvio che l'abbandono di abitudini radicate non può essere il frutto di una vaga sensazione di disagio o di una confusa aspirazione al meglio. Bisogna sapere individuare i motivi profondi della spinta al cambiamento perché questa sarà possibile solo se richiesta da un'istanza che il soggetto riconosce di alto valore. Nel caso del figliol prodigo era ben chiaro a lui che in gioco c'era la sua stessa sopravvivenza fisica. I motivi che spingono al cambiamento non devono quindi essere banali. Utilizzando la terminologia di Lévinas si potrebbe forse affermare che una vera conversione è possibile solo se indotta non da un bisogno - che una volta soddisfatto svanisce -, ma da un desiderio, inteso quest'ultimo come il movimento che porta a riconoscere l'oggetto come un valore piuttosto che a possederlo. C'è da dire che se si sviluppasse fino in fondo questa suggestione si arriverebbe, probabilmente, ad affermare che l'unica vera conversione è quella a Dio; ma ci si può fermare anche qualche passo prima di questa conclusione, perché l'uomo è mosso sia da bisogni sia da desideri e pertanto ogni sua conversione, anche se profonda, non sarà mai definitiva e totale.
Rimane, comunque, vero che il criterio ultimo per avviarsi con speranza di successo sulla strada della metànoia (come nel greco del Nuovo Testamento è chiamato il cambiamento radicale) è la sincerità dell'analisi delle pulsioni. Come ha fatto il figliol prodigo di cui nel Vangelo non si ricordano doppi pensieri.
Altra condizione necessaria per un esito positivo della crisi, anch'essa spesso carente, è l'umiltà, intesa come la capacità di riconoscere che si è finora sbagliato e che l'errore dipende da noi. L'esperienza dice che riconoscere l'errore è abbastanza facile perché le sue conseguenze negative sono quasi sempre evidenti. Al figliol prodigo bastava guardarsi ridotto in mezzo ai porci - per lui animali impuri - per capire la gravita della sua situazione. Quello che pochi, però, riescono ad ammettere è la responsabilità nell'errore. L'orgoglio trova estremamente facile far ricadere sugli altri, almeno in parte, la colpa della condizione miserevole a cui ha condotto una scelta personale sbagliata. Di questo atteggiamento non c'è traccia, invece, nel figliol prodigo. Forse perché lui aveva già raggiunto una terza condizione che ritengo indispensabile per poter dare un esito positivo al desiderio di cambiamento: la libertà dai condizionamenti. Niente, infatti, lo legava più al suo stato. Mentre per noi è sempre estremamente difficile sentirci liberi da quelli che percepiamo come convincimenti irrinunciabili, perché maturati nel tempo in forza dell'autonomia intellettuale, culturale, spirituale che è ritenuta, a ragione, la caratteristica specifica dell'uomo libero. Qui S. Ignazio di Loyola parlerebbe della ne-c^&sità di «togliere le affezioni disordinate» per poter «cercare e trovare» la propria strada.
C'è ancora almeno una condizione la cui mancanza rende difficile una vera conversione: il pentimento, la capacità, cioè, di cogliere la negatività dell'azione compiuta e la disponibilità a non ripeterla. Si noti a questo proposito che nel sentire comune il pentimento è considerato l'anticamera della conversione. In realtà è solo una delle condizioni necessarie (ma non sufficienti), in quanto ci si può pentire per una serie di motivi che, pur validi, non inducono al cambiamento radicale perché non raggiungono il cuore del problema. In quest'ottica più che di pentimento si dovrebbe, però, parlare di rimorso. E il rimorso da solo può condurre anche alla disperazione. Si veda, per esempio, l'episodio di Giuda narrato dai Vangeli.
Ci sono, ovviamente, anche altre caratteristiche della personalità la cui mancanza o il cui ridotto significato per la psicologia del soggetto possono indurre quest'ultimo a rifiutare, o perlomeno a non approfondire, l'impulso alla conversione, quali, ad esempio, la generosità, la capacità di sperare, di superare i sensi di colpa, di dare un senso e una direzione unitaria alla propria vita. Tutte si possono far rientrare nel concetto di maturità umana. Ma quelle sopra illustrate in dettaglio - sincerità, umiltà, libertà dai condizionamenti e capacità di pentimento - mi sembrano le più importanti.
Esperienza complessa e particolarmente difficile
Che la conversione sia un'esperienza complessa emerge anche da quanto detto nel paragrafo precedente dove sono state indicate alcune condizioni soggettive senza le quali la stessa non può maturare.
Esistono, però, anche delle condizioni oggettive che complicano ulteriormente la situazione e che la rendono, soprattutto nel contesto odierno, particolarmente difficile.
Già il termine stesso di conversione si presta a differenti interpretazioni. Può essere inteso, infatti, sia come cambiamento, più o meno profondo, di qualcuno o di qualcosa, con effetti per lo più esterni (la conversione dell'acqua in vino, per restare ad un episodio evangelico), sia come l'atto, sostanzialmente religioso, di chi, sentendosi chiamato da Dio, volge tutto il suo essere dal male al bene, dal falso al vero, mutando non solo l'orientamento delle proprie azioni, ma lo stesso modo di vedere e giudicare la realtà (la conversione di S. Paolo, ad esempio, come narrata negli Atti degli Apostoli).
Alla prima accezione possono essere fatte risalire tutte le decisioni che implicano un cambiamento di vita in vista del raggiungimento di un qualche obiettivo giudicato importante. Sono scelte non necessariamente definitive che possono essere rinnovate nel tempo, ovvero modificate, se cambia l'obiettivo o il suo valore.
Nella seconda accezione rientrano, invece, tutti quei cammini di perfezione che vengono generalmente definiti come «conversione a Dio» e sono, almeno nell'intenzione, definitivi.
C'è da dire che questa suddivisione è più teorica che pratica perché la persona umana è nello stesso tempo materiale e psichica e in essa configgono i limiti della carne e i doni dello spirito. Per cui il medesimo itinerario può essere frutto sia dell'istanza umana sia di quella divina.
La possibilità di un cammino di conversione incontra oggi una serie di ostacoli che lo rendono assai difficile. La nostra epoca è caratterizzata, infatti, da una perdita di elementi che accentua la fragilità e la vulnerabilità dei soggetti, condizionando negativamente la possibilità di pervenire ad una
chiara coscienza della realtà e di prendere decisioni definitive. Si pensi, ad esempio, alla perdita generalizzata della dimensione del tempo e del conseguente senso della storia, alla perdita di capacità di distanza critica, alla diminuzione, spesso drammatica, della capacità di impegno stabile e incondizionato, alle difficoltà che si incontrano nel costruire la dimensione affettiva. Per di più l'incapacità a prendere una decisione che pure si sente psicologicamente urgente crea spesso inquietudine e ansia.
C'è da chiedersi come se ne possa uscire. Ritengo che si possa ragionevolmente sperare di orientare l'uomo d'oggi e renderlo capace anche di vera conversione, perché egli è, nella sua complessità misteriosa, progetto particolare di Dio e come tale riconoscibile e ricostruibile non al di là, ma attraverso e in mezzo alle sue deformazioni e fragilità. Occorre, però, rendergli familiari, affinchè possa giungere a considerarli positivamente, alcuni degli elementi che lo costituiscono come mistero.
Suggerisco alcuni spunti da valorizzare nell'educazione:
• la capacità di apertura al mondo dell'alterila, perché è necessario che impari a scoprire l'esistenza di realtà nuove in sé e nel mondo circostante e a lasciarsi interrogare dall'incontro con aspetti nuovi del proprio ambiente e con i valori che lo animano e, per chi crede, con una Rivelazione;
• la temporalità, intesa come la dimensione in cui il mistero si esplica, perché sappia riconoscere che il presente si fonda sulla capacità di accettare un passato che non è più e di anticipare un futuro che non è ancora;
• la complessità della persona. Essa deve essere colta e accettata nel suo essere contemporaneamente un misto di bene e di male, di giusto e di ingiusto, di acerbo e di maturo ed espressione di «sistemi di desiderio» non sempre del tutto integrati ed in armonia tra loro.
Esperienza nella quale è difficile riconoscere il protagonista
II fatto della complessità e della difficoltà dell'opera di conversione sopra rilevato, pone il problema se il potersi convertire rientri nella facoltà umana o se non si debba piuttosto aspettarsi la conversione esclusivamente come frutto dell'azione di un Altro; dove l'Altro è per noi Dio.
Personalmente non saprei dare una risposta definitiva al quesito perché non sono in grado di valutare l'attendibilità degli esiti di cammini di cambiamento profondo fondati sulle sole capacità fisico-psichiche dell'uomo.
Mi sembra, peraltro, che dalla Scrittura emerga con sufficiente chiarezza che la conversione non è primariamente espressione di una decisione autonoma umana, ma piuttosto una risposta all'appello di Dio. Si vedano, per esempio, i numerosi richiami di Gesù (Mt 4,17; Le 5,32), ma anche quelli dei suoi discepoli (At 2,38; At 3,19). Si noti, per inciso, che per convertirsi non è richiesta una fede previa in Cristo: anche ai pagani è concesso (At 11,18). Qualche volta la risposta dipende dalla decisione umana (At 9,35), ma in altri casi è pura grazia di Dio (At 16,14). Così anche il rifiuto non sempre è opera esclusiva dell'uomo (Me 4,12). Gesù, tuttavia, contrariamente al Battista, sembra concedere del tempo per consentire una vera conversione (si veda la parabola del fico sterile in Le 13,6-9) e dimostra fiducia nella disponibilità dell'uomo a convertirsi: il figliol prodigo torna di propria iniziativa dal padre.
Da quanto sopra riportato sembra, quindi, che si possa affermare che, per la Scrittura, l'iniziativa parte da Dio ma richiede sempre una partecipazione attiva della persona umana. Si potrebbe forse aggiungere che tale partecipazione è, per la Bibbia, tanto più fruttuosa quanto più l'interessato sa riconoscere nella fonte dell'appello anche una potenza efficace. Il figlio prodigo doveva avere una fiducia ben grande nella capacità di perdono del padre per ritornare a lui dopo le scelte giovanili sciagurate!
Se una chiamata è - come sembra all'inizio di ogni conversione, ci si può chiedere infine se questa avvenga una sola volta nella vita o si manifesti più volte. L'esperienza, infatti, attesta, come abbiamo già avuto occasione di ricordare, che noi siamo esseri limitati («vasi di creta», secondo l'espressione di 2 Cor 4,7), per cui anche il cambiamento più sincero è sempre soggetto a possibili ripensamenti. Se vogliamo affermare la possibilità di perseverare nel cammino di conversione dobbiamo anche ammettere una pluralità di ravvedimenti, da giocarsi, come il primo, tra il dono gratuito di Dio e l'azione etica dell'uomo.
Così è, perché Dio è fedele e non fa mai mancare il suo invito alla vita nuova.
Anche questa è esperienza comune.
Conclusione
Abbiamo visto che convertirsi è un atto complesso, difficile, che si è tentati spesso di rifiutare o almeno di rimandare nel tempo e che implica, in ultima analisi, anche l'intervento di Dio. Quest'ultima acquisizione mi sembra, però, quella che può dare un valore positivo, uno sbocco significativo all'agire umano anche nel contesto attuale. L'uomo può, infatti, rivolgersi sempre con fiducia a Dio perché Lui si rivolge per primo all'uomo. Sapendo che la conversione vera non può non accompagnarsi alla gioia. Come ricordano non solo la parabola del figliol prodigo, ma anche le altre del capitolo 15 di Luca (la pecora perduta, la dracma perduta) le quali attestano la gioia di Dio per il ritorno del peccatore e invitano l'uomo a gioire con Lui.
In definitiva si può dire che nella conversione Dio offre all'uomo una nuova vita. Per questo Luca può descrivere il ritorno del figlio scapestrato con l'espressione riportata sotto il titolo, quasi icona dell'articolo: «...era morto ed è tornato in vita».
Mi sembra pertanto corretto concludere che vale sempre la pena di intraprendere il cammino della conversione, anche se può costare caro all'orgoglio umano, perché attraverso di essa c'è la possibilità di giungere alla vita vera.
Sergio Riccardi
Tratto da “Famiglia Domani – 2/2002”