Un popolo in ascolto. Per «fare quello che ci dirà»Il Figlio in ascoltoImparò l'obbedienza dalle cose che patìL'icona marianaLe sue vie non sono le nostre vie· In questo numero si vuole «porre la questione» dell’obbedienza da punto di vista biblico- esegetico · da tale ricognizione emerge che essere (meglio: diventare) obbedienti è accettare di essere figli, come Gesù, il Verbo fatto carne · Un modello di obbedienza non deresponsabilizzante.
Imparò l'obbedienza dalle cose che patìL'icona marianaLe sue vie non sono le nostre vie· In questo numero si vuole «porre la questione» dell’obbedienza da punto di vista biblico- esegetico · da tale ricognizione emerge che essere (meglio: diventare) obbedienti è accettare di essere figli, come Gesù, il Verbo fatto carne · Un modello di obbedienza non deresponsabilizzante.
Le sue vie non sono le nostre vie· In questo numero si vuole «porre la questione» dell’obbedienza da punto di vista biblico- esegetico · da tale ricognizione emerge che essere (meglio: diventare) obbedienti è accettare di essere figli, come Gesù, il Verbo fatto carne · Un modello di obbedienza non deresponsabilizzante.
Una delle preghiere quotidiane di Israele fin dai tempi di Gesù comincia con le parole tratte da Dt 6,4 «š ma’, yisrāël: ascolta, Israele!». Non un comandamento sul fare, né l'invito a prendere un’iniziativa qualsiasi. È il precetto fondamentale: Israele diviene il popolo dell'ascolto, della passività, della docilità di Dio che guida la sua storia. Né il vero israelita dell'antica alleanza, né l'autentico cristiano sono rappresentati dalla Scrittura come eroi che compiono grandi imprese: la via comune è piuttosto la via dell'abbandono, del seguire Dio là dove egli chiama. I profeti dell'Antico Testamento vengono sradicati dalle loro attività, dai loro villaggi per seguire le esigenze tenere e forti allo stesso tempo della Parola divina: questa Parola è come un fuoco che brucia dentro; chi la può trattenere? I discepoli del Nuovo Testamento sono chiamati a seguire Gesù e a rimanere con lui: non si tratta soltanto di una sequela momentanea o di un fate qualcosa per lui, ma di entrate in profonda comunione con lui, lasciandosi guidare. Da Abramo in poi, ogni credente è figlio della promessa; si affida e parte, senza sapere dove andrà: «Per fede Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava. Per fede soggiornò nella terra promessa come in una regione straniera, abitando sotto le tende, come anche Isacco e Giacobbe, coeredi della medesima promessa. Egli aspettava infatti la città dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio stesso» (Eb 11,8-10).
Essere obbedienti è dunque semplicemente essere figli. Accettare di essere figli. Accettare cioè la dipendenza da un Altro. È la nostra verità: la tentazione costante del popolo di Israele è quella di costruirsi cisterne con le proprie mani, ma sono cisterne screpolate, che non possono trattenere l'acqua (cf Ger 2). Una sola è la Sorgente dell'Acqua viva, e il figlio che ricerca la propria indipendenza pretendendo di fare a meno della casa paterna si autocondanna alla sterilità (cf Lc 15,11-32). Accettare di essere figli è il primo passo per vivere l'obbedienza. È accettare di essere creature, con i propri limiti, con il proprio peccato, con la propria storia, riconoscere di dipendere in tutto e per tutto.
Il Figlio in ascolto
A questo atteggiamento ogni uomo è - di fatto - restio. L’Adamo originale - cioè l'uomo di sempre, l'uomo di ogni tempo e di ogni luogo - vive costantemente la tentazione della disobbedienza non tanto come rifiuto di leggi o di norme esterne, quanto piuttosto come non accettazione della propria creaturalità e della propria figliolanza. Il peccato originale consiste proprio nel voler essere come Dio (cf Gn 3,5), nel mangiare il frutto dell'albero della conoscenza del bene e del male: l'uomo vuole impadronirsi della morale, vuol essere legge a se stesso, vuole bastare a se stesso! Gli idoli - opera delle mani dell’uomo - sono il segno più evidente della difficoltà di Israele ad accettare di essere salvati da Dio, senza cercare la salvezza con le proprie mani. La critica profetica contro l'idolatria è l'invito al ritorno all'obbedienza vera, un'obbedienza che renda ragione alla nostra verità.
C'è però un uomo che ha vissuto fino in fondo tutte le esigenze del proprio essere figlio: il Figlio Unigenito di Dio, il Verbo fatto carne per guidarci nella strada di questo ascolto. Il prologo del Vangelo di Giovanni ci offre l'icona originale dell'obbedienza, guidandoci a contemplare il Verbo (cioè la Parola!) nel senso della Trinità, in atteggiamento di perfetta e totale obbedienza. Giovanni inizia il suo vangelo con questa contemplazione, che ci rimanda allo splendore epifanico di tante icone orientali (penso in particolare alla celebre icona della Trinità di A. Rublëv): «in principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio» (1,1). L'espressione greca pròs ton theòn, che traduciamo con «presso Dio», in realtà vuole offrirci l'immagine del Verbo che sta «di fronte a Dio». Padre e Figlio sono contemplati l'uno di fronte all'altro; il Verbo è in atteggiamento di ascolto, di accoglienza e di disponibilità a tutto ciò che il Padre dice. Il Verbo fatto carne dirà tutto e solo ciò che avrà udito dal Padre: egli e il Padre sono una cosa sola (cf Gv 5,19-47; 8,28-29).
L'obbedienza cristiana nasce dal cuore della Trinità, dal Figlio che ascolta ciò che il Padre dice da sempre, lo guarda negli occhi e quasi pende dalle sue labbra. Non c'è obbedienza se non in questo rapporto personale e in questa comunione d'amore.
Allora la preghiera del figlio: «sia fatta la tua volontà» (Mt 6,10), preparata e fortificata dalla preghiera angosciata del Figlio: «non come voglio io, ma come vuoi tu!» (Mt 26,39), non è la rassegnazione sfiduciata e remissiva di chi sa che non si può fare altrimenti! È piuttosto il grido gioioso del figlio che desidera fare ciò che al Padre piace, cerca le cose che gli sono gradite, quasi anticipandone la manifestazione e prevenendone i desideri (cf Gv 8,29).
«Imparò l'obbedienza dalle cose che patì»
L'autore della lettera agli Ebrei ci dice fino a che punto si sia spinta questa obbedienza esemplare del Figlio: «pur essendo Figlio, imparò l'obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono» (5,8-9). Cristo non ha vissuto la sua figliolanza come un tesoro geloso o come un motivo di superiorità, ma l'ha compresa come una consegna totale. Il suo essere Figlio consiste nell'«imparare» l'obbedienza. La vita di Gesù ci dice che non si è obbedienti: lo si diventa se ci si lascia condurre da Dio, che ci educa come un padre fa con i suoi figli. Gesù stesso ha compiuto questo cammino di educazione all'obbedienza! Anche nelle relazioni fraterne la via è dunque l'educazione all'ascolto, all'accoglienza dell'altro per imparare ad accogliere ed ascoltare l'Altro. Questa strada si è imposta al Figlio di Dio soprattutto attraverso la via della sofferenza. L'esperienza di Gesù valorizza il momento della prova, della difficoltà, di ogni crisi come il momento privilegiato per l'educazione all'obbedienza. La notte è simbolicamente il luogo in cui l'uomo smette di fare, di lavorare, di essere il protagonista, per lasciarsi fare e condurre da Dio. Ogni «notte» dell'esistenza umana (crisi, aridità, sofferenze, distacchi) può aprire la strada a un «di più» di ascolto; la sofferenza accolta, accettata e vissuta può affinare la capacità di ascolto di ogni uomo, perché la sofferenza è il momento della verità.
Era questa anche l'esperienza del popolo di Israele, condotto per mano da Dio, liberato dalla schiavitù egiziana e in cammino verso la terra della promessa. Il libro del Deuteronomio ricorda ad un popolo stanco, sfiduciato, tentato dal dubbio, in continua mormorazione contro il Signore, che l'esperienza del deserto fa parte di un cammino di educazione all'obbedienza: «ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che tu avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandamenti. Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto o provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma vive di quanto esce dalla bocca del Signore. (…) Riconosci dunque in cuor tuo che, come un uomo corregge il figlio, così il Signore tuo Dio corregge te» (8,2-3.5).
Se non fossero venuti a mancare la carne, i pesci, i cocomeri, i meloni, i porri, le cipolle e l'aglio che Israele mangiava gratuitamente in Egitto (cf Nm 11,45), se il popolo non avesse fatto l'esperienza dell'essenzialità, della rinuncia e della fatica del deserto, Dio non avrebbe potuto educarlo all'ascolto. Invece è proprio in quell'assenza e in quella fatica che i figli d'Israele possono nutrirsi del dono divino e sentir crescere in sé la fame e il desiderio della parola che esce dalla bocca di Dio.
L'icona mariana
Il vangelo ci dona in Maria un'icona dell'umanità docile ed obbediente. La Vergine dell'Annunciazione, creatura del "si", è lo specchio fedele e il risvolto umano di Cristo, l'Amen, il Sì radicale a Dio Padre: egli «non fu "sì" e "no", ma in lui c’è stato il "si"» (2 Cor l,19; cf Ap 3,14). «Avvenga di me seconda la tua Parola» (Lc 1,38) è il grido di gioia di Maria che sa di poter essere la terra fertile in cui Dio potrà seminare la sua Parola.
La redazione lucana dei vangeli dell'infanzia ci mostra Maria in questo atteggiamento di ascolto obbediente. Una prima volta in Lc 2,19 ci viene detto che Maria serbava «tutte queste cose/parole» meditandole nel suo cuore, e poi ancora al v. 51 Luca sottolinea questo atteggiamento interiore della Vergine. Nel primo versetto citato, l'evangelista presenta la meditazione di Maria sugli eventi e sulle parole del Figlio con il verbo greco syllambàno, che significa «confrontare, mettere insieme». La madre conserva dunque nel cuore (sede biblica del pensiero, della ragione, dei sentimenti, della volontà) tutte le parole e tutti gli eventi della vita del Figlio, confrontandoli fra loro perché si illuminino a vicenda; di fronte ad ogni situazione, soprattutto di fronte a quelle più difficili (Luca ne parla infatti in occasione di due eventi negativi nella vita di Maria), la Verginità, chiedendosi il perché delle cose: «che cosa vorrà dirmi Dio attraverso quella parola o quella situazione?».
Anche l'immagine della spada nelle Parole di Simeone ci porta alla stessa conclusione. Il santo vecchio predice a Maria: «anche a te una spada trafiggerà l'anima» (Lc 2,35). Se è vero che queste parole rappresentano la predizione delle sofferenze future di Maria fino alla croce del Figlio, per cui anche di lei si può dire che «pur essendo figlia, imparerà l'obbedienza dalle cose che patirà», non dobbiamo dimenticare che nella Bibbia la spada simboleggia spesso la Parola di Dio, «viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio» (Eb 4,12). Simeone parla dunque anche del cammino di obbedienza della Madre alle Parola del Figlio.
Le sue vie non sono le nostre vie
Il vangelo non usa mai il verbo greco hypakoùo (obbedire) in riferimento alla relazione di un uomo con un altro uomo, e neppure nei confronti di Gesù: sono gli elementi della natura o gli spiriti maligni che gli obbediscono ciecamente, con un'esecuzione materiale (cf Mt 8,27; Mc 1,27; 4,41; Lc 8,25); anche i discepoli -se solo avessero fede quanto un granello di senape - potrebbero farsi obbedire dalle forze della natura (cf Lc 17,6). Anche il resto del Nuovo Testamento usa questo verbo con una certa parsimonia, e mai nel caso di un uomo che obbedisce ad un altro uomo, se non in pochi testi esortativi dell'epistolario, molto segnati culturalmente e riguardanti precetti di morale familiare (cf Ef 6,1.5; Col 3,20.22; 1 Pt 3,6). Si obbedisce piuttosto a Dio (cf Eb 11,8), al vangelo (cf Rm 10,16; 2 Tes 1,8), alla fede (cf At 6,7), alla parola (cf 2 Tes 3,14), ai desideri della carne o dello Spirito (cf Rm 6,12.16-17). I verbi che meglio caratterizzano l'obbedienza evangelica sono invece i verbi dell'ascolto e dell'accoglienza, che invitano a comprendere l'atto di obbedire più in termini personali e comunionali che giuridici o legalistici
È vero poi che nel vangelo di Luca Gesù dice ai settantadue discepoli inviati in missione: «chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me» (10,16), ma la Bibbia non sottolinea in modo particolare l'obbedienza a mediatori umani: al centro della rivelazione sta un ascolto di Dio che agisce e che parla nella vita di ciascuno e nella vita del nuovo popolo di Dio, che è la Chiesa. Forse una delle presentazioni più sintetiche ed efficaci dell'obbedienza biblica ci è data dalla celebre frase di Rm 8,14, in un contesto che insiste particolarmente sulla filialità: «tutti quelli infatti che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio». Siamo figli, ma in realtà lo diventiamo! Più ci lasciamo guidare dallo Spirito, più viviamo il nostro essere figli! L’obbedienza nella Bibbia non riveste dunque una dimensione di sicurezza: non sappiamo fin dall'inizio che cosa significhi e che cosa comporti obbedire. Ad obbedire s'impara obbedendo! Il figlio obbediente è colui che vive pienamente la speranza teologale, lasciandosi condurre per mano da Dio là dove Dio lo vuole condurre. E poiché le sue vie non sono le nostre vie (cf Is 55,8), può darsi che la sua fedeltà si manifesti nel chiederci oggi cose diverse da quelle che ci ha chiesto fino a ieri. Il cristiano ancorato al suo passato, alle tradizioni puramente umane è l'esatto contrario del figlio obbediente: anche i farisei erano abilissimi ad osservare le tradizioni degli uomini, trascurando il comandamento di Dio e vanificando la sua Parola (cf Mc 7,1-13)!
L'obbedienza secondo la Bibbia non è neppure deresponsabilizzante: non significa delegare ad un altro la fatica di scegliere per me. Gli uomini e le donne che incontrano Gesù nel vangelo sono tutti chiamati ad una scelta libera, responsabile e personale. Prima o poi tutti arrivano ad incontrare Gesù in modo personale e a lasciarsi coinvolgere fino in fondo dalla sua Parola. Gli inviti di Gesù («seguimi, ascolta, rimani in me, se vuoi...») sono inviti personali ed appelli alla libertà di ciascuno. Anche negli Atti degli apostoli la Chiesa delle origini ci appare più come la comunione di persone in ascolto che come una massa di pecoroni intruppati. Basterebbe vedere a tale riguardo l'insistenza con cui l'opera lucana parla della Chiesa come dell'unione di coloro che ascoltano o accolgono la Parola.
Da tutto ciò traspare che l'obbedienza per la Bibbia non è qualcosa di statico e spersonalizzante, ma è una realtà dinamica, è la vita stessa del credente che vive la propria condizione di figlio. Obbedire è ascoltare la Parola, è meditarla con sincerità, è docilità allo Spirito, attenzione alla presenza di Dio, sensibilità nel cogliere i segni dei tempi, è la virtù di chi affina la propria capacità di ascolto, è vittoria sulla pretesa orgogliosa di poter gestire la vita e trovare la salvezza con le proprie mani, è lasciarsi condurre docilmente come Maria. L'obbedienza biblica ha poi una caratteristica fondamentale, che il Nuovo Testamento qualifica con la parola greca parresìa, che potremmo tradurre con una gamma sconfinata di significati: «coraggio, libertà di spirito, franchezza, coerenza, passione per la verità...».
Voglio concludere accennando appunto a due esempi, due icone bibliche di questa obbedienza vissuta con parresìa. La prima, veterotestamentaria, è la vocazione profetica. Ogni profeta - per natura sua - è un uomo in ascolto della Parola, e questa Parola lo conduce spesso là dove egli non vorrebbe (il più emblematico è il caso di Geremia). Ogni profeta ha a che fare con il potere, sia esso incarnato nella persona del re o dei ricchi ingiusti o dei sacerdoti corrotti, come coscienza critica e come voce capace di far risuonare la Parola di verità nella sua integralità. La stessa consacrazione battesimale riveste il credente di questa dimensione profetica che ne fa un uditore della Parola, costi quello che costi, L'altra Icona - questa volta presa dal Nuovo Testamento - è quella dell'apostolo Paolo che, ad Antiochia, non teme di opporsi alle colonne della Chiesa e allo stesso Pietro affinché si affermi la verità. Leggiamo, in conclusione, le sue linee autobiografiche nella lettera ai Galati, non per ricavarne un invito orgoglioso alla ribellione, ma per scoprirvi l'umiltà e la coerenza di una fedeltà alla verità della Parola, caratteristica del vero apostolo: «Giacomo, Cefa e Giovanni, ritenuti le colonne, diedero a me e a Barnaba la loro destra in segno di comunione. (…) ma quando Cefa venne ad Antiochia, mi opposi a Lui a viso aperto perché evidentemente aveva torto. Infatti, prima che giungessero alcuni da parte di Giacomo, egli prendeva cibo insieme ai pagani; ma dopo la loro venuta, cominciò a evitarli e a tenersi in disparte, per timore dei circoncisi. (…) Ora quando vidi che non si comportavano rettamente, secondo la verità del vangelo, dissi a Cefa in presenza di tutti: "Se tu, che sei giudeo, vivi come i pagani e non alla maniera dei giudei, come puoi costringere i pagani a vivere nella maniera dei giudei?"» (Gal 2,9.ll-1214).
Roberto Fornara
Biblista – Roma
Da “Famiglia domani” 3/2000