Famiglia Giovani Anziani

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Domenica, 20 Febbraio 2005 17:08

I CONFLITTI DI LEALTÀ TRA LE GENERAZIONI

I CONFLITTI DI LEALTÀ TRA LE GENERAZIONI

Ogni famiglia riceve un lascito dalle famiglie
d'origine dei coniugi: ciascuno di noi è stato figlio a sua volta, e
non può non sentire una qualche forma di devozione verso i propri
genitori (e la loro linea di discendenza). Ognuno, allora, deve vivere
in un difficile equilibrio fra l'appartenenza alla famiglia d'origine e
quella al nuovo nucleo. Ovviamente, la lealtà verso la famiglia in
qualche modo contrasta l'individuazione dei singoli familiari,
intrecciandosi ai problemi di differenziazione. La fedeltà alla
famiglia d'origine può assumere molte forme, e arrivare a vertici
insospettabili. A ben vedere, la vita familiare nelle generazioni ha
sempre a che fare con obblighi che vanno ben oltre quelli fra le
persone fisicamente presenti. E quel che vale per gli obblighi e le
lealtà, vale anche per le ambivalenze e le recriminazioni, che possono
risalire nelle generazioni più di quanto si pensi.

I conflitti di lealtà, per farla breve, sono
pressoché inevitabili. Per tanti si risolvono senza postumi di rilievo;
ma per qualcuno possono avere conseguenze a lungo termine, facilitare
dissidi senza fine nelle coppie e trasformarsi, per i figli, in
drammatiche ambivalenze. D'altra parte, se si mantiene un senso molto
forte, incontrastato, di appartenenza alla famiglia d'origine, può
risultare difficile aderire pienamente a quella nuova.

Per questo, spesso il lavoro intergenerazionale può
essere una necessità per il terapeuta della famiglia. Prendere in esame
- e a volte invitare anche in sala di terapia - le generazioni offre
una serie di vantaggi: mostra le radici e il senso di eventi, intrecci
ed emozioni altrimenti inspiegabili; allo stesso tempo, rende certi
comportamenti "disfunzionali", meno patologici (una prospettiva storica
impedisce di patologizzare i comportamenti).

Rispetto alla semplice evocazione delle famiglie
d'origine, la convocazione diretta in seduta di nonni e nonne,
l'interazione diretta delle tre generazioni, ha il vantaggio di
confrontare ciascuno non soltanto con genitori o figli interiorizzati,
ma con quelli che sono i genitori e figli nel "qui e ora", favorendo un
riequilibrio dei rapporti intergenerazionali

p.b.

(Famiglia Oggi n° 3/2002)

Solitudine... in famiglia ... subita... ricercata per conoscersi meglio

Ci sono diversi modi di intendere e di
vivere la solitudine: essa può derivare da esperienze di emarginazione
familiare e sociale, o può essere ricercata e vissuta come momento di
riflessione e di crescita individuale. La solitudine, di per sé, non ha
quindi un’accezione positiva né negativa. Essere soli può però
costituire un peso qualora non derivi da una scelta personale. Sul
piano sociale, sono numerosi gli esempi di questa solitudine "subita",
che sempre più frequentemente si verifica anche all’interno della
famiglia.

Nella società attuale i bambini trascorrono spesso
troppo tempo da soli, privi della compagnia di fratellini e coetanei,
aspettando il rientro di genitori che, oberati dal troppo lavoro, a
volte non trovano neppure il tempo di parlare, di giocare con i propri
figli. Nel contempo gli anziani, pur vivendo in famiglia, possono
avvertire l’isolamento che deriva dal mancato riconoscimento della loro
funzione sociale, o da un bisogno di comunicazione che non sempre trova
soddisfazione negli altri membri della famiglia, producendo
emarginazione e frustrazione.

Ovviamente, sono i soggetti più deboli sul piano
socio-economico ad avvertire in maniera più incisiva il problema della
solitudine.

Se dunque è vero che questa tipologia di solitudine
va indagata perché ad essa si trovino delle risposte adeguate, è pur
vero che esistono altri modi di vivere la solitudine. L’isolamento può
essere infatti vissuto in maniera creativa, allorché è frutto di una
scelta che l’individuo persegue per ricavarsi uno spazio di riflessione
in cui ritrovare la propria soggettività al di fuori del caos
quotidiano. In questa accezione, la solitudine costituisce un momento
positivo, un fattore benefico di arricchimento che ci porta a
riappropriarci di una dimensione di tranquillità interiore che nel
mondo di oggi siamo indotti a trascurare con sempre maggiore facilità.

Prof. Maurizio Andolfi

Domenica, 20 Febbraio 2005 17:03

La festa nuziale - Luigi Ghia - 4a Parte

La festa nuziale

· Una festa a rischio · La nostra festa di nozze · E’ davvero una festa? · L’amore e la gioia, oltre il deserto…

Quarta parte

ALCUNE DOMANDE, PER CONCLUDERE

Viene spontaneo collegare la festa,
"questa" festa che abbiamo tentato dì delineare in modo così
imperfetto, alla giovinezza della vita. Rifiutandone però ogni
retorica. Sapendo che l'ideale sarebbe una festa capace di disvelare il
volto segreto dell'altro, ma rifiutando nel contempo ogni illusione:
nel nostro mondo, attorno a noi, forse nella nostra stessa famiglia, ci
sono persone ripiegate su se stesse che non hanno mai sperimentato la
festa. Fa festa chi è, o chi si sente, giovane. Rifiuta la festa chi è,
o indipendentemente dall'anagrafe, si sente vecchio. Purtroppo sono
molti i giovani che rifiutano di "fare festa". Sotto molti coloro che
non accettano più di sorridere, che si chiudono nel mutismo, che cedono
alla depressione, che hanno paura della aldilà. E a questo punto ci
poniamo alcune domande inquietanti. Il mondo secolarizzato è un mondo
felice? La dinamica e la comunicazione dell'esperienza religiosa
trasmettono gioia o stanchezza? Apertura o chiusura? Senso o non senso?
La nostra "vecchia" Chiesa conserva ancora quel cuore umile e povero
per saper sorridere, con quello stesso riso di Sara che aveva sì il
seno avvizzito, ma il cuore giovane? In questa Chiesa è lo scambio
paritario e gioioso della relazione autentica di coppia a rappresentare
il paradigma del reciproco rapportarsi, oppure ad imporsi è il modello
autoritario, fondamentalista, clericale, pessimista? Ed ancora:
sappiamo cogliere e valorizzare quel religioso che è in noi e negli
altri, come struttura autonoma della coscienza, indipendentemente dalla
nostra e altrui collocazione nelle chiese o al di fuori di esse? La
ricerca di un senso all'esistere può essere vissuto nell'orizzonte
della gioia e della libertà? E infine: che fare perché questa festa -
non questa gabbia, questa condanna, questa attenzione ossessiva al
dato, alla casistica, ma questa festa sempre nuova sempre rinnovatrice
- diventi lieto annuncio, regno, beatitudine, fiducia, speranza,
missione, dono che rivela finalmente l'ineffabile volto di Dio?

Luigi Ghia

Asti

da "Famiglia domani" 1/2000

Domenica, 20 Febbraio 2005 17:02

La festa nuziale - Luigi Ghia - 3a Parte

La festa nuziale

· Una festa a rischio · La nostra festa di nozze · E’ davvero una festa? · L’amore e la gioia, oltre il deserto…

Terza parte

LA GIOIA

Nella nostra società, complessa e densa
di problemi, non si sa più gioire. La gioia pare esiliata non solo
dalla nostra vita personale, ma anche a livello sociale ed ecclesiale.
Questo sospetto nei confronti della gioia, sicuramente non di origine
biblica, alimentato anche da teologi e da maestri di spiritualità (non
ne possono essere considerati immuni né S. Agostino né S. Tommaso), ha
poi trovato nella prassi quotidiana di molti cristiani ulteriori
conferme: fino al limite estremo di indurli talvolta a considerare non
solo disdicevole la gioia (nei rapporti amicali, nel mangiare e nel
bere, nell'attività sessuale) ma addirittura a rimuoverla
scaramanticamente, considerandola come segnale di future disgrazie. Non
è raro ancor oggi trovare persone che vivono nel timore che ad un
momento di gioia debbano necessariamente seguire disgrazie, eventi
catastrofici, episodi drammatici e situazioni dolorose. Soprattutto le
persone più anziane conservano spesso nella loro memoria e nel loro
cuore l'eco angosciante di quelle pagine dell'Imitazione di Cristo,
consigliate da maestri e "direttori" spirituali, che proclamavano la
vanità e la turpitudine delle gioie terrestri, dimenticando che il
Vangelo è per definizione "la buona notizia", e che Gesù stesso auspica
ed augura che la nostra gioia sia "piena" (cf Gv 15.10ss). Dunque senza
limitazioni. Non è forse quella "buona notizia" che fa annunciare ai
pastori da parte dell'angelo "una grande gioia" (Lc 2, 10), e Maria, la madre del Signore, non aveva forse confessato alla cugina Elisabetta che "il mio spirito esulta in Dio, ozio liberatore" (Lc 1,47)?

La gioia è un atteggiamento di tutta la persona: non
si può gioire "spiritualmente", e poi vivere "immusoniti" nella vita
quotidiana, incapaci di cogliere anche nelle piccole cose,
nell'incontro con gli amici e i parenti, nello scambio fraterno di
esperienze e di emozioni, nell'allegria conviviale, i motivi di
felicità e di gioia. Ben sintetizza questo concetto Dietrich Bonhoeffer
quando, sottolineando l'idea a lui teologicamente cara della gioia,
collega l'amore per le realtà terrestri con l'eternità, affermando che
solo chi ama la terra desidera che sia eterna. Scrivendo all'amico
Eberhard Bethge, afferma infatti: "Solo quando si ama a tal punto la
vita e la terra, che sembra che con esse tutto sia perduto e finito, si
può credere alla resurrezione dei morti e ad un mondo nuovo".

Anche la coppia deve imparare questo atteggiamento
dell'animo, frutto di una serena gratitudine per le "opere belle" che
il Signore ha compiuto. La gioia è presente nell'incontro dei due
partners, nella relazione che essi instaurano: nasce dall'esperienza
reciproca dell'amore: la gioia di amare e la gioia di essere amati. Una
gioia piena, non alienante, non banale, che non si lascia intrappolare
dai meccanismi di difesa, rimozionali o sublimatori. È ancora
Bonhoeffer a dire, non senza un certo arguto ammiccamento; "Credo che
dobbiamo amare Dio e avere fiducia in lui nella nostra vita e nel bene
che ci dà, in una maniera tale che quando arriva il momento - ma
veramente solo allora - andiamo a lui ugualmente con amore, fiducia e
gioia. Ma - per dirla chiaramente - che un uomo tra le braccia di sua
moglie debba avere nostalgia dell'aldilà, è a dir poco mancanza di
gusto e comunque non la volontà di Dio".

Eppure la gioia degli sposi, vissuta nel giorno dopo
giorno, negli accadimenti spesso anche difficili della vita quotidiana,
sicuramente anche attraverso momenti di crisi e di aridità, resta il
segno di quella gioia pasquale che percorre tutta la creazione, una
creazione liberata e salvata per sempre. Scrive il carmelitano Alberto
Neglia: "Nella pienezza dell'amore coniugale, nella dolcezza della
comprensione reciproca, nello stupore della vita che si rinnova, la
gioia degli sposi è partecipazione della gioia pasquale del Cristo e
motivo di ringraziamento e di lode. Della dinamica relazionale
dell'amore coniugale fa parte il dono sessuale dell'amore, momento
determinante e costruttivo della realtà di coppia, a cui anche il
sacramento invita i coniugi (GS 49). Questo dono è, per gli sposi
cristiani, esperienza di gioia... È importante allora che gli sposi
cristiani sappiano accettare la sessualità con la serenità e la
cordialità che provengono dalla fede nella bontà intrinseca delle opere
di Dio e sappiano gioire di tutti quei gesti di tenerezza nei quali
l'amore coniugale si incarna, si trasmette ed è accettato...".

Luigi Ghia

Asti

da "Famiglia domani" 1/2000

Domenica, 20 Febbraio 2005 16:59

La festa nuziale - Luigi Ghia - 2a Parte

La festa nuziale

· Una festa a rischio · La nostra festa di nozze · E’ davvero una festa? · L’amore e la gioia, oltre il deserto…

Seconda parte

L'AMORE

Era
l'ora sesta, a Sicar, al pozzo che Giacobbe aveva fatto scavare. Ad una
donna, samaritana, una donna "libera", Gesù chiede da bere (cf Gv 4,7).
Chiedere da bere - lo sa bene chi, anche oggi, deve attraversare per
ragioni di lavoro terre aride e desertiche - significa chiedere
accoglienza. Al gesto accogliente della donna, Gesù risponde offrendo
dell'"acqua viva", il dono dello Spirito. È sempre l'ora sesta, sulla
collina del Golgota. Gesù pronuncia una delle parole più forti e
significative tramandateci da tutto il vangelo di Giovanni: "Ho sete"
(19,28). Anche qui il Maestro, stanco del cammino, chiede accoglienza.
È il culmine di un processo attraverso cui Gesù esprime tutta la sua
creaturalità; si riceve come creatura e chiede da bere. Chiede lo
Spirito. Ha messo tutto non solo nelle mani del Padre, ma anche delle
persone che gli sono accanto, non solo di Maria e di Giovanni, il cui
sguardo è angosciosamente fisso sul volto dell’Amato che sta per
morire, ma anche di quel Giuda, "nostro fratello Giuda", che egli non
ha mai respinto, anche di coloro che rispondono alla sua accorata
richiesta inumidendo le sue labbra con una spugna imbevuta d'aceto,
issata su un ramo d'issopo. Alle nozze di Cana c'erano sei giare piene
d'acqua che Gesù ha trasformato in vino. Sotto la croce c'era un vaso
pieno d'aceto. Al massimo dell'amore la risposta è stata il massimo
dell'odio. Ma ancora una volta la contro-risposta è stata una risposta
d'amore. L'odio è stato definitivamente vinto, non nel senso che i
rapporti umani non saranno mai più improntati ad odio, la storia anche
dei nostri giorni ne è una tragica conferma, ma nel senso che l'odio
non avrà mai più l'ultima parola.

Nessuno di noi, creature oppresse da pesi sovente
insostenibili, da speranze frustrate, da amori non corrisposti, da
desideri irrealizzati, riuscirà mai ad esprimere un amore così.
Scriveva Alex Langer: "...è forse troppo arduo essere individualmente
dei portatori di speranza: troppe le attese che ci si sente addosso,
troppe le inadempienze e le delusioni che inevitabilmente si
accumulano, troppe le gelosie e le invidie di cui si diventa oggetto,
troppo il carico d'amore per l'umanità e di amori umani che
s'intrecciano e non si risolvono, troppa la distanza tra ciò che si
proclama e ciò che si riesce a compiere". Pur senza giungere al limite
di gesti estremi di sconforto, è un'esperienza condivisa da molti. Si,
il rischio è davvero di sentire un'infinita distanza tra quell'amore
infinito e la nostra fragile, inespressa capacità di amare. Eppure
l'amore di un uomo e di una donna, il nostro amore, per quanto
imperfetto, è chiamato ad essere segno, non solo simbolo, ma segno
realizzatore, sacramento, di un amore così. Dobbiamo accettarci come
siamo, non pretendere d'amare di un amore impossibile, accontentarci
d'amare di un amore debole e non robusto, finito e non infinito, perché
il termine "infinito" non esiste nel vocabolario dell'essere
creaturale. Questa creaturalità investe tutto il nostro essere: sia il
nostro essere spirituale che il nostro corpo. Senza richiamare equivoci
dualismi, entrambi sono infinitamente lontani da Dio, come
infinitamente lontana è una creatura dal suo Creatore. Ma è proprio da
questa distanza, come ricordava David Maria Turoldo in una delle sue
appassionate omelie, che nasce l'infinita inquietudine e l'infinito
desiderio del cuore, l'insufficienza delle cose, l'insufficienza
perfino di questi amori, finché non si raggiunge l'Amore. "Chiunque beve di quest'acqua avrà di nuovo sete..." (Gv 4,13). È il rischio perenne dell'amore, il rischio perenne della gioia sempre imperfetta che in esso si vive.

Eppure, è solo attraverso il percorrere passo dopo
passo l'insufficienza di questi amori che si raggiunge l'Amore. Perché
la relazione, il confronto con il volto dell'altro, è l'unico luogo in
cui è possibile costruire la nostra identità: non nella cattura
dell'altro, ma proprio nell'incontro con il suo volto, che mi consente
di conoscerlo e di ri-conoscerlo, e nel contempo di conoscere e di
ri-conoscere me stesso. Quando nella coppia esiste amore vero e
profondo, non solo l'innamoramento, l'infatuazione di tipo fusionale,
ma l'amore di reciprocità, frutto della volontà d'amare e non solo del
sentimento d'amore, questo incontro si fa "evento"; "attimo", non
istituzione, per il credente "sacramento"; dono, gioiosa meraviglia,
non possesso; orizzonte, non meta raggiunta; cammino dalla solitudine
all'intimità. Ma spesso, anche, cammino a ritroso: dall'intimità alla
solitudine. Per poi rifare ancora il cammino, e passare finalmente
dall'intimità alla comunione. Oltre il deserto. E anche nel deserto (o
forse solo in esso) è possibile incontrare l'Amore e la gioia.

"Chi siede nel deserto per custodire la quiete con
Dio è liberato da tre guerre: quella dell'udire, quella del parlare, e
quella del vedere. Gliene rimane una sola, quella del cuore".

 

Luigi Ghia

Asti

da "Famiglia domani" 1/2000

Domenica, 20 Febbraio 2005 16:58

La festa nuziale - Luigi Ghia - 1ma Parte

La festa nuziale

·
Una festa a rischio ·
La nostra festa di nozze ·
E’ davvero una festa? ·
L’amore e la gioia, oltre il deserto…

Prima parte

Cana, piccola località della Galilea, un
paesino di montagna a quindici chilometri da Nazareth, sarà sempre
ricordata, finché durerà memoria d'uomo, per questo fatto che in sé non
ha nulla di straordinario: una festa di nozze che rischia di fallire,
una tranquilla gioia amicale e familiare - sostenuta anche da un buon
vino - che è in procinto di spegnersi, e due giovani sposi un po'
inesperti, che non hanno saputo prendere le misure giuste, destinati ad
una "brutta figura" ed a sopportare le critiche, quanto spesso acide e
malevole, degli invitati. Poi interviene Gesù, sollecitato da Maria, e
ridà senso e vigore a quella festa. Le ridona quelle caratteristiche
che ogni festa nuziale dovrebbe possedere: l'amore e la gioia. E’ il
vero "miracolo". Da una festa a rischio di fallimento, ad una ancora
più piena di quella sperata.

Forse era questo il discorrere (su cui evidentemente
nessun esegeta si sofferma, ma il cui contenuto è lasciato alla nostra
sensibilità emotiva; tra Maria, Gesù, i suoi fratelli e i discepoli nel
lungo cammino del ritorno, in quei poco più di 40 chilometri che
portano da Cana a Cafarnao, sul lago di Galilea, un cammino tortuoso,
impervio e faticoso, dove il parlare assume il significato profondo e
liberatorio dell'aprirsi reciprocamente il cuore, e fa apparire meno
aspra la fatica, e meno lontana la meta.

Anche la nostra rivista nell'anno 2000 vuole
idealmente ripercorrere quel cammino da Cana a Cafarnao. Riflettere non
solo sul tema delle nozze di Cana - colto nella prospettiva esegetica,
filosofica, teologica, pastorale - ma soprattutto su quella "festa
nuziale" di cui le nozze di Cana così come ci sono state tramandate
dall'evangelista Giovanni rappresentano un segno.

Una festa nuziale

Come spesso accade per gli scritti di
Giovanni, sarebbe vano ricercare nel noto brano delle nozze di Cana una
chiave di lettura storica, nel tentativo di ritrovare in esso quei
riferimenti di natura teologica ed etnologica atti a collocarlo
nell’alveo di una tradizione per poi collegarvi una concreta esperienza
di vita. La lettura del quarto Vangelo si situa prevalentemente su di
un piano teologico (anche se varrebbe forse la pena sollecitare una
lettura da parte dei teologi non sulla base della "loro" teologia, ma
cercando di entrare a fondo senza le loro precomprensioni teologiche
nella teologia di Giovanni) e gli elementi che in esso si evidenziano
hanno sempre un contenuto fortemente simbolico sul quale, di volta in
volta nel corso dell’anno, tenteremo di riflettere. Così il tema delle nozze,
secondo tutti gli esegeti, è figura dell’alleanza che Dio ha instaurato
col suo popolo, alleanza che Gesù sostituisce con una "Nuova Alleanza"
(ed è questa sintomaticamente la prima delle "sostituzioni" evidenziate
da Giovanni nel suo Evangelo: subito dopo l’episodio di Cana ci sarà
poi quello di Nicodemo in cui si manifesta la "sostituzione" della
Legge e poi ancora quello della Samaritana in cui viene significata la
"sostituzione" del culto…).

Mentre l’antica era fondata sulla Legge mosaica, la
nuova alleanza è fondata sull’amore, e simbolo di questo amore, e della
gioia ad esso collegata, è il vino. Viene subito in mente l’incipit del
Cantico: "Mi baci con i baci della sua bocca! / Sì, le tue tenerezze sono più dolci del vino…" (1,2).

E ancora, nello stesso poema, ma, quando durante la
danza a due schiere, tipica - anche se non esclusivamente - delle feste
nuziali, nel dialogo ideale che intercorre tra il coro e i due giovani,
la ragazza prorompe in un incontenibile grido d'amore verso il suo
innamorato: "Il tuo palato è come vino squisito, / che scorre dritto verso il mio diletto / e fluisce sulle labbra e sui denti..."
(7,10). Sì, una festa senza vino che festa è? Che festa è una festa
senza amore, quando non c'è la festa nel cuore, e i convitati sorridono
solo per buona educazione, o per ipocrisia? Anche se apparentemente la
festa riesce, c'è in essa una sorta di forzatura, di crisi di senso.
Solo l'amore è in grado di dare senso e pienezza alle cose, ad ogni
cosa, ad ogni avvertimento. Ed è quanto è venuto a fare Gesù.

Eppure, come dare colpe agli sposi che rimangono
senza vino, non sempre per negligenza, o per superficialità, per
presunzione, ma quanto più spesso per mancanza di risorse? Sovente
fanno quello che possono, e non rimane loro - per restare nella
metafora - che confidare nell'aiuto, nel buon senso, nella sensibilità
di chi hanno invitato alla festa... Anche noi ci ritroviamo spesso,
come loro, senza vino, sprovveduti e confusi... E allora, o cediamo al
non senso, desistendo dalla incessante ricerca del significato profondo
dell'esistenza, o accettiamo di riempire d'acqua le giare. Gesù
trasformerà quest'acqua in vino, perché è lui a dare pienezza alla vita
attraverso una relazione intima con Dio, realizzata nella relazione
intima tra un uomo e una donna che si vogliono bene, un amore i cui,
detto in linguaggio povero, non solo noi ma anche Dio ha bisogno per
continuare a vivere nel mondo.

A noi pare - e vorremmo bandire ogni intenzione
polemica - che all'interno della comunità cristiana quando si parla di
nozze, di matrimonio, di incontro di coppia, di due che si vogliono
bene insomma, ci sia ancora un po' la tendenza a mettere in evidenza i
compiti, i vincoli, i "paletti", gli aspetti morali (e frequentemente
moralistici) della relazione, a restare cioè sul piano dell'"antica
alleanza", dimenticandone o sottovalutandone gli aspetti ludici, di
festa, in definitiva di gioia. La felicità, il godimento anche fisico,
è stato spesso tabuizzato da una certa cultura cattolica, cd è un tabù
che da un lato molti di noi stentano a scrollarsi di dosso, e
dall'altro lato richiama, per reazione opposta, estreme banalizzazioni.
A dire il vero, è un rischio che a poco il poco pare vada
dissolvendosi, grazie anche al peso sempre maggiore che coppie mature e
responsabili rivestono nell'impianto e nella formulazione dei documenti
ecclesiali sul matrimonio e sulla famiglia, ma ci sembra che il cammino
sia solo iniziato. Occorre continuarlo.


Luigi Ghia

Asti

da "Famiglia domani" 1/2000

Sabato, 05 Febbraio 2005 18:53

Un’informazione che non informa

Un’informazione che non informa

Ricordo di aver sentito dire una volta, in un Convegno, che il modo migliore per eliminare il problema immigrazione è evitare che se ne parli. Effettivamente, nella contemporanea Società dell’Informazione, la crescente accessibilità dell’informazione aumenta smisuratamente il potere che deriva dal controllo delle sue fonti. Ne è prova evidente il fatto che l’effettivo verificarsi di un evento può essere persino messo in dubbio se di esso non si dà traccia sui media.

Questa riflessione porta a chiedersi perché un certo tipo di informazione, che pure esiste ed è ben nota ai professionisti del settore, poi non emerge al di fuori di questi contesti “chiusi”.

Una probabile ragione si può rintracciare nel predominio di una logica economica che induce gli operatori di questo settore a porsi come obiettivo più che la diffusione di un’informazione “formativa”, l’ampliamento delle vendite che, nel tentativo di accaparrarsi un numero sempre crescente di nuovi lettori, porta i media ad adeguarsi a livelli sempre più bassi, perseguendo logiche commerciali, di “spettacolarizzazione”.

I temi sociali sono i primi ad essere sacrificati da questa logica. Prendiamo, ad esempio, l’immigrazione: dai media italiani questo argomento è stato sempre trattato, e lo è tuttora, quasi esclusivamente come un problema di sicurezza, senza che alcuna attenzione venisse posta al problema dell’integrazione, alle modificazioni, sia positive sia negative, che l’inserimento di queste persone introdurrà nella nostra società, ai problemi degli immigrati... Un simile approccio, più attento agli aspetti sociali del fenomeno, potrebbe promuovere una cultura più aperta e disponibile all’accoglienza e far passare il concetto che l’immigrato è una persona portatrice di valori diversi e non soltanto una fonte di manodopera, un numero, un nemico.

Maurizio Andolfi

 

 

Un popolo in ascolto. Per «fare quello che ci dirà»

Il Figlio in ascolto

Imparò l'obbedienza dalle cose che patì

L'icona mariana

Le sue vie non sono le nostre vie

· In questo numero si vuole «porre la questione» dell’obbedienza da punto di vista biblico- esegetico · da tale ricognizione emerge che essere (meglio: diventare) obbedienti è accettare di essere figli, come Gesù, il Verbo fatto carne · Un modello di obbedienza non deresponsabilizzante.

Una delle preghiere quotidiane di Israele fin dai tempi di Gesù comincia con le parole tratte da Dt 6,4 «š ma’, yisrāël: ascolta, Israele!». Non un comandamento sul fare, né l'invito a prendere un’iniziativa qualsiasi. È il precetto fondamentale: Israele diviene il popolo dell'ascolto, della passività, della docilità di Dio che guida la sua storia. Né il vero israelita dell'antica alleanza, né l'autentico cristiano sono rappresentati dalla Scrittura come eroi che compiono grandi imprese: la via comune è piuttosto la via dell'abbandono, del seguire Dio là dove egli chiama. I profeti dell'Antico Testamento vengono sradicati dalle loro attività, dai loro villaggi per seguire le esigenze tenere e forti allo stesso tempo della Parola divina: questa Parola è come un fuoco che brucia dentro; chi la può trattenere? I discepoli del Nuovo Testamento sono chiamati a seguire Gesù e a rimanere con lui: non si tratta soltanto di una sequela momentanea o di un fate qualcosa per lui, ma di entrate in profonda comunione con lui, lasciandosi guidare. Da Abramo in poi, ogni credente è figlio della promessa; si affida e parte, senza sapere dove andrà: «Per fede Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava. Per fede soggiornò nella terra promessa come in una regione straniera, abitando sotto le tende, come anche Isacco e Giacobbe, coeredi della medesima promessa. Egli aspettava infatti la città dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio stesso» (Eb 11,8-10).

Essere obbedienti è dunque semplicemente essere figli. Accettare di essere figli. Accettare cioè la dipendenza da un Altro. È la nostra verità: la tentazione costante del popolo di Israele è quella di costruirsi cisterne con le proprie mani, ma sono cisterne screpolate, che non possono trattenere l'acqua (cf Ger 2). Una sola è la Sorgente dell'Acqua viva, e il figlio che ricerca la propria indipendenza pretendendo di fare a meno della casa paterna si autocondanna alla sterilità (cf Lc 15,11-32). Accettare di essere figli è il primo passo per vivere l'obbedienza. È accettare di essere creature, con i propri limiti, con il proprio peccato, con la propria storia, riconoscere di dipendere in tutto e per tutto.

Il Figlio in ascolto

A questo atteggiamento ogni uomo è - di fatto - restio. L’Adamo originale - cioè l'uomo di sempre, l'uomo di ogni tempo e di ogni luogo - vive costantemente la tentazione della disobbedienza non tanto come rifiuto di leggi o di norme esterne, quanto piuttosto come non accettazione della propria creaturalità e della propria figliolanza. Il peccato originale consiste proprio nel voler essere come Dio (cf Gn 3,5), nel mangiare il frutto dell'albero della conoscenza del bene e del male: l'uomo vuole impadronirsi della morale, vuol essere legge a se stesso, vuole bastare a se stesso! Gli idoli - opera delle mani dell’uomo - sono il segno più evidente della difficoltà di Israele ad accettare di essere salvati da Dio, senza cercare la salvezza con le proprie mani. La critica profetica contro l'idolatria è l'invito al ritorno all'obbedienza vera, un'obbedienza che renda ragione alla nostra verità.

C'è però un uomo che ha vissuto fino in fondo tutte le esigenze del proprio essere figlio: il Figlio Unigenito di Dio, il Verbo fatto carne per guidarci nella strada di questo ascolto. Il prologo del Vangelo di Giovanni ci offre l'icona originale dell'obbedienza, guidandoci a contemplare il Verbo (cioè la Parola!) nel senso della Trinità, in atteggiamento di perfetta e totale obbedienza. Giovanni inizia il suo vangelo con questa contemplazione, che ci rimanda allo splendore epifanico di tante icone orientali (penso in particolare alla celebre icona della Trinità di A. Rublëv): «in principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio» (1,1). L'espressione greca pròs ton theòn, che traduciamo con «presso Dio», in realtà vuole offrirci l'immagine del Verbo che sta «di fronte a Dio». Padre e Figlio sono contemplati l'uno di fronte all'altro; il Verbo è in atteggiamento di ascolto, di accoglienza e di disponibilità a tutto ciò che il Padre dice. Il Verbo fatto carne dirà tutto e solo ciò che avrà udito dal Padre: egli e il Padre sono una cosa sola (cf Gv 5,19-47; 8,28-29).

 

 L'obbedienza cristiana nasce dal cuore della Trinità, dal Figlio che ascolta ciò che il Padre dice da sempre, lo guarda negli occhi e quasi pende dalle sue labbra. Non c'è obbedienza se non in questo rapporto personale e in questa comunione d'amore.

 

Allora la preghiera del figlio: «sia fatta la tua volontà» (Mt 6,10), preparata e fortificata dalla preghiera angosciata del Figlio: «non come voglio io, ma come vuoi tu!» (Mt 26,39), non è la rassegnazione sfiduciata e remissiva di chi sa che non si può fare altrimenti! È piuttosto il grido gioioso del figlio che desidera fare ciò che al Padre piace, cerca le cose che gli sono gradite, quasi anticipandone la manifestazione e prevenendone i desideri (cf Gv 8,29).

«Imparò l'obbedienza dalle cose che patì»

L'autore della lettera agli Ebrei ci dice fino a che punto si sia spinta questa obbedienza esemplare del Figlio: «pur essendo Figlio, imparò l'obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono» (5,8-9). Cristo non ha vissuto la sua figliolanza come un tesoro geloso o come un motivo di superiorità, ma l'ha compresa come una consegna totale. Il suo essere Figlio consiste nell'«imparare» l'obbedienza. La vita di Gesù ci dice che non si è obbedienti: lo si diventa se ci si lascia condurre da Dio, che ci educa come un padre fa con i suoi figli. Gesù stesso ha compiuto questo cammino di educazione all'obbedienza! Anche nelle relazioni fraterne la via è dunque l'educazione all'ascolto, all'accoglienza dell'altro per imparare ad accogliere ed ascoltare l'Altro. Questa strada si è imposta al Figlio di Dio soprattutto attraverso la via della sofferenza. L'esperienza di Gesù valorizza il momento della prova, della difficoltà, di ogni crisi come il momento privilegiato per l'educazione all'obbedienza. La notte è simbolicamente il luogo in cui l'uomo smette di fare, di lavorare, di essere il protagonista, per lasciarsi fare e condurre da Dio. Ogni «notte» dell'esistenza umana (crisi, aridità, sofferenze, distacchi) può aprire la strada a un «di più» di ascolto; la sofferenza accolta, accettata e vissuta può affinare la capacità di ascolto di ogni uomo, perché la sofferenza è il momento della verità.

Era questa anche l'esperienza del popolo di Israele, condotto per mano da Dio, liberato dalla schiavitù egiziana e in cammino verso la terra della promessa. Il libro del Deuteronomio ricorda ad un popolo stanco, sfiduciato, tentato dal dubbio, in continua mormorazione contro il Signore, che l'esperienza del deserto fa parte di un cammino di educazione all'obbedienza: «ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che tu avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandamenti. Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto o provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma vive di quanto esce dalla bocca del Signore. (…) Riconosci dunque in cuor tuo che, come un uomo corregge il figlio, così il Signore tuo Dio corregge te» (8,2-3.5).

Se non fossero venuti a mancare la carne, i pesci, i cocomeri, i meloni, i porri, le cipolle e l'aglio che Israele mangiava gratuitamente in Egitto (cf Nm 11,45), se il popolo non avesse fatto l'esperienza dell'essenzialità, della rinuncia e della fatica del deserto, Dio non avrebbe potuto educarlo all'ascolto. Invece è proprio in quell'assenza e in quella fatica che i figli d'Israele possono nutrirsi del dono divino e sentir crescere in sé la fame e il desiderio della parola che esce dalla bocca di Dio.

 

L'icona mariana

Il vangelo ci dona in Maria un'icona dell'umanità docile ed obbediente. La Vergine dell'Annunciazione, creatura del "si", è lo specchio fedele e il risvolto umano di Cristo, l'Amen, il Sì radicale a Dio Padre: egli «non fu "sì" e "no", ma in lui c’è stato il "si"» (2 Cor l,19; cf Ap 3,14). «Avvenga di me seconda la tua Parola» (Lc 1,38) è il grido di gioia di Maria che sa di poter essere la terra fertile in cui Dio potrà seminare la sua Parola.

 

La redazione lucana dei vangeli dell'infanzia ci mostra Maria in questo atteggiamento di ascolto obbediente. Una prima volta in Lc 2,19 ci viene detto che Maria serbava «tutte queste cose/parole» meditandole nel suo cuore, e poi ancora al v. 51 Luca sottolinea questo atteggiamento interiore della Vergine. Nel primo versetto citato, l'evangelista presenta la meditazione di Maria sugli eventi e sulle parole del Figlio con il verbo greco syllambàno, che significa «confrontare, mettere insieme». La madre conserva dunque nel cuore (sede biblica del pensiero, della ragione, dei sentimenti, della volontà) tutte le parole e tutti gli eventi della vita del Figlio, confrontandoli fra loro perché si illuminino a vicenda; di fronte ad ogni situazione, soprattutto di fronte a quelle più difficili (Luca ne parla infatti in occasione di due eventi negativi nella vita di Maria), la Verginità, chiedendosi il perché delle cose: «che cosa vorrà dirmi Dio attraverso quella parola o quella situazione?».

 

Anche l'immagine della spada nelle Parole di Simeone ci porta alla stessa conclusione. Il santo vecchio predice a Maria: «anche a te una spada trafiggerà l'anima» (Lc 2,35). Se è vero che queste parole rappresentano la predizione delle sofferenze future di Maria fino alla croce del Figlio, per cui anche di lei si può dire che «pur essendo figlia, imparerà l'obbedienza dalle cose che patirà», non dobbiamo dimenticare che nella Bibbia la spada simboleggia spesso la Parola di Dio, «viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio» (Eb 4,12). Simeone parla dunque anche del cammino di obbedienza della Madre alle Parola del Figlio.

Le sue vie non sono le nostre vie

Il vangelo non usa mai il verbo greco hypakoùo (obbedire) in riferimento alla relazione di un uomo con un altro uomo, e neppure nei confronti di Gesù: sono gli elementi della natura o gli spiriti maligni che gli obbediscono ciecamente, con un'esecuzione materiale (cf Mt 8,27; Mc 1,27; 4,41; Lc 8,25); anche i discepoli -se solo avessero fede quanto un granello di senape - potrebbero farsi obbedire dalle forze della natura (cf Lc 17,6). Anche il resto del Nuovo Testamento usa questo verbo con una certa parsimonia, e mai nel caso di un uomo che obbedisce ad un altro uomo, se non in pochi testi esortativi dell'epistolario, molto segnati culturalmente e riguardanti precetti di morale familiare (cf Ef 6,1.5; Col 3,20.22; 1 Pt 3,6). Si obbedisce piuttosto a Dio (cf Eb 11,8), al vangelo (cf Rm 10,16; 2 Tes 1,8), alla fede (cf At 6,7), alla parola (cf 2 Tes 3,14), ai desideri della carne o dello Spirito (cf Rm 6,12.16-17). I verbi che meglio caratterizzano l'obbedienza evangelica sono invece i verbi dell'ascolto e dell'accoglienza, che invitano a comprendere l'atto di obbedire più in termini personali e comunionali che giuridici o legalistici

È vero poi che nel vangelo di Luca Gesù dice ai settantadue discepoli inviati in missione: «chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me» (10,16), ma la Bibbia non sottolinea in modo particolare l'obbedienza a mediatori umani: al centro della rivelazione sta un ascolto di Dio che agisce e che parla nella vita di ciascuno e nella vita del nuovo popolo di Dio, che è la Chiesa. Forse una delle presentazioni più sintetiche ed efficaci dell'obbedienza biblica ci è data dalla celebre frase di Rm 8,14, in un contesto che insiste particolarmente sulla filialità: «tutti quelli infatti che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio». Siamo figli, ma in realtà lo diventiamo! Più ci lasciamo guidare dallo Spirito, più viviamo il nostro essere figli! L’obbedienza nella Bibbia non riveste dunque una dimensione di sicurezza: non sappiamo fin dall'inizio che cosa significhi e che cosa comporti obbedire. Ad obbedire s'impara obbedendo! Il figlio obbediente è colui che vive pienamente la speranza teologale, lasciandosi condurre per mano da Dio là dove Dio lo vuole condurre. E poiché le sue vie non sono le nostre vie (cf Is 55,8), può darsi che la sua fedeltà si manifesti nel chiederci oggi cose diverse da quelle che ci ha chiesto fino a ieri. Il cristiano ancorato al suo passato, alle tradizioni puramente umane è l'esatto contrario del figlio obbediente: anche i farisei erano abilissimi ad osservare le tradizioni degli uomini, trascurando il comandamento di Dio e vanificando la sua Parola (cf Mc 7,1-13)!

L'obbedienza secondo la Bibbia non è neppure deresponsabilizzante: non significa delegare ad un altro la fatica di scegliere per me. Gli uomini e le donne che incontrano Gesù nel vangelo sono tutti chiamati ad una scelta libera, responsabile e personale. Prima o poi tutti arrivano ad incontrare Gesù in modo personale e a lasciarsi coinvolgere fino in fondo dalla sua Parola. Gli inviti di Gesù («seguimi, ascolta, rimani in me, se vuoi...») sono inviti personali ed appelli alla libertà di ciascuno. Anche negli Atti degli apostoli la Chiesa delle origini ci appare più come la comunione di persone in ascolto che come una massa di pecoroni intruppati. Basterebbe vedere a tale riguardo l'insistenza con cui l'opera lucana parla della Chiesa come dell'unione di coloro che ascoltano o accolgono la Parola.

Da tutto ciò traspare che l'obbedienza per la Bibbia non è qualcosa di statico e spersonalizzante, ma è una realtà dinamica, è la vita stessa del credente che vive la propria condizione di figlio. Obbedire è ascoltare la Parola, è meditarla con sincerità, è docilità allo Spirito, attenzione alla presenza di Dio, sensibilità nel cogliere i segni dei tempi, è la virtù di chi affina la propria capacità di ascolto, è vittoria sulla pretesa orgogliosa di poter gestire la vita e trovare la salvezza con le proprie mani, è lasciarsi condurre docilmente come Maria. L'obbedienza biblica ha poi una caratteristica fondamentale, che il Nuovo Testamento qualifica con la parola greca parresìa, che potremmo tradurre con una gamma sconfinata di significati: «coraggio, libertà di spirito, franchezza, coerenza, passione per la verità...».

Voglio concludere accennando appunto a due esempi, due icone bibliche di questa obbedienza vissuta con parresìa. La prima, veterotestamentaria, è la vocazione profetica. Ogni profeta - per natura sua - è un uomo in ascolto della Parola, e questa Parola lo conduce spesso là dove egli non vorrebbe (il più emblematico è il caso di Geremia). Ogni profeta ha a che fare con il potere, sia esso incarnato nella persona del re o dei ricchi ingiusti o dei sacerdoti corrotti, come coscienza critica e come voce capace di far risuonare la Parola di verità nella sua integralità. La stessa consacrazione battesimale riveste il credente di questa dimensione profetica che ne fa un uditore della Parola, costi quello che costi, L'altra Icona - questa volta presa dal Nuovo Testamento - è quella dell'apostolo Paolo che, ad Antiochia, non teme di opporsi alle colonne della Chiesa e allo stesso Pietro affinché si affermi la verità. Leggiamo, in conclusione, le sue linee autobiografiche nella lettera ai Galati, non per ricavarne un invito orgoglioso alla ribellione, ma per scoprirvi l'umiltà e la coerenza di una fedeltà alla verità della Parola, caratteristica del vero apostolo: «Giacomo, Cefa e Giovanni, ritenuti le colonne, diedero a me e a Barnaba la loro destra in segno di comunione. (…) ma quando Cefa venne ad Antiochia, mi opposi a Lui a viso aperto perché evidentemente aveva torto. Infatti, prima che giungessero alcuni da parte di Giacomo, egli prendeva cibo insieme ai pagani; ma dopo la loro venuta, cominciò a evitarli e a tenersi in disparte, per timore dei circoncisi. (…) Ora quando vidi che non si comportavano rettamente, secondo la verità del vangelo, dissi a Cefa in presenza di tutti: "Se tu, che sei giudeo, vivi come i pagani e non alla maniera dei giudei, come puoi costringere i pagani a vivere nella maniera dei giudei?"» (Gal 2,9.ll-1214).

Roberto Fornara

Biblista – Roma

Da “Famiglia domani” 3/2000

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Venerdì, 28 Gennaio 2005 21:24

UNO STILE DI SERVIZIO (seconda parte)

Uno stile di servizio

In cammino verso il prossimo…

All'inizio del nostro «Quaderno di strada» c'è una frase che sottolinea l'impegno preso nella comunità scout, è una frase che possedeva e possiede il carattere di una Promessa: «Con l'aiuto di Dio prometto sul mio onore di servire Dio, la Chiesa e i fratelli».

Un impegno, in età giovanile, è entusiasmante e coinvolgente come ogni proposito: ma, come tutti i buoni propositi, soprattutto se giovanili, è inevitabilmente velleitario, non è una realtà, ma il progetto di una realtà, non è un «essere», ma, al più, un «voler essere».

D' altra parte nell'avventura educativa scout questo limite si trasforma in una grande potenzialità, anzi nella potenzialità per eccellenza. La vita all'aria aperta, ricca di avventure, di incontri e di scoperte singolari a contatto con la natura, la strada faticosa lungo la quale inerpicarsi per raggiungere vette di incontrastato splendore, i canti gioiosi intorno al fuoco assumono il senso di una ricerca e di un tirocinio: una vita vera, dotata di senso, perché inserita in un itinerario conosciuto e scelto; una vita ricca di gioia, perché «garantita» e sorretta dalla forza rassicurante di una comunità.

 

Uno stile di vita

Un impegno, per diventare realtà, deve trasformarsi in forza operante, in «spirito», deve diventare «stile di via». La quotidianità della nostra famiglia possiede lo stile dei servizio? Il nostro vivere mostra questo sigillo?

Non lo sappiamo, e forse non possiamo e non dobbiamo saperlo. Uno stile, se è vero, diventa «naturale», non ha bisogno di conferme né esteriori né interiori, perché ciò che è naturale, di solito, sfugge a chi lo possiede. Certo lo stile va coltivato, perché, come ogni cosa umana, appassisce e muore; ma la lezione scout ci ha fatto capire che il servizio si alimenta di cose abbastanza «strane»: la gioia della natura severa e vissuta con essenzialità, l'allegria della comunità, la preghiera, la solitudine, il silenzio, lo studio, il confronto serio e sincero.

 

L'Impegno educativo

Poi sono nati i figli e con loro l'esigenza di una intenzionalità educante. Una responsabilità nuova e molto più complessa ci investe.

Ricordiamo il tempo della nostra gioventù, quando non eravamo mai così spigliati e brillanti come nei momenti in cui mancava la persona che ci interessava veramente. Se avevamo preparato a fondo un esame, diventavamo ben più nervosi di quando il lavoro non era stato fatto con particolare impegno.

Così oggi sappiamo che quando una cosa ci sta particolarmente a cuore siamo più impacciati, maldestri e controproducenti di quando l'interesse è modesto; forse perché, in fondo, le cose cui teniamo veramente sono più complesse delle altre.

Crediamo nel servizio, nella sua capacità di essere segno di redenzione. Ci sembra una solida verità: non ne abbiamo moltissime, a ben guardare, ma questa è una di quelle, perciò vorremmo trasmetterla, e in particolare ai nostri figli, ma ne siamo preoccupati e non poco.

È vero che nel cuore abbiamo una certezza: la grazia è sempre nelle mani di Dio, ma tale certezza non attenua il peso della responsabilità. Anche l'assoluto abbandono è una scelta, e deve nascere dalla convinzione che questo è l'invito di Dio, che tale specifica vocazione è la nostra. A noi non è sembrato.

Per questo abbiamo cercato di pensare un itinerario verso il servizio, scomponendone la strada e cercando di valorizzare quello che effettivamente possiamo fare, per camminare con i nostri figli.

 

La prima tappa verso il servizio: le «buone maniere»

L'attenzione più naturale, più quotidiana e più semplice, per iniziare con bambini molto piccoli il cammino verso il servizio, ci è sembrata quella rivolta alle «buone maniere», o alla «buona educazione». Sappiamo che è un processo secondario, assai poco eroico e certamente, come tutte le cose umane, ambivalente e deteriorabile, ma nel complesso ci è sembrato carico di potenzialità significative.

I nonni dicevano: «Educati si nasce, non si diventa».

Era falso, ma non completamente. La parte di verità di quel discorso stava nel fatto che un atteggiamento può essere frutto di una recita, di una posa, e quindi essere sostanzialmente incerto, artificiale e in definitiva falso; oppure, come ben sa ogni vero scout, essere uno «stile» di vita, cioè qualcosa che è diventato, e quindi è, naturale.

Cosa significa essere gentili? Perché dire «Buona sera», «Ciao», «Per favore», «Grazie»...? Per rispetto: e Kant diceva che merita rispetto solo ciò che per noi ha «dignità», cioè solo ciò che per noi ha un valore in sé, un valore non trasformabile in prezzo.

Essere gentili significa quindi cominciare a rispettare gli altri.

Essere veramente gentili, significa rispettare veramente gli altri.

Quando si rispettano veramente gli altri? Il primo passo è quello di accorgerci che esistono prestando attenzione. Le buone maniere sono fatte di attenzioni, ma per avere attenzione occorre prestare ascolto. Chi sa «a memoria» gli altri, chi non ha bisogno di ascoltarli, non è mai veramente gentile, finge di esserlo. Ma per ascoltare gli altri bisogna creare le condizioni perché possano esprimersi, bisogna essere accoglienti, cioè gentili.

Per molti versi le buone maniere sotto state uno strumento di classe. Nate con nobili e utili finalità, frutto del processo di civilizzazione dell'uomo, sono poi diventate strumento di discriminazione, un facile modo per bollare i parvenus, per escludere chi non era dello stesso ambiente. Esito paradossale, diametralmente opposto alle origini. Le buone maniere, nate per favorire la convivenza, sono diventate un mezzo per impedirla. Così accade quasi sempre, quando l'uomo pretende di essere misura di se stesso; ma noi vorremmo che per i nostri figli dire «Ciao» o «Scusa» fosse il primo passo per considerare veramente il prossimo: la prima tappa per poterlo più credibilmente servire.

Gian Maria e Federica Zanoni — Brescia

                                                Da “Famiglia domani” 4/2000

Venerdì, 28 Gennaio 2005 21:13

Uno stile di servizio

Uno stile di servizio

 

· La catechesi del «dover essere» ha contribuito a creare coppie e famiglie propense a pensare a ciò che non sono piuttosto che capaci di scoprire ciò che sono · La radice ultima del servizio è Dio Amore · Alcune tappe per raggiungere questo orizzonte che deve trasformarsi in «stile di vita»: «tirare fuori» e contemplare il servizio; contemplare che serve e che deve essere servito; servire per simpatia; fare della famiglia un luogo dove chiunque possa sostare e trovare ristoro · Iniziando da una prima tappa, importante anche se apparentemente poco eroica: educare i figli alle «buone maniere», capaci di dire, non solo formalmente, «grazie», «scusa», «ciao».

 

In famiglia...

 Le nostre famiglie devono servire, devono essere povere, devono essere solidali, devono essere... I tanti «devono essere» a cui spesso sono state richiamate, hanno formato generazioni di genitori e coppie più propense a pensare a ciò che non erano piuttosto che a valorizzare ciò che erano. Ben diverso è «cercare di essere» dallo scoprire, a volte con meraviglia, ciò che si è. In Gesù di Nazareth la nostra umanità è stata riscoperta e rivalutata come segno e benevolenza del Padre, come anticipo di quella piena umanità in Lui realizzata. Si tratta allora di scoprire qualcosa che è già in noi, magari in germe, ma che possediamo. Una famiglia quindi non «deve educare al servizio» ma potenzialmente «educa al servizio» per il semplice fatto di essere famiglia. Significa quindi primariamente portare a consapevolezza strumenti che sono presenti nella vita di tutti i giorni.

La radice ultima del servizio è quel Dio Amore che si è innestato in noi, nella nostra umanità e che non si pone come meta irraggiungibile, ma come forza che preme e che attende di essere sprigionata. Poniamo qui alcune semplici annotazioni, nate più dall'esperienza che da trattati o studi specifici. Trattati e studi su cui però andranno successivamente collocate.

 

«Tirar fuori» il servizio

«Ciò che vuoi che gli altri siano, cerca di esserlo tu per primo». (MADELEINE DELBRÊL)

Il termine educare richiama il «tirar fuori», il considerare un esistente, renderlo evidente e potenziarlo. Educare al servizio vorrebbe dire quindi «rendere evidente e rafforzare il servizio che è in noi». Ma di che servizio parliamo? Forse di quella modalità che spesso identifichiamo come non facente parte di noi stessi, che costa fatica, rinuncia, ma che «cristianamente» dobbiamo attuare? Sarebbe un «metter dentro», piuttosto che un «tirar fuori». Alcune espressioni di E. Fromm identificano bene ciò che vogliamo dire: «essere per l'altro»: «uscire da sé verso altri da sé»; «fare per gli altri»; «volontà di fare, di condividere, di sacrificarsi» (da: Avere o essere?). Fromm, come altri (Adler, Frankl) identifica la massima espressione di potenza di un essere umano, e quindi la sua massima realizzazione, nel donare gratuitamente. Questo ci porta a valutare il servizio anche come «benessere» della persona e non solo come «dover essere», rendendo il servire sicuramente più consono al Lieto Annuncio.

Potremmo dire che servire con amore sicuramente genera amore. Il servire diventa non solo stimolante per chi dona, ma anche per colui a cui è donato. Ed è soprattutto il modo con cui si dona che viene recepito: un genitore che compie con sufficienza o addirittura irato un atto dovuto ai propri figli, farà passare tale atto come insignificante, ingiusto nei propri confronti, dovuto e non dato. Educare al servizio in famiglia significa allenarsi a fare sorridendo anche quando non si ha un riscontro: guarisce chi dà e guarisce chi riceve.

 

Contemplare il servizio

«In qualunque luogo tu sia, tu sei tutta la carità». (MADELEINE DELBRÊL)

Contemplare significa primariamente «porre dentro il proprio orizzonte». Esiste una insignificanza dei gesti quotidiani? Possiamo permetterci di escludere la ripetitività di gesti, azioni, le solite cose di tutti i giorni, dall'orizzonte del Regno? A volte siamo così presuntuosi da definire le azioni in base alla loro eclatanza e alla loro portata. Contemplare il servizio, vuol dire scoprire e dare valore ai piccoli atti quotidiani, indipendentemente da chi li compie all'interno della famiglia e valorizzarli come atti di donazione, anche quando sembrano non esserli nemmeno per chi li compie. Recuperare il senso dei piccoli gesti, delle piccole azioni fatte per il bene di tutti, spesso date per scontate o addirittura dovute, ci dà la possibilità di essere dei veri contemplativi del servizio degli altri, ma anche di rivalutare il nostro.

Lavare, stirare, accudire, accompagnare a scuola al mattino presto i figli... attendere per essere ascoltato, sopportare le sfuriate, che a volte non si capiscono, della mamma, non sono atti dovuti, ma piccoli, costanti, quotidiani servizi di amore.

Educare al servizio in famiglia vuol dire recuperare questi atti al rango e alla dignità che hanno e così scoprirci con piacevole sorpresa molto più servizievoli di quello che crediamo.

 

Contemplare chi serve e chi va servito

«Non chiamare nel prossimo suscettibilità ciò che in te chiami sensibilità». (MADELEINE DELBRÊL)

Ma lo sguardo primo nella famiglia è alla persona. La capacità di andare oltre il gesto e arrivare a chi lo ha compiuto non è da tutti. Percepire a volte il disagio, a volte la difficoltà di servire, ci pone nella condizione di tentare di capire l'altro e di entrare nel suo modo di farsi prossimo. Ci sono gesti e modalità relazionali che vanno colti nella conoscenza della persona che li produce, così come c'è modo e modo di «rendersi utili» diversificando gli interventi a seconda di chi si ha dinanzi, rispettandolo come soggetto e non come oggetto del nostro «essere per lui» in quel momento.

Non si serve prescindendo dalla persona: dove ci sono due o più figli, la stessa azione, lo stesso comportamento del mettersi a disposizione provoca reazioni diverse e non sempre accettate. Non solo: le stesse richieste di aiuto sono inviate in modi talmente diversi e a volte irrazionali che arrivano a confondere chi le riceve.

Educare al servizio in famiglia vuol dire porre attenzione alle persone così come sono tentando di capire e farsi capire, dosando gli interventi non sulla propria ma sulla altrui sensibilità.

 

Servire per simpatia

«Tu sei sempre a servizio». (MADELEINE DELBRÊL)

Uno stile di vita di servizio non lo si trova improvvisamente in noi. Qualcosa o qualcuno prima o poi lo fa emergere. Nella famiglia questo stile emerge per simpatia, cioè per «conformità nel sentire», come dice originariamente il termine greco. È vivendo insieme che si realizza questa conformità. Le attenzioni e le disattenzioni fra i componenti costruiscono o demoliscono un rapporto nella misura in cui sono ignorate, mal valutate, o addirittura sopravvalutale sia da chi le compie che da chi le riceve. Lo spirito di servizio si impara vivendo gomito a gomito, dicendo chiaramente che cosa non è e che cosa è servire/amare senza paura di rivelarsi per come ci si sente in quel momento, avendo presente bene di che cosa si sta parlando e quali sono i parametri di valutazione.

Soprattutto i genitori, in quanto tali, educano al servizio «per simpatia» quando si preoccupano non solo di non far mancare nulla ai figli, ma soprattutto di instaurare veri rapporti tra persone.

La famiglia educa al servizio quando i rapporti sono «veri», quando la coppia vive in sé atteggiamenti di servizio reciproco, senza mascherare la non coerenza in cui ogni tanto si incappa, davanti ai figli.

 

Una «stazione di servizio»

«Mio Dio, se Tu sei dappertutto, come mai io sono così spesso altrove?». (MADELEINE DELBRÊL)

Imparare a servire in famiglia altro non è che la prova in pista per quel viaggio unico e incomparabile a cui siamo chiamati: la vita, che diventa «eterna» (senza fine) dal momento in cui, per amore, impareremo a fare gli affari degli altri come se fossero i nostri. La famiglia sarà allora per noi e per i nostri figli come una stazione di servizio: un luogo dove fermarsi lungo il viaggio per riprendere fiato, dove qualcuno controlla che l'olio non manchi per evitare frizioni strane, dove si provano le gomme perché la pressione (quella che ci consente di «andare verso») rimanga costante, dove c'è sempre qualcuno che offre qualcosa di più di quello che è richiesto…

Stefano Zerbini — Mirandola (Modena)

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