Famiglia Giovani Anziani

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Domenica, 20 Febbraio 2005 18:05

La bellezza di ciò che continua

La bellezza di ciò che continua

 

Secondo i dati forniti da
un'indagine Iard, la famiglia e l'amore sono i valori fondamentali dei
giovani italiani, rispettivamente per l'86% e il 78% del campione.
Questi picchi valoriali, in ogni modo, non hanno nessuna influenza
nella reale vita familiar-matrimoniale, visto che la permanenza nella
famiglia d'origine aumenta, che i matrimoni diminuiscono e che di
conseguenza la natalità si posticipa oltre i 30 anni. La considerazione
che si può trarre è che c'è resistenza ad instaurare relazioni stabili,
a prescindere dal matrimonio, e che convivere è una decisione troppo
impegnativa e che prevede troppi oneri e rinunce; inoltre è
considerevole le difficoltà poste dal fattore tempo, causa la difficile
conciliazione tra tempo familiare e quello lavorativo. La convivenza
con i genitori è vista come difesa da una società minacciosa e
difficile da affrontare, da cui si può scappare rifugiandosi tra le
rassicuranti mura domestiche.

I CONTESTATORI E GLI EDONISTI

Le diversità generazionali tra giovani del
Novecento si possono racchiudere nello slogan delle tre emme e delle
tre esse. Le tre emme simboleggiano i valori dei giovani degli anni
Cinquanta e più in generale della precontestazione: gli ideali della
moto (o macchina), del mestiere, di una moglie (o marito); sono questi
gli obiettivi di chi voleva crescere in fretta e diventare presto
adulto. Le esse rappresentano i giovani degli anni Ottanta, che
puntavano ai soldi, al successo e al sesso. Mentre negli anni Cinquanta
il matrimonio e la famiglia sono i due principali traguardi d'ogni
ragazza e ragazzo, la rivoluzione, sociale e sessuale, scoppiata nel
decennio successivo, porta il tasso dei matrimoni ad abbassarsi
notevolmente negli anni Sessanta e Settanta. Alla fine degli anni
Novanta il matrimonio non è né un istinto né un bisogno, come
all'inizio del secolo, ma una nicchia di felicità e il luogo del
dialogo. Si è passati cosi' dal matrimonio senza amore (combinato per
interessi prevalentemente economici) a quello per amore e, oggi, ad un
amore che vive anche senza matrimonio.

LA CULTURA DELL'AMORE

I giovani vivono ormai in situazione
culturale contraddistinta dal soggettivismo, dalla reversibilità delle
scelte, dalla differenziazione tra ambiti privati e pubblici e anche il
matrimonio è visto come una sovrastruttura ingombrante, perché per i
giovani quello che conta veramente è l'amore, i sentimenti, l'intimità.
Si può parlare di "relazione pura", in cui nel rapporto di coppia il
legame non è sancito da criteri esterni o sociali, ma da criteri
interni al rapporto. In questa visione manca la progettualità comune
della coppia e il senso profondo della relazione; il rapporto amoroso è
oggi autonomo a causa della mancanza di riferimenti sociali esterni che
sostenevano e incanalavano la coppia fino a qualche decennio fa.
L'amore diventa cosi' "caotico" perché è sganciato dalla morale, dalla
religione, dalla famiglia e da ogni supporto esterno: i tempi di
fidanzamento diventano lunghi e indefiniti, l'intesa sulla religione e
anche sugli aspetti economici diventa contenuta, la lontananza psichica
dai parenti è ampia e sono assenti coppie modelli cui ispirarsi. Il
matrimonio appare cosi' sempre più sullo sfondo, posticipato perché
visto troppo faticoso e impegnativo, ma anche privo di una trama
precisa da poter seguire. Questo rappresenta un paradosso, perché oggi
la coppia è un nucleo fondamentale per l'individuo, ma non è
necessariamente visibile né istituzionalizzata nella società attraverso
il matrimonio.

Osservando anche ciò che succede negli altri paesi,
la scelta di stare insieme si potrebbe articolare nel futuro in tre
livelli diversi: la convivenza more uxorio, il Pacs, che norma alcuni
aspetti della vita di coppia non coniugata che permette di ricevere un
sussidio materiale, e il matrimonio rinforzato, che rinforza l'impegno
matrimoniale con una formazione a monte.

Il contesto culturale odierno è quindi "neutro" nei
confronti del matrimonio: per rilanciare e rafforzare il vincolo
matrimoniale occorre partire dalla trasformazione dei giovani, che
hanno piena libertà e autonomia sebbene ancora dentro la famiglia
d'origine e le loro tappe verso l'età adulta sono sempre meno visibili
e significative. La coppia oggi non è vista in una progettualità ma è
solo fonte di riduzione e di sfogo dalle tensioni esterne e sociali. I
percorsi che portano al matrimonio sono privati, non supportati in
alcun modo dall'esterno: c'è bisogno quindi di una politica pubblica
per la tutela della famiglia, che aiuti le giovani coppie a diventare
delle vere famiglie.

Come scriveva il poeta Rilke, "c'è tanta bellezza in
tutto ciò che comincia", ma forse c'è una bellezza maggiore in ciò che
sa continuare rinnovandosi.

Vittorio Filippi - Sociologo

Tratto da "Famiglia Oggi"-11

Riduzione e adattamento a cura di Simona Internullo

Domenica, 20 Febbraio 2005 18:03

VECCHIE E NUOVE DINAMICHE

VECCHIE E NUOVE DINAMICHE

Fino al 1975, anno in cui fu abrogata la
legge 316 sul diritto di famiglia, la patria potestà era esercitata dal
padre, designando la supremazia paterna rispetto alla figura della
madre. Il figlio non poteva prendere decisioni, ma solo esservi
soggetto; la figura istituzionale della madre era completamente
assente.

L’art.134, che sostituisce quello citato, diventa
"esercizio della potestà dei genitori": al padre è sostituita la coppia
di genitori, con una distribuzione del potere decisionale. La crescita
dei figli è ora un progetto comune, fatto di condivisione di
responsabilità e di valori. Nel caso di conflitto fra i genitori, il
potere decisionale viene collocato al di fuori della famiglia e
affidato ad un giudice, che usa come valori di riferimento l’interesse
del figlio e dell’unità familiare.

DECLINO DEL PADRE SEVERO

La legge rispecchia la situazione che
si verifica nella realtà: negli anni Settanta inizia l’eclissi della
figura paterna con una contemporanea crescita e rilevanza dei valori
materni, più attenti ai bisogni e ai desideri dei figli e regista delle
scelte quotidiane. In questo nuovo ritratto cambia anche il modo di
educare i figli: prima il sistema educativo era basato su paura,
mortificazione e vergogna e per conquistarsi la fiducia dei genitori
erano necessari molti sforzi e i figli avevano troppo poco spazio
all’interno del nucleo familiare. Con lo sviluppo economico degli anni
Sessanta, il quadro culturale e sociale cambia, con l’importanza sempre
maggiore delle donne, lavoratrici e responsabili all’interno della
famiglia; la mobilità sociale permette di disegnarsi il proprio
progetto di vita.

LA COPPIA MADRE-BAMBINO

La rilevanza sociale del padre e
capofamiglia lascia sempre più spazio alla coppia madre – bambino,
perché i valori di riferimento per una buon’educazione sono quelli
materni e infantili, con l’idea del figlio felice, da crescere senza
frustrazioni e da proteggere, in un clima pieno d’affetto; la scuola
materna diventa luogo in cui crescere i bambini in allegria. L’ambiente
sociale, colpevole di stress e tensioni, diventa l’orco da cui
proteggere proprio figlio.

Quando i bambini felici diventano adolescenti, però,
sorgono i primi problemi, perché la felicità non può essere un modello
educativo realistico: nella società l’attenzione e le relazioni devono
essere guadagnate, non sono dovute come all’interno della famiglia; la
risposta tempestiva al bisogno del bambino impedisce il formarsi del
valore del sacrificio e dell’autonomia, rendendo gli adolescenti
fragili e disarmati davanti alle sfide lanciate dalla società.

LO SCENARIO INTEGRATO DI OGGI

Nella famiglia di oggi la decisione
di avere un figlio è presa dalla coppia, nata per amore e non per
necessità sociale, come in passato; in questa coppia è di solito la
donna a sentire la necessità di una nuova vita, e coinvolge il partner
in questa decisione, nominandolo padre.Il padre è dunque coinvolto fin
dall’inizio, anche perché spesso la madre ha bisogno di aiuto, negato
sovente dalla società e a volte anche dalla famiglia di origine.

Per quanto riguarda i fratelli, essi devono crescere
in un clima di democrazia, fatta di competizione ma anche di
collaborazione. Tutti sono diversi ma uguali, perché nessuno è
superiore all’altro; la famiglia di oggi, che preferisce la
contrattazione al conflitto, è caratterizzata dalla povertà di regole e
dalla tendenza dei genitori di mantenere bassa la conflittualità
piuttosto che gestirla.

L’infanzia è dunque felice e difficile da
abbandonare, sia per i ragazzi sia per i genitori, che ricoprono un
ruolo faticoso ma gratificante. È il padre a dover sostenere
l’adolescente, con l’ascolto e la valorizzazione delle risorse del
figlio, facendosi carico anche della depressione materna dovuto
all’abbandono del nido da parte del figlio.

La nuova famiglia integra notevolmente competenze
materne e paterne per sostenere la crescita dei figli; ma è spesso
isolata, non supportata da una rete sociale che permetterebbe il
confronto e il dialogo con altre famiglie.

Corinna Cristiani,

docente di psicodinamica dello sviluppo, univ. di Milano

Tratto da "Famiglia Oggi – 11"

Costruzione della identità: segnali di rischio

Il termine identità è di quelli così densi
di implicazioni che richiedono subito di essere definiti, e quindi
ristretti, resi affrontabili, grazie ad un aggettivo: identità sociale,
culturale, etnica, religiosa, personale…

Prima parte

Parlerò qui di alcuni aspetti che hanno a che fare
con la costruzione dell’identità personale da un punto di vista
psicologico. Da un punto di vista generale voglio sottolineare
l'importanza che riveste la conquista di una matura identità: si può
innanzitutto ricordare, in proposito, come la xenofobia e il razzismo
sono sempre stati buoni rifugi per chi, scoprendosi incerto sulla
propria identità personale o sociale ha bisogno di demonizzare e
aggredire chi è diverso per negare e aggredire le proprie debolezze.

Il titolo invita a chiedersi quali sono almeno
alcune delle condizioni in cui si manifesta nei bambini e negli
adolescenti le difficoltà di costruzioni dell’identità da un punto di
vista psicologico. Questione difficile perché infanzia e adolescenza
sono i periodi della vita in cui l’identità viene a costruirsi e quindi
le difficoltà nella sua costruzione sono fisiologiche e vanno pertanto
rispettate. Da questo punto di vista un pericolo per un sano sviluppo
può essere rappresentato proprio dalle ansie degli adulti riguardo alla
normalità o meno del percorso di maturazione che il bambino segue. È
questo il fenomeno ben noto a tutti dell'apprensione dei genitori
riguardo ai figli e che, quando supera limiti per così dire
fisiologici, diventa una ingombrante interferenza o addirittura un
fattore di deformazione patologica dello sviluppo. Questo accade perché
quando l’apprensione si trasforma nel genitore in una persistente
incertezza sulle capacità del bambino o dell'adolescente di "sapersela
cavare" davanti ai compiti di sviluppo, questo sentimento si traduce
nel bambino in un profondo senso di insicurezza che ne mina 1'autostima
e ne indebolisce davvero le sue capacità affondare i diversi passaggi
evolutivi.

Un po' schematicamente, ma fondatamente, potremmo
dire che posto in una condizione psicologica come quella descritta, il
bambino può reagire in tre modi; sottomettendosi, isolandosi, opponendosi.In tutti i casi pagherà un prezzo in termini di alienazione della
costruzione della propria identità. Se si sottomette e fa proprio il
messaggio di sfiducia nei suoi confronti contenuto nell'atteggiamento
apprensivo dei genitori, non potrà che dare conferma a tale aspettativa
negativa comportandosi in modo da poter dire anche a se stesso "visto
che non sei capace?"; ad ogni piccolo insuccesso ad ogni piccola
dimostrazione di incapacità si rinforzerà la valutazione negativa in un
perverso circolo vizioso. Sono quelli i bambini timorosi di non
riuscire, che si ritraggono davanti alle proposte di gioco o si
bloccano al primo risultato non positivo: ogni occasione, ogni
relazione con gli altri assume infatti di per loro il valore di un
giudizio.

 Giancarlo Rigon

Psichiatra, Psicoanalista, Neuropsichiatria infantile,

Primario di NPI, AUSL Città di Bologna,

docente di psicoterapia all’Università di Bologna

Domenica, 20 Febbraio 2005 17:31

Il disturbo da attacchi di panico

Il disturbo da attacchi di panico

"Vita umana e cristiana si intersecano
continuamente; il presente articolo, vuole semplicemente dare delle
indicazioni nei confronti di una sofferenza specifica ed offrire un
contributo per la comprensione delle persone che ne sono affette".


Quando si parla di attacchi di panico ci si
riferisce ad un caso clinico in cui l’ansia si manifesta in modo
particolarmente violento, coinvolgendo sia la sfera fisica che psichica
dell’individuo.

La caratteristica principale dei disturbi da
attacchi di panico è un’intensa sensazione di disagio mista a paura,
che arriva al terrore vero e proprio; improvvisamente, la persona
inizia a sentirsi inquieta, cerca vie di uscita se si trova in posti
affollati, arriva a fermarsi se si trova alla guida di una macchina.

Di solito non ci sono prodromi – cioè segni
premonitori – di un inizio della crisi; tutto si manifesta
improvvisamente in modo del tutto incontrollabile ed imprevedibile.

All’intenso stato di disagio e paura, si uniscono
poi sintomi che coinvolgono l’intero organismo producendo dei malesseri
che, sebbene temporanei, aumentano notevolmente il terrore di morire,
di perdere il controllo della situazione, di trovarsi a dover svenire
da un momento all’altro in condizioni sfavorevoli (ad esempio in
autobus).

Gli psichiatri sono concordi nel ritenere che, per
parlare di disturbo da attacchi di panico, è necessario che siano
presenti almeno quattro dei tredici sintomi che lo caratterizzano;
questi tredici sintomi sono: una sensazione di soffocamento con
relativa fame d’aria, sensazioni di svenimento, tachicardia o
palpitazioni, tremori fino a grandi scosse, sudorazione abbondante,
nausea o disturbi addominali, senso di perdere il contatto con la
realtà, formicolii, improvvisi vampate di calore o senso di freddo,
dolore o fastidio al torace, paura di morire, paura di impazzire o di
fare qualcosa di incontrollato.

Ad un attacco di panico, di solito, può essere
associata la cosiddetta agorafobia (letteralmente fobia degli spazi
aperti) ossia la paura di trovarsi in posti o situazioni dalle quali
sarebbe difficile (o imbarazzante) allontanarsi, o nelle quali potrebbe
non essere disponibile aiuto in caso dell’improvviso insorgere di un
sintomo (o di più sintomi) che potrebbe essere inabilitante o
estremamente imbarazzante.

Risulta evidente come le persone che sono costrette
a vivere con un disturbo da attacchi di panico sono esposte ad un vero
e proprio limite nel vivere la quotidianità, sovente condizionata
dall’improvviso insorgere di un attacco.

Nella popolazione generale è stata evidenziata una
prevalenza annuale del disturbo di attacchi di panico compresa tra lo
0,4% e l’1,5%, senza che siano state rilevate differenze per quanto
riguarda il livello socioeconomico.

Il disturbo tipicamente insorge in età giovanile con
esordio compreso tra i 15 e i 35 anni ed è più frequente nelle donne
rispetto agli uomini con un rapporto di tre a uno.

…una sofferenza improvvisa ed incontrollabile

parlando con un paziente che soffriva
di attacchi di panico, ho notato come la parola "infarto" ricorreva
spesso nei suoi discorsi. In effetti, l’accelerazione del battito
cardiaco unita la dolore al petto e alla sensazione di svenimento, con
relativa mancanza d’aria, può far pensare ad un attacco cardiaco e non
ad una crisi d’ansia.

Si entra così in un circolo vizioso in cui i sintomi
producono sempre più paura e la paura alimenta sempre più la crisi
d’ansia. Ad ogni modo è sempre opportuno ricorrere ad una diagnosi
precisa circa gli attacchi di panico; la cosiddetta diagnosi
differenziale può scongiurare il pericolo di patologie nascoste (come
ad esempio un prolasso della valvola mitralica cardiaca) che, di
solito, produce gli stessi sintomi di un attacco di panico.

La cura

Spesso, nei casi di disturbo da
attacchi di panico, è necessario ricorrere a dei farmaci specifici in
grado di contrastare e, possibilmente, limitare l’insorgere delle crisi.

Accanto alla terapia farmacologia sarebbe opportuno
affiancare una psicoterapia al fine di comprendere i reali motivi che
producono reazioni ansiose così violente; è importante sottolineare
che, non di rado, è presente anche la depressione come substrato su cui
possono svilupparsi le crisi di panico che, sebbene necessitino di
tempo per poter essere debellate, possono tuttavia arrivare ad una
remissione completa.

Felice Di Giandomenico

Da "L’Ancora" 1/2 2003

Domenica, 20 Febbraio 2005 17:18

I CONFLITTI TRA GENITORI E FIGLI

I CONFLITTI TRA GENITORI E FIGLI

 

·
Una prospettiva "costruttiva" del conflitto ·
Il conflitto: una tensione tra logica per adempienti e logica per progetti ·
Ma le due logiche sono inconciliabili? ·
Educazione al cambiamento: apertura alle ragioni dell’altro ·
Superare la visione del ruolo stereotipato ·
Per trasformare il conflitto da negativo a positivo ·
Una scheda per la riflessione in famiglia e nei gruppi.

 

La parola "conflitto" può richiamare alla mente immagini e idee non
piacevoli: guerre e distruzioni, violenze e sofferenze. Ma non è
l’unico modo di usare questo termine, e c'è anche la prospettiva
costruttiva che deve essere presa in considerazione proprio per uscire
da una spirale negativa.


Due modelli


  • Chi educa si trova al punto d'incontro di due modelli: quello "naturale" che si sviluppa avendo nella mente la famiglia; e quello "organizzativo", della società strutturata.


  • Vi sono due logiche conseguenti, che a volte convivono con difficoltà: la logica per adempimenti e la logica per progetti.


• La logica per adempimenti risponde al
presupposto che ciascuno, secondo il ruolo che si trova ad occupare -
ad esempio: in famiglia -, ha un certo numero di adempimenti, più o
meno vissuti come un dato "naturale".
Le virgolette per questa
parola stanno a segnalare che è un modo di dire e di intendere. Gli
adempimenti di un figlio nei confronti di una madre possono essere
ritenuti parte di una naturalità fuori da processi storici e da
contesti geografici e culturali; ma non è proprio così come ciascuno
può immaginare e sapere. Questi adempimenti, però, sono vissuti con una
certa naturalezza.


• La logica per progetti esige un'organizzazione.Ed è comprensibile che mansioni e compiti siano definiti sulla base di
un impegno anche nuovo, relativo alle finalità del progetto. In chi
cresce, il ruolo di figlio o di figlia risponde alla logica per
adempimenti; il ruolo di studente è invece nella logica per progetti e
comporta la scoperta di compiti che potrebbero anche essere sconosciuti
nell'ambito familiare. Ma in questo esempio, i doveri di studio sono in
parte, per certi aspetti formali, assimilabili ad adempimenti ritenuti
naturali. Altra cosa è se le aspirazioni di un figlio o di una figlia
sono espressi in termini che vanno oltre il percorso di studi, o anche
ne stanno fuori. Allora gli adempimenti ritenuti naturali sono
sostituibili con impegni relativi all'organizzazione del progetto.



  • Le due logiche, i due modelli, possono coabitare con fatica. Ed è il conflitto.


• Ma può essere un conflitto utile, costruttivo.E però tale se i due modelli non vengono contrapposti con un criterio
di incompatibilità, introducendo il problema di accoglierne uno
escludendo l'altro. Questa contrapposizione può ti nascere da una
presunzione di assoluto: "se ho ragione io, l'altro non può che avere
torto". Può essere utile, invece, esaminare in ciascuna logica le sue
ragioni, E quindi cercare di capire quando e come servirsi di una
logica o dell’altra.


• Questa doppia logica, se non vive il conflitto
costruttivo, può consentire di sfuggire continuamente ad ogni
riscontro, e sviluppare una sorta di onnipotenza
che si serve del
relativismo per tenersi sempre fuori da ogni controllo. Io, figlio,
posso sottrarmi ad ogni adempimento filiale per ragioni che si
riferiscono al mio progetto; nello stesso tempo, potrei attenuare il
mio impegno progettuale, temendo di perdere alcuni vantaggi che mi
vengono dallo statuto di figlio. In questo caso, è bene che in me vi
sia un conflitto.


• Certo che ogni conflitto può essere reale o frutto di fantasie, che non sono da prendere meno sul serio:la perdita di contatto con la realtà può rendere molto più faticosa la
ricerca di una prospettiva costruttiva e feconda. E il riconoscimento
delle ragioni non può essere un’operazione preliminare. Può invece
essere un riconoscimento che viene dopo, nel ripensare a ciò che è
accaduto. Forse possiamo scoprire che le due logiche si avvicinano e
anche si confondono, e che una sorregge l'altra.


Educazione al cambiamento


  • Il conflitto costruttivo può far superare il rischio di ritenere valide unicamente le proprie personali ragioni.


Sentiamo tante volte dire: "Faccio solo quello che
mi piace, o che voglio", con l'idea che le ragioni personali siano le
uniche valide. Le ragioni degli altri non contano. Non si può o non si
deve fare ciò che non ci convince per nulla, badando unicamente agli
altri. Questo sarebbe conformismo. Ma le ragioni individuali non
possono essere talmente ingombranti da escludere tutti.



  • L'educazione ad e cambiamento è apertura alle ragioni degli altri, confrontate con le proprie.


• Ed è un'apertura che non può non essere conflittuale.Chi cresce come chi è adulto può vivere ogni confronto sotto il segno
della fantasia persecutoria, ancorata allo stereotipo del persecutore
che si incontra con quello del perseguitato. Vediamo un piccolo
esempio, riferito ad un gruppo che avviava uno scambio libero delle
proprie esperienze educative. Una persona del gruppo, per anzianità,
assunse il ruolo di coordinatore e lo svolse in maniera molto
silenziosa e discreta. Dopo un certo tempo, una ragazza che partecipava
agli scambi, senza dare segni di insofferenza, uscì dal gruppo. E disse
a chi non era presente, che il coordinatore le aveva impedito di
esprimersi. È possibile che abbia vissuto il coordinatore attraverso
una visione stereotipata, in cui il maschile e il femminile possono
avere la loro parte.


• Questo esempio può facilmente ricondurre a situazioni familiari. Le
reattività, quando sono mosse da fantasie persecutorie, possono
condurre a fughe dalla realtà; e al sostituire all'impegno della e
nella realtà, l'impegno nel ruolo stereotipato. Se questa dinamica si
espande e diventa reciproca, i rapporti rischiano di bloccarsi nel
conflitto sterile del potere o del contropotere. Molte reazioni familiari possono essere lette attraverso la chiave del potere, espresso con i mezzi più vari; il cibo, la disposizione degli oggetti, i vestiti... In questo caso la conflittualità è sterile e non porta a cambiamento.Ciascuno si arrocca in difesa, proiettando sull'altro le colpe del
possibile disagio, e sviluppando un certo vittimismo autoreferenziale.


• Conoscere questi due tipi di conflitto- uno costruttivo e fecondo, l'altro distruttivo e sterile - può essere
di qualche aiuto. Innanzitutto per non ritenere che in sé ogni
conflitto sia dannoso. E quindi per riuscire a trasformare un conflitto negativo in positivo,
facendo in modo che nella relazione entri un poco di realtà, in modo da
ridimensionare la fantasia persecutoria e la dinamica de potere.


L’impegno educativo vissuto nella quotidianità deve
fare i conti con oggetti, con materiali: possono essere elementi della
prigionia che abbiamo chiamato persecutori; e possono essere invece i
punti di apertura per un esercizio di responsabilità che porta ad aprirsi alla comprensione delle ragioni proprie e degli altri.

ANDREA CANEVARO

Dipartimento di Scienze dell’Educazione

Università di Bologna

(da "famiglia domani" 2/99)

Domenica, 20 Febbraio 2005 17:14

Fecondità fuori tempo massimo

Fecondità fuori tempo massimo

Oggi nella classifica, tristissima, degli
interessi prevalenti di tante giovani coppie compaiono troppo spesso
carrierismo esasperato, viaggi esotici e divertimento esclusivo. Fino
ai quarant’anni ormai non si pensa quasi ad altro. Poi, quando
l’orologio biologico manda i suoi misteriosi avvertimenti, ecco
rispuntare la voglia di avere un figlio.

Senza un progetto di fecondità una coppia si avvia
ad arenarsi nelle secche dei miseri orizzonti quotidiani, rischiando di
fallire. Così ecco rispuntare l’immagine di quel bambino a lungo
rimossa per lasciare spazio ad "altro". Ma, in qualche caso, si tratta
di un auspicio fuori tempo massimo perché, a una certa età, anche
qualche meccanismo biologico comincia a risultare meno efficiente. E
poi ci sono il peso dello stress, gli effetti negativi di una vita
spesso sregolata, ecc. Non c’è da stupirsi allora se cresce il numero
delle coppie sterili.

La soluzione è facile: basta rivolgersi agli
apprendisti stregoni della provetta, sborsare qualche milione, e tutto
si risolve. Tanto la logica è quella dell’efficientismo, del risultato
ad ogni costo, dell’interesse personale che annulla qualsiasi
considerazione etica.

Ma come si può pensare che un figlio ad ogni costo e
comunque ottenuto, possa risolvere i problemi di identità di una
famiglia dove, troppo a lungo, la capacità di donare è stata lasciata
in un secondo

piano?

"GRUPPI FAMIGLIA" n° 41 /dicembre 2001

Domenica, 20 Febbraio 2005 17:13

Il permissivismo inopportuno - Parte 2

 EDUCARE IL BAMBINO SIGNIFICA ANCHE CONTRARIARLO

In uno degli Ultimi numeri di
"Psicologia contemporanea" intitolato l'Io lieve" l'autore, Fernando
Dogana, Ordinario di Psicologia all'Università Cattolica di Milano,
scrive che l'Io post-moderno è sedotto e tradito tanto dalla cultura
della diversità, quanto da quella della omologazione, rischiando così
la frammentazione dell'identità. Con in aggiunta l'illusione che tutto
si può, come canta Giorgio Gaber:

"Si può, trasgredire qualsiasi mito,

si può, invaghirsi di un travestito,

si può, fare i giovani a sessant'anni,

si può, far riesplodere il sesso dei nonni."

Al fine di riflettere su quanto può essere fatto in positivo, citiamo le seguenti righe:

Il permissivismo inopportuno

La nuova pedagogia accoglie
ormai come buona la regola di saper dire "no" alle troppe richieste dei
ragazzi, soprattutto se queste sono esagerate. Ancor peggio se sono il
frutto di un dispositivo inquietante.

(Seconda parte)

Naturalmente è sempre possibile esprimere un
giudizio antitetico ai molti che vengono espressi in senso negativo nei
confronti del "permissivismo", a cominciare da certi fatali confronti
con il passato, ad esempio con l’educazione impartita a suon di
cinghiate paterne, che spesso otteneva l’effetto contrario. Freud ci ha
spiegato l’origine di tante nevrosi e di tanti disturbi psichici con i
ricordi di infanzie trascorse nel terrore di stanze buie comminate per
punizione, e il complesso di Edipo non è stato scoperto ieri mattina.
Anche se il dottor Spok non avesse concorso a mettere al mondo almeno
due generazioni di disadattati e impreparati alle difficoltà della vita
con l’invito ai genitori a farsi amici dei loro figli, abdicando
praticamente ai loro doveri di educatori, il proibizionismo non è mai
stato un efficace antidoto al permissivismo.

Il difficile è trovare la via di mezzo. L’esperienza
degli altri, degli stessi genitori e nonni, aiuta, ma non del tutto. I
luoghi comuni spesso ingannano, come è nella loro natura. Chi dice che
i bambini caratterialmente più inclini a irrigidirsi di fronte a
qualsiasi ostacolo sono i figli unici, ai quali troppo facilmente "si
concede tutto", fino a viziarli, non ha mai assistito a certe furiose
liti tra fratelli e sorelle, segnali originari di gelosia destinate a
durare tutta la vita, ben oltre la morte dei genitori che senza volerlo
le hanno suscitate con i loro comportamenti, con le loro vere o
presunte preferenze. Ma detto questo, è pur vero che la socializzazione
è una componente essenziale nella formazione di adulti responsabili.

La misura utile e necessaria è frutto di un
difficile esercizio di diverse virtù incrociate fra loro: la prudenza
nel concedere e nel negare, la fortezza nel mantenere certe decisioni
che si sanno giuste, la comprensione di momenti particolari nella
crescita dei caratteri e delle intelligenze, la pazienza nel sopportare
pianti e capricci senza abbandonarsi all’ira, il coraggio certe volte
indispensabile per dire i "no", evitando di farli apparire immotivati e
soltanto punitivi. E la temperanza, utile a far capire che certi
oggetti del desiderio sono in realtà spese inutili, che offendono la
povertà della maggioranza delle persone e mortificano la consapevolezza
della dannosità individuale e sociale dello spreco. Anche se sullo
spreco è fondata gran parte della società moderna occidentale.

Tipico è il caso della sovrabbondanza di giocattoli
con cui molti bambini vengono illusi sul loro steso futuro: la vita non
sarà mai altrettanto generosa. Del resto, basta osservarli proprio
mentre giocano: bambole, automobiline, giochini elettronici, simil
computer, ministrumenti musicali, libri oggetto scomponibili, tutto un
micromondo che viene rapidamente a noia, buttato alla rinfusa in un
angolo, ma nello stesso tempo occasione di litigi furibondi tra
fratelli o compagni di gioco perché uno vuole esattamente quello che ha
in quel momento in mano l’altro.

Ma nel giudizio complessivo e finale sul
permissivismo ci sembra che sia inconfutabile un argomento: il genitore
permissivo, pur pensandoci comprensivo e premuroso nel non far mancare
nulla al suo tesoro, è molto spesso soltanto un genitore indifferente,
che non vuole fastidi, che delega ad altri la parte fondamentale dei
suoi doveri: l’educazione dei figli. Fino al punto da negare talvolta
clamorosamente anche agli insegnanti il diritto a esercitare il loro
mestiere con la necessaria severità: il bambino "ha sempre ragione".

Beppe Del Colle

da"Famiglia Oggi" (10)

Domenica, 20 Febbraio 2005 17:12

Il permissivismo inopportuno - Parte 1

EDUCARE IL BAMBINO SIGNIFICA ANCHE CONTRARIARLO

In uno degli Ultimi numeri di
"Psicologia contemporanea" intitolato l'Io lieve" l'autore, Fernando
Dogana, Ordinario di Psicologia all'Università Cattolica di Milano,
scrive che l'Io post-moderno è sedotto e tradito tanto dalla cultura
della diversità, quanto da quella della omologazione, rischiando così
la frammentazione dell'identità. Con in aggiunta l'illusione che tutto
si può, come canta Giorgio Gaber:

"Si può, trasgredire qualsiasi mito,

si può, invaghirsi di un travestito,

si può, fare i giovani a sessant'anni,

si può, far riesplodere il sesso dei nonni."

Al fine di riflettere su quanto può essere fatto in positivo, citiamo le seguenti righe:

Il permissivismo inopportuno

La nuova pedagogia accoglie
ormai come buona la regola di saper dire "no" alle troppe richieste dei
ragazzi, soprattutto se queste sono esagerate. Ancor peggio se sono il
frutto di un dispositivo inquietante.

(Prima parte)

Come ci ricorda il filosofo spagnolo Fernando Savater nel libro A mia madre mia prima maestra,
"Kant dice che uno dei primi e nient’affatto trascurabili risultati
della scuola è insegnare ai bambini a rimanere seduti, cosa che, in
effetti, non fanno mai volontariamente a lungo, se non quando si
racconta loro una bella storia (è chiaro che al tempo di Kant non c’era
ancora la televisione…). In una parola, non si può educare il bambino
senza contrariarlo, in un modo o in un altro. Per poter illuminare il
suo spirito bisogna prima formarne la volontà, e questo è sempre
piuttosto doloroso".

Possiamo dirlo in tanti modi: "Non bisogna farlo
piangere"; "piuttosto che faccia un capriccio…"; "prima che cominci a
odiarmi"; "quel giocattolo ce l’hanno tutti" e così via, elencando gli
atteggiamenti che consideriamo nel termine del "permissivismo".
Tuttavia proprio il permissivismo viene sempre più spesso portato al
centro delle discussioni che riguardano l’educazione dei bambini in un
mondo che nel prevedibile futuro chiederà loro, diventati adulti, ben
altra preparazione alla vita di quella richiesta da alcuni decenni
nella cosiddetta civiltà dei consumi.

Da alcune inchieste a raggio internazionale
risulterebbe che i bambini e gli adolescenti italiani sono i peggio
educati di tutto l’Occidente. Ciò avverrebbe anche a causa di un
sistema televisivo nazionale che lungi dal concorrere a educarli,
costringendoli a stare seduti come chiedeva Kant, "propina cartoni
animati o telefilm di qualità mediocre, spesso infima, che inducono gli
scolari a sprecare tante ore della giornata. Domina l’attrazione
morbosa d’ogni trivialità o spettacolare violenza". Ben detto: è
l’esatta descrizione di molti spettacoli televisivi e di molte
videocassette destinate al pubblico infantile, che già a tre-quattro
anni è in grado di proiettarsi da solo, in assenza di adulti o nella
loro più completa indifferenza (quando non con l’esplicita
approvazione, "pur che stiano tranquilli e non diano fastidio").

Beppe Del Colle

da"Famiglia Oggi" (10)

Domenica, 20 Febbraio 2005 17:11

LA VITA NON E' MAI INDOLORE

LA VITA NON E' MAI INDOLORE

La domanda di liberazione dai conflitti non dovrebbe
contenere quella della liberazione dalla conflittualità della vita
stessa, ossia dalla sana tensione inerente alla polifonia della forma
umana dell'esistere. Se, dunque, marito e moglie litigano perché non
sono d'accordo su una serie di decisioni pratiche da prendere, fanno
bene a farsi aiutare per individuare le forze psicologiche in atto
nella contesa: capire ad esempio che il litigio rientra nel loro stile
relazionale di lotta per il potere, per cui nelle decisioni concrete
ognuno, a turno, tende a dominare l'altro o a fare resistenza passiva
per non essere dominato.

Giustamente devono pretendere di essere aiutati a trovare processi
comunicativi più maturi per contenere e superare non solo l'episodio,
ma lo stile di lotta. Ma per non cadere in false aspettative, devono
riconoscere che quel conflitto , anche se superato positivamente,
ricorda la non superabile ambivalenza della relazione d'amore che deve
conciliare il desiderio di incontrarsi e la voglia di conservarsi,
l'amore per l'altro e l'amore per se stessi. Il conflitto di
dominazione /passività va risolto, ma quello ontologico
sull'ambivalenza dell'amore maturo va accettato. Il che significa che
l'amore umano non è quello delle bestie né quello degli angeli, ma,
semplicemente, umano, fatto di sublimi altezze e infime cadute.
Polifonico, appunto.

A un livello immediato è il conflitto caratteriologico a farci paura
("non voglio più lottare con mia moglie"), ma a un livello più radicale
è il mistero dell'amore umano a farci problema ("non voglio provare la
polifonia dell'amore"). Preferiamo ridurre la vita al suo polo sublime
("voglio amare come un angelo!") e se quello umiliante si affaccia,
diciamo che la vita si è spenta ("le voglio bene , ma non l'amo più"),
anziché a questo polo togliere il suo pungiglione di morte e lasciarlo
come parte di un vivere finalmente realista. I temi universali come
intimità, benessere comunicazione, identità sono stati resi patologici
dalla fantasia distruttiva che la vita debba essere sempre indolore.

Alessandro Manenti

(Famiglia Oggi n° 3/2002)

PSICOTERAPIA E MATRIMONI IN DIFFICOLTÀ

"I dubbi sollevati dalla Chiesa"


La Chiesa ha sempre ritenuto uno dei suoi
compiti primari la cura del matrimonio e della famiglia, anche, sia
pure non solo, per il loro valore religioso altamente simbolico. La
famiglia, infatti; è fondata sul sacramento del matrimonio, il quale
rimanda intrinsecamente al rapporto tra Cristo e la Chiesa (cfr. Ef
5,2l ss). Il matrimonio, in tutta la sua realtà anche umana, non è che
un simbolo, la cui verità è il rapporto tra Cristo e la sua Chiesa. In
questo rapporto archetipale tra Cristo e la Chiesa il cristiano trova
il modello di ogni amore matrimoniale. "mariti amate le vostre mogli,
come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per Lei" (Ef 5,25).

Inoltre, la Chiesa individua nel matrimonio e nella
famiglia uno dei luoghi principali della formazione umana e cristiana
nella persona, formazione che è diritto-dovere proprio di ogni famiglia
nei confronti dei suoi membri. Recentemente la ricchezza della dottrina
e della pastorale della Chiesa in questo ambito è stata ripresa, in
maniera piu organica di quanto non sia mai stato fatto nel passato
nell'esortazione apostolica Familiaris consortio (22 novembre 1981).

È interessante notare che nella parte pastorale dì
questo documento non viene mai fatto cenno al contributo che la
psicoterapia potrebbe dare alla famiglia, contributo che sarebbe molto
importante almeno di fronte alle tante difficoltà relazionali che oggi
si manifestano e alle crisi matrimoniali che segnano il mondo
occidentale. Ci appare sorprendente, dal momento che a un primo
approccio sembrerebbe di dover dire che sia la pastorale della Chiesa
sia la psicoterapia trovano un punto di incontro nell'aiuto alla coppia
in difficoltà nella ricerca di una buona riuscita umana del matrimonio
e della famiglia. Evidentemente si scontano anche in ambito pastorale
le problematiche generali di un rapporto tra la Chiesa e la psicologia
/ psicoterapia che non sempre è stato facile. Alcuni chiarimenti sono
avvenuti soprattutto nei confronti della psico1ogia ma qualche
difficoltà rimane per la psicoterapia.

c.b. (Famiglia Oggi n° 3/2002)

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