Uno stile di servizio
In cammino verso il prossimo…
All'inizio del nostro «Quaderno di strada» c'è una frase che sottolinea l'impegno preso nella comunità scout, è una frase che possedeva e possiede il carattere di una Promessa: «Con l'aiuto di Dio prometto sul mio onore di servire Dio, la Chiesa e i fratelli».
Un impegno, in età giovanile, è entusiasmante e coinvolgente come ogni proposito: ma, come tutti i buoni propositi, soprattutto se giovanili, è inevitabilmente velleitario, non è una realtà, ma il progetto di una realtà, non è un «essere», ma, al più, un «voler essere».
D' altra parte nell'avventura educativa scout questo limite si trasforma in una grande potenzialità, anzi nella potenzialità per eccellenza. La vita all'aria aperta, ricca di avventure, di incontri e di scoperte singolari a contatto con la natura, la strada faticosa lungo la quale inerpicarsi per raggiungere vette di incontrastato splendore, i canti gioiosi intorno al fuoco assumono il senso di una ricerca e di un tirocinio: una vita vera, dotata di senso, perché inserita in un itinerario conosciuto e scelto; una vita ricca di gioia, perché «garantita» e sorretta dalla forza rassicurante di una comunità.
Uno stile di vita
Un impegno, per diventare realtà, deve trasformarsi in forza operante, in «spirito», deve diventare «stile di via». La quotidianità della nostra famiglia possiede lo stile dei servizio? Il nostro vivere mostra questo sigillo?
Non lo sappiamo, e forse non possiamo e non dobbiamo saperlo. Uno stile, se è vero, diventa «naturale», non ha bisogno di conferme né esteriori né interiori, perché ciò che è naturale, di solito, sfugge a chi lo possiede. Certo lo stile va coltivato, perché, come ogni cosa umana, appassisce e muore; ma la lezione scout ci ha fatto capire che il servizio si alimenta di cose abbastanza «strane»: la gioia della natura severa e vissuta con essenzialità, l'allegria della comunità, la preghiera, la solitudine, il silenzio, lo studio, il confronto serio e sincero.
L'Impegno educativo
Poi sono nati i figli e con loro l'esigenza di una intenzionalità educante. Una responsabilità nuova e molto più complessa ci investe.
Ricordiamo il tempo della nostra gioventù, quando non eravamo mai così spigliati e brillanti come nei momenti in cui mancava la persona che ci interessava veramente. Se avevamo preparato a fondo un esame, diventavamo ben più nervosi di quando il lavoro non era stato fatto con particolare impegno.
Così oggi sappiamo che quando una cosa ci sta particolarmente a cuore siamo più impacciati, maldestri e controproducenti di quando l'interesse è modesto; forse perché, in fondo, le cose cui teniamo veramente sono più complesse delle altre.
Crediamo nel servizio, nella sua capacità di essere segno di redenzione. Ci sembra una solida verità: non ne abbiamo moltissime, a ben guardare, ma questa è una di quelle, perciò vorremmo trasmetterla, e in particolare ai nostri figli, ma ne siamo preoccupati e non poco.
È vero che nel cuore abbiamo una certezza: la grazia è sempre nelle mani di Dio, ma tale certezza non attenua il peso della responsabilità. Anche l'assoluto abbandono è una scelta, e deve nascere dalla convinzione che questo è l'invito di Dio, che tale specifica vocazione è la nostra. A noi non è sembrato.
Per questo abbiamo cercato di pensare un itinerario verso il servizio, scomponendone la strada e cercando di valorizzare quello che effettivamente possiamo fare, per camminare con i nostri figli.
La prima tappa verso il servizio: le «buone maniere»
L'attenzione più naturale, più quotidiana e più semplice, per iniziare con bambini molto piccoli il cammino verso il servizio, ci è sembrata quella rivolta alle «buone maniere», o alla «buona educazione». Sappiamo che è un processo secondario, assai poco eroico e certamente, come tutte le cose umane, ambivalente e deteriorabile, ma nel complesso ci è sembrato carico di potenzialità significative.
I nonni dicevano: «Educati si nasce, non si diventa».
Era falso, ma non completamente. La parte di verità di quel discorso stava nel fatto che un atteggiamento può essere frutto di una recita, di una posa, e quindi essere sostanzialmente incerto, artificiale e in definitiva falso; oppure, come ben sa ogni vero scout, essere uno «stile» di vita, cioè qualcosa che è diventato, e quindi è, naturale.
Cosa significa essere gentili? Perché dire «Buona sera», «Ciao», «Per favore», «Grazie»...? Per rispetto: e Kant diceva che merita rispetto solo ciò che per noi ha «dignità», cioè solo ciò che per noi ha un valore in sé, un valore non trasformabile in prezzo.
Essere gentili significa quindi cominciare a rispettare gli altri.
Essere veramente gentili, significa rispettare veramente gli altri.
Quando si rispettano veramente gli altri? Il primo passo è quello di accorgerci che esistono prestando attenzione. Le buone maniere sono fatte di attenzioni, ma per avere attenzione occorre prestare ascolto. Chi sa «a memoria» gli altri, chi non ha bisogno di ascoltarli, non è mai veramente gentile, finge di esserlo. Ma per ascoltare gli altri bisogna creare le condizioni perché possano esprimersi, bisogna essere accoglienti, cioè gentili.
Per molti versi le buone maniere sotto state uno strumento di classe. Nate con nobili e utili finalità, frutto del processo di civilizzazione dell'uomo, sono poi diventate strumento di discriminazione, un facile modo per bollare i parvenus, per escludere chi non era dello stesso ambiente. Esito paradossale, diametralmente opposto alle origini. Le buone maniere, nate per favorire la convivenza, sono diventate un mezzo per impedirla. Così accade quasi sempre, quando l'uomo pretende di essere misura di se stesso; ma noi vorremmo che per i nostri figli dire «Ciao» o «Scusa» fosse il primo passo per considerare veramente il prossimo: la prima tappa per poterlo più credibilmente servire.
Gian Maria e Federica Zanoni — Brescia