Famiglia Giovani Anziani

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Maria nostra guida perché possiamo incontrare Dio Uno e Trino.

Mercoledì, 31 Ottobre 2007 20:22

Scelte radicali (Faustino Ferrari)

Dovremmo tornare a focalizzarci sulle esigenze della vita evangelica. Quelle esigenze che interpellano tutti nella loro radicalità e non soltanto alcuni privilegiati...

Gesù nelle grandi confessioni
e nelle ideologie

di Bruno Secondin

ISLAM

Gesù rimane sempre «sorpassato» da Maometto, l’ultimo e il più grande dei profeti. Ancora oggi non è assolutamente ammissibile per l’islam non solo l’incarnazione nel tempo del Dio unico e invisibile; ma anche la morte in croce del Figlio di Dio. Un profeta non può essere lasciato da Dio nell’umiliazione.

È importante notare che ciò che l’islam pensa e crede di Gesù è radicato in certi capitoli del Corano, in particolare quelli che trattano di Gesù e della sua madre Maria. Essi rimangono ancora oggi fattore determinante e centrale del giudizio islamico su Gesù Da qui deriva una notevole stima sia del cristianesimo - considerato religione rivelata da Dio - che di Cristo, considerato mandato da Dio, taumaturgo, originato da nascita verginale, portato in cielo col corpo (ma senza soffrire la morte).

Maria è l’unica donna citata per nome nel Corano - da lei prende nome perfino un capitolo del testo - e che insieme a Cristo ha goduto di particolare simpatia e venerazione nei secoli tra i musulmani1. Ma sempre alla luce e nell’orizzonte generale di quello che il Corano dice di loro.

Nel Corano sono anche descritte qualità distintive dei «seguaci di Cristo»: mitezza e misericordia, assenza di superbia, attenzione ininterrotta alla preghiera, liberalità nelle elemosine e attesa dell’ultimo giorno. In questo senso di vita cristiana come «ascesa» mediante la povertà, la mitezza e l’umiltà si è anche sviluppata e tramandata l’immagine di Gesù nell’islam.

Inoltre oggi si tende a studiare ancor di più la «cristologia» del Corano perché la sua «teologia» riflette la posizione del giudeo-cristianesimo: cioè la cristologia siriaca e semitica dei primi secoli (che privilegia la categoria del servo, come appunto fa il Corano), che poi abbiamo perduto, con la «ellenizzazione».

Un fatto nuovo rispetto alla storia è l’attuale interesse nell’islam per il così detto Vangelo di Barnaba: un testo italiano e spagnolo, databile al secolo XVII (edito però in questo secolo), ma che pretende essere una traduzione di un testo scritto al tempo di Gesù, dal suo discepolo Barnaba. Ciò che ci interessa è come Gesù è presentato: è un Gesù musulmano, ma in stile simile a quello dei Vangeli canonici cristiani. Non contiene nulla che sconcerti un musulmano: né la divinità di Gesù, né la crocifissione, né affermazioni che non siano nell’ortodossia del Corano. C’è di più: l’annuncio chiaro ed esplicito della venuta d’un profeta dopo Gesù, con la rivelazione perfetta2.

Ma se nel Corano Gesù viene chiamato «Parola» di Dio e annunciatore del «Vangelo», come possono i musulmani disinteressarsi di questo Messia e del suo Vangelo?

Fra i teologi musulmani, citiamo Mahmoud M. Ayoubl

«Noi vediamo perciò che - come il Cristo della fede e della speranza cristiana - il Gesù del Corano e della successiva pietà musulmana è molto più di un semplice essere umano e di un semplice banditore di un libro. Mentre il Gesù dell’islam non è il Cristo della cristianità, il Cristo del Vangelo parla spesso attraverso il semplice, umano Gesù della pietà musulmana»3.

Purtroppo le attuali situazioni di conflitto e di tensione fra nazioni cristiane/occidentali e nazioni/culture islamiche hanno fatto crescere tra i musulmani un fondamentalismo esasperato, che non c’era nella storia passata, in questa forma almeno.

Note

(1) Un recente interessante contributo in Maria nell’ebraismo e nell’islam oggi, Marianum-EDB, Roma-Bologna 1987.

(2) Il testo: L. CIRILLO-M. FREMAUX, Évangile de Barnabé Recherches sur la composition etl’origine. Texte et traduction, Paris 1977. Una valutazione cristiana:.J. SLOMP, The Gospel in Dispute. A crirical Evaluation of the first french Translation, with the italian Text and Introduclion of the so-called Gospel of Barnabas, in «Islamocristiana», 4(1978), pp. 67-111.

(3) E’un noto teologo musulmano, che ora vive in America. La frase è ripresa da un suo saggio in «The Muslim World» 66(1976), p. 187.

BUDDISMO

Gesù appare una grande «personalità», supremo maestro della via alla saggezza sconosciuta, che ha tante somiglianze con Budda4. E un’ammirazione che però non intende accettare gli aspetti «divini» di Gesù. Si tace di fronte alla «divinità per natura».

Non mancano delle proposte di «rivedere le formule cristologiche» per i cristiani che vivono in un contesto culturale buddista. Per es. il gesuita singalese A. Pieris5 insiste soprattutto sulla lotta per essere povero e la lotta a favore del povero.

Noi citiamo alcuni passaggi dal grosso saggio di H. Küng sulle religioni6.

Il primo testo è la ripresa di una considerazione, molto audace per vero, ma suggestiva, di un teologo americano.

«Quello che ha da dire il teologo americano John Cobb ... dovrebbe far riflettere: “Il buddismo shin non ha ancora affrontato la crisi del rapporto tra storia e fede. Se esso si confronta con questa crisi, i suoi problemi si presentano, sotto parecchi aspetti, più pressanti di quelli di fronte ai quali si è trovato il cristianesimo; la sua base è infatti ancora più lontana dal corso reale della storia. Esso può certamente trovare molti appoggi nel Budda e nella storia del buddismo, ma là dove la sua dottrina è più caratteristica esso trova un appoggio minimo in questa tradizione, che precede lo stesso Shinran».

Poi Cobb compie: un grande passo, che certamente solo pochi buddisti sono disposti a imitare:

«Tuttavia, niente nell’autocomprensione buddista presuppone la necessaria ammissione che la storia cercata possa venir trovata soltanto in India o nell’Asia orientale. Al contrario, il buddismo tende all’universalità. Pure esso richiede una visione inclusiva di tutte le cose,e oggi una tale visione deve abbracciare la storia universale. Ma la storia universale comprende anche la storia di Israele e l’evento Gesù. Quella storia che comprende la visione cristiana della benevolenza di Dio, sostiene anche la concezione, propria del buddismo shin, della sapienza e della compassione, che caratterizzano la realtà ultima... Appena questo atteggiamento [di sospetto e di difesa] venga superato realmente, non esiste più un motivo di principio perché i buddisti non possano accogliere anche il passato palestinese, come hanno accolto quello indiano. E’ più in Palestina che in India che la storia, quando venga letta come incentrata in Gesù, offre la base più solida per la fede, e che noi veniamo redenti dalla grazia ia virtù della fede».

Ed ancora:

«Quando impara a conoscere la figura del Budda, che fu un uomo che pensava in maniera elitaria, il cristiano avvertirà la grande sfida a mettere radicalmente in questione e a ristrutturare la propria vita orientata forse troppo sul successo e sull’attivismo. Viceversa, quando il buddista accetta di confrontarsi con Gesù di Nazaret, con il Cristo, che aveva compassione del popolo e accoglieva i falliti, percepirà un invito a superare “per il bene di tutti gli uomini” la divisione in due classi dei credenti, a dare al laico, ritenuto inferiore, non soltanto una funzione di secondo grado, ma anche un accesso diretto alla liberazione, un diritto e una dignità propri, a venire in aiuto dei deboli, degli sfortunati e degli sfruttati, per trasformare proprio in questo modo il mondo qui e ora, nella compassione e nell’amore, per il bene di tutti».

Note

(4) Cf. lo studio di P. NGUYEN VAN T0T, Le Bouddha etle Christ, Urbaniana Press, Roma 1987.

(5) A. PIERIS, Buddismo: sfida ai cristiani, in «Concilium», 22(1986), pp. 97s. Per un’analisi più ampia:: rimandiamo ad un importante numero di «Concilium», 14(1978) 6: Buddismo e cristianesimo.

6) H. KÜNG, Cristianesimo e religioni universali, Mondadori, Milano 1986, pp. 513s e 424. Nella prima citazione egli si riferisce allopera di. COBB, Beyond Dialogue. Toward a Mutual Transformation of Chrislianity and Buddhism, 1982, pp. 139-140.

INDUISMO

Qui il rapporto è invece molto più complesso e anche la letteratura è abbondante. C’è un fatto molto interessante: l’affermazione frequente di molti convertiti dall’ induismo al cristianesimo, e anche di molti cristiani profondamente «induizzati», i quali dicono che il Vangelo non sarà mai compreso appieno sinché esso non riceverà anche l’interpretazione «induista». Questo lo si dice specialmente al riguardo del Vangelo di Giovanni: «I cristiani non riusciranno a capire il Vangelo di san Giovanni se non quando l’India sarà cristiana». In generale possiamo dire che:

— Gesù Cristo si innesta bene nella religione bhakti, un ramo non secondario dell’induismo, praticamente tutta la religione del popolo indù. Il motivo di fondo è che la religione bhakti si basa su un dialogo d’amore tra il fedele e il suo Dio (o Krisna o Visnu o Siva), in maniera non dissimile da quello che può avvenire per il cristianesimo per un cristiano «medio».

— Gesù Cristo - trasportato nella visione indù - avrebbe così una funzione simile a quella di Krisna e sarebbe visto come un’avatara di Visnu. La Bhagavad-gita e alcuni Purâna sono essenzialmente i testi della bhakti a cui si ispira una simile visione.

I primi tentativi consapevoli di collaborazione tra cristianesimo e induismo risalgono all’opera missionaria di Roberto de Nobili (1577-1656), esempio di un’autentica inculturazione: si fece brahmino, imparò le lingue sanscrito e tamil, accettò le caste e l’intoccabilità. Altro pioniere è stato Bartolomeo Ziegenbalg (1683-1719), tedesco luterano.

Ma soprattutto importante va ritenuto il ruolo del rinascimento indù del XIX secolo. Esso raggiunse l’apice nel «Brahmo Samaj» fondato da Raja Ram Mohan Roy (1830). Si volle rinnovare l’induismo nel senso di un monoteismo ispirato ai Vedanta e al discorso della montagna, con chiari obiettivi umanistici.

Altre figure che emergono: Keshab Chander Sen (Cristo è un «orientale», logos della nuova creazione); Ramakrishna (1836-1886) (e il suo discepolo continuatore del movimento: Vivekananda), estatico grandissimo, ebbe anche una visione di Cristo. Considerò Gesù come un orientale, dei più grandi maestri di tutti i tempi, a ragione chiamato Dio. Gli europei lo avrebbero interpretato male e abusivamente trasformato in un testimone di una storia missionaria imperialista; è invece maestro dell’interiorità e dei senza patria.

Altri nomi da ricordare: Mahatma Gandhi: per lui Cristo non è un monopolio del cristianesimo, ma un modello per tutti gli uomini, specie in alcuni principi: come la forza della verità, la non violenza, il servizio al prossimo. Vinobba (discepolo di Gandhi): Gesù fu il più grande dei satyagrahi: cioè di coloro che credono nella forza della verità e si impegnano per essa.

Da parte cristiana va notata l’esperienza di «inculturazione» (attraverso gli Ashrams cristiani) di J. Monchanin (+1957), H. Le Saux (Swami Abhishiktananda + 1973; che nel 1968 si ritirò sull’Himalaya a fare l’eremita), Bede Griffiths (autore del libro noto: Ritorno al centro).

Una menzione particolare anche per R. Panikkar, nel suo libro noto, Il Cristo sconosciuto dell'Induismo7: egli sviluppa un notevole parallelismo tra Cristo e Isvara (creatore, signore e manifestazione suprema di Brahman).

Interessante anche il caso del Giappone: dove si riscontrano sia condizioni culturali favorevoli al messaggio cristiano, sia un profondo e quasi «insuperabile» sentimento di rifiuto della visione cristiana.

Note

(7) Vita e Pensiero, Milano 1976.


NEO-MARXISMO

Non è curiosità inutile rivolgere uno sguardo anche nel campo marxista e ascoltare cosa hanno da dire su Gesù Cristo coloro che credono nella visione marxista della storia e dei progetti: è una visione materialistica e atea per principio. Ma vi sono anche a volte interessi culturali per la figura di Cristo che possono dire qualcosa.

Vi sono sì - e ancora tantissimi - marxisti che negano storicità alla figura storica di Gesù, lavorando a smontare la credibilità dei testi e delle fonti. In questo più che Engels e Bauer, maestro indiscusso e caposcuola classico è Karl Kautsky, con l’opera Der Ursprung des Christentums, Kautsky spiega l’insorgere, il chiarificarsi e la definitiva fisionomia del cristianesimo non come derivante da Cristo (che non si sa se è esistito), ma da cause storiche; oppressioni, schiavitù, ribellione. Gesù è per lui un «ribelle», che ha tentato un colpo di stato; nell’orto degli olivi il gruppo (che era armato) era pronto al colpo di mano, da una posizione strategicamente importante. Ma la cosa fallì, anche per il tradimento di Giuda. Il Vangelo è «storicizzazione» di speranze rivoluzionarie che di fatto non si realizzarono. Subentrò invece l’istituzione, che a sua volta divenne potenza e oppressione. «Non fu la fede nella risurrezione del Crocifisso che ha creato la comunità e gli ha dato vigore; ma, al contrario, la vitalità della comunità creò la fede nella sopravvivenza del suo Messia»8.

Ci sono altri studiosi (non russi) che accettano la storicità (sostanziale) delle testimonianze, e vogliono trovare in Gesù un insegnamento che non sia monopolio del solo cristianesimo.9 Questi sono soprattutto coloro che sono chiamati neo-marxisti; da catalogare più come filosofi che critici storici. Fra questi vogliamo ricordarne alcuni.

E. Bloch (1885-1977); autore dell’opera in tre volumi Das Prinzip Hoffnung10. L’idea da tener presente è che, per Bloch, l’uomo è connotato dalla categoria del poter-essere, dalla continua tensione verso ili futuro. «Homo absconditus» è il titolo che egli usa; significa identità non ancora svelata (quindi in cammino, nomade), da inventare in un qualcosa non ancora realizzato. Nella religione, specie quella ebraico-cristiana egli scopre (come tanti altri marxisti) anche un’alienazione; ma soprattutto una tensione verso il futuro, il «regno», verso un avvenire migliore.

Gesù per Bloch non pare relegabile al dolce rabbi nazareno: egli è piuttosto un ribelle, colui che si mette contro ogni forma di schiavitù, pagando anche il prezzo di questa ribellione; che è la croce. La croce non è - come per i cristiani - «gesto supremo d’amore e di fedeltà» al Padre, ma viene dal di dentro dei conflitti: come ultimo segno di una ribellione allo statu quo che non può essere sopportato, ma che bisogna pagare con l’eliminazione fisica. Con plastiche immagini Bloch parla di Gesù come eschaton, come speranza mai domata, come Prometeo che ruba il fuoco agli dèi (e viene inchiodato sulla roccia), a favore dei poveri, o come «serpente» che invita «eritis sicut deus».

V. Gardavsky (cecoslovacco). Anch’egli sviluppa il concetto di Gesù come modello aperto di umanità e ricorre alla concezione veterotestamentaria dell’uomo come essere storico aperto, soggetto di azione creatrice, come Giacobbe incapace di sopportare il ruolo di secondogenito, e «lottatore» perfino contro Dio per strappargli la benedizione. Così appare come la massima incarnazione dell’ideale di un uomo dalle infinite possibilità, in continua esperienza di autotrascendimento. La sua riflessione è legata al momento politico della Cecoslovacchia del 1968

R. Garaudy (francese), filosofo marxista dissidente, oggi passato all’islam. Egli si muove sempre sulla linea dell’autotrascendimento. Per lui l’uomo ha per qualità primaria la capacità di autotrascendenza, la capacità di rompere il cerchio dell’ordine costituito, egli è libertà, progetto, creatività continua. Questa qualità/situazione di fondo è anche un’impresa da compiere: e questo lo porta a superare anche le strutture del socialismo storico. In Gesù si ritrova questa verità di un Dio che non si rassegna, ma con amore rischia, andando incontro al superamento continuo di ogni schema rigido. Nel suo morire e risorgere egli è appello al superamento di ogni limite, anche della morte, come annuncio che tutto è possibile. Ogni nostra azione rivoluzionaria e nuova rende vivente tra noi lui, Gesù di Nazaret.

Ha scritto in un saggio:

«Ogni qualvolta riusciamo a romperla con il nostro vivere di routine, con la nostra tendenza alla rassegnazione, con la nostra facilità a cedere, con le nostre alienazioni nei confronti dell’ordine costituito o della nostra meschina individualità, e grazie a tale rottura, riusciamo a compiere un atto creativo sia in campo artistico o scientifico; sia nell’azione rivoluzionaria o nell’amore: ogni qualvolta contribuiamo con qualcosa di nuovo alla realizzazione della vita umana il Cristo è vivente in noi; da noi e tramite noi si continua la creazione. La risurrezione si compie ogni giorno».

M. Machovec (cecoslovacco): ricordiamo di lui l’opera Gesù per gli atei. Egli parla con grande simpatia di Gesù, anche se utilizza le categorie teologiche post-bultmanniane (dalla cristologia diretta a quella indiretta), ma mette in dubbio un gran numero di dati evangelici. Egli legge la vicenda Gesù con un’ottica «marxista» attenta ai rapporti fra classi sociali.

Senza dubbio appare affascinato dalla personalità di Gesù, e ne sottolinea il tema della povertà-ricchezza che si associa strettamente anche con l’esaltazione dell’infanzia, come situazione non alienata, tempo di libertà e mitezza; amore-non violenza: un amore radicale che raggiunge una profondità straordinaria, come appare dal precetto dell’amore anche verso il nemico; lotta al fariseismo.

L. Kolakovski (polacco), fra l’altro autore di Senso e non senso della tradizione Cristiana. Presenta Gesù come un «profeta e un riformatore». Egli dice di muoversi da un punto di vista puramente filosofico, come laico, fuori delle chiese, attento al posto di Gesù nella cultura europea in generale (cita ad es. Pascal, Hegel, Kierkegaard, Nietzsche, ecc.). Individua nell’insegnamento di Gesù «cinque nuove regole»: abolizione della legge a favore dell’amore; non violenza. nei rapporti umani; non di solo pane vive l’uomo (cioè ci sono anche altri valori); abolizione dell’idea di popolo eletto (cioè Dio ora è accessibile a tutti); precarietà dell’esistenza umana.

Osservazioni. Per riuscire a capire l’interesse dei «neo-marxisti» per la figura storica di Gesù Cristo, non si deve dimenticare che essi si sono trovati di fronte alla crisi di «ispirazione» del marxismo, e al bisogno di riscoprire il soggetto, il senso della vita, la dimensione «trascendente» dell’uomo. Per questo il messaggio etico di Gesù, specie l’enfasi sull’amore, sull’uguaglianza, sul valore della persona, sulla resistenza al male fino a morire, li attrae e sembra loro un modello di «correzione» anche per il marxismo. Horkheimer direbbe che si tratta della «nostalgia del totalmente Altro», come nostalgia «di perfetta e consumata giustizia».

Di recente anche altri valori vengono presi in seria considerazione, come la pietà, il perdono, la misericordia, il peccato, l’amore, Lo ha dimostrato il simposio di Budapest (8-10 settembre 1986) su «Società e valori etici», organizzato dal Segretariato vaticano per i non credenti e dall’Accademia ungherese per le scienze.

Possiamo dire che queste considerazioni proposte dai neo- marxisti hanno un certo interesse e senz’altro hanno influito sulla cultura e sulla stessa teologia in tempi recenti.

Tirando un po’ di conclusioni, possiamo dire che la linea neomarxista, sommata ad altri elementi filosofici, psicologici, culturali, e anche a specifici impulsi «teologici» - come quello di Bonhoeffer: Gesù come «uomo per gli altri» - ha trovato accoglienza e sviluppo (in termini più specificamente cristiani) in non poche riflessioni dei teologi attuali. Citiamo per tutte la «teologia della speranza», esplicitamente ispirata a Bloch, per attestazione dello stesso Moltmann.

Echi e analogie si ritrovano anche nella teologia politica, nella teologia della rivoluzione, in alcuni testi della teologia della liberazione (non i più noti). In particolare per quanto riguarda la comune preoccupazione di delineare una fisionomia di Gesù ricca di sovversività, vittima dei giochi e degli interessi dei potenti, simbolo di tutti gli oppressi della storia, ribelle che vuole e vive una prassi diversa, uomo che muore-risorge come supremo testimone dell’alterità, e la cui memoria rimane pericolosa e sovversiva. Di tutto questo avremo modo più avanti di offrire indicazioni maggiormente puntuali.

L’enfasi su Gesù «uomo libero e aperto» ha contagiato, per osmosi culturale, anche il linguaggio catechetico, gli schemi omiletici, perfino molti testi di meditazione. E questo è un interessante apporto della cultura attuale alla spiritualità cristiana. Ma dobbiamo fare attenzione a conservare completa la verità su Gesù Cristo e non ridurla solo ad alcuni, interessanti, stimoli prassiologici o antropologici.

Il dialogo interreligioso ha infine condotto a rileggere la verità che sta prima e oltre la formulazione «dogmatica» dei concili, per sceverare gli elementi ancora non «fissati» in formule, eppure preziosi e vitali. Perché anche a tutti i popoli e alle tradizioni sia concesso di «vedere Gesù» (cf. Gv 12,21) ed essere accolti da lui con il «giubilo nello Spirito», e così possano guardare a colui che, «innalzato da terra, attira tutti a sé» (cf. Gv 12,32), e credendo alla luce «diventare figli della luce» (Gv 12,36).

Il Cristo è destinato «a ricapitolare tutte le cose» (Ef 1,10), perché le ha riscattate col suo sangue sulla croce; ma anche perché tutto è stato «eletto in lui fin dalla fondazione del mondo» (Ef 1,4) e tutto esiste «in vista di lui» (Col 1,16s). Con l’incarnazione il Verbo ricapitola in sé, in modo visibile, il primato sul cosmo intero, che gli apparteneva in modo invisibile.

Le ricerche e i «cammini» delle religioni abramitiche, come le «vie» e i «sentieri» delle grandi religioni asiatiche o delle tradizioni a sfondo cosmico o animista, ci hanno fatto vedere quanto siano numerosi e preziosi i «semi del Verbo» e i segni di santità, e quanto numerosi siano coloro «che lo cercano con cuore sincero».

Di tutto questo Cristo è artefice e pienezza, spiegazione e fondamento, misteriosa presenza e talora anche figura deformata; rimane implicito soprattutto redentore e signore. Alla nostra epoca tocca «assecondare» gli impulsi dello Spirito, mediante il dialogo rispettoso e sincero, e condurre alla piena realizzazione questa signoria universale di Cristo (cf. GS 92).


Note

(8) KAUTSKY, Der Ursprung, p. 400

(9) Per una migliore e diretta conoscenza cf.: J.M. LOCHMAN, Gesù o Prometeo?, Cittadella, Assisi 1975; T. PRÖPPER, Jésus: raison et foui, Desclée, Paris 1978; I.FETSCHER-M. MACHOVEC, Marxisti di fronte a Gesù, Queriniana, Brescia 1976.

(10) Sono tre volumi editi a Berlino (est) negli anni 1954-1959. Tenere presenti anche Ateismo nel cristianesimo, Feltrinelli, Milano 1971 e Religione in eredità, Queriniana. Brescia 1979.

Martedì, 30 Ottobre 2007 23:22

L'assist (Evgenij Nikolaevic Trubeckoj)

L’antica iconografia russa utilizza in modo simbolico tutte queste tinte. I pittori sapevano disporle giustamente per differenziare il cielo trascendente da quello terrestre che domina la nostra esistenza. Qui si trova la chiave che apre la comprensione della bellezza ineffabile del simbolismo pittorico dei colori.

Giustizia e Carità. Affrontare le sfide del futuro:
i rapporti ebraico-cattolici nel 21° secolo
Dichiarazione congiunta

18a Riunione del Comitato Internazionale di Raccordo tra Cattolici ed Ebrei

Buenos Aires 5-8 luglio 2004. Incontro dell’ International Catholic-Jewish Liaison Committee (ILC) sul tema: “Giustizia e Carità. Affrontare le sfide del futuro: i rapporti ebraico-cattolici nel 21° secolo”.

I rapporti tra la Chiesa cattolica ed il popolo ebraico hanno sperimentato grandi cambiamenti dalla Dichiarazione del Concilio Vaticano II Nostra Aetate (1965), che ha sottolineato le radici ebraiche del Cristianesimo e il ricco patrimonio spirituale condiviso da Ebrei e Cristiani. Nell’ultimo quarto di secolo, il Papa Giovanni Paolo II ha approfittato di tutte le occasioni che si sono presentate per promuovere il dialogo tra le due comunità di fede, che considera inerente alle nostre identità. Questo dialogo ha generato un’intesa e un rispetto reciproci. Speriamo di continuare ad arrivare a circoli sempre più ampi e di toccare le menti ed i cuori di Cattolici ed Ebrei e dell’intera comunità.

La 18ª Riunione del Comitato internazionale di raccordo tra Cattolici ed Ebrei ha avuto luogo a Buenos Aires dal 5 all’8 luglio 2004. Questo incontro, celebrato per la prima volta in America Latina, ha avuto come tema centrale Tzedek and Tzedakah (Giustizia e Carità) nei loro aspetti teorici e nelle loro applicazioni pratiche. Le nostre decisioni sono state ispirate dal comandamento divino “Amerai il prossimo tuo come te stesso” (Lev 19,18; Mt 22,39). Dalle nostre diverse prospettive, abbiamo rinnovato il nostro impegno nei confronti della difesa e della promozione della dignità umana in base all’affermazione biblica per la quale ogni essere umano è stato creato ad immagine e somiglianza di Dio (Gen 1,26). Ricordiamo la difesa dei diritti umani di Papa Giovanni XXIII per tutti i figli di Dio enunciata nella sua enciclica Pacem in Terris (1963) e le rendiamo un tributo speciale per aver iniziato questo scambio fondamentale nei rapporti ebraico-cattolici.

Il nostro impegno reciproco nei confronti della giustizia ha una profonda radice in entrambi i Credo religiosi. Ricordiamo la tradizione di aiutare la vedova, l’orfano, il povero e lo straniero derivanti dal comandamento di Dio (Es 22,20-22; Mt 25,31-46). I Maestri di Israele hanno sviluppato un’ampia dottrina di giustizia e carità per tutti, basata su una profonda comprensione del concetto di Tzedek. Costruendo sulla tradizione della Chiesa, il Papa Giovanni Paolo II, nella sua prima enciclica, Redemptor Hominis (1979), ricordava ai Cristiani che un vero rapporto con Dio richiede un forte impegno nel servizio nei confronti del nostro prossimo.

Anche se Dio ha creato l’essere umano nella diversità, lo ha dotato della stessa dignità. Condividiamo la convinzione per cui ogni persona ha diritto ad essere trattata con giustizia ed equità. Questo diritto include il fatto di condividere la grazia e i doni di Dio (hesed).

Vista la diffusione della povertà, dell’ingiustizia e della discriminazione, abbiamo il dovere religioso di preoccuparci per i poveri e per coloro che sono stati privati dei propri diritti politici, sociali e culturali. Gesù, radicandosi profondamente nella tradizione ebraica dei suoi tempi, ha fatto dell’impegno nei confronti dei poveri una priorità del Suo ministero. Il Talmud afferma che il Santo, sia Benedetto, ha sempre cura dei bisognosi. Attualmente questa preoccupazione deve comprendere ampi gruppi in tutti i continenti: gli affamati, gli orfani, le vittime dell’AIDS, tutti coloro che non ricevono cure mediche adeguate e quelli che non sperano in un futuro migliore. Nella tradizione ebraica, la forma superiore di carità consiste nell’abbattere le barriere che impediscono ai poveri di uscire dalla loro condizione di povertà. Negli ultimi anni la Chiesa ha sottolineato la propria scelta preferenziale per i poveri. Gli Ebrei e i Cristiani hanno lo stesso dovere di lavorare per la giustizia con carità (Tzedakah), arrivando così alla pace (Shalom) per tutta l’umanità. Fedeli alle nostre rispettive tradizioni religiose, vediamo questo impegno comune nei confronti della giustizia e della carità come la cooperazione dell’uomo con il piano divino per costruire un mondo migliore.

Alla luce di questo impegno comune, riconosciamo la necessità di trovare una soluzione per queste grandi sfide: la crescente disparità economica tra i popoli, la grande devastazione ecologica, gli aspetti negativi della globalizzazione e il bisogno urgente di lavorare per la pace e la riconciliazione.

Sono quindi benvenute le iniziative congiunte delle organizzazioni internazionali cattoliche ed ebraiche che hanno iniziato a lavorare per risolvere i problemi dei poveri, degli affamati e degli ammalati, dei giovani, di coloro che non hanno accesso all’educazione e degli anziani. Sulla base di queste azioni di giustizia sociale ci vogliamo impegnare a raddoppiare i nostri sforzi per soddisfare i bisogni più pressanti di tutti attraverso il nostro impegno comune nei confronti della giustizia e della carità.

Man mano che ci avviciniamo al 40° anniversario della Nostra Aetate, la dichiarazione del Concilio Vaticano II che ha ripudiato l’accusa di deicidio contro gli Ebrei, ha riaffermato le radici ebraiche del Cristianesimo e ha condannato l’antisemitismo, prendiamo nota dei molti cambiamenti positivi che la Chiesa cattolica ha operato nei suoi rapporti con il popolo ebraico. Questi ultimi 40 anni di dialogo fraterno contrastano in maniera sostanziale con quasi duemila anni di “insegnamento del disprezzo”, con tutte le sue dolorose conseguenze. Prendiamo energia dai frutti degli sforzi collettivi, che includono il riconoscimento del rapporto unico e continuo tra Dio e il popolo ebraico e il rifiuto totale dell’antisemitismo in tutte le sue manifestazioni, incluso l’antisionismo come espressione più recente dell’antisemitismo.

Da parte sua, la comunità ebraica ha evidenziato un desiderio crescente di portare a termine un dialogo interreligioso ed azioni congiunte su questioni religiose, sociali e comunitarie a livello locale, nazionale e internazionale, come illustra il nuovo dialogo diretto tra il Gran Rabbinato di Israele e la Santa Sede. La comunità ebraica, inoltre, ha compiuto numerosi passi a livello di programmi educativi sul Cristianesimo, sull’eliminazione dei pregiudizi e sull’importanza del dialogo ebraico-cristiano. La comunità ebraica ha poi preso coscienza, deplorandolo, del fenomeno dell’anticattolicesimo in tutte le forme in cui si manifesta nella società.

Nel 60° anniversario della liberazione dei campi di concentramento nazisti, dichiariamo la nostra decisione di impedire la rinascita dell’antisemitismo che ha condotto al genocidio e alla Shoah. Su questo punto siamo uniti e seguiamo gli indirizzi delle principali conferenze internazionali su questo problema che sono state realizzate recentemente a Berlino e presso le Nazioni Unite a New York. Ricordiamo le parole del Papa Giovanni Paolo II, che ha affermato che l’antisemitismo è un peccato contro Dio e contro l’umanità.

L’aspetto degno dell’arte dell’agiografo sta nel fatto d’ottenere (se l’ottiene) di narrare tramite la sua iconografia la verità evangelica nel mondo, non semplicemente di raffigurare il mondo senza l’influenza in esso della Grazia Divina.

di fra Timothy Radcliffe op

Mi è stata richiesta una riflessione sulla spiritualità della missione nell'era della globalizzazione. Cosa significa essere missionari a Disneyland? Di fronte all'invito a tenere questa conferenza, il cui argomento è appassionante, ho provato un sentimento di gioia, ma nel contempo anche di esitazione, perché non sono mai stato un missionario nel senso corrente del termine. Al Capitolo generale elettivo dell'ordine in Messico, i fratelli hanno definito i criteri di selezione dei candidati alla carica di maestro dell'ordine. Si riteneva essenziale che il candidato avesse maturato un'esperienza pastorale al di fuori del proprio paese. E poi hanno eletto me, che avevo lavorato solo in Inghilterra in qualità di accademico. Io non so se tutte le congregazioni agiscano in modo così eccentrico, ma questo dato chiarisce perché io mi senta così inadeguato a tenere questa conferenza.

Don Tonino Bello, vescovo

di Felice Di Giandomenico

E’ impossibile descrivere in poche righe ciò che Sua Eccellenza Mons. Antonio Bello, per tutti Don Tonino, ha rappresentato per la Chiesa e per tutti coloro che vivono ai margini di una società troppo spesso disattenta ai reali e penosi problemi della “gente comune”.
Nato ad Alessano in provincia di Lecce nel 1935, fu ordinato sacerdote nel 1957 a soli 22 anni.
Nel 1982 divenne vescovo di Molfetta, Ruvo, Giovinazzo e Terlizzi.
Nonostante l’alto incarico ecclesiale, Don Tonino era affabile e disponibile con chiunque bussava alla sua porta per chiedere una parola di conforto, un aiuto materiale, un momento di ristoro per l’anima. Ogni singola situazione veniva presa a cuore, affrontata con determinazione.
A chi gli chiedeva che cosa lo affliggesse di più, Don Tonino rispondeva: “Mi fa soffrire molto l'impossibilità di giungere a dare una mano a tutti. Ho un'agenda sovraccarica di persone che chiedono una visita, un sostegno, un appuntamento, del denaro, una soluzione ai loro problemi... Si vorrebbe avere occhi e mani per ognuno, ma non si riesce, e questo è il rammarico più grande”.
Una frase che risuonava spesso sulle labbra di Don Tonino era: “Coraggio, non temere”.
In uno suo scritto intitolato “Le mie notti insonni”, Don Tonino elenca una serie piuttosto lunga di paure che contaminano l’uomo moderno, minando anche il suo rapporto con Dio.
Paure frutto spesso di un progresso che, dopo gli entusiasmi iniziali, si ritorce sull’uomo che vive nell’illusione di mantenersi al passo con i tempi dimenticando che “E’ dal cuore umano che nasce e si sviluppa la nube tossica delle paure contemporanee”
Ma esiste un antidoto contro le paure, il Vangelo dell’antipaura come amava definirlo Don Tonino: “Alzatevi…Levate il capo” (Lc 21, 25-28.34-36). E’ il Vangelo che si legge la prima domenica di Avvento in cui Gesù esorta alla preghiera e alla fiducia nella liberazione definitiva da ogni timore, da ogni paura, da ogni negatività.
Forse anche per la sintonia con la spiritualità francescana (faceva parte dell'Ordine Francescano Secolare) Don Tonino amava lasciarsi guidare dal Vangelo "sine glossa", senza sconti sulla verità né diluizioni o prudenze carnali. Non a caso si definiva “Un buono a nulla. Ma capace di tutto, perché consapevole che, quanto più ci si abbandona a Dio, tanto più si riesce a migliorare la gente che ci sta attorno”.
Don Tonino era anche un vero innamorato dell’Immacolata e, in molti suoi scritti, questo amore diventava una continua dichiarazione d’amore nei confronti della Mamma Celeste.
Dal 22 al 29 luglio 1991, predicò un Corso di Esercizi Spirituali in occasione del 40° Pellegrinaggio della Lega Sacerdotale Mariana a Lourdes da cui venne tratto lo stupendo volume “Cirenei della gioia”. Condivise con i sacerdoti malati quel momento in cui il cuore umano si affida senza riserve alla grazia di Dio, chiedendo l’intercessione della Vergine Santa, offrendo al Signore la propria debolezza e precarietà terrena.
Don Tonino era abituato a prolungate soste davanti Tabernacolo, da cui traeva energia e ispirazione e molte delle lettere che spediva a coloro che, spesso addolorati e affranti si rivolgevano a lui, nascevano proprio nel cuore di una veglia notturna quando era a tu per tu con Dio.
Anche riguardo al tema della sofferenza, Don Tonino rimase sempre aderente allo spirito evangelico che ne sottende il senso. Aveva a che fare con i malati, i disabili, con coloro che nessuno considerava e che rimanevano silenziosi nel loro dolore; dolori diversi ma pur sempre urenti, che lacerano l’anima, che hanno la voce soffocata dall’indifferenza collettiva, che creano cicatrici evidenti nel cuore di chi li deve subire. Ma per Don Tonino, la sofferenza trova un senso vero solo se condivisa amorevolmente con Dio. Dice infatti: “C’è anche il caso, comunque, ed è molto frequente, che il dolore rafforzi l’intimità col Signore: il quale viene riscoperto non tanto come estremo rifugio di consolazione, ma come colui che "ben conosce il patire" e che sa solidarizzare fino in fondo con tutta la nostra esperienza”.
Parole profetiche. Colpito da un male inguaribile mantenne sempre fede ai suoi impegni di pastore d’anime con entusiasmo ma, soprattutto, con un’umanità davvero straordinaria, nonostante le sofferenze che lo tormentavano. La malattia di Don Tonino era una di quelle che non perdona, che produce dolori tremendi, che sfianca il corpo e debilita lo spirito.
Eppure non cessò un solo attimo di affrontare anche sofferenze che non gli appartenevano direttamente, lasciando sempre spazio a chi chiedeva aiuto o desiderava una risposta convincente sull’assurdità del dolore. Consumò lentamente i suoi ultimi mesi di vita tra la sua gente, tra i suoi poveri, tra gli inascoltati gridi della “gente comune”. La morte colse prematuramente Don Tonino il 20 aprile del 1993 a 58 anni.

HA DETTO

“Dio mio, purificami da queste scorie in cui naviga l’ anima mia, fammi più coerente, più costante. Annulla queste misture nauseanti di cui sono composto, perché ti piaccia in tutto, o mio Dio”.

“Io non risolvo il problema degli sfrattati ospitando famiglie in vescovado. Non spetta a me farlo, spetta alle istituzioni: però io ho posto un segno di condivisione che alla gente deve indicare traiettorie nuove, insinuare qualche scrupolo come un sassolino nella scarpa”.

“Vedete, noi siamo qui , Probabilmente allineati su questa grande idea, quella della nonviolenza attiva. Noi qui siamo venuti a portare un germe: un giorno fiorirà.Gli eserciti di domani saranno questi: uomini disarmati”.


Andiamo fino a Betlemme,
come i pastori.
L'importante è muoversi.
E se invece di un Dio glorioso,
ci imbattiamo nella fragilità
di un bambino,
non ci venga il dubbio di aver
sbagliato il percorso.
Il volto spaurito degli oppressi,
la solitudine degli infelici,
l'amarezza di tutti gli
uomini della Terra,
sono il luogo dove Egli continua
a vivere in clandestinità.
A noi il compito di cercarlo.
Mettiamoci in cammino senza paura.
(don Tonino Bello)

Disposti a pagare il prezzo

di
Marcello Barros

Nel Forum, come quello tenutosi a Nairobi, la cosa più importante non è tanto raggiungere un consenso o elaborare dei bei documenti finali, quanto fare in modo che i partecipanti possano mettersi in discussione e le organizzazioni di base ne possano uscire rafforzate. Sicuramente tutti i partecipanti a questo Forum sono stati colpiti dall’estrema povertà della maggior parte della popolazione di Nairobi, e dal fatto che i missionari vivono con loro come gesto concreto di solidarietà, volto a concretizzare un cammino di trasformazione. Questa situazione scandalosa, che colpisce la maggior parte dell’umanità, sembra far sentire il suo grido in America Latina, Africa, Asia, rimandandolo alle chiese, affinché escano dal loro letargo dogmatico e religioso per non essere poi condannate, come complici di omissione, di fronte al genocidio che il neo-liberismo sta operando nel mondo.

Al Forum ci si è chiesti, molto provocatoriamente, se i teologi della liberazione si mantengano fedeli all’ispirazione originale, oppure se molti hanno abbandonato il loro impegno per i poveri per convertirsi a una teologia liberale, capace di dialogare con e scuole europee,svincolandosi dall’impegno per realizzare una trasformazione sociale e di liberazione.

La questione posta dal teologo asiatico Rowan Silva interpella tutti noi:”Se non siamo disposti a pagare il prezzo di essere a fianco dei poveri e degli oppressi, la nostra teologia è inutile”. Silva ha insistito su una nuova teologia che entri in relazione con le religioni. Ha ricordato che in Asia, il cristianesimo ha bisogno di un “battesimo di immersione” nelle acque delle grandi religioni asiatiche, come pure di andare al calvario con i poveri.

Forse per questo, le persone hanno affermato che la spiritualità “per un nuovo mondo possibile” non è ristretta alle istituzioni religiose, ma deve essere libera e indipendente dai dogmi e dalle strutture religiose.

Il Forum si è concluso senza fissare un appuntamento futuro. Nei corridoi, tante persone si sono domandate perché i più famosi teologi della liberazione non fossero presenti a un evento così importante. La risposta più immediata riguardava l’aspetto economico. In modo particolare, il costo del biglietto aereo.

A parte ciò, fin dagli anni’80, in ambito cattolico, la discussione teologica è stata vista con sospetto, fino a essere perseguitata dal Vaticano e, in determinati ambienti, dalle gerarchie locali. Ci si chiede: in che modo si può creare uno spirito di lavoro comune e di interesse al dialogo, come è emerso al Forum? Tale problema suggerisce, soprattutto ai cattolici, quanto questo Forum abbia una natura più ecumenica. Anche se si deve riconoscere che la maggior parte dei partecipanti era di estrazione cattolica e la questione ecumenica è stata trattata solo in maniera minore.

Il giorno dopo la chiusura del Forum di teologia, è cominciato il 7° Forum sociale mondiale, che, più dei precedenti, ha aiutato i partecipanti a confrontarsi direttamente con situazioni di povertà, che molti nordamericani, europei e anche latinoamericani non avevano mai visto prima. Nel Forum mondiale non si è parlato di spiritualità, anche se un partecipante si è posto la seguente questione: “Non appartengo a nessuna religione, non mi pongo la questione su Dio, ma ho visto tanti poveri partecipare al Forum. Osservando la creatività di questa gente, mi sono interpellato nel mio essere più profondo. Non so se tutto ciò significhi”spiritualità”, ma credo che sia questa energia di solidarietà che mi sfida a cambiare il mio modo di vivere”.

(da Nigrizia, marzo 2007)

Lunedì, 29 Ottobre 2007 20:57

L’unità dell'amore (Giovanni Vannucci)

L’unità dell'amore

di Giovanni Vannucci


Cristo ha portato la Legge alla sua perfetta maturazione dischiudendo alla coscienza l’immenso orizzonte in cui l’amore di Dio, l’Invisibile, e del prossimo, il Visibile, si unificano in un’unica espressione nel cuore dell’uomo. «Ama il Signore tuo Dio con tutto te stesso; ama il prossimo tuo come te stesso» (Mt 22, 37-39). Al comandamento e, in conseguenza, all’impulso di Cristo, il cuore umano oppone due formidabili resistenze: «l’egoismo», nelle sue molteplici sfumature, e «la grettezza morale», cioè la mancanza di generosità nelle piccole e grandi cose.

L’egoismo è il primo nemico dell’amor di Dio, chi ama appassionatamente se stesso non può logicamente amare Dio: chi ama cerca sempre cosa può dare all’amato; l’egoista si domanda sempre cosa può ancora ricevere. L’amore verso l’Invisibile è un amore del tutto altruista. Chi ama Dio vuole unicamente piacere a Lui solo, per piacere a Dio niente è mai troppo duro da compiere, troppo amaro da sacrificare, e dona se stesso totalmente, senza mezze misure, senza meschine preoccupazioni. Per lui amare è tutto, che importa se il suo amore sarà corrisposto o meno? Egli è pago d’amare con tutto il cuore, con tutte le sue capacità; a questa divina ebbrezza mai arriverà l’egoista, in lui la preoccupazione di se stesso ostacolerà ogni slancio. In lui l’amore di Dio diverrà timore; la volontà di ascesa si trasformerà in ricerca di meriti; il pentimento delle colpe commesse si muterà in penosa attrizione di rimorso, causata dalla paura; l’Iddio misericordioso diverrà il Dio tremendo; l’egoista, misurando sul suo metro lo stesso Dio, verrà a trovarsi nelle condizioni di antagonista; per l’egoista una sola via è possibile: quella del più nero pessimismo e scetticismo. Ripiegato su se stesso, non pecca, ma solo per non rischiare, perciò non acquisisce neppure del merito. Potrà osservare tutti i dieci comandamenti di Mosè, ma gli sarà impossibile aprirsi al comandamento dell’amore, perché il suo cuore è colmo solo della preoccupazione di sé.

Infinite sono le sfumature dell’egoismo: si nascondono in ogni crepa della coscienza, si valgono di ogni farisaica impostura; chi ama sa scoprirle in se stesso e spietatamente le distrugge. Una delle più pericolose maschere dell’egoismo è il vittimismo. Chi passa il tempo a compiangersi, chi va in cerca di motivi di malcontento, chi si sente il centro d’attrazione di ogni possibile disgrazia, non raggiungerà mai l’amore. Per lui non esiste alcuna possibilità di volo; ripiegato in se stesso, autoirrorantesi di lacrime, si ritiene oggetto dell’universale interesse e non capisce come la vita lo sorpassi in corsa.

Se l’egoismo si oppone all’amor di Dio, la grettezza morale si oppone a quello del prossimo: «Ama il prossimo tuo come te stesso». La farisaica domanda sorge subito: «Chi è il mio prossimo?». L’egoista è anche gretto, ingeneroso, non può amare Dio, perché troppo occupato ad amare se stesso; non può amare il prossimo suo, perché non ha prossimo. Chiuso nella torre di avorio delle sue personali preoccupazioni, può giungere alla falsa generosità dell’elemosina, traendo da essa un piacere, ma non perché senta il bisogno del prossimo come un suo bisogno, come una diretta relazione di Carne e di Charitas. Il gretto può essere formalmente virtuoso, austero puritano, ipocritamente religioso, non solo per la stima che gli altri possono avere di lui, ma per un suo interiore compiacimento. A lui sono ignote tutte le generosità, le coraggiose imprese, tutti i rischi.

L’uomo è chiamato ad attuare l’amore, non il timore. Amore giocondo verso l’invisibile Iddio, senza sottigliezze metafisiche, amore grato per ogni cosa bella, per ogni cosa buona, amore sereno e fiducioso, paziente e generoso verso tutte le forme di vita, non esclusa la propria, considerata come una potenza spirituale in ascesa; amore forte e coraggioso che trae dalle avversità l’alimento per la sua nutrizione e per il suo sviluppo; amore naturale che non costa sforzo, che non si esaurisce nel dare, ma trae dalla sua stessa grandezza sempre nuovi doni. L’uomo si matura sotto il raggio dell’amore, come il frutto sotto quello del sole. Il «siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli» non è più un poetico dolcissimo comandamento, ma diviene un semplice modo di essere nella vita.

se stesso. Quando l’uomo avrà fatto dell’amore verso Dio e dell’amore per il prossimo un solo amore, l’umanità realizzerà se stessa nella pienezza della Luce.

Ogni amore che non saldi i due amori in un solo amore è limitante, soffocante e null’altro è se non amore di sé. Quando diciamo d’amare e, in nome di quest’amore, violiamo la personalità dell’altro, consumiamo solo una rapina, anche se col beneplacito del rapinato. Afferriamo per le ali la farfalla, invece di contemplarla, con amore, libera sui fiori; imprigioniamo in gabbie, non importa se d’oro, gli usignoli creati per la dolcezza delle notti. La prima lettera dell’amore si chiama «libertà»; Dio amandoci ci dona questa libertà, totalmente; ci dà tutto, si affida a noi senza difesa, non ci impone il suo amore, lo mette alla nostra portata, attendendo che impariamo a viverlo per la nostra gioia e la gioia di tutti gli esseri.

La conoscenza di tutte le conoscenze, la chiave di tutte le chiavi è questa: conoscere nel proprio mistero il mistero che tortura l’anima del fratello che ci siede accanto; fare della tortura del nostro fratello la nostra tortura, fare della gioia del nostro fratello la nostra gioia. Allora la divina realtà dell’amore trionfante irradierà le coscienze, non vi sarà più né mio né tuo, né padrone né servo, né oppresso né oppressore, non vi sarà più il male perché il male è uno solo: quello che soffre l’altro e che tu, per nessuna cosa al mondo, vorresti causare né causerai.

(Giovanni Vannucci, «L’unità dell’amore» in Risveglio della coscienza, Sotto il Monte, ed. CENS, 1984, 30a domenica del tempo ordinario - Anno A, pp. 180-182).

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