Famiglia Giovani Anziani

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Venerdì, 23 Novembre 2007 01:38

Minucio Felice (Lorenzo Dattrino)

MINUCIO FELICE

di Lorenzo Dattrino






Della sua vita abbiamo alcune notizie da Girolamo: «Minucio Felice, distinto avvocato in Roma, scrisse un dialogo, in cui riporta una discussione tra un cristiano e un pagano, intitolato Octavius (Ottavio). Sotto il suo nome circola pur un altro libro Sul destino o contro i matematici; ma per quanto sia opera d’uomo di talento, non mi sembra concordi nello stile con l’opera già menzionata. Minucio è altresì ricordato da Lattanzio nelle sue opere». (1)

Indubbiamente il nostro uomo appartenne a un’età compresa fra gli ultimi decenni del Il secolo e gli inizi del III. Sembra ormai accertato che la sua patria fu l’Africa, (probabilmente Cirta, oggi Costantina, Algeria). Presto egli si portò a Roma, dove esercitò l’avvocatura. Era dapprima pagano: si ignora se la sua conversione avvenisse prima del suo arrivo nella capitale dell’impero, oppure dopo.

L’opera, intitolata Ottavio, si presenta in forma di dialogo, svolto da parte di tre intimi amici: Cecilio Natale, pagano; lanuario Ottavio, cristiano e Minucio Felice, arbitro tra i due interlocutori. L’occasione che diede motivo alla discussione fu un bacio che Cecilio, il pagano, aveva indirizzato, come espressione di religioso ossequio, alla statua di Serapide, davanti alla quale erano venuti a trovarsi i tre amici, mentre compivano una loro serena passeggiata lungo la strada che da Ostia portava a Roma.

L’opera si articola nelle seguenti parti: dopo una breve introduzione (cc. 1-4), ecco un’esposizione del paganesimo, dichiarata con piena convinzione da parte di Cecilio (cc. 5-13). Interviene allora Ottavio con una risposta di ben maggiore convinzione in difesa del cristianesimo (cc. 14-38)

Il carattere di quest’opera è strettamente apologetico. Specialmente in passato essa è stata oggetto di indiscussa ammirazione. Rimangono tuttavia alcuni problemi ancora insoluti. Resta dubbia innanzitutto una prima questione: il dialogo è realmente avvenuto, oppure è opera d’una mera finzione letteraria? I critici rilevano, nella struttura dell’opera, la presenza di due orazioni abilmente introdotte dall’autore stesso e poi collegate fra loro, così da risultarne un dialogo.

Dopo tutto, lo scrittore si sofferma poco sulla trattazione dei dogmi e sui principi essenziali della fede cristiana, come tale. Egli sa che di fronte al suo obiettore deve difendere il cristianesimo più nella sua parte esteriore che non per la profondità dei suoi dogmi. Pertanto «le ragioni delle caratteristiche dell’opera di Minucio vanno ricercate nell’epoca in cui l’autore visse, come pure nell’educazione e nel carattere della sua mentalità, ben diversa dal carattere e dalla mentalità di un Tertulliano». (2) Quella che egli intende difendere e valutare è la vita dei cristiani, ben più che il complesso dottrinale della loro fede.

1) Girolamo, De viris illustribus, Torino 1971 (trad. di E. Camisani), p. 166
2) U. Moricca, Letteratura latina, I, pp. 84-85.




Per l’approfondimento

Edizioni

L 3,231-360; CSEL 2.1-71

Traduzioni

E. Paratore, Minucio Felice: Ottavio, Bari 1971; L. Rusca, Minucio Felice: Ottavio. Contraddittorio tra un pagano e un cristiano, Milano 1957

Studi

E. Paratore, La questione Tertulliano-Minucio, ha «Ricerche Religiose» 18 (1947), 132-159; I. Vecchiotti, La filosofia politica di Minucio Felice, Urbino 1974 Girolamo, De viris illustribus, Torino 1971 (trad. di E. Camisani), p. 166 U. Moricca, Letteratura latina, I, pp. 84-85.

Appollaiata sulle alture della Galilea, Safed (Tsfat) città santa del giudaismo, accoglie ogni anno decine di migliaia di pellegrini che si stringono sulle tombe dei saggi e dei grandi maestri della mistica ebraica.

Risposte raccolte da Frédéric Lenoir e Karine Papillaud


Celebra le donne e la Ragione, il sacro e il dovere, la Storia e il romanzo, in una trentina di libri come La Gloire de l’Empire, Histoire du Juif errant; la Douane de mer o Une fête en larmes: Jean d’Ormesson è uno degli scrittori francesi più conosciuti e soprattutto più amati dai suoi lettori. Entrato all’Académie française nel 1973, è stato, a 48 anni, il più giovane accademico da lungo tempo. Aristocratico, repubblicano, innamorato di Chateaubriand e di Venezia, è un erede dei Lumi per la sua cultura enciclopedica, un libero pensatore affermato e soprattutto un focoso innamorato della vita e dei suoi piaceri. Dall’alto delle sue 81 primavere piene di fascino e di vitalità, Jean d’Ormesson è, da solo, una parte del patrimonio letterario francese. Agnostico, flirta volentieri con il problema di Dio.

Venerdì, 23 Novembre 2007 00:53

Il buon uso di Giuda (Frédéric Lenoir)

Il buon uso di Giuda

di Frédéric Lenoir



Il Vangelo di Giuda è stato il best-seller internazionale di questa estate. (1) Destino straordinario per questo papiro copto strappato alle sabbie dopo diciassette secoli di oblio e di cui non si conosceva finora l’esistenza se non dall’opera di sant’Ireneo Contra hereticos (180). Si tratta dunque di una scoperta archeologica importante. (2) Tuttavia esso non apporta nessuna rivelazione sugli ultimi momenti della vita di Gesù e non è assolutamente possibile che questo libricino possa “agitare fortemente la Chiesa”, come proclama l’editore in quarta pagina di copertina.

Anzitutto perché l’autore di questo testo scritto alla metà del II secolo non è Giuda, ma un gruppo di gnostici che ha attribuito la paternità del racconto all’apostolo di Cristo per dargli più senso e autorità (procedimento frequente nell’Antichità). E poi perché, dopo la scoperta di Nag Hammadi (1945), che ha permesso di portare alla luce una vera biblioteca gnostica che comprende molti vangeli apocrifi, si conosce meglio la gnosi cristiana, e infine perché Il Vangelo di Giuda non porta alcuna luce nuova sul pensiero di quel movimento esoterico.

Il suo successo fulmineo, perfettamente orchestrato dal National Geografic che ha acquistato i diritti per tutto il mondo, non dipende soltanto dal suo titolo straordinario: “Il Vangelo di Giuda”. Associazione di parole stupefacente, impensabile, sovversiva. L’idea che colui che i quattro Vangeli canonici e la tradizione cristiana presentano da duemila anni come “il traditore”, “il cattivo”, “l’adepto di satana” che ha venduto Gesù per una manciata di soldi, abbia potuto scrivere un vangelo è intrigante. Che abbia voluto dire la sua versione degli avvenimenti per tentare di allontanare l’obbrobrio che pesa su di lui è anche formidabilmente romanzesca, quanto il fatto che questo vangelo perduto sia ritrovato dopo tanti secoli di dimenticanza.

In breve, anche quando non si conosce nulla del contenuto di questo libretto, non si può che essere affascinati da un simile titolo. Tanto più che, come ha ben rivelato il successo del Codice da Vinci, la nostra epoca dubita dei discorsi ufficiali delle istituzioni religiose sulle origini del cristianesimo e che la figura di Giuda, come quella della lunga lista delle vittime o degli avversari vinti dalla Chiesa cattolica, è riabilitata dall’arte e dalla letteratura contemporanea. Infatti come avrebbe potuto il Cristo compiere la sua opera di salvezza universale se non fosse stato consegnato da quel disgraziato? Il vangelo attribuito a Giuda cerca d’altronde di risolvere il paradosso facendo dire esplicitamente a Gesù che Giuda è il più grande degli apostoli, perché è lui che permetterà la sua morte: “Ma tu li superi tutti! Perché sacrificherai l’uomo che mi serve da involucro carnale” (56). Questa parola riassume bene il pensiero gnostico: il mondo, la materia, il corpo sono l’opera di un dio perverso (quello degli Ebrei e dell’Antico Testamento); lo scopo della vita spirituale consiste, mediante l’iniziazione segreta, in questo: che i rari eletti, che possiedono un’anima divina immortale, dono del Dio buono e inconoscibile, possano liberarla dalla prigione del loro corpo. È piuttosto divertente constatare che i nostri contemporanei, infatuati della tolleranza piuttosto materialisti, e che rimproverano al cristianesimo il disprezzo della carne, si appassionino per un testo nato da una corrente che a suo tempo fu condannata dalle autorità della Chiesa per il suo settarismo e perché considerava che l’universo materiale e il corpo fisico fossero un’abominazione.

1) L’Évangile de Judas, traduction et commentaire de R. Kaiser, M. Meyer et G. Wurst, Flammarion, 2006, 221 p., 15 €. Rodolphe Kasser, Marvin Meyer, Gregor Wurst, Bart D. Ehrman (a cura di), Il Vangelo di Giuda, Vercelli, National Geographic Society - White Star, 2006. È la versione italiana della traduzione "ufficiale" del testo, accompagnata da alcuni saggi.

2) Vedere Le monde des Religions, n° 18.
(da Le monde des religions 19, p. 5)

di Andrea Pacini

La grande sfida è trovare vie che portino alla conoscenza della fede cristiana, con uno sforzo di mediazione culturale dell’annuncio.

di Biagio Bonardi

L’uomo è un essere che spera, ma oggi molti ostacoli impediscono il pieno esercizio di questo atteggiamento. La mancanza di fede, il neo-paganesimo, l’indifferentismo, l‘ateismo hanno cancellato e reso molto ardua la speranza soprannaturale. Ma anche la speranza naturale si è resa difficile e il nostro futuro si fa problematico.

Giovedì, 22 Novembre 2007 23:51

Fatwâ (Maria Domenica Ferrari)

Fatwâ

di Maria Domenica Ferrari

La fatwâ è un parere giuridico non vincolante in merito a questioni civili o religiose. Per molti aspetti ricorda l'istituzione romana dello jus respondendi.

Una fatwâ può essere chiesta da un singolo musulmano a titolo privato, da un giudice (qâdî), da un’istituzione. Chi svolge tale compito si chiama muftî.

Un muftî si limita a dare indicazioni su di un comportamento, molto spesso pratico, dal punto di vista della correttezza rispetto alla shari‘â. Non sentenzia su di un fatto compiuto.

Da mettere in rilievo è il fatto che una fatwâ è una semplice opinione, lo stesso richiedente può rivolgersi a vari mufî e se questi esprimono pareri diversi, conformarsi a quello che più lo soddisfi.

La futyâ (l’atto di emettere fatwâ) permise, e permette, se ben utilizzata di proporre nuove interpretazioni, dell'apparente immodificabile shari‘â.

Le fatwâ dei grandi muftî potevano essere riportate nei libri di diritto.

Una fatwâ ha forza di legge solo se un giudice si conforma ad essa.

Accanto a muftî non ufficiali, tali perché accettati come autorevoli da una comunità, fin dalle origini dell'Islam sono esistiti muftî designati e utilizzati dal potere esecutivo. Grande sviluppo di tale carica si ebbe soprattutto con gli Ottomani, quando il muftî di Costantinopoli divenne la più importante carica amministrativa religiosa sunnita, indipendente dal sovrano.

Un esempio di fatwâ, emessa nella zona di Gerusalemme nel secolo scorso, riguarda uno shaykh beduino che aveva ripudiato la moglie non intenzionalmente. Nella richiesta lo shaykh spiegava i motivi che avevano causato questo ripudio involontario: il fratello voleva sposare una donna che lui non approvava, ed aveva promesso solennemente che se il fratello si fosse sposato contro la sua volontà, e questa donna fosse entrata in casa sua, lui avrebbe sciolto il proprio matrimonio.

Il giudice applicando la legge della scuola giuridica hanafita, si pronunciò per lo scioglimento del matrimonio poiché gli hanafiti non danno importanza all’intenzionalità in tali decisioni. Lo shaykh che non voleva ripudiare la moglie, si trovò in una situazione per la quale la legge musulmana prevede che la donna prima debba sposarsi con un altro uomo, divorziare da lui e solo allora può risposarsi con il primo marito. Lo shaykh scontento di tale decisione si rivolse allora ad un muftî della scuola shafi‘ita, che invece prevede l’elemento dell’intenzionalità nella formula del ripudio ed ottenne una fatwâ che considerava ancora valido il suo matrimonio.

Martedì, 20 Novembre 2007 00:00

Lezione Quattordicesima. Gesù Messia e Signore

Lezione Quattordicesima

GESÙ MESSIA E SIGNORE


1. Gesù Messia

Introduzione

1. Passando dalla riflessione dall’A.T. al N.T., ci collochiamo nella prospettiva storico-salvifica, come si è fatto per le lezioni precedenti.

L’Eucaristia fonte di speranza

di Marino Qualizza

Forse suona inconsueto questo titolo nei riguardi dell’eucaristia, abituati come eravamo a considerarla o come oggetto di adorazione o come momento di devozione individuale nella comunione. Ma se esaminiamo più a fondo i diversi aspetti di cui l’Eucaristia si compone, troviamo che la speranza dovrebbe occupare un posto rilevante per il valore intrinseco in essa contenuto. Infatti la riflessione teologica, che già troviamo nei testi ispirati di S. Paolo e di S. Giovanni, danno grande rilievo a questa tematica. Non è un caso allora che anche la teologia da una quarantina d’anni a questa parte abbia riscoperto il valore della speranza, fondandola direttamente sulla risurrezione di Gesù, di cui noi facciamo memoria proprio nella celebrazione eucaristica. Si richiamano perciò tre aspetti indivisibili: risurrezione, eucaristia, speranza. Basterà solo ricordare che la speranza, in quanto virtù teologale non è un pio desiderio né tanto meno una supposizione, ma la degustazione già anticipata di quello che saremo e ci sarà dato. Proprio la dimensione della speranza faceva usare alla teologia, in tempi ormai abbastanza lontani l’espressione “già e non ancora” con ciò si vuole indicare che noi siamo già entrati nel mondo di Dio, anche se la sua definitiva partecipazione avverrà in un tempo che è dinanzi a noi. Proprio questa apertura costituisce il dinamismo della fede, che assume il colore della speranza, e apre prospettive importanti nella vita cristiana. Addirittura nell’antichità l’interpretazione della bibbia in senso dinamico e aperta al futuro del mondo di Dio era dato proprio dalla speranza. Questo aiutava i lettori della bibbia a non considerarlo un libro di memorie sul passato, ma come la parola potente di Dio capace di creare e rinnovare la storia nella quale essi e noi viviamo. Si poteva comprendere benissimo allora come la verità della bibbia portasse all’Eucaristia e che questa fosse la verità concreta vissuta e dinamica della rivelazione biblica.

Tenendo conto di questo si può comprendere bene come anche la Chiesa in Italia abbia scelto per la sua prossima assemblea di Verona proprio il tema della speranza. E dovrebbe essere chiaro a tutti che la scelta non è stata fatta per offrire un po’ di consolazione agli sfiduciati cattolici italiani, ma per renderli protagonisti di un progetto che richiede consapevolezza e ardimento. Chi si nutre dell’Eucaristia diventa per ciò stesso portatore di un bene che viene da Dio e che è indispensabile per il mondo. Ai cristiani di oggi allora si chiede un rinnovamento che parta da una convinzione e da una esperienza. La celebrazione eucaristica non è una cerimonia, anche se per certi aspetti deve averne le sembianze, ma è il momento qualificante e fondante tanto dell’identità della Chiesa quanto della sua missione. L’identità è data dalla comunione e dalla condivisione fra i credenti; cosa che non può essere lasciata solo ai desideri, ma concretizzata nella realtà, pena l’inefficacia del segno sacramentale. La missione è data dalla conseguente apertura dei cristiani verso il mondo e dalla cordiale accoglienza di quanto c’è nel mondo. Solo la considerazione di questi due aspetti dovrebbe dare nuovo vigore ed anche nuova gioia nella partecipazione alla celebrazione eucaristica. Proprio la gioia della comunione con Dio diventa l’espressione della speranza che si dovrebbe leggere sul volto di ogni credente.

Lunedì, 19 Novembre 2007 23:16

Cristiani d'Etiopia

Cristiani d'Etiopia




Per 17 secoli il cristianesimo ha forgiato la storia dell'Etiopia, facendone l'unica nazione cristiana del continente africano. Esso è penetrato così profondamente nelle istituzioni familiari, sociali e politiche del paese, che i cristiani etiopici hanno resistito a pressioni e persecuzioni esterne ed interne fino a quella scatenata per 17 anni (1974-1991) dalla dittatura marxista.

L’introduzione del Cristianesimo in Etiopia

L'inizio del cristianesimo in Etiopia risale alla prima metà del secolo IV quando, come racconta lo scrittore Rufìno di Aquileia (345-411) nella sua Historia ecclesiastica, fu convertito il regno di Aksum. La testimonianza fu raccolta dalla bocca di Edesio, uno dei protagonisti di tale conversione. La storia di Rufino fu ripresa e talvolta raccontata con diverse varianti, alcune delle quali hanno stravolto in modo significativo il racconto.

Il Costantino etiopico

Dalla scarna narrazione di Rufìno non è facile stabilire la datazione esatta dell'inizio del cristianesimo in Etiopia. Sapendo con certezza che Atanasio fu eletto patriarca di Alessandria nel 228, il primo sbarco di Frumenzio sulla costa etiopica avvenne parecchi anni prima e la sua ordinazione episcopale dopo il 330. Rufìno riferisce ancora che Frumenzio predicò il vangelo nel regno di Aksum per 20 anni, convertendo «un numero infinito» di aksumiti. A parte l'espressione iperbolica, è certo che, verso il 345, il re Ezanà, sua madre, battezzata col nome di Sofia, la famiglia reale e la sua corte si convertirono al cristianesimo. Grandemente stimato dal popolo aksumita, Frumenzio passò alla storia col nome di Abba Salama, (padre pace), e con l'appellativo di Chesatiè Brhan (rivelatore della luce). I due fratelli Ezanà e Sezanà diventarono nella tradizione etiopica Abrahà (illuminò) e Atsbhà (fece sorgere il sole). Essi sono l'alba e la luce della nuova Etiopia, l'Etiopia cristiana.

Questi eventi si realizzarono nell'epoca di Costantino il Grande che, secondo la tradizione, illuminato dalla visione della croce, decretò la libertà del cristianesimo nell'impero romano; il parallelo è d'obbligo: Ezanà è considerato il Costantino di Etiopia e sua madre Sofia è paragonata a Elena, madre dell'imperatore romano.

Figlia di Alessandria

Essendo l’Etiopia una diocesi della chiesa d'Egitto, il suo vescovo era nominato dal patriarca di Alessandria e doveva essere un egiziano; questi assumeva il nome di abuna (nostro padre) e aveva il potere di nominare i vescovi locali.

Fin dai racconti dei primi esploratori europei la chiesa etiopica, figlia della chiesa egiziana, fu chiamata «copta monofìsita» e i cristiani d'Etiopia «copti»; ma tali termini non hanno alcun senso, dato che «copto» è un termine divulgato dagli arabi dopo la conquista dell'Egitto e significa «egiziano».

I primi passi della chiesa in Etiopia coincisero con un periodo di aspre contese nel resto della chiesa universale: Alessandria era uno dei centri principali delle polemiche teologiche.

All'inizio del V secolo si diffuse in Oriente, per opera di Eutiche, monaco greco considerato il capo morale dei religiosi di Costantinopoli, la dottrina monofìsita, secondo la quale la natura umana di Cristo era stata assorbita dalla natura divina, e solo quest'ultima vi sussisteva.

Nel 451 il concilio di Calcedonia dichiarò Eutiche eretico e stabilì che in Cristo sussistevano sia la natura umana che la divina. Alcune chiese orientali, fra cui quella egiziana, non accettarono le conclusioni del Concilio e si separarono da Roma.

E’ necessario chiarire che nessuna di queste chiese riconosce la dottrina strettamente monofisita di Eutiche, ma ritiene che in Cristo vi sia una sola natura, divina e umana allo stesso tempo. Viene affermato un monofisismo meno rigido, che ha molti punti in comune con il diofisismo delle Chiese calcedonesi. L’Etiopia, in quanto diocesi di Alessandria, ne seguì le sorti e rimase separata da Roma.

Nel V secolo il cristianesimo continuò a propagarsi anche nelle campagne, soprattutto per opera di monaci venuti dall’oriente cristiano. In Etiopia sono venerati i Nove Santi, mentre l’attuale Eritrea sarebbe stata evangelizzata dagli Tsaddecàn, i giusti, alcuni resti dei quali si trovano nella chiesa di Baracnahà.

Il cristianesimo etiopico sarebbe quindi diventato monofisita già nel V secolo ad opera di questi evangelizzatori. Alcuni studiosi tuttavia ritengono che il monofisismo sia entrato in Etiopia molto più tardi, e a riprova di ciò portano, oltre ad altre argomentazioni, il fatto che re Calèb, che regnò su Aksum nella prima metà del VI secolo, è festeggiato come Santo dalla Chiesa Cattolica il 27 ottobre.

Verso la fine del VI secolo Aksum entrò in declino e l'Etiopia fu ben presto accerchiata dall'espansione islamica. «Attorniati da ogni parte da nemici della loro religione, gli etiopi dormirono per un migliaio di anni, dimentichi del mondo che a sua volta li dimenticò» scrive lo storico Gibbon.

Oggi la Chiesa etiopica, al pari delle altre Chiese orientali non-calcedonesi, e cioè la siriana e l’armena, rifiuta il monofisismo e si dichiara miafisita, intendendo con questo termine l’unione delle due nature di Cristo in un’unica natura composita. La denominazione ufficiale della Chiesa etiopica è Chiesa Ortodossa Teuahdò d’Etiopia. Teuahdò significa «divenuto uno», ed equivale al greco «miafisita».

Inoltre, da poco più di mezzo secolo la Chiesa etiopica è diventata un patriarcato indipendente da Alessandria: nel 1951, dopo 10 anni di trattative condotte da Hailè Sellassiè, fu possibile eleggere per la prima volta un patriarca etiopico nella persona dell'Abuna Basilios.

L'Eritrea ha sempre seguito le sorti della chiesa etiopica e professa il Teuahdò. Ma nel 1994 ha ottenuto dal patriarca di Alessandria la nomina di sei vescovi eritrei, i quali nel 1996 hanno nominato il loro Patriarca.



Liturgia etiopica

Nei suoi 17 secoli di vita, la chiesa etiopica si è dovuta difendere da minacce ed invasioni esterne, ma ha conservato intatto il cristianesimo dei primi secoli. Secondo una definizione cara agli etiopici, l’Etiopia è un’isola cristiana in un mare di pagani. Scrisse Padre Giulio Barsotti nel 1939:

In poche nazioni al mondo, il pensiero religioso ha avuto tanta forza di penetrazione e di potenza come in Etiopia.... Dal secolo quarto, in cui il Vangelo penetrò nel regno di Axum, fino ad oggi, tutta la vita degli Abissini è stata dominata dal pensiero e dalla dottrina di Gesù Cristo...

La liturgia etiopica si è sviluppata da quella della Chiesa copta, ma ha introdotto forme che sono tipiche dell’animo etiopico. Le danze dei debteràimitano le danze di Davide, i loro canti sono i salmi di Davide, la musica liturgica, inventata da San Iarèd nel VI secolo, commuove i credenti. Durante la celebrazione i canti vengono accompagnati dal battere di grandi tamburi di forma ovale, i caberò, e dal tintinnio dei sistri, strumenti metallici di origine egiziana. I santi sono celebrati con poesie che descrivono le loro parti del corpo, vengono recitati i qeniè, distici a doppio senso improvvisati sul posto che solo gli amara riescono a decifrare. La Vergine è al di sopra di tutti i Santi e viene celebrata innumerevoli volte. Viene invocata nel Chidàne Mehrèt, il Patto di Misericordia, per intercedere presso Cristo per sfuggire ai tormenti dell’inferno.

I preti salgono tutti i giorni sui colli dove sorgono le chiese. Le messe durano tre ore, e tutti coloro che non sono impediti dal lavoro, dalle malattie o dall'età devono andare a messa ogni giorno. Nelle grandi solennità la celebrazione inizia a mezzanotte e dura nove ore. Nelle processioni i suonatori di masinqò, i violini a una corda,accompagnano i versi dei qeniè.

Nella messa viene recitato il credo, che ripete gli stessi dogmi della Chiesa di Roma. Viene celebrata l’eucarestia con la somministrazione del pane e del vino, i preti fanno tre volte il giro della chiesa alla lettura del Vangelo e dei Miracoli di Maria. I fedeli si raccolgono nel recinto esterno della chiesa dove danzano i debterà, gli uomini a destra le donne a sinistra. Nel recinto intermedio viene amministrata la comunione; in quello interno, il sancta santorum, il cui ingresso è permesso solo al sacerdote, viene conservato il tabòt, che è rappresentazione delle tavole della legge, che rende sacra la chiesa. Il tabòt viene portato ad una fonte nella celebrazione del Timchàt, la festa dell’Epifania, il Battesimo di Gesù secondo il rito orientale. In tempo di guerra viene portato al seguito dell’esercito per la celebrazione della messa.

In Etiopia vi sono 25.000 chiese, in genere povere capanne di ciccadecorate con immagini sacre. All’esterno di ognuna vi è la bietelehèm, la casa del pane, dove viene preparato il pane per l’eucarestia. Alla sommità della chiesa vi è la croce greca adornata di sette uova di struzzo, simbolo della passione e della morte di Cristo. Numerose sono le chiese rupestri, celebri quelle di Lalibelà e del Gheralta.

Nella chiese più importanti sono conservati antichi manoscritti fatti con pelli di capra, libri che raccontano la vita dei santi, vangeli e bibbie. Fin dai primi secoli i libri sacri del cristianesimo sono stati tradotti in gheez, l’antica lingua etiopica sopravissuta oggi solo nella liturgia. Nei testi etiopici è stato rintracciato il Libro di Enoc, che è andato perduto nella lingua originale e nella versione greca. I più antichi manoscritti rimasti sembrano risalire al XV secolo. Nel monastero del Bizen, in Eritrea, vi è un vangelo della misura di un metro e talmente pesante che deve essere trasportato a dorso di mulo. Alcune chiese storiche conservano stupendi dipinti murali, in colori semplici (giallo, blu, rosso, verde e nero), ricavati da piante o minerali. I disegni sono bizantineggianti: i buoni di fronte i cattivi di profilo. Il nome di Maria, la più eccelsa delle creature dell’universo, è scritto sempre in rosso.

Nel segno della Croce

Quando un etiopico passa davanti a una chiesa, china la testa e si segna la croce, le donne si fermano a baciarne la porta. Se incontrano un prete si inchinano in segno di rispetto, baciano la croce e si fanno benedire.

Eredità della tradizione copta sono le croci etiopiche, processionali, manuali o da collana, disegnate in centinaia di forme. Derivano dalla prima croce cristiana, la croce di San Pacomio. La croce processionale è utilizzata nelle processioni e nelle grandi ricorrenze, come la Festa della Croce, il Natale o l’Epifania; la croce manuale viene portata sotto la tunica da ogni prete o monaco e fatta baciare dai fedeli. Esiste una grande varietà di forme: la croce di Gondar, di Aksum, di Lalibelà, di Malta, la stella di Davide o sigillo di Salomone e altre. Le donne tigrine portano sulla fronte una croce dipinta con l’henna. Nelle croci etiopiche raramente è rappresentato il corpo di Cristo, perché la spiritualità orientale dà più risalto alla divinità piuttosto che all’umanità di Cristo. Sull’altare maggiore della cattedrale di Addis Abeba vi è una croce con la figura del corpo di Cristo, identico ai crocifissi cattolici.



Clero, digiuno, matrimonio

La Chiesa etiopica ha mantenuto alcune tradizioni giudaiche, come il tabòt o arca dell’alleanza, la distinzione di carne pura e impura, la circoncisione maschile a 8 giorni dalla nascita, le danze dei debterà con i tamburi, la forma delle chiese con il sancta sanctorum al centro, la bietelehèm, lo shabbath, ecc. Alcune di queste, come la circoncisione, sono semplici usanze e non prescrizioni religiose.

Un elemento diventato fondamentale nella cultura del paese è il digiuno, il più lungo e austero di tutto il mondo cristiano: 56 giorni prima di pasqua, 40 giorni per la festa degli apostoli, 16 per l'assunzione, 40 giorni prima di natale, tutti i mercoledì e venerdì della settimana, per un totale di circa 250 giorni all'anno, dei quali solo 180 strettamente obbligatori. Il digiuno consiste nell'astenersi da cibo e bevande da mezzanotte fino al primo pomeriggio o sera, in cui è permesso un pasto; in ogni caso è richiesta l'astinenza da carni, grassi, uova, pesce e latticini.

Vi sono tre forme di matrimonio, una religiosa e due civili. Il matrimonio religioso è indissolubile e viene celebrato in chiesa con la comunione, ed è chiamato ba qurbàn (con comunione). Il matrimonio civile può essere ba demòz (con soldi), che è l'acquisto della moglie, e ba cal chidàn (con patto verbale).

Preti e diaconi si possono sposare, ma ciò deve avvenire prima di essere ordinati. Vescovi e arcivescovi, ai quali è affidata l'amministrazione della chiesa nelle varie province, non possono essere sposati. Il patriarca è necessariamente un monaco. Il monachesimo ha sempre avuto un ruolo fondamentale nella vita della chiesa fin dall'arrivo in Etiopia dei «Nove Santi» e degli tsaddecàn, i quali, da eremiti solitari, sono diventati fondatori di comunità, ispirandosi a san Pacomio e alle sue regole monastiche. Sono sorti così i grandi monasteri, alcuni dei quali sono arrivati a ospitare fino a 5 mila monaci: Debra Libanos, Debra Bizen, Debra Damo, Gunda Gundè, Zuquala e centinaia di altri minori, tutti arroccati in luoghi impervi e di difficile accesso. I monaci fanno tre professioni di fede, con le quali ricevono la cintura, il cappuccio e la tunica.

I monaci non si sposano e devono condurre una vita ascetica e austera, con frequenti mortificazioni corporali. La tradizione di Debra Libanos racconta che il suo fondatore rimase in una grotta per 7 anni in piedi su un piede solo, finché gli si staccò una gamba. Il priore del monastero di Debra Libanos è l'ecceghìè, il capo dei monaci.