L'inefficienza del sistema scolastico
Ho curato, un anno fa, un volume sull’adolescenza (M. Andolfi, P. Forghieri Manicardi (a cura di) Adolescenti tra scuola e famiglia, Cortina ed., Milano, 2002) tra scuola e famiglia, all’interno di questo volume ho anche scritto un contributo dal titolo "S’io fossi foco…la scuola prigione della creatività". Sarebbe molto utile per i lettori di questa rubrica poter leggere questo testo, che è scritto con un linguaggio accessibile a tutti. Brevemente, in questo lavoro metto in luce le gravi carenze del nostro sistema scolastico e non mi riferisco tanto al materiale didattico, ai luoghi o alle forme di insegnamento, ma piuttosto al modo assolutamente inadeguato in cui lo studente, fin dalla scuola materna, fin dalla scuola elementare, fin dall’università viene sollecitato a pensare in modo critico e autonomo. In questo senso non mi riferisco tanto a riflettere sulle materie di studio quanto piuttosto alla possibilità di sollecitare la creatività, che è un patrimonio presente in ogni bambino e in ogni minore in età evolutiva.
La scuola andrebbe ripensata, chiedendosi in che cosa realmente consiste un processo educativo. Se uno studente è un recipiente passivo di contenuti che gli arrivano sempre dall’alto e dal di fuori, il massimo risultato può essere soltanto un’acquisizione più o meno organizzata o "appiccicata" di nozioni, se il processo educativo fosse realmente circolare e basato sulla relazione alunno-docente, ben diverso sarebbe il percorso.
Non va inoltre dimenticato il contesto del gruppo classe, che rappresenta l’elemento sostanziale su cui si forgia l’apprendimento e la crescita, sia quella mentale che quella sociale.
Per rifare la scuola non basta una riforma di questo o quel ministro, ma va piuttosto ridata voce ai bambini e agli adolescenti, una voce che esprima i loro bisogni, i loro pareri sul mondo dei grandi, le loro aspettative, nonché le loro passioni.
S’io fossi foco ... brucerei l’impianto burocratico del nostro sistema scolastico, che purtroppo non è soltanto presente nelle carte, ma anche e soprattutto nella testa dei nostri politici, degli insegnanti e spesso anche delle famiglie.
... brucerei l’impianto burocratico del nostro sistema scolastico, che purtroppo non è soltanto presente nelle carte, ma anche e soprattutto nella testa dei nostri politici, degli insegnanti e spesso anche delle famiglie.Prof. Maurizio Andolfi
permissivismo inopportuno
genitori ... fraterni
Se è vero che la generazione dei cinquantenni porta su di sé i segni di un’educazione paterna di tipo autoritario o spesso decisamente abusiva, è altrettanto vero che la rinuncia a una funzione paterna autorevole nelle nuove generazioni sembra produrre anch’essa notevoli danni nei confronti dei figli.
Il passaggio da una figura paterna distante, che non era mai fisicamente disponibile e che ha rappresentato lo spauracchio serale per molti figli ("lo dico a papà stasera quando torna", frase frequentemente proferita dalle madri), al genitore amico dei figli o al "mammo" ci sembrano risposte piuttosto insoddisfacenti.
La scommessa del ruolo paterno è ancora legata a ricercare un’autorevolezza che non cade nei due estremi sopradetti; quello del "niente è permesso" e quello del "tutto è permesso".
E’ indubbio che una funzione siffatta richiede il massimo del consenso da parte di tutti i componenti della famiglia, in primis della madre, che deve credere in una competenza paterna giocata nel seguire un processo educativo e di crescita dei propri figli e che richiede la costruzione di un’area di condivisione totale nel territorio della prole.
Ma pur cambiando i ruoli intrafamiliari questa nuova dimensione paterna rimarrà asfittica, se non cambiano i dettami sociali sull’essere uomo e l’essere donna nella società moderna.
L’autorevolezza paterna, perché arrivi, richiede che venga sancita non solo in famiglia, ma a livello istituzionale.
Prof. Maurizio Andolfi
Famiglia e disturbi ...dell'anoressia, del comportamento e della personalità, dell'identità
In queste ultime decadi stiamo assistendo ad un aumento della patologia della dipendenza all’interno delle famiglie italiane. Da un lato, soprattutto per ciò che riguarda l’adolescenza maschile, abbiamo assistito ad un aumento di comportamenti violenti sia verso se stessi (vedi la tossicodipendenza, alcoolismo, ecc.), sia verso gli altri (si pensi in questo senso alla violenza negli stadi e ad altre forme trasgressive di gruppo), per ciò che concerne invece il genere femminile ci troviamo di fronte ad una vera e propria epidemia sociale di disordini alimentari, dall’anoressia mentale alla bulimia, a forme estreme di obesità. Che c’entra la dipendenza in tutte queste forme di malessere giovanile? Purtroppo quei legami di dipendenza nei confronti delle figure genitoriali, così essenziali per la crescita, sono stati recisi con grave danno per l’adolescente e sono stati sostituiti da una dipendenza compulsiva nei confronti di sostanze, di alcool o di cibo.
Bisognerebbe allora comprendere meglio i segnali inviati dai minori per modificare le fondamenta e le modalità relazionali tra la generazione degli adulti e quella dei figli. Guardare un disturbo anoressico o una tossicodipendenza esclusivamente come forma di patologia individuale non ci porta molto lontano e invece sarebbe assai più utile considerare comportamenti a rischio come segnali privilegiati per modificare ciò che non funziona all’interno della famiglia. Nella nostra pratica clinica abbiamo potuto osservare che un adolescente può interrompere un comportamento distruttivo se è in grado di trovare altre risorse, sia dentro di sé che nel contesto familiare e sociale.
Allora bisognerebbe rinsaldare quei legami di appartenenza tra le generazioni attraverso il dialogo, la presenza l’accettazione di opinioni diverse, il contatto fisico. Se l’adolescente riesce a riscoprire il valore e il calore dei suoi legami familiari può rassicurarsi sulla sua stessa identità e fare scelte più costruttive.
Prof. Maurizio Andolfi
La famiglia come risorsa nell’approccio ai problemi dell’infanzia
La famiglia come realtà affettiva riceve una considerazione marginale nella società, è ritenuta spesso scomoda, talora pericolosa come una bomba a orologeria: tutti ne abbiamo una eppure non parliamo apertamente, perché nessuno è soddisfatto della famiglia che ha avuto, tant’è che nei discorsi sul bambino il richiamo alla parola "famiglia" va affievolendosi - anche perché non si sa più di che famiglia parlare. L’assenza di una cultura familiare comporta che le persone che si dedicano all’infanzia siano talmente concentrate sull’infanzia da percepirla come separata da tutto il resto e da non vedere, invece, che l’infanzia è relazionale e che il bambino cresce sulle relazioni.
Al bambino non servono soltanto nutrimento e protezione. La crescita abbisogna di quel nutrimento affettivo che determina la capacità di formare l’identità individuale. Ma chi favorisce la costruzione dell’identità del bambino? Oggi osserviamo i danni provocati da famiglie incapaci di favorire la costruzione dell’identità dei propri figli, danni tanto gravi che si parla spesso di adolescenza come se fosse una malattia e non la si considera più una fase del ciclo di sviluppo della persona ma quasi una forma di psicopatologia. In realtà l’adolescente "spara" i problemi che gli abbiamo dato noi, l’adolescente è il braccio armato della nostra impotenza nel farlo crescere.
Per fortuna, anche nelle famiglie più disintegrate o abusanti, il bambino mantiene una capacità di sviluppo che trova dentro i suoi geni, ovvero il sentimento di appartenere alla sua cultura familiare. Il problema, pertanto, non è quello di sottrarre i genitori al bambino, eliminando quelle figure negative o comunque immature con cui vive ma è, piuttosto, quello di trovare operatori, strutture pubbliche o private, che restituiscano alla famiglia il suo valore di risorsa.
Prof. Maurizio Andolfi
La coppia è senza dubbio l’area più fondamentale e nevralgica dell’intera costruzione familiare, perché è in essa che si concentrano responsabilità affettive, collusioni intergenerazionali e processi parziali o incompleti di separazione dalle rispettive famiglie di origine.
Per raggiungere una posizione armonica di coppia è quindi necessario riuscire a tutelare l’area dell’intimità a due da "invasioni intergenerazionali" provenienti sia dal piano dei genitori e della famiglia estesa in senso lato che da quello dei figli. Allo stesso tempo ci sembra necessario che ciascun partner della coppia sia in grado di condividere e di sentire i bisogni affettivi dell'altro senza rinunciare all'espressione dei propri; se si riesce a conservare un buon livello di reciprocità relazionale sarà possibile mantenere integra la propria identità di genere senza sopraffare o prevaricare l'altro, e questo sarà il linguaggio più autentico dell’amore maturo.
Il maschile e il femminile sono proprietà di genere che ciascun individuo esprime con modalità e tempi differenti a seconda dell’età, della cultura, del contesto sociale, politico e religioso di appartenenza. Sarà pertanto necessario osservare e comprendere quelle regole di relazione e quei segnali emozionali che potremmo chiamare 'universali', distinguendoli da quelle regole di rapporto specifiche e peculiari di una particolare cultura. Sarà pertanto importante apprendere il linguaggio non verbale degli occhi, del corpo, dei gesti ed attraverso di esso sentire come in famiglie e culture diverse viene rappresentato l’essere uomo e l’essere donna.
Al giorno d’oggi i tempi di stanchezza di una coppia sono molto accelerati, come se quella passione che in genere scatta nella costruzione di un rapporto sentimentale sia frenata da tanti ostacoli, alcuni interni al rapporto stesso, altri che vengono più dal mondo esterno. Tra i primi ci sembra che uno sia legato alla competizione che spesso serpeggia tra due adulti coetanei, che mina la maturazione di quell’intesa profonda e di quel senso di complicità che sono ingredienti fondamentali per una vera intimità. Il problema è sentirsi capaci di prendere e dare nel rapporto sentimentale a livello profondo, aiutarsi a entrare in un rapporto più autentico basato sulla collaborazione e sulla accettazione l’uno dell’altra. Per quanto riguarda gli ostacoli esterni è fuor di dubbio che è difficile ricercare rapporti profondi e sinceri, che richiedono un rischio personale, in una società che premia sempre di più l’immagine, la prestazione di successo e le relazioni ‘usa e getta’.
Prof. Maurizio Andolfi
In questi giorni si parla spesso di crisi economica come di un fattore che solleva importanti ripercussioni anche sulle relazioni all’interno del contesto familiare, nonché sulla vita dei singoli. Secondo recenti statistiche, gli italiani figurano infatti ancora una volta come i più "mammoni" tra gli europei; in ambito nostrano, cioè, si è, ora come allora, ancora molto restii ad allontanarsi dal nido parentale.
Tuttavia, aldilà degli stereotipi cultural-comportamentali, oggi sembra che, in gran parte, simile tendenza sia frutto della crisi economica e del conseguente caro-vita, che impedisce ai giovani di affrancarsi dal legame familiare. La permanenza nella famiglia d’origine, che, un tempo, costituiva una scelta di comodo, si starebbe così tramutando in una scelta obbligata. In un contesto in cui per i giovani è sempre più difficile perseguire l’indipendenza economica, ed in cui la laurea vale quanto un diploma, la famiglia finisce dunque con lo svolgere la funzione di "salvagente" e col farsi carico del mantenimento dei figli ben oltre il completamento degli studi universitari, fino alla specializzazione e, talvolta, persino fino al conseguimento dell’autonomia economica. Come si può immaginare, simile situazione non è del tutto scevra di conseguenze, poiché questo prolungamento della "protezione" familiare presuppone la tacita sottoscrizione di un patto che vincola i figli, un domani, a ricambiare il favore ai genitori anziani, creando così un guinzaglio affettivo che soffoca proprio la carriera che vorrebbe favorire.
In questo contesto, se la condivisione di un appartamento con colleghi o coetanei non per tutti rappresenta una soluzione ottimale, per alcuni il rimedio reale consiste, ancora una volta, nel tentare la fortuna all’estero, magari in America, come i nostri "antenati" del Bronx.
Prof. Maurizio Andolfi
La diversità è l’elemento più costitutivo delle relazioni umane ed è proprio attraverso le differenze che possiamo accrescere la nostra conoscenza della realtà che ci circonda. Ci si può accostare all’estraneo, a chi cioè non si conosce ancora, con modalità profondamente diverse: la diversità è come un "oggetto misterioso" che può suscitare le più svariate emozioni: ci si può connettere ad essa con diffidenza, con indifferenza, con paura, oppure si può entrarvi in contatto con curiosità e interesse, con la consapevolezza che, nella misura in cui non è già parte del nostro patrimonio conoscitivo, la diversità può, proprio per questa ragione, arricchirlo.
Questa realtà sembra però messa a dura prova nella società attuale, in cui il procedere della globalizzazione porta ad una crescente omologazione dei modelli e degli stili di vita. In questo contesto, in cui al "diverso" si associano connotazioni sempre più spesso negative, l’omologazione diviene invece una facile via d’accesso all’accettazione e al riconoscimento sociale.
Ciò rischia tuttavia di privarci di quelle molteplici risorse che sono insite nelle diversità, risorse che andrebbero invece coltivate stimolando, in tutti gli ambiti del sociale, lo sviluppo di una cultura che sappia apprezzare l’"altro", ponendolo in condizione di rivelare ed adoperare al meglio le sue peculiarità a beneficio dell’intera comunità, in un rapporto di scambio reciproco.
Avvicinarsi all’altro con curiosità, sgombrando la mente dal pre-giudizio e disponendosi ad un’esperienza di incontro e di arricchimento è un atteggiamento che va quindi sicuramente sviluppato, soprattutto in una società come la nostra, che sta rapidamente trasformandosi in società di immigrazione, ospite di altre culture con le quali dovremo imparare presto a convivere.
Prof. Maurizio Andolfi
Anania e Saffira
(At 5, 1-11)
Anania e Saffira vendono un terreno di loro proprietà, il ricavato è buono, probabilmente sopra le attese, e così decidono di trarre due vantaggi in una volta sola: arricchire davanti agli uomini e davanti a Dio (cfr. Lc 12,21). Dopo aver trattenuto per sé una parte del denaro vanno da Pietro a consegnargli la somma rimanente, dichiarando che è per quella cifra che hanno venduto il campo. La fine sarà orribile: uno dopo l’altro cadono morti davanti a Pietro e sono portati via e seppelliti dai giovani della Comunità.
Questo breve brano degli Atti degli Apostoli descrive con precisione e senza fronzoli il processo che porta la coppia da oasi di fecondità, ruolo attribuitele da Dio, a luogo di morte.
Alla coppia è dato tutto: l’amore di Dio si riversa sulla coppia continuamente, è un investimento illimitato del Signore che da quando la costituisce non smette mai di alimentarla e sostenerla, senza chiedere nulla in cambio.
Ma nella coppia può insidiarsi l’ombra astuta del Nemico (come già era accaduto per Adamo ed Eva) e quando il peccato entra in una coppia è ancora più difficile da scacciare, perché i due possono diventare l’uno per l’altro messaggeri di morte anziché di vita.
Il peccato di Anania e Saffira è di aver voluto rompere la logica di Dio. Dio ha donato tutto di sé gratuitamente e mette l’uomo davanti alla scelta: o entri in questa logica di gratuità e di circolo vivificante d’amore, oppure ne stai fuori e trovi il tuo posto nel mondo in cui tutto ha un prezzo.
Anania e Saffira non vogliono scegliere, o meglio, vogliono tutto. Vogliono la benedizione di Dio e vogliono le spalle coperte; dicono di credere nella Provvidenza e poi fanno l’Assicurazione sulla Vita! E questa scelta di non scegliere non può che portare alla morte.
E la morte separata dei due sposi ci svela che quando la coppia si lascia tentare dal Nemico a non fidarsi di Dio muore anch’essa: i due tornano ad essere individui separati, complici ma non più coniugi.
E le giovani generazioni non aspettano, raccolgono i cadaveri di questa coppia disfatta e senza una parola di pietà la seppelliscono e sembrano dire: "per noi sarà diverso".
Il progetto di Dio sulla coppia vuole portarla all’abbandono, non chiede i rimasugli del suo tempo e delle sue energie, chiede piuttosto di diventare la tenda nella quale la coppia dorme serena. Davanti a un Dio crocifisso non si possono fare compromessi e lo "scegliere di non scegliere" porta, come per Anania e Saffira, alla morte. Davanti a quell’Uomo appeso alla Croce dobbiamo decidere - e subito - se vogliamo seguirLo e imitarLo oppure no, dobbiamo scegliere cioè tra la Vita e la Morte.
di Paola Lazzarini
NOEMI E RUT
(Rut 1, 1-18)
Una coppia particolare, composta da due donne: Noemi e Rut, suocera e nuora, sa parlarci dell’alleanza coniugale all’interno della Chiesa.
Noemi, dopo essere rimasta vedova in terra straniera (a Moab), con le sue due nuore, anch’esse vedove, decide di tornare in Giudea perché ha sentito che il Signore ha visitato il suo popolo. Noemi, che è stata duramente provata dal Signore, non sente questa visita come rivolta anche a lei, ma decide ugualmente di partire sentendo che la promessa del suo popolo può diventare anche sua se ritornerà. Ugualmente Rut, moabita, si "attacca" letteralmente alla suocera, decide di non lasciarla qualunque cosa accada e di seguirla in quella terra.
Possiamo vedere nel popolo di Giuda la Chiesa, "visitata" da Dio e benedetta, alla quale ogni uomo si aggrappa, anche se sfiduciato e senza speranza, perché "ha sentito dire" che là c’è un pane che è per tutti.
E’ esperienza di tutti noi vivere dei periodi di sfiducia e anche disperazione; proprio in quei momenti la Chiesa-madre ci sostiene, perché possiamo sempre pensare che là dove la nostra fede non arriva arriverà la fede degli altri fratelli: questo ci riapre l’orizzonte permettendoci di continuare a credere. Quante volte solo guardando agli altri riusciamo a dire: "se lui/lei crede allora posso credere anch’io, magari appoggiandomi sulla sua fede nei momenti bui".
La scelta di Rut invece ci parla dell’alleanza che può stabilirsi tra due persone. Rut lascia il paese di suo padre e investe tutto ciò che ha e che è, il suo futuro, nel rapporto con Noemi. La promessa di Rut ci fa pensare alla promessa di una sposa: dove tu andrai io andrò, dove ti fermerai mi fermerò, il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo Dio il mio Dio, dove morirai tu morirò anch’io.
Per Rut la conversione al Dio d’Israele passa attraverso la scelta esplicita di stare accanto ad un’altra persona.
Quella promessa che in principio era riservata al popolo e che Noemi fa sua a fatica, ora si allarga fino a diventare anche la promessa di Rut; anche per lei il Signore provvederà il pane e, infatti, le due donne si dirigono a Betlemme che in linguaggio popolare significava "Casa del pane". Proprio da Betlemme verrà poi il Pane della Vita.
Il matrimonio può e deve essere anche questo: il luogo della conversione quotidiana all’unico Dio che sa saziarci; amare e seguire l’altro è – nella vocazione matrimoniale – la via per amare e seguire il Signore.
Il matrimonio cristiano è anche un’alleanza esplicita come quella di Rut ed è una scelta che comprende tutto, che investe tutto e che porta una promessa individuale – quella della salvezza – a diventare una promessa di coppia e di famiglia. Tutto entro le braccia sicure della madre Chiesa che ci permette ogni giorno di ritrovare il Pane che ci dà la vita.
di Paola Lazzarini
La Sunammita
(2 Re 4,8-37)
È impossibile calcolare i doni che abbiamo ricevuto da Dio, ma primo e sopra tutti, senza ombra di dubbio, c'è il dono della vita che ciascuno di noi ha ricevuto. Questo è il dono più bello del Signore; ce lo ha dato e non ce lo toglierà mai più in eterno perché noi, una volta nati, resteremo vivi per sempre pur se con modalità diverse come ci dice la nostra fede. E anche il servizio più grande che ci hanno fatto i nostri genitori. La coppia ha la grande responsabilità di generare, ossia di dare a Dio la possibilità di creare una nuova vita. È un bisogno quello della coppia di generare vita, ogni tipo di vita, da quella fisica a quella spirituale, ma è anche forte la tentazione di voler esserne padroni, di imprigionare "per noi" le vite che pulsano accanto a noi. La vita del partner o del figlio non è nostra, ma ci è stata messa accanto perché la custodiamo, perché la aiutiamo a svilupparsi in pienezza. La donna di Sunem ci si presenta come una persona "viva" ed attenta. Lei non ha figli ma c'è qualcun altro da accogliere: è l'uomo di Dio, il profeta. Ad Eliseo serve cibo per nutrirsi, un luogo in cui sostare: un letto, un tavolo, una sedia e una lampada" (4,10). Il profeta ha bisogno di riposare, ma anche di studiare la Torah e pregare in quella piccola stanza. Quasi come logica conseguenza della maturità interiore della Sunammita ecco il dono del figlio:
"L'anno prossimo, in questa stessa stagione, tu terrai in braccio un figlio" (4,~6). No mio Signore, uomo di Dio, non mentire con la tua serva" (4,16). Non mi illudere, non farmi promesse vuote. Infatti, quasi fosse un presentimento, il bambino che nasce, appena divenuto ragazzo improvvisamente muore.
"Essa salì a stenderlo sul letto dell'uomo di Dio; chiuse la porta e usci" (4,21). La coppia è il luogo (la situazione normale, l'ambiente naturale) dove nasce e fiorisce la vita, ma la vita è di Dio: egli l'aveva donata attraverso la preghiera di Eliseo, occorreva dunque rimettere tutto nelle sue mani.
Il profeta su quel letto non si può stendere perché è occupato da un cadavere. E poi quella donna non lo aveva pregato di non illuderla?
"Egli entrò, chiuse la porta dietro a loro due e pregò il Signore. Quindi salì, si distese sul ragazzo; pose la bocca sulla bocca di lui, gli occhi sugli occhi di lui, le mani nelle mani di lui e si curvò su di lui. Il corpo del bambino riprese calore (...) tornò a curvarsi su di lui; il ragazzo starnutì sette volte - la vita era tornata in pienezza - poi apri gli occhi" (4,33-35). L'atto di Eliseo sembra lasciarci il messaggio che "la vita genera vita" e solo l'amore è capace di compiere questo miracolo, qualsiasi tipo di amore, ma in modo tutto particolare quello che l'uomo nutre per la sua donna e la donna per il suo uomo.
Tony Piccin