Famiglie Adottive
· "Lo desideriamo Piccolo, così possiamo godercelo fra le nostre braccia e poi, se piccolo, non ricorda il suo passato",
· "Ci ha deluso, non è riconoscente per quello che abbiamo fatto, non lo possiamo più tenere con noi, ci ha mandato in crisi",
· "Abbiamo pensato a lungo alla nostra richiesta di adottare un bambino; pensiamo di poter rendere un servizio; ci saranno delle difficoltà ma ci aiuteremo",
· "Da grande tornerò al mio paese e porterò tanti regali a tutti",
· "I miei genitori adottivi hanno dato qualcosa ad un signore, forse mi ha venduto",
· "Forse mia madre non è più a Santiago del Cile; i carabinieri l'avranno allontanata perché non potesse cercarmi più, Lei soffrirà di questo, La tengono lontana da me"
Le frasi riportate sono voci di bambini e testimonianze di coppie in attesa di giudizio di idoneità all'adozione o già con figli adottivi; queste parole suggeriscono e fanno comprendere come ogni esperienza adottiva è "quella esperienza adottiva" e la realtà profonda sia della coppia che del minore, di "quella coppia" e di "quel minore", rendono ogni singola storia sempre unica ed irripetibile.
Come sottolinea D'Andrea (2000) la famiglia adottiva presenta nelle diverse fasi critiche del suo ciclo vitale delle peculiarità che la contraddistinguono dalle altre famiglie. Ogni coppia, compresa quella adottiva, non è solo la somma di due individui, delle loro caratteristiche e delle relazioni fra di essi; è un microcosmo che deve affrontare un compito evolutivo per adattarsi al nuovo arrivato, raggiungendo un nuovo equilibrio al suo interno. L’adozione non riguarda quindi individui singoli e slegati fra loro ma un tutt'uno che si trasforma, il sistema famiglia che per effetto di un fatto nuovo si modifica e diviene qualcosa di diverso da quello che era prima. Il sistema comincia a trasformarsi già dal momento in cui la coppia/famiglia inizia anche solo a pensare ad una eventuale adozione, per poi andare avanti in questo lento processo durante tutto il lavoro di riflessione e ripensamento. Il viaggio adottivo non termina con 1'arrivo del bambino ma prosegue nella ricerca da parte di tutti i membri della famiglia di una dimensione nella quale viene salvaguardato il senso di appartenenza e allo stesso tempo difesa la garanzia di ogni singola identità. Dal momento in cui una coppia decide di adottare un bambino inizia a vivere la fase dell'attesa, un periodo ricco di speranze ed inquietudini sul quale, nella maggioranza dei casi, si riversano i vissuti connessi alla sterilità.
Chi sceglie di adottare un bambino spesso proviene da una difficoltà procreativa, dal confronto con la sterilità: ci si affida a pratiche mediche pur di superare il limite biologico, una strada inevitabilmente dolorosa accompagnata da profonda frustrazione che sfocia infine in un senso di deprivazione che chiede di essere colmato con un bambino.
La qualità della relazione nell'esperienza adottiva è profondamente legata ai vissuti con i quali si giunge ad essa; la coppia si trova di fronte a un bivio: negare, evitare il problema oppure accoglierlo ed elaborarlo; è in questa fase che la coppia e i suoi sistemi affettivi di appartenenza mettono le fondamenta per quella che sarà una relazione accogliente oppure una evitante (D'Andrea, 1999).
Per questo la filiazione adottiva non può essere confusa con quella naturale, ci sono condizioni di partenza, vissuti profondi, timori, aspettative e contenuti relazionali completamente diversi; basti pensare alle fantasie dei futuri genitori biologici riguardo l'aspetto fisico e caratteriale del figlio e a quelle della coppia adottiva" in attesa" , sicuramente meno rassicuranti e più confuse, su un figlio voluto ma generato da altri.
Per una scelta adottiva consapevole, nella fase di attesa oggi la coppia viene adeguatamente seguita e supportata per comprendere appieno il significato che tale decisione riveste e per superare i conflitti irrisolti. La coppia che adotta deve essere sufficientemente capace di accomodarsi alle nuove richieste e affrontare le delusioni inevitabili, l'attendibilità è tanto più probabile quanto sono maggiori le risorse a cui fa appello, affettive soprattutto, intellettuali, sociali, culturali (Barletta,1988). Un'esperienza adottiva riuscita è quella in cui un bambino è stato amato, accolto ed accettato senza perdere la sua soggettività ed il legame con l'esperienza passata, in cui non risulta vittima delle fantasie compensatorie dei suoi genitori adottivi, dei loro eventuali problemi e conflitti personali e/o di coppia.
Un bambino che viene adottato è un bambino che porta con sé un bagaglio, un'esperienza inevitabilmente traumatica, il ricordo di una famiglia che ha comunque avuto per un periodo più o meno lungo e quello di luoghi e situazioni in cui ha vissuto temporaneamente prima dell'adozione (con una famiglia affidataria e in case famiglia nelle migliori delle situazioni, ma c'è chi viene dalla strada, da istituti, da strutture ospedaliere); una storia che non può essere cancellata né negata. Il compito più impegnativo e al contempo affascinante per dei genitori adottivi è quello di gettare un ponte fra la storia precedente e l'esperienza adottiva, solo così il bambino sarà libero di esprimere se stesso, di sperimentare l'accoglienza e al contempo di elaborare i problemi, le fantasie e l'angoscia che deriva dall'abbandono.
L'arrivo di un bambino, generato o adottato che sia, è un evento che chiama in causa i membri della famiglia allargata, in primo piano i nonni (e non solo perché a livello legale il loro assenso per l'adozione è indispensabile!), gli zii, i cugini, i conoscenti e il vicinato, il che significa nascita di nuovi ruoli e di aspettative: ognuno attribuirà all'evento un diverso significato. Per vivere in uno spazio relazionale tranquillo e sereno è importante che la famiglia abbia coinvolto la rete parentale nella propria scelta, onde evitare che il bambino viva e cresca in un clima conflittuale. La nuova famiglia ha spesso altri protagonisti, ovvero altri bambini: i fratelli. Diverse ricerche mostrano come il rapporto fraterno sia un'utile risorsa che facilita l'acquisizione nel tempo di sicurezza e di stabilità.
Paradossalmente ci si accorge che dell'adozione si sa ben poco o quasi nulla, mentre la famiglia si allontana sempre più dal modello tradizionale ed aumentano forme familiari alternative, rimangono radicate vecchi pregiudizi alimentati in qualche modo dai mass media i quali tendono a presentare i fatti facendo leva sull'emotività, contribuendo così a creare e mantenere in vita idee preconcette e stereotipate (Bozzo, Zucchi, 1995).
Indipendentemente dal tipo di famiglia di cui si tratta, sia essa un matrimonio, un'unione di fatto, una famiglia ricostituita, quella caratterizzata. dall'esperienza adottiva o altre ancora, va colmato il vuoto conoscitivo rispetto alle relazioni e alle trasformazioni delle strutture familiari che caratterizza diversi ambiti della nostra società, da quello politico, giuridico, scolastico ecc.
Prof. Maurizio Andolfi
Famiglie di fatto
Merita attenzione anche lo sviluppo delle famiglie di fatto, o convivenza "more uxorio", che indica certamente una crisi del matrimonio ma non necessariamente una crisi della vita di coppia. Le difficoltà di trovare un lavoro da parte dei giovani, l'elevato costo degli affitti e l'aumento della scolarizzazione, possono essere evocate come cause e concause contingenti della crisi del matrimonio. Ma difficilmente esse, forniscono una spiegazione completa ed esauriente del fenomeno. Le ragioni che permettono di capirlo non si riducono, dunque, a questi, soli fattori; certamente li integrano e li comprendono, ma è in un'interpretazione di ordine più generale legata ai mutamenti dei sistemi e degli stili di vita, ai rapporti e ai significati che legano gli individui alle istituzioni, ai mutamenti profondi della struttura della personalità, che possiamo trovare una spiegazione (Sgritta, 1988).
Anzitutto la crisi della, nuzialità deve essere messa in relazione, sotto diversi punti di vista, con il diffondersi delle convivenze o unioni libere o famiglie di fatto. Il calo del numero dei matrimoni può, infatti, in parte essere"spiegato con la decisione di una quota crescente di coppie che scelgono di non istituzionalizzare la loro unione. Il venir meno di un precedente vincolo coniugale, poi, può portare i nuovi partner ad avviare una convivenza in attesa dello scioglimento del precedente vincolo, oppure può indurre uomini e donne a convivere piuttosto che a risposarsi nel timore di un nuovo fallimento" (Roussel, 1989).
La minore presenza di figli è un'altra caratteristica che contraddistingue le coppie non sposate da quelle coniugate. Questa minore propensione alla fecondità è in parte dovuta al fatto che, spesso, l'attesa di un figlio induce la coppia alle nozze e anche ad orientamenti di valore caratterizzati da una forte enfasi sulla vita di coppia e sull'autorealizzazione individuale anziché sulla procreazione (Zanatta, 1997).
Quando si considera l'Italia in confronto al resto d'Europa, balza subito all' occhio 1'immagine di un paese in cui tuttora prevale un modello di famiglia fondata sul matrimonio e in cui i figli sono quasi esclusivamente generati al suo interno. Nel nostro Paese, infatti, il numero delle famiglie di fatto è bassissimo e in crescita molto lenta: esse sono passate dell' 1,3% nel 1983 all' l,7% nel 1994, anche se c'è ragione di ritenere che il numero reale delle convivenze "more uxorio" sia superiore alle cifre ufficiali.
La scarsa diffusione della convivenza è dovuta probabilmente al fatto che da noi l'accettazione sociale nei confronti di questo tipo di vita di coppia, già avvenuta tra i giovani, è però ben lontana dall'essere completa: questo è in buona parte dovuto al peso ancora rilevante che la Chiesa cattolica esercita sulla cultura e sul costume del nostro Paese, soprattutto tra le generazioni più anziane. Pressioni sociali e familiari possono, perciò, scoraggiare molti giovani dall' affrontare una forma di vita a due non accettata dall' ambiente che li circonda.
Un altro fattore che influisce sulla scarsa diffusione della convivenza è la tendenza dei giovani, tipica del nostro Paese, a rimanere nella casa dei genitori fino al matrimonio per ragioni culturali ma anche di natura economica e pratica.
Complessivamente dal quadro delineato si può comunque rilevare la tendenza, nella realtà italiana, a non mettere su famiglia dopo un' esperienza andata male, ma piuttosto a realizzare un legame con un partner, senza che ciò si tramuti in convivenza stabile. Questo ha, in genere, delle conseguenze in relazione ai figli, che finiscono in tal modo con 1'avere una prevalenza di figure femminili al loro fianco. Si delinea così, una famiglia in cui 1'elemento fisso è la madre e 1'elemento mobile è la figura maschile (Scabini, 1995).
Prof. Maurizio Andolfi
Famiglie unipersonali
Ulteriore manifestazione del cambiamento delle forme di vita familiare è il grande e progressivo aumento delle famiglie unipersonali, ossia delle persone che vivono da sole. Vivere da soli in età diverse corrisponde a posizioni familiari differenti: i giovani sono soprattutto celibi o nubili, gli adulti separati o divorziati, gli anziani vedovi.
Per i primi si tratta di un ritardo dell' impegno nella vita adulta e nei legami familiari, per i secondi della difficoltà o della scarsa propensione a ricostruire. una vita di coppia nella mezza età; infine per gli ultimi, di differenti durate della vita tra donne e uomini (Zanatta, 1997).
Le persone che vivono da sole sono sopratutto anziane vedove anche se il numero di adulti e di giovani tende ad aumentare. Il ritardo dei giovani ad attuare il passaggio dall'adolescenza all'età adulta e a raggiungere una maggiore autonomia, si accompagna ad un prolungamento della loro permanenza nella famiglia d' origine per questo i giovani che vivono da soli nel "nostro Paese sono ancora pochi. Ciò non è dovuto tanto ad una mancanza di autonomia economica, quanto piuttosto ad un rinvio nell'assunzione di responsabilità adulte da parte dei giovani, legato in buona parte all'incertezza di modelli culturali e alla mancanza di un progetto di vita ben definito.
Per la maggior parte dei giovani e degli adulti, comunque, il vivere da soli non è una condizione definitiva, ma si presenta come un intermezzo tra altre esperienze di vita di coppia, con caratteri di intensa" instabilità e cambiamenti frequenti. Proprio per questo forte grado di instabilità, più che considerare il vivere da soli come un modello alternativo a quello di coppia, secondo Louis Roussel sembra più rispondente alla realtà vederlo come un modo provvisorio di realizzazione personale, una pausa di riappropriazione di sé prima o dopo o nell' intervallo tra un' esperienza di vita di coppia e l'altra. In effetti, vivere da soli non significa essere senza legami affettivi duraturi: dalle ricerche emerge che una quota minoritaria ma consistente di donne e di uomini soli hanno una relazione amorosa stabile.
Prof. Maurizio Andolfi
Famiglie ricostituite
Separazione e divorzio, dunque, stanno alternando il quadro abbastanza statico delle forme familiari nel nostro Paese. Anche la famiglia ricostituita si presenta come esempio atipico del vivere insieme, in cui gli usuali modi di fare, intendere e costruire una famiglia vengono meno. Essa viene solitamente definita come costituita da due persone provenienti entrambe o una sola da un altro matrimonio che vivono insieme ai figli nati da questo precedente matrimonio e talvolta ai figli nati dal nuovo matrimonio; comunque alcuni studiosi hanno proposto di far rientrare tra queste famiglie anche le coppie non sposate che vivono con almeno un figlio di uno solo dei partner.
Incertezze nei confini, nei termini da utilizzare, nei ruoli assunti sono tre dei tratti caratteristici di questo tipo di famiglia. Per i figli un tempo le seconde nozze di un genitore significavano sostituire un nuovo genitore a quello scomparso; adesso la ricomposizione della famiglia vuol dire aggiungere ai genitori biologici, che rimangono, uno o due nuovi genitori "sociali" o "acquisiti", oltre ad eventuali "quasi fratelli" o "quasi sorelle" e a una nuova parentela. Le conseguenze di una situazione di questo tipo, si esplicano comunque su diversi soggetti: figli, adulti e parentela estesa e sono anche di diverso tipo, complessificando il versante relazionale - comportamentale ed anche economico, giuridico oltre che demografico.
A livello sociale, però, non vi è stato un riconoscimento della presenza di questa realtà familiare, rimasta a tutt'oggi ancora in ombra. Le famiglie ricostituite rilevate nel nostro Paese a metà degli anni '90, rappresentano i14,1 % delle coppie e risultano in leggero aumento rispetto alle stime precedenti. L'incidenza e la presenza di queste è abbastanza contenuta, poiché le persone che sciolgono un'unione in età giovanile e adulta, cioè in una fase della vita in cui è più probabile costituire una seconda unione, sono in numero abbastanza limitato. Inoltre, la ricostituzione di una coppia è molto più frequente per i separati e divorziati che non per i vedovi ed è soprattutto l'uomo a rifarsi una vita più che la donna.
Naturalmente, i gradi di complessità di queste famiglie possono essere maggiori o minori: le più semplici sono quelle in cui uno solo dei coniugi o dei partner ha un matrimonio o una convivenza alle spalle da cui non sono nati figli; le più complesse sono quelle in cui entrambi hanno avuto da una precedente unione dei figli che vivono attualmente con loro e a cui se ne aggiungono altri nati dalla seconda.
La famiglia ricostituita può essere vista come una risorsa affettiva e relazionale: quando ci sono figli del precedente matrimonio, la seconda unione di uno dei genitori può a11argare di molto la rete delle relazioni familiari intorno ad essi. Se i rapporti col genitore non convivente si sono allentati, il loro indebolimento può essere almeno in parte compensato da una nuova rete di parentela. E quando i figli mantengono i rapporti con il genitore non affidatario e la sua famiglia, il complesso delle relazioni familiari si allarga ancor di più creando una rete di solidarietà familiare molto densa ed estesa. Ma l'introduzione di queste nuove relazioni può causare anche non pochi problemi e rendere molto difficile la vita di genitori e figli. Innanzitutto la stessa definizione di famiglia e i suoi confini diventano molto più incerti e ambigui. Inoltre, la difficoltà a stabilire il ruolo di genitore acquisito è la manifestazione di relazioni spesso problematiche sotto il profilo psicologico e affettivo. I primi anni di vita di una famiglia ricostituita richiedono di solito molti sforzi da parte degli adulti per negoziare e creare un sistema equilibrato e coerente di molteplici relazioni all'interno e all'esterno del nucleo o dei nuclei coinvolti. Essi sono anche un difficile periodo di adattamento per i figli. La maggior parte di essi ha superato con successo ma faticosamente il trauma dell'uscita del padre dalla famiglia; l'arrivo del nuovo compagno della madre richiede un periodo più o meno lungo di ulteriore adattamento caratterizzato, a volte da sofferenza.
Sicuramente uno dei problemi maggiormente sentiti fra le famiglie ricostituite è quello della funzione educativa del genitore non biologico, il cui ruolo resta comunque flessibile e non sovrapponibile a quello del genitore naturale. Pur intervenendo diversi fattori (età dei bambini, eventuali fratelli acquisiti, assenza o presenza di contatti con l'altro papà...), le ricerche effettuate mostrano che aver inizialmente sviluppato una relazione amichevole con i figli del partner, lasciando la funzione educativa ai genitori biologici ed aver raggiunto un accordo con quest'ultimi su tale distinzioni di ruoli, porta all'instaurarsi di relazioni soddisfacenti tra le due parti (Mazzoni, 1995). Ancora più problematica della relazione col padre acquisito sembra essere quella con la madre acquisita, quando i figli sono affidati al padre (situazione abbastanza rara). In effetti, poiché di solito le madri non affidatarie sono molto più coinvolte nella vita dei loro figli di quanto lo siano i padri non affidatari, può svilupparsi tra le due "madri" una maggiore competizione.
Tra l'altro, alla mancanza di norme sociali cui fare riferimento per definire il ruolo del genitore acquisito corrisponde, in tutti i paesi occidentali, Italia compresa, una mancanza di norme giuridiche che ne stabiliscano diritti e doveri e, più in generale, che regolino in modo organico la vita di queste famiglie.
Quindi, sul piano giuridico la famiglia ricostituita è una sfida per il legislatore perché deve cercare di conciliare la genitorialità biologica e quella sociale, senza escludere alcuna delle due. Ma essa è soprattutto una sfida per gli individui coinvolti, perché i legami di genitorialità e di parentela sociale, a differenza di quelli biologici, esistono per volontà dei singoli e, di conseguenza, possono finire per mancanza di questa volontà; tali legami richiedono, infatti, una continua attenzione e una cura particolare per mantenersi (Zanatta, 1997).
Prof. Maurizio Andolfi
Famiglie monogenitoriali
Tra le forme familiari delineate, particolare rilievo assumono per la loro consistenza numerica, le problematiche relazionali ad anche sociopolitiche che in molti casi vi sono connesse, le famiglie composte da un solo genitore e almeno un figlio, dette anche famiglie monoparentali o monogenitoriali.
In realtà le famiglie con un solo genitore non sono un fenomeno nuovo: essere erano diffuse nel passato, ma con caratteristiche e significati diversi rispetto ad oggi. Allora queste famiglie traevano origine per lo più dalla morte precoce di uno dei due coniugi, o dall’emigrazione degli uomini o delle donne nubili abbandonate dopo essere state rese madri (Barbagli, Saraceno, 1997). Nella realtà attuale, invece, le famiglie monogenitoriali derivano soprattutto da scelte volontarie degli individui e il loro aumento è riconducibile, spesso, alla fragilità che oggi sembra caratterizzare il legame coniugale, al diffondersi delle separazioni e dei divorzi e di stili alternativi di vita.
In Italia, in particolare, anche in questo caso coesistono elementi di tradizione e di modernità. In effetti, nel nostro Paese la quota di famiglie con un solo genitore è più bassa rispetto agli altri paesi, ma è anch’essa in crescita. Da noi i fenomeni che danno origine alle famiglie monogenitoriali, quali separazioni, divorzi, nascite volontarie fuori dal matrimonio, non raggiungono le dimensioni che hanno in altri paesi dell’Europa occidentale, per una serie di ragioni economiche, sociali e culturali che si possono riassumere sinteticamente nel ritardo del processo di modernizzazione del paese. Inoltre l’età dei genitori soli rimane più elevata in Italia rispetto agli altri Paesi, perché da noi la vedovanza ha ancora un peso relativamente maggiore e separazioni e divorzi avvengono abbastanza tardi. Tuttavia, si è registrato negli ultimi anni anche un rapido e considerevole ringiovanimento di madri e padri soli, perché calano i vedovi e le vedove, aumentano i genitori mai sposati, che sono di regola i più giovani e diminuisce l’età dei coniugi alla separazione e al divorzio (Zanatra, 1997).
Un altro elemento importante è la femminilizzazione che caratterizza questi nuclei familiari: in tutti i paesi, compresa l’Italia, nell’80% e più dei casi il genitore solo è la donna.
Si comprende allora il perché, secondo la maggioranza degli studiosi, queste famiglie corrono il grave rischio di trovarsi in condizioni economiche e sociali svantaggiate, proprio a causa della posizione sfavorevole delle donne nel mercato del lavoro e dell’assunzione esclusiva della responsabilità di cura verso i figli.
Le problematiche relative alle famiglie con un solo genitore che si sono formate a seguito di separazione e divorzio, meritano un’attenzione particolare, in quanto ovunque in aumento. In seguito alla rottura coniugale, di solito i figli restano con le madre non solo perché nelle separazioni giudiziali i giudici tendono a privilegiare fortemente l’affidamento materno, ma anche perché in tal senso si accorda la maggior parte degli ex coniugi quando ricorrono alla separazione consensuale. Si tratta, dunque, di un orientamento culturale generalizzato che delega alla sola madre i compiti di allevamento e cura dei figli determinando anche sensibili mutamenti sul normale svolgimento della vita familiare e del suo ciclo evolutivo.
Nonostante in questo ultimi tempi si parli molto del nuovo ruolo dei padri, essi sembrano essere i grandi assenti della scena. Il divorzio diventa così un evento critico non solo sul piano economico e sociale, ma anche e soprattutto su quello psicologico. In particolare, i figli attraversano un periodo iniziale di difficoltà da parecchi punti di vista (equilibrio psico-affettivo, adattamento sociale e scolastico) soprattutto qualora tra i genitori vi sia forte conflittualità.
La sostanziale prevalenza dei nuclei monogenitoriali materni, quando non accompagnata da un attivo interessamento del padre, incide in modo assai rilevante anche sulla qualità delle relazioni genitore-figlio. La non realizzata compresenza educativa di esperti fusionali e protettivi (materni) ed emancipati e di norma (paterni), produce spesso relazioni o di eccessiva dipendenza e fusionalità (soprattutto quando si tratta di bambini piccoli) o tropo disinvolta emancipazione ed autonomia, che li conduce addirittura ad assumere un ruolo "parentificato" accanto al genitore, soprattutto nel caso di figli adolescenti.
Altro elemento rilevante è legato al fatto che, in queste situazioni, è la famiglia d’origine che abitualmente offre l’aiuto maggiore sotto forma di sostegno economico e di servizi, quali il lavoro domestico, la cura dei bambini, ecc. E’ alla famiglia d’origine si rivolgono molte madri sole per essere aiutate a far fronte al duplice compito di procacciare le risorse materiali e prendersi cura dei figli. I effetti, i figli dei genitori soli convivono molto più frequentemente con i nonni di quanto facciano i figli delle coppie. Questo è in buona parte dovuto al fatto che spesso le donne, dopo la separazione o il divorzio, tornano temporaneamente o definitivamente a vivere con la famiglia d’origine, mentre le madri nubili spesso non se ne sono mai allontanate. Anche la convivenza con altri parenti è più frequente, così come l’affidamento abituale del bambino ad amici o vicini o il ricorso a personale pagato (Zanatra, 1997).
Il contributo della famiglia estesa è senza dubbio importante, tuttavia ciò che può comportare in termini di difficoltà e ritardo nei processi di emancipazione del nuovo nucleo, si converte in una maggior delega di quest’ultimo delle responsabilità verso i figli.
Prof. Maurizio Andolfi
Cambiamenti demografici e nuove forme di famiglia
Dal punto di vista socio-demografico le indagini condotte hanno mostrato come, complessivamente, l’Italia rispetto a tutti i paesi occidentali sia quello con il più basso numero di figli per donna, ma in cui i giovani lasciano più tardi la famiglia d’origine, meno frequentemente convivono con una persona dell’altro sesso senza essere sposati e, dopo le nozze, più difficilmente divorziano (Barbagli, Saraceno, 1997).
In sostanza, le recenti trasformazioni della famiglia sono documentate da alcuni fenomeni demografici che si possono riassumere nel modo seguente: rinvio della nascita del primogenito, testimoniato dal continuo calo della fecondità nei primi anni del matrimonio; innalzamento dell’età media delle madri alla nascita del primogenito, soprattutto al Nord del Paese; diffusa caduta delle nascite di ordine superiore a due (Scabini, 1995).
Un altro fondamentale indicatore demografico su cui è necessario riflettere per comprendere la famiglia italiana nella realtà sociale contemporanea è la crisi della nuzialità. Come in altri paesi, anche in Italia si sono prodotti negli ultimi anni profondi cambiamenti nelle scelte degli individui che investono il ciclo di vita delle famiglie. Con ciò si fa riferimento, da un lato, a un calo, o, in anni recenti, a una relativa stabilizzazione del numero dei matrimoni, dall’altro a una sempre più evidente fragilità dell’unione coniugale. Questa grande trasformazione demografica e sociale ha così portato al passaggio da un unico modello di famiglia (la famiglia nucleare) a una pluralità di forme familiari.
L’indagine ISTAT Multiscopo del 1998, fornisce appunto una panoramica dei tipi di famiglia, confermando gli andamenti già rilevati dalle precedenti indagini e, in particolare, dal Censimento del 1991. E cioè: l’aumento delle famiglie unipersonali (tipo A), composte quasi esclusivamente da persone sole, o con altri membri non legati da vincoli di parentela, essa costituisce la forma familiare che ha avuto l’incremento maggiore; l’aumento delle coppie senza figli (tipo B); la diminuzione delle famiglie nucleari in senso proprio (coppie con figli e/o un solo genitore con figli: tipo C): questa che è la forma più diffusa di famiglia, ha avuto un decisivo decremento nel Censimento del 1991; la diminuzione considerevole delle famiglie estese e allargate (tipo D).
Il declino del matrimonio, il calo delle nascite e la diffusione di una molteplicità di tipi di famiglie sono, dunque, realtà concrete difficilmente contestabili, che in misura maggiore o minore riguardano tutti i paesi industrializzati compresa l’Italia. Accanto a questi cambiamenti ne vanno però registrati altri che hanno portato all’emergere di ulteriori forme familiari, di cui recentemente si è registrato un aumento: le famiglie immigrate e quelle miste. Presenteremo una breve rassegna delle nuove forme di famiglia nei paragrafi seguenti soffermandoci sugli effetti e sui mutamenti prodotti sul ciclo di vita familiare.
Prof. Maurizio Andolfi
Evoluzione del sistema famiglia:
consolidamento di nuove forme familiari
"Non esiste un modo di essere e di vivere
che sia il migliore per tutti (…).
La famiglia di oggi non è né più né meno
perfetta di quella di una volta, è diversa
perché le circostanze sono diverse".
(E. Durkheim, 1888)
Premessa
consolidamento di nuove forme familiari
"Non esiste un modo di essere e di vivere
che sia il migliore per tutti (…).
La famiglia di oggi non è né più né meno
perfetta di quella di una volta, è diversa
perché le circostanze sono diverse".
(E. Durkheim, 1888)
Premessa
Le parole pronunciate dal sociologo E. Durkheim, sono esplicative e capaci di far comprendere, ancora oggi, le trasformazioni che investono la famiglia contemporanea.
La storia umana presenta, infatti, un inesauribile repertorio di modi di organizzare e attribuire significati alla generazione e alla sessualità, all’alleanza tra gruppi e a quella tra individui, e quindi un infinito repertorio di modalità per costruire "famiglie" (Saraceno, 1996).
I diversi studi hanno chiaramente rilevato l’impossibilità di ricostruire una vicenda unitaria della famiglia sottolineando, invece, la varietà di forme familiari che hanno sempre caratterizzato le società umane. In questo senso la relazione tra la famiglia e la società indica un legame piuttosto stretto: variando il tipo di società variano anche le strutture e le funzioni della famiglia stessa. In effetti, passando dal mondo contadino patriarcale alla società industriale, la famiglia si è trasformata da estesa ed economicamente autosufficiente, in nucleare o coniugale, inserita in un più vasto contesto socioeconomico e culturale.
La famiglia si trova intimamente forgiata dalle nuove strutture economiche essendo un "locus" fortemente compenetrato con tutti gli ambiti di vita esterna, i quali entrano in essa e ne plasmano la struttura più intima e profonda (Donati, 1997). Tuttavia essa, pur essendo espressione dei cambiamenti della società di cui fa parte, non è un semplice terminale passivo del mutamento sociale, ma uno degli attori che contribuiscono a definire i modi a seconda delle circostanze (Barbagli, Saraceno, 1997).
D’altronde, la complessità del fenomeno familiare deriva dal fatto che la famiglia da un lato affonda le sue radici nella zona latente del sociale e, dall’altro, prende consistenza dalle relazioni che i singoli individui intrattengono negli ambiti di vita in cui vivono e operano. Come tutte le relazioni, anche quelle familiari si strutturano secondo un numero indefinito di variabili che sono tanto dell’ordine del mondo vitale che dell’ordine del sistema sociale, anzi, sono il prodotto delle loro interazioni reciproche (Donati, 1989).
Questo quadro ci aiuta a comprendere come le rapide e profonde trasformazioni economico-sociali che hanno investito i paesi dell’Occidente negli ultimi anni, abbiamo avuto una serie di ripercussioni sui comportamenti demografici, producendo anche sensibili evoluzioni sullo sviluppo quantitativo delle famiglie, sulla loro struttura e sul loro stesso ruolo nella società. L’Italia, rispetto alle tematiche familiari, si inserisce nello scenario europeo con tratti di somiglianza e di differenza, continuando a far coesistere, al suo interno, tradizione e mutamento. Alcune tendenze, che ormai definiscono i comportamenti collettivi degli europei, si ritrovano immodificate: bassa natalità, riduzione della nuzialità, frammentazione della coppia; tipici del nostro Paese e di altri Paesi del Mediterraneo, sono invece il radicalizzarsi di alcuni di questi comportamenti e la scarsa diffusione di altri (convivenze, nascite fuori dal matrimonio, seconde nozze).
La specificità della situazione italiana sembrerebbe consistere nell’eccezionale persistenza di una struttura familiare del tipo tradizionale, caratterizzata dalla presenza di forti legami solidaristici, fondata su articolate relazioni con la parentela esterna al nucleo elementare, dotata di stabilità sia a causa della lunga assenza dal nostro ordinamento dell’istituto del divorzio, sia per la relativamente scarsa propensione o possibilità della donna ad uscire dalla famiglia per accedere ad un’occupazione lavorativa extradomestica (Sgritta, 1998).
Mentre in altri paesi l’evoluzione delle strutture familiari percorreva il cammino della "nuclerizzazione", in Italia si registrava la persistenza di sensibili ritardi in questa direzione e il permanere, soprattutto in alcune aree, di cospicue quote di famiglie estese. Tuttavia, contestualmente a questi dati di rigidità, studi e ricerche condotte in tempi più recenti hanno evidenziato tutta una serie complessa di fattori motivazionali, strutturali e socio-economici che anziché collocare il nostro Paese in una posizione anomala rispetto ala panorama internazionale, ne consentono la piena assimilazione, conseguenza delle innovazioni che hanno investito ampi settori della società civile.
Negli ultimi cinquant’anni è iniziato un processo di trasformazione della famiglia, nelle sue forme interne ed esterne, verso una sempre maggiore complessità, differenziazione ed anche frammentazione. Nonostante la maggiore fragilità, le incertezze ed i grandi timori, essa rimane comunque il sistema di reti di solidarietà sul quale le persone continuano a investire e costruire il proprio senso di identità ed appartenenza.
Illustreremo alcuni di questi mutamenti con il preciso intento di individuare gli effetti che hanno sul ciclo di vita della famiglia e sul rapporto tra le generazioni.
Prof. Maurizio Andolfi
Dalla appropriazione alla cooperazione. Per educare i rapporti
· Una "ricetta" pratica per imparare a relazionarsi agli altri in un orizzonte di cooperazione · È in esso che ci si prepara, fin da giovani, all’impegno sociale e politico · Per realizzare questa ricetta non basta mescolare gli ingredienti e aspettare cinque minuti. Serve pazienza. · La pazienza, e soprattutto la passione, di ogni educatore degno del nome.
Vorrei proporvi una ricetta... La cooperazione come un minestrone?
Un minestrone (o minestra di verdura) se fatto bene si mangia volentieri, sollecita/solletica i sensi, sembra non finire mai. È chiaro che la preparazione non deve essere superficiale, non possiamo comprare una busta surgelata, aprirla, buttarla nella pentola, aggiungere un po' d'acqua e di sale (per forza, siamo sempre di corsa...) e tutto è pronto. Non siamo in uno spot pubblicitario. Se vogliamo preparare un minestrone che sia invitante, che si faccia mangiare anche da Mafalda (che notoriamente aborre le minestre ma se ne intende di come va il mondo) occorre seguire la ricetta con tutti gli accorgimenti del caso.
RICETTA:
MINESTRONE "COOPERAZIONE"
Ingredienti:
"Apprezzare un individuo nello stesso modo in cui si apprezza un tramonto".
Il Piccolo Principe prendeva la sua seggiolina, si sedeva e guardava i tramonti. Spostandosi ogni volta un poco. Finché ne aveva bisogno.
Penso che possa essere proprio questo l'atteggiamento da cercare nella relazione con l'altro. Un caro amico mi ha detto un giorno che quando arriva un bambino in una famiglia "...bisogna accoglierlo come un re". Con stupore, meraviglia, con il desiderio di scoprire che cosa ci porta in dono. Molto spesso, invece, l'altro non è fonte per noi di curiosità, bensì di preoccupazione, di timore, di incertezza.
L'altro è un ingrediente fondamentale. Senza di lui siamo soli, non riusciamo a definire noi stessi, a confrontarci. L'altro è importante per noi perché è attraverso di lui che abbiamo fatto le prime esperienze del mondo, che abbiamo provato il senso di fiducia e di sicurezza che ci ha permesso poi di intraprendere il lungo viaggio verso l'autonomia. Trasmettere questa fiducia è uno dei compiti fondamentali di un educatore/genitore: per ciascuno di noi è importante sapere che c'è qualcuno che ci apprezza per quello che siamo, ed è pronto ad accorrere in nostro aiuto, che sa quando è il momento di sostenere ma anche quando è bene che facciamo da soli, per potersene poi rallegrare insieme.
L' altro è sopra ogni cosa un ingrediente unico. Occorre non dimenticarsene mai, altrimenti si corre il rischio di pregiudicare la ricetta fin dall'inizio.
Curiosità è quell'atteggiamento che ci spinge a voler conoscere, non per avere qualcosa in più, ma perché mi rivela un nuovo aspetto dell'altro. Perché non prenderci un poco di tempo per stare a guardare: i bambini che giocano, un uccello che costruisce il nido, le formiche che vanno avanti e indietro, la gente che fa la spesa al mercato...? e lasciare che le domande vengano fuori da sole, senza fretta, stimolandone magari altre. Anche qui abbiamo da imparare molto dai bambini: è la curiosità che li spinge ad apprendere, oltre al desiderio di emulare figure significative, è sempre la curiosità che li porta a smontare qualcosa per vedere cosa c’è dentro. Direi di non perdere, e anzi incoraggiare, l'impulso a non fermarsi alla prima occhiata, ad andare oltre, pensando all'altro come ad uno di quei palazzi delle fiabe in cui ogni porta che viene aperta rivela un tesoro ancora più grande. Quando cogliamo nei gesti, nello sguardo, nel modo di fare di un'altra persona qualcosa che ci rivela un suo aspetto imprevisto, ecco che spunta la curiosità di saperne di più, di cogliere "quest'opera d'arte" in tutta la sua interezza.
"E ci mettemmo seduti ad ascoltare il tramonto…"
Quando Siamo di fronte ad un paesaggio che ci colpisce profondamente, tutti i nostri sensi sono chiamati in causa: a ciò che vediamo associamo sensazioni, odori, sapori, suoni e rumori. L’ascolto deve essere intensamente partecipato. Occorre prestare "attenzione alle parole, ai pensieri, ai toni sentimentali, al significato personale e anche al significato che è sotteso all'intenzione cosciente di colui che parla".
È necessario un atteggiamento empatico, vale a dire, per rimanere nella metafora precedente: sentirsi tutt'uno col tramonto, ma pienamente coscienti di essere se stessi, una figura nel paesaggio. Ascoltare in questo modo non è facile e non sempre può prodursi: occorre avere la mente sgombra dai propri fardelli, essere disponibile ad accogliere e soprattutto non sostituirsi all'altro, non attribuirgli i nostri pensieri, le nostre conclusioni. Accettare quindi lo stato d'animo che l'altro ci presenta (collera, tristezza, disperazione, allegria...), ricordandosi che "gli stati d'animo sono transitori", che l'altro è una persona distinta da noi e ha il diritto di essere ciò che è. Oltre a saper riconoscere l'emozione, il sentimento comunicato dall'altro, occorre porgere l'orecchio anche a ciò che ci risuona dentro. Spesso di fronte ai capricci di nostro figlio, alle provocazioni di un allievo, alle insistenze di un collega di lavoro, ci siamo probabilmente sentiti pervadere da una profonda irritazione, rabbia, impotenza. Per evitare di essere sopraffatti da questi sentimenti e riversarli sull'altro con forza eccessiva può essere utile fare una "pausa" (il vecchio consiglio: "fai un respiro lungo e conta fino a 10") e provare ad appuntarsi nel taccuino della memoria di indagare poi con calma ciò che è risuonato in noi della nostra storia. Questo "esercizio" può aiutarci a comprendere ed accettare certi "nervosismi" dei bambini, la loro apparente resistenza ai nostri richiami mentre sono impegnati in un gioco o nella lettura, cercando di tener separato ciò che è la posizione dell'altro dal nostro sentire interno e ciò che mette in moto.
Se abbiamo la fortuna di non trovarci da soli a gestire una situazione per noi problematica o difficile, può essere buona cosa "passare la palla" a chi ci affianca. Questo non per delegare né per scaricarsi delle responsabilità, quanto piuttosto per avere la possibilità di mettere distanza tra la situazione e noi, di vederla da un altro punto di vista (sono io che osservo un altro che gioca un ruolo simile al mio). Certamente non è facile fare ciò e spesso ce ne manca l'umiltà, ma può aiutare a non entrare in una escalation simmetrica con chi o ci sta di fronte e, sopratutto, a vedere colui o colei che ci affianca in un compito educativo come una figura di supporto, con cui collaborare, confrontarsi, cui appoggiarsi pronti a ricambiare nel momento del bisogno.
"Non si può mica tirar fuori le parole e basta. Le parole atterrano sempre da qualche parte e quando atterrano su di lui, che è così fragile per via del modo in cui è cresciuto, allora è la fine".
Sarà frutto della nostra educazione, sarà l'abitudine a cercare il pelo nell’uovo, ma troppo spesso mettiamo l'accento su ciò che non va, su come le cose andavano fatte, ecc. E ancora più spesso fatichiamo ad accogliere complimenti. Qualcuno dirà che sono suggerimenti ormai scontati, ma credo sia opportuno averli sempre presenti: sottolineare il positivo nell'altro e nelle mie azioni, apprezzare lo sforzo che viene compiuto, anche se il risultato non sempre è ottimale. Non necessariamente la valorizzazione passa attraverso le parole: possono essere piccoli gesti (un bigliettino, un fiore, 5 minuti di tempo tutto per l'altro...). Può essere il non fare o non dire niente mentre l'altro sta facendo o dicendo. Valorizzare è anche saper aspettare, rispettando i tempi dell'altro, avendo fiducia nel suo risultato finale (che può anche non essere quello che noi abbiamo in mente). E. Erikson, nel suo libro "Infanzia e Società", descrive come gli adulti di una tribù indiana abbiano atteso con pazienza e senza intervenire che una bambina di tre anni chiudesse la pesante porta che immetteva nella stanza. Essi spiegarono in seguito alla ricercatrice, che aveva assistito stupita alla scena, che nessuno di loro era venuto in aiuto alla bambina perché tutti sapevano che era in grado di farcela e che quello era un compito proporzionato alla sua età. "Il punto essenziale di questo modo di educare i bambini è che il bambino deve essere educato fin dall'infanzia a partecipare responsabilmente alla società e all'idea che i compiti clic gli vengono proposti sono all'altezza delle sue capacità".
La relazione educativa è un apprendimento reciproco, non è mai un discorso a senso unico. Credo che uno dei più grossi regali ricevuti dalle persone incontrate nel mio lavoro e non, in tutti questi anni, sia stato propria la possibilità dì ricevere spunti, stimoli, suggerimenti - anche indiretti -- per migliorare il mio modo di stare con l'altro, per acquisire maggior fiducia nelle mie capacità, per rivedere alcune mie posizioni e trovare, insieme, degli aggiustamenti. E, come si fa quando si riceve un regalo, può essere importante ringraziare: riconoscere cioè all'altro il contributo che egli ha dato alla nostra crescita.
Ricordiamoci anche che ciascuno di noi ha risorse interne per risolvere i problemi, ed essere coscienti di questo significa dare uno spazio alla capacità personale di attivarsi, di reagire, di trovare risorse. E forse troppo spesso dimentichiamo anche che ognuno ha diritto ad avere un angolo proprio, delle attività interessanti e stimolanti dove potersi rifugiare quando "le pile sono scariche". Il ritrovarsi, dopo la ricarica, può avere così una maggiore spinta allo stare e fare delle cose insieme.
"Una volta lei disse: - Voglio un pianoforte - e lui seppe che in breve un mostro nero sarebbe stato piazzato nella stanza. Egli disse: - No, io non compro nessun pianoforte -.
Lei pianse.
- Non voglio pianoforti - disse lui e andò dai suoi carillon"
Il conflitto è ancora troppo spesso vissuto come qualcosa da evitare, un contesto dove, per forza, ci devono essere vincitori e vinti. Sforziamoci di provare a vederlo come un momento in cui vengono espressi i differenti modi di percepire una situazione, dove sono portati in prima istanza propri desideri ed esigenze. Spesso, è inevitabile, emerge in questa occasione una forte carica di aggressività, che serve a difendere la propria posizione, il punto di vista personale. Ma questa forza non deve servire a schiacciare l'altro (se questo succede, la volta successiva il desiderio di rivalsa sarà ancora più forte), può venire invece utilizzata per provare a trovare soluzioni comuni, caratterizzate non da un risultato a somma zero (uno perde e l'altro vince) ma piuttosto da una migliore possibilità, trovata insieme, e che permette a tutti di portare a casa qualcosa. In primo luogo la soddisfazione di aver lavorato con altri per un risultato che non penalizza nessuno... La capacità di esprimersi attraverso il linguaggio è uno strumento fondamentale: permette di chiarire il proprio punto di vista, esprimere le emozioni, ipotizzare altre soluzioni. P. Freire ha detto: "Se gli uomini trasformano il mondo dandogli un nome, attraverso la parola, il dialogo si impone come cammino per cui gli uomini acquistano significato in quanto uomini. (...) E poiché è un incontro di uomini che danno un nome al mondo, non deve essere l'elargizione degli uni agli altri. È un atto di creazione. Quindi non può essere morboso strumento di conquista dell'altro. La conquista, implicita nel dialogo, è quella del mondo, che i due soggetti realizzano insieme"
"Una volta trovati gli ingredienti può iniziare la preparazione. È ovvio che quantità, maturazione, abilita nell’utilizzo dei vari strumenti di cucina, variano in relazione al cuoco e alle sue caratteristiche personali, così come il sapore può variare con le stagioni. L'importante è che ci venga messo del tempo: è lui che dà più gusto."
È un altro ingrediente che consiglio: "Un sentiero senza cuore non è mai piacevole. Devi lavorare duramente anche per prenderlo. E d’altra parte, un sentiero che ha un cuore è facile, amarlo non costa fatica"
Il sentiero faticoso per noi, e non ce ne rendiamo conto, è molto spesso costituito dal "dover essere": dei buoni educatori, dei buoni genitori, dei buoni figli, mogli, mariti, ...insomma delle persone "come si deve essere". Senza pensare che, anche se fosse stata stabilita una definizione di perfezione, potrebbe essere un punto di arrivo a cui non giungeremmo mai, perché "la perfezione non è di questo mondo". Quindi è forse molto più piacevole seguire il sentiero che ha un cuore, intendendo con questo non il lasciare che le cose vadano come sono "perché tanto io sono fatto così", ma l'essere disponibili a rischiare se stessi nella relazione. A mettersi in gioco c'è tutto da imparare, sia dagli errori che dai successi. E, soprattutto, si vive.
A questo punto occorre mescolare gli ingredienti, lasciarli insaporire, e farli cuocere lentamente. Se i genitori, e in particolare la madre, non sostengono il bambino infondendogli sicurezza, avranno più difficoltà in seguito a spingerlo verso il mondo esterno (ciò che A. Adler ritiene fondamentale per lo sviluppo del sentimento sociale dell’individui, che lo porterà a svolgere le proprie attività per fini sociali alla comunità). Senza la sicurezza viene meno la curiosità, la disponibilità al confronto con l'altro, la capacità di mettersi in gioco.
"Se tutti facessero ciò che devono fare staremmo tutti meglio... Chiedere alla gente di fare ciò che è necessario, non quello che sarebbe meglio, o più conveniente, o più vantaggioso, o più rivoluzionario. Solo e soltanto ciò che bisogna fare, basta".
Cooperare è effettivamente in opposizione a competere? R. Vittori, in un suo articolo, sottolinea come la competizione è tutto per riuscire a raggiungere un obiettivo condiviso, lavorando insieme. Infatti solo attraverso il confronto di punti di vista e capacità si può arrivare ad una definizione di ciò che si è, e che si è in grado di fare rielaborando l'immagine di sé stessi e dì chi ci sta di fronte. Quindi un mettersi alla prova di fronte all'altro, non per primeggiare su di lui (competitività), ma per poter mettere al meglio in comune le potenzialità possedute.
Come cooperare? Credo, innanzitutto, sentendosi parte di un'équipe: la famiglia, il posto di lavoro, il quartiere in cui si vive, la propria città, la terra su cui abitiamo. Il grado di coinvolgimento è ovviamente differente, ma è importante sentirsi responsabili e interdipendenti. Da qui le proposte educative possono essere le più varie: coinvolgere i membri della famiglia non solo nei compiti quotidiani (lasciare che i bambini, anche quelli più piccini, cucinino insieme con noi anche solo con un impasto di farina e acqua, collaborino alla gestione della casa, facciano piccole commissioni...) ma anche nella progettazione di momenti piacevoli (gite, vacanze, inviti...).
Far cogliere la connessione tra le azioni quotidiane e gli effetti ad un livello più vasto (raccolta differenziata: perché?; scelte di tipo economico e di volontariato: quali sono le motivazioni che ci stanno alla base? Quali benefici per gli altri, per noi? perché tenere una città pulita? perché rispettare i servizi che ci vengono erogati e di cui usufruiamo?), incoraggiare la solidarietà tra amici, compagni (compiti, scambio di giochi, disponibilità della propria abitazione per incontrarsi...), stimolare la partecipazione ad attività di gruppo (associazionismo, sport, vacanze...), che se per un verso possono limitare l’individualità, per l'altro forniscono modelli di identificazione e la possibilità concreta di sperimentarsi capaci di fare insieme con gli altri.
Come detto fin dall'inizio, questa non è una ricetta pronta in 5 minuti. Perché riesca bene ci vuole pazienza. Saper aspettare, provare a ricominciare, imparare dai propri errori. Ricercare il confronto con gli altri può essere un vero momento cooperativo. Condividere con l'altro i miei dubbi, le mie fatiche, le mie piccole soddisfazioni diviene cooperazione se mi ci sono avvicinato con l'atteggiamento del ricercatore, se invece voglio conferme, soluzioni, ricette pronte, al massimo porto a casa il frutto di un'ennesima gara all'insegna della competitività.
Al termine di tutto questo mi permetto di dare ancora un consiglio: le parole acquistano significato nella misura in cui le faccio mie. Credo che quanto ho cercato di comunicare abbia innanzitutto un significato per me, sia collegato a situazioni, persone, suoni e profumi. Sarei contenta se alcune di queste mie parole diventassero anche vostre...
Angiola Brumana
Educatrice — Asti
Da "Famiglia domani" 3/99
Politica come carità
Un percorso educativo per la famiglia
· La politica — diceva Paolo VI — è la "forma più esigente di carità" · Eppure, quanti equivoci ha generato la presenza dei cattolici in politica! · Occorre rieducare ad una visione corretta dell’impegno sociale, e la famiglia è e deve essere il luogo privilegiato in cui si realizza questo compito · I valori che la famiglia può trasmettere: il senso di giustizia e di equità; imparare ad ascoltare e a discernere; la coerenza e la capacità di mediazione.
Prima Parte
La Chiesa italiana sta vivendo un nuovo fermento culturale strettamente legato al lungo periodo di transizione politica che il nostro paese sta attraversando. Tutto ciò è il risultato di una consapevolezza, sempre più diffusa, della necessità di "andare nella città e gridare" la propria notizia nelle forme più diverse, compresa quella politica.
Stiamo finalmente, con fatica, uscendo da un trentennio di equivoci sulla presenza politica dei cattolici, scaturiti da un'interpretazione parziale e datata di disposizioni conciliari in materia. Un contributo originale in questo senso, lo scopriamo oggi nella ormai famosa affermazione di Papa Paolo VI a proposito della politica, definita "la forma più esigente di carità". Tanta semplicità e chiarezza di pensiero - passata inosservata - riemerge, accompagnata da molteplici documenti del magistero, come un fiume carsico in tutta la sua forza dirompente di verità e di urgenza. Il Convegno di Palermo su "Evangelizzazione e testimonianza della Carità" ha avviato l'inizio del processo di ricostruzione e rigenerazione sociale e politica della cultura cattolica nella vita del nostro paese, ridisegnando la fisionomia della testimonianza e della partecipazione dei laici cattolici nella società civile.
PRIMO PASSO; UN PERCORSO EDUCATIVO IN FAMIGLIA
Lo sforzo principale da affrontare sarà quello educativo-formativo, anche specifico, oggi parzialmente assente, per dare contenuti e riferimenti valoriali alle migliaia di cattolici impegnati a vario titolo nei diversi gradi dell'agire politico. La prospettiva non può che essere di medio/lungo periodo, sapendo anche di dover agire soprattutto su noi stessi, poiché i cambiamenti, così come i progetti - nel nostro caso culturali -, vanno interiorizzati prima di essere praticati. Quanta fatica facciamo, nelle cose quotidiane, a cambiare i nostri atteggiamenti ed il nostro modo di pensare! Cambiare il nostro sguardo, affrontare la realtà con occhi diversi: ecco ciò che dobbiamo fare.
Questo impegno educativo, tuttavia, non approderà a nulla se delegato esclusivamente ad agenti esterni (istituzioni, scuola, associazioni, parrocchia, amici): ancora una volta, come sempre, l'onere e l’onore principale della responsabilità educativa spetta alla famiglia nel suo eterno ruolo di cellula fondamentale della società, luogo essenziale privilegiato dove sperimentare quotidianamente i valori e le virtù di una fede praticata e trasmessa di generazione in generazione.
La recente nota pastorale della commissione della CEI per i problemi sociali e del lavoro ha ribadito che "…la famiglia deve essere il primo ambito di educazione al sociale". Essa, infatti, ponendosi come crocevia tra pubblico e privato, può determinare un primo livello di maturazione positiva o avviare ad un modello di estraniazione. In che modo si attua tale processo? Anzitutto attraverso il "clima" di comunione e di partecipazione che caratterizza l'esperienza quotidiana della famiglia. Se le relazioni al suo interno esaltano e si fondano sulla gratuità, sul rispetto della dignità di ciascuno, sull'accoglienza cordiale, sul dialogo, sul servizio reciproco generoso e disinteressato, sulla solidarietà, la famiglia diviene, come ci ricorda Giovanni Paolo II, la "prima ed insostituibile scuola di socialità, esempio e stimolo per i più ampi rapporti comunitari all'insegna del rispetto, della giustizia, del dialogo e dell'amore".
Antonia Fantini Carpi
Da "Famiglia domani" 3/99
Seconda Parte
I VALORI DELLA POLITICA. FRA GIUSTIZIA ED EQUITÀ
Proviamo allora a definire, consapevoli di portare una semplice testimonianza mutuata dall'esistenza, più che il "decalogo" del perfetto politico o del politico virtuoso, quali siano i riferimenti e gli atteggiamenti indispensabili per capire se nella nostra crescita personale di fede ed in quella che intendiamo offrire ai nostri figli diamo il giusto spazio alla interiorizzazione di concetti e comportamenti utili per una futura e possibile sensibilità politica permanente
Cominciamo col dire che le virtù sottese alle prove di carità "tradizionali" sono, in fondo, le stesse richieste a chi "serve" il Signore nella vita politica.
Il senso di giustizia e di equità per chi fa politica attiva è alla base di qualsivoglia ragionamento e successiva azione ordinatrice che si intenda realizzare. Senza la giustizia sono irrealizzabili i processi di pace; non solo: si deteriora la pace sociale laddove esiste. In casa si impara a dare a ciascuno ciò di cui ha bisogno e a privilegiare il bene comune. Un’educazione familiare dove emerga nel tempo la capacità dei propri componenti di scegliere ciò che è giusto per sé e per gli altri, l'esperienza di accettazione e di condivisione delle scelte comuni ritenute valide per tutti, l’abitudine al discernimento delle decisioni soprattutto quella di lungo respiro, sono la pratica migliore per preparare uomini e donne ad una costante ed esigente "attenzione" politica.
Strettamente legata a questo senso civico fondamentale, troviamo una virtù essenziale per il riconoscimento "esterno" dell'amore cristiano: la gratuità; cioè la libertà di pensare ed agire per gli altri senza badare al proprio interesse. Il pensare e l'agire (disinteressatamente) ha per una famiglia cristiana la sua fonte e il suo primo riferimento in Gesù: "il Figlio dell'uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti" (Mt 20,28); "Se dunque io, il Signore e mastro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato l'esempio infatti perché ciò che ho fatto io facciate anche voi" (Gv 13,14-15). Gesù è il buon samaritano che ha vissuto al massimo della gratuità il comandamento dell' amore: "Invece un samaritano, che era in viaggio… ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite... lo portò in una locanda e si prese cura di lui" (cf Lc 10,33-34).
La prima palestra per la formazione del carattere è la famiglia dove la condivisione è difficile ma necessaria, dove i conflitti sono inevitabili e vanno gestiti. Le agenzie esterne potranno fare il resto, "completare l'opera, ma non crearla". Perchè fondati sull'amore e guidati dall'amore, i rapporti familiari sono vissuti all'insegna della gratuità, la quale "rispettando e favorendo in tutti e in ciascuno la dignità personale come unico titolo di valore, diventa accoglienza cordiale, incontrò e dialogo, disponibilità disinteressata, servizio generoso, solidarietà profonda" (Familiaris consortio, 43). La famiglia diventa così "prima e insostituibile scuola di socialità, esempio e stimolo per i più ampi rapporti comunitari all‘insegna del rispetto, della giustizia, del dialogo, dell'amore" (ibidem).
Sottolineo due atteggiamenti connessi all’esercizio politico nella sua parte finale di decisione. Per arrivare a prendere una decisione responsabile occorre prima ascoltare e discernere, in altre parole: osservare e valutare. Osservare la realtà, i suoi bisogni, gli interessi particolari e generali in gioco, le emergenze sociali, valutare le possibili risposte, le ricadute positive o negative di una scelta col il relativo costo sociale ed economico che ne deriva. Dobbiamo aiutarci a pensare secondo questo schema: "Se non ascolto non riesco a cogliere il problema, se non sono in grado di scegliere sono incapace di trovare le soluzioni".
Antonia Fantini Carpi
Da "Famiglia domani" 3/99
Terza Parte
IL DIFFICILE COMPITO DI ESSERE COERENTI E PUNTARE AL BENE COMUNE
È necessario affrontare altri due aspetti, correlati ed erroneamente considerati contraddittori, derivati dalla libertà di pensiero descritta prima: la virtù della coerenza e la pratica della mediazione.
Partiamo da una domanda: può un politico mediare continuamente tra diverse posizioni rimanendo coerente ai propri principi ed alle proprie idee? La risposta è sì. Anzi, non "può", ma "deve"! Senza mediazione la politica diventa sbrigativa e pecca di decisionismo, autoritaria e non più partecipata, generatrice di conflitti più che risolutrice degli stessi. Senza la coerenza si perde di vista il fine ultimo del bene comune, la crescita della persona e della società nella continua ricerca di soluzione ai bisogni primari e secondari sempre presenti. Nelle scelte da compiere, occorre essere intransigenti nella sostanza ed indulgenti nella forma. Questo atteggiamento è indice di effettiva libertà sul cambiare idea sul "fare" politico conservando la necessaria coerenza ai fondamenti etici e cristiani dell’"essere" politico.
Oggi si confonde sempre più spesso la forma delle scelte con la sostanza delle scelte stesse; o meglio, se ne inverte il ruolo affidando alle regole (forma) il compito di esaurire in sé le risposte ai problemi. Perdendo di vista il senso della decisione, della soluzione del problema, anche la buona regola si svuota ed è inefficace. Dobbiamo abituarci a pensare ed agire perché la forma sia essa stessa espressione della sostanza che vogliamo affermare, in un meccanismo comportamentale che manifesti il fine ultimo a cui tendiamo anche attraverso il mezzo che utilizziamo.
D'altra parte al cristiano corre l'obbligo di farsi riconoscere dai gesti che compie.
Questo processo di esternazione politico/culturale, che sintonizza il mezzo con il fine, è propriamente ciò che intendiamo correlando la virtù della coerenza e la prassi della mediazione. In una parola potremmo definirlo "lo stile" politico cristiano.
La coerenza dunque in sé esprime fedeltà ad un'idea e ad un principio anche quando questi siano sbagliati o negativi. Essa genera rispetto se testimonia il vero bene dell'uomo,se testimonia l'amore incondizionato per il prossimo. In altri casi - la storia ne è foriera -- la fedeltà/coerenza ad ideologie disumane ha prodotto immane tragedie e generato terrore.
LA RESPONSABILITÀ, SINTESI DI TUTTE LE VIRTÙ
Queste considerazioni, certamente parziali, portano a sintesi l'argomento con una parola che molti cristiani hanno testimoniato nella vita politica: la responsabilità. Essa tocca un po' tutti gli aspetti e spiega a fondo la definizione papale di carità esigente, citata all'inizio. Potremmo descriverla come la capacità interiore di assumere coerentemente ed in pienezza il peso delle proprie scelte e delle scelte collettive, sapendo di rinunciare alle gioie del risultato immediato che altri servizi offrono, portando, spesso, il peso di errori precedentemente commessi da altri. Nella nostra esperienza familiare, ecclesiale, civile, abbinino acquisito questo atteggiamento? Questo modo di essere?
Nell’ambiente in cui viviamo, indipendentemente dalle scelte - giuste o sbagliate che facciamo, si dice di noi che siamo persone cosiddette "serie"? Degne di fiducia?
Dalle risposte a queste domande deriva la prima verifica attitudinale e di percorso per un servizio politico attivo.
Antonia Fantini Carpi
Da "Famiglia domani" 3/99
Famiglie che si sostengono tra loro:
Una risorsa personale e sociale
Una risorsa personale e sociale
Nella cultura odierna non c’è una disponibilità diffusa né un interesse a stabilire relazioni interfamiliari significative, a causa della difficoltà crescente nei rapporti interpersonali al di fuori dell’ambiente familiare. Questo è segnalato da ricerche sociologiche, da testimonianze, dai numerosi ricorsi alla "posta del cuore" e soprattutto dall’instaurarsi di relazioni virtuali: cresce sempre di più l’isolamento individuale e l’incapacità di stabilire rapporti veri con l’altro.
A volte questa difficoltà si riflette anche nella famiglia: i rapporti all’interno della famiglia allargata sono spesso obbligati e quindi difficili, ad esempio i nonni sono visti come baby sitter e non come educatori.
La difficoltà nei rapporti interpersonali è uno dei tanti effetti secondari del nuovo assetto della civiltà nel passaggio della cultura contadina alla cultura urbana. Infatti, nella società contadina i rapporti di aiuto nascevano spontanei, mentre nella società urbana anche se la distanza fisica tra famiglie e persone si è ridotta, la spontaneità dei rapporti è venuta meno, mentre sono aumentate le richieste d’aiuto. L’associazionismo è nato proprio per promuovere l’aiuto tra le persone. La Chiesa l’ha sempre favorito da quando la spontaneità relazionale delle prime comunità cristiane ha cominciato a non essere più possibile; l’associazionismo nasce dalla vocazione naturale degli uomini a condividere, collaborare, organizzarsi, anche se non è sempre facile cogliere questa dimensione comunitaria. Anche Paolo VI incoraggiava "gli sposi a farsi apostoli e guida di altri sposi" chiedendo ai laici sposati di attivare una solidarietà educativa e di aiuto.
Con il Concilio c’è una radicale modifica del ruolo della Chiesa, che apre prospettive altissime ed entusiasmanti alla vita degli sposi e delle famiglie; la coppia diventa trainante e per gestire questo compito occorre un’indispensabile ed urgente attività capillare di formazione e un’esperienza di iniziative pedagogiche. Per questo motivo nascono gruppi, movimenti, associazioni finalizzate all’auto formazione degli sposi, stimolati da sacerdoti illuminati e convinti. Nel 1993 queste numerose piccole aggregazioni di associazionismo familiare si riunirono in un Forum permanente per fare udire una voce collettiva sulle grandi questioni che interessano la vita umana. Si passa così da una dimensione spirituale ad una dimensione operativa, sociale, politica, come espressione di quella stessa spiritualità. Il Forum ha promosso iniziative di portata politica e sociale attraverso documenti, dichiarazioni, sit—in, concentrando però a volte troppa attenzione sugli aspetti organizzativi e gestionali.
Oggi è sempre più urgente promuovere e favorire uno spirito di comunione che esprime nel quotidiano, in esperienze modeste e sotterranee, un costante aiuto. Un vantaggio offerto dall’aggregazione tra associazioni è la maggiore visibilità dei problemi, il pensare grandi progetti e obiettivi. Tra le famiglie nasce una solidarietà autentica, il dialogo, l’accoglienza del diverso, il confronto tra posizioni diverse nella società familiare: questi legami si creano nell’esperienza quotidiana del mutuo aiuto, con la disponibilità al confronto e all’incontro in un ambiente dove c’è una paziente e capillare trasmissione dei valori propri della spiritualità evangelica.
Con la legge 184/ 83 la famiglia è stata ufficialmente e giuridicamente spinta ad assumersi responsabilità sociali precise. Fino ad allora una famiglia poteva aiutare un bambino orfano adottandolo; i bambini non adottabili restavano in istituto fino alla maggiore età, costretti ad un anonimato sociale e personale e ad una povertà affettiva che evolveva in disfunzionalità psicologiche e carenze cognitive. Ma con la legge del 1983, preceduta dall’istituzione del Tribunale per i Minorenni (1934), si apre una nuova epoca in cui l’attenzione ai minori è concreta e istituzionalizzata, attraverso l’affermazione del diritto del bambino a crescere nella famiglia, la propria quando possibile, oppure in una disponibile ad adottarlo o ad accoglierlo in affido temporaneo secondo l’età, le circostanze e le risorse economiche. Per le famiglie si apre cosi’ una prospettiva di impegno sociale ampio ed interessante: ma tutto ciò avviene con molti ostacoli, specialmente di natura culturale.
Infatti, l’affidamento non può essere realizzato senza aver accertato l’idoneità della coppia potenzialmente affidataria o adottiva, allo scopo di conoscere le motivazioni, le intenzioni e il quadro complessivo della famiglia. Un secondo ostacolo è costituito dal fatto che l’affidamento, proprio per la sua temporaneità, prevede il mantenimento dei rapporti con la famiglia biologica del bambino e quindi l’instaurarsi di buoni rapporti tra le famiglie, prevedendo quindi un’alta disponibilità di entrambe. Inoltre il problema della temporaneità dell’affidamento tronca in modo doloroso rapporti di affettività nati tra la famiglia e il bambino.
Per risolvere questi problemi nasce l’associazionismo tra famiglie affidatarie, che permette la crescita delle stesse e la consapevolezza del proprio valore sociale.
Nel giro di pochi anni quindi, molti bambini hanno trovato una sistemazione oltre che un sostegno culturale e un affetto fino ad avere l’adozione definitiva o a mantenere i contatti con la famiglia affidataria una volta tornati in quella biologica.
L’apertura della famiglia nell’affidamento familiare si è sviluppata anche in altri ambiti, instaurando tra i vari nuclei familiari rapporti di mutuo aiuto, con l’invenzione di nuove modalità di incontro e di servizio come l’aiuto diurno, il dopo-scuola familiare, accompagnamenti collettivi a scuola; contemporaneamente sono caduti i muri culturali, di diffidenza e pregiudizi tra le famiglie. Senza le associazioni questo sarebbe stato difficilmente realizzabile, visto che spesso le associazioni sono l’unico luogo e momento di incontro tra le famiglie.
L’associazionismo permette ai genitori anche di avere meno preoccupazioni riguardo le possibili amicizie "cattive" che possono incontrare i figli: attraverso le amicizie familiari i bambini fin da piccoli si frequentano e instaurano relazioni che spesso proseguono fino all’adolescenza e oltre; i figli trovano cosi’ un ambiente già preparato alle amicizie.
L’aggregazione dei bambini piccoli è un diritto e una risposta al loro precoce bisogno di socializzazione e di confronto tra pari. Purtroppo per questa fascia di età le strutture pubbliche sono carenti, per questo motivo è fondamentale il supporto dell’associazione di famiglie, delle scuole materne parrocchiali e di asili nido gestiti spesso dalle stesse mamme grazie a contributi statali o da parte della CEE.
Il valore più forte dell’associazionismo tra famiglie è quello di incoraggiarle ad aprirsi tra di loro, superando le differenze e creando dal basso un tessuto sociale di solidarietà che lega insieme le famiglie e le persone secondo il criterio evangelico dell’incontro, della messa in comune dei beni sia materiali sia psicologici e spirituali.
Tratto da "Famiglia oggi- 9/12- 2001"
Riduzione e adattamento a cura di Simona Internullo