La parabola del figliol prodigo mi da lo spunto per alcune considerazioni sulle difficoltà, ma anche sulle opportunità che l'itinerario di conversione offre all' uomo d'oggi. In quest'ottica, il termine parabola potrebbe essere inteso non solo nel senso tecnico che assume nei Vangeli e nella loro esegesi, ma anche in quello fisico di traiettoria caratterizzata inizialmente da un progressivo allontanamento dall'origine cui fa seguito un radicale mutamento di direzione che porta a ripercorrere in senso inverso la regione già esplorata, senza peraltro ricondurre al punto di partenza. Potrebbe essere questa, infatti, un'icona pertinente del cammino del figliol prodigo il cui percorso può essere, senz'altro, assunto a paradigma di molte conversioni.
Esperienza che si può rifiutare
Chi riflette sulla propria vita o sull'esperienza degli altri, può facilmente accorgersi che viene sempre il tempo in cui si avverte come urgente la necessità di cambiare. A spingere in questo senso sono, alle volte, situazioni traumatiche esterne - come nel caso, ad esempio, del figliol prodigo -, ma può essere anche un progressivo affinamento spirituale a portare a giudicare il modo di vivere finora adottato non più compatibile con il desiderio che emerge dal profondo del cuore. Tuttavia - anche questa è esperienza comune - i richiami alla conversione non sempre portano ad un vero e, soprattutto, definitivo cambiamento. Perché?
Sembra che si possa rispondere: perché nel soggetto in crisi mancano le condizioni psicologiche e spirituali minime per andar oltre la pulsione emotiva e approdare a scelte fondate sulla volontà.
Manca, quasi sempre, la sincerità con se stessi, intesa questa come la capacità di cogliere i veri motivi della crisi. È ovvio che l'abbandono di abitudini radicate non può essere il frutto di una vaga sensazione di disagio o di una confusa aspirazione al meglio. Bisogna sapere individuare i motivi profondi della spinta al cambiamento perché questa sarà possibile solo se richiesta da un'istanza che il soggetto riconosce di alto valore. Nel caso del figliol prodigo era ben chiaro a lui che in gioco c'era la sua stessa sopravvivenza fisica. I motivi che spingono al cambiamento non devono quindi essere banali. Utilizzando la terminologia di Lévinas si potrebbe forse affermare che una vera conversione è possibile solo se indotta non da un bisogno - che una volta soddisfatto svanisce -, ma da un desiderio, inteso quest'ultimo come il movimento che porta a riconoscere l'oggetto come un valore piuttosto che a possederlo. C'è da dire che se si sviluppasse fino in fondo questa suggestione si arriverebbe, probabilmente, ad affermare che l'unica vera conversione è quella a Dio; ma ci si può fermare anche qualche passo prima di questa conclusione, perché l'uomo è mosso sia da bisogni sia da desideri e pertanto ogni sua conversione, anche se profonda, non sarà mai definitiva e totale.
Rimane, comunque, vero che il criterio ultimo per avviarsi con speranza di successo sulla strada della metànoia (come nel greco del Nuovo Testamento è chiamato il cambiamento radicale) è la sincerità dell'analisi delle pulsioni. Come ha fatto il figliol prodigo di cui nel Vangelo non si ricordano doppi pensieri.
Altra condizione necessaria per un esito positivo della crisi, anch'essa spesso carente, è l'umiltà, intesa come la capacità di riconoscere che si è finora sbagliato e che l'errore dipende da noi. L'esperienza dice che riconoscere l'errore è abbastanza facile perché le sue conseguenze negative sono quasi sempre evidenti. Al figliol prodigo bastava guardarsi ridotto in mezzo ai porci - per lui animali impuri - per capire la gravita della sua situazione. Quello che pochi, però, riescono ad ammettere è la responsabilità nell'errore. L'orgoglio trova estremamente facile far ricadere sugli altri, almeno in parte, la colpa della condizione miserevole a cui ha condotto una scelta personale sbagliata. Di questo atteggiamento non c'è traccia, invece, nel figliol prodigo. Forse perché lui aveva già raggiunto una terza condizione che ritengo indispensabile per poter dare un esito positivo al desiderio di cambiamento: la libertà dai condizionamenti. Niente, infatti, lo legava più al suo stato. Mentre per noi è sempre estremamente difficile sentirci liberi da quelli che percepiamo come convincimenti irrinunciabili, perché maturati nel tempo in forza dell'autonomia intellettuale, culturale, spirituale che è ritenuta, a ragione, la caratteristica specifica dell'uomo libero. Qui S. Ignazio di Loyola parlerebbe della ne-c^&sità di «togliere le affezioni disordinate» per poter «cercare e trovare» la propria strada.
C'è ancora almeno una condizione la cui mancanza rende difficile una vera conversione: il pentimento, la capacità, cioè, di cogliere la negatività dell'azione compiuta e la disponibilità a non ripeterla. Si noti a questo proposito che nel sentire comune il pentimento è considerato l'anticamera della conversione. In realtà è solo una delle condizioni necessarie (ma non sufficienti), in quanto ci si può pentire per una serie di motivi che, pur validi, non inducono al cambiamento radicale perché non raggiungono il cuore del problema. In quest'ottica più che di pentimento si dovrebbe, però, parlare di rimorso. E il rimorso da solo può condurre anche alla disperazione. Si veda, per esempio, l'episodio di Giuda narrato dai Vangeli.
Ci sono, ovviamente, anche altre caratteristiche della personalità la cui mancanza o il cui ridotto significato per la psicologia del soggetto possono indurre quest'ultimo a rifiutare, o perlomeno a non approfondire, l'impulso alla conversione, quali, ad esempio, la generosità, la capacità di sperare, di superare i sensi di colpa, di dare un senso e una direzione unitaria alla propria vita. Tutte si possono far rientrare nel concetto di maturità umana. Ma quelle sopra illustrate in dettaglio - sincerità, umiltà, libertà dai condizionamenti e capacità di pentimento - mi sembrano le più importanti.
Esperienza complessa e particolarmente difficile
Che la conversione sia un'esperienza complessa emerge anche da quanto detto nel paragrafo precedente dove sono state indicate alcune condizioni soggettive senza le quali la stessa non può maturare.
Esistono, però, anche delle condizioni oggettive che complicano ulteriormente la situazione e che la rendono, soprattutto nel contesto odierno, particolarmente difficile.
Già il termine stesso di conversione si presta a differenti interpretazioni. Può essere inteso, infatti, sia come cambiamento, più o meno profondo, di qualcuno o di qualcosa, con effetti per lo più esterni (la conversione dell'acqua in vino, per restare ad un episodio evangelico), sia come l'atto, sostanzialmente religioso, di chi, sentendosi chiamato da Dio, volge tutto il suo essere dal male al bene, dal falso al vero, mutando non solo l'orientamento delle proprie azioni, ma lo stesso modo di vedere e giudicare la realtà (la conversione di S. Paolo, ad esempio, come narrata negli Atti degli Apostoli).
Alla prima accezione possono essere fatte risalire tutte le decisioni che implicano un cambiamento di vita in vista del raggiungimento di un qualche obiettivo giudicato importante. Sono scelte non necessariamente definitive che possono essere rinnovate nel tempo, ovvero modificate, se cambia l'obiettivo o il suo valore.
Nella seconda accezione rientrano, invece, tutti quei cammini di perfezione che vengono generalmente definiti come «conversione a Dio» e sono, almeno nell'intenzione, definitivi.
C'è da dire che questa suddivisione è più teorica che pratica perché la persona umana è nello stesso tempo materiale e psichica e in essa configgono i limiti della carne e i doni dello spirito. Per cui il medesimo itinerario può essere frutto sia dell'istanza umana sia di quella divina.
La possibilità di un cammino di conversione incontra oggi una serie di ostacoli che lo rendono assai difficile. La nostra epoca è caratterizzata, infatti, da una perdita di elementi che accentua la fragilità e la vulnerabilità dei soggetti, condizionando negativamente la possibilità di pervenire ad una
chiara coscienza della realtà e di prendere decisioni definitive. Si pensi, ad esempio, alla perdita generalizzata della dimensione del tempo e del conseguente senso della storia, alla perdita di capacità di distanza critica, alla diminuzione, spesso drammatica, della capacità di impegno stabile e incondizionato, alle difficoltà che si incontrano nel costruire la dimensione affettiva. Per di più l'incapacità a prendere una decisione che pure si sente psicologicamente urgente crea spesso inquietudine e ansia.
C'è da chiedersi come se ne possa uscire. Ritengo che si possa ragionevolmente sperare di orientare l'uomo d'oggi e renderlo capace anche di vera conversione, perché egli è, nella sua complessità misteriosa, progetto particolare di Dio e come tale riconoscibile e ricostruibile non al di là, ma attraverso e in mezzo alle sue deformazioni e fragilità. Occorre, però, rendergli familiari, affinchè possa giungere a considerarli positivamente, alcuni degli elementi che lo costituiscono come mistero.
Suggerisco alcuni spunti da valorizzare nell'educazione:
• la capacità di apertura al mondo dell'alterila, perché è necessario che impari a scoprire l'esistenza di realtà nuove in sé e nel mondo circostante e a lasciarsi interrogare dall'incontro con aspetti nuovi del proprio ambiente e con i valori che lo animano e, per chi crede, con una Rivelazione;
• la temporalità, intesa come la dimensione in cui il mistero si esplica, perché sappia riconoscere che il presente si fonda sulla capacità di accettare un passato che non è più e di anticipare un futuro che non è ancora;
• la complessità della persona. Essa deve essere colta e accettata nel suo essere contemporaneamente un misto di bene e di male, di giusto e di ingiusto, di acerbo e di maturo ed espressione di «sistemi di desiderio» non sempre del tutto integrati ed in armonia tra loro.
Esperienza nella quale è difficile riconoscere il protagonista
II fatto della complessità e della difficoltà dell'opera di conversione sopra rilevato, pone il problema se il potersi convertire rientri nella facoltà umana o se non si debba piuttosto aspettarsi la conversione esclusivamente come frutto dell'azione di un Altro; dove l'Altro è per noi Dio.
Personalmente non saprei dare una risposta definitiva al quesito perché non sono in grado di valutare l'attendibilità degli esiti di cammini di cambiamento profondo fondati sulle sole capacità fisico-psichiche dell'uomo.
Mi sembra, peraltro, che dalla Scrittura emerga con sufficiente chiarezza che la conversione non è primariamente espressione di una decisione autonoma umana, ma piuttosto una risposta all'appello di Dio. Si vedano, per esempio, i numerosi richiami di Gesù (Mt 4,17; Le 5,32), ma anche quelli dei suoi discepoli (At 2,38; At 3,19). Si noti, per inciso, che per convertirsi non è richiesta una fede previa in Cristo: anche ai pagani è concesso (At 11,18). Qualche volta la risposta dipende dalla decisione umana (At 9,35), ma in altri casi è pura grazia di Dio (At 16,14). Così anche il rifiuto non sempre è opera esclusiva dell'uomo (Me 4,12). Gesù, tuttavia, contrariamente al Battista, sembra concedere del tempo per consentire una vera conversione (si veda la parabola del fico sterile in Le 13,6-9) e dimostra fiducia nella disponibilità dell'uomo a convertirsi: il figliol prodigo torna di propria iniziativa dal padre.
Da quanto sopra riportato sembra, quindi, che si possa affermare che, per la Scrittura, l'iniziativa parte da Dio ma richiede sempre una partecipazione attiva della persona umana. Si potrebbe forse aggiungere che tale partecipazione è, per la Bibbia, tanto più fruttuosa quanto più l'interessato sa riconoscere nella fonte dell'appello anche una potenza efficace. Il figlio prodigo doveva avere una fiducia ben grande nella capacità di perdono del padre per ritornare a lui dopo le scelte giovanili sciagurate!
Se una chiamata è - come sembra all'inizio di ogni conversione, ci si può chiedere infine se questa avvenga una sola volta nella vita o si manifesti più volte. L'esperienza, infatti, attesta, come abbiamo già avuto occasione di ricordare, che noi siamo esseri limitati («vasi di creta», secondo l'espressione di 2 Cor 4,7), per cui anche il cambiamento più sincero è sempre soggetto a possibili ripensamenti. Se vogliamo affermare la possibilità di perseverare nel cammino di conversione dobbiamo anche ammettere una pluralità di ravvedimenti, da giocarsi, come il primo, tra il dono gratuito di Dio e l'azione etica dell'uomo.
Così è, perché Dio è fedele e non fa mai mancare il suo invito alla vita nuova.
Anche questa è esperienza comune.
Conclusione
Abbiamo visto che convertirsi è un atto complesso, difficile, che si è tentati spesso di rifiutare o almeno di rimandare nel tempo e che implica, in ultima analisi, anche l'intervento di Dio. Quest'ultima acquisizione mi sembra, però, quella che può dare un valore positivo, uno sbocco significativo all'agire umano anche nel contesto attuale. L'uomo può, infatti, rivolgersi sempre con fiducia a Dio perché Lui si rivolge per primo all'uomo. Sapendo che la conversione vera non può non accompagnarsi alla gioia. Come ricordano non solo la parabola del figliol prodigo, ma anche le altre del capitolo 15 di Luca (la pecora perduta, la dracma perduta) le quali attestano la gioia di Dio per il ritorno del peccatore e invitano l'uomo a gioire con Lui.
In definitiva si può dire che nella conversione Dio offre all'uomo una nuova vita. Per questo Luca può descrivere il ritorno del figlio scapestrato con l'espressione riportata sotto il titolo, quasi icona dell'articolo: «...era morto ed è tornato in vita».
Mi sembra pertanto corretto concludere che vale sempre la pena di intraprendere il cammino della conversione, anche se può costare caro all'orgoglio umano, perché attraverso di essa c'è la possibilità di giungere alla vita vera.
Sergio Riccardi
Tratto da “Famiglia Domani – 2/2002”
Tutti i fedeli delle nostre diocesi sono stati invitati a leggere la Traccia di riflessione in preparazione al Convegno ecclesiale nazionale, Testimoni di Gesù Risorto, speranza del mondo, e a prepararsi al Convegno di Verona. Tra questi ci sono persone a cui stanno a cuore il matrimonio e la famiglia; anch’esse si interrogano su quale sia la migliore valorizzazione di quel documento in vista di detto Convegno.
Naturalmente va osservato che si tratta solo di una traccia, essa perciò, per definizione è suscettibile di completamento e approfondimento, forse di correzioni.
La prima impressione del lettore è di trovarsi di fronte a un a impostazione che privilegia la persona, come singola, prescindendo quasi sempre dalle istituzioni, un po’ da tutte. Il matrimonio e la famiglia si trovano perciò anch’esse molto sullo sfondo: si tratterà allora di farle affiorare in modo tale che i fedeli possano esprimere, ad esempio, le loro esperienze di matrimonio e narrarle naturalmente non senza riferimento alla Parola di Dio, ai sacramenti e ancora, altro esempio, all’impegno nel sociale. Essi potranno dire anche quali situazioni presenti nell’esistenza contemporanea, interpellano maggiormente l’esperienza matrimoniale e famigliare credente perché siano vissute con speranza.
Conferenza Episcopale italiana
Comitato preparatorio
del IV Convegno Ecclesiale Nazionale
TESTIMONI DI GESÙ RISORTO, SPERANZA DEL MONDO
Traccia di riflessione in preparazione al Convegno Ecclesiale di Verona 16 – 20 ottobre 2006
Messaggio del Consiglio Episcopale Permanente per la 28ª Giornata per la vita (5 febbraio 2006)
RISPETTARE LA VITA
"In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini” (Gv 1,1.4).
PERCHE’ LA FAMIGLIA E’ BUONA NOTIZIA
Durante il quarto incontro mondiale della famiglia, svoltosi a Manila in gennaio, il tema che si è affrontato è stato: “La famiglia cristiana: una buona novella per il terzo millennio”. La notizia è bella perché viene dal cuore di Dio. Traccia una storia in cui i valori familiari si rivelano parte essenziale della “grammatica fondamentale dell’umana convivenza” (Giovanni Paolo II). Credere nell’amore fedele “sino alla fine”, costruire un intreccio di generazioni che si ritrovano nella comunione: è il dispiegarsi della buona notizia che la famiglia cristiana offre agli uomini del terzo millennio. La comunità coniugale e familiare, anche quando non risplende in tutta la sua bellezza, custodisce, come germe deposto da Dio nel suo cuore, la bella notizia dell’amore e della vita.
Di fronte alla famiglia lo stupore è intuizione della “buona notizia”.
La famiglia “che prende inizio dall’amore dell’uomo e della donna, scaturisce radicalmente dal mistero di Dio”. Il matrimonio è “un grande mistero”, perché “in esso si esprime l’amore sponsale di Cristo per la Chiesa”.
Si delinea un intreccio di orizzonti sui quali si dispiega la “buona notizia”. “Non esiste il grande mistero, che è la Chiesa e l’umanità in Cristo, senza il grande mistero espresso nell’essere una sola carne, cioè nella realtà del matrimonio e della famiglia. La famiglia stessa è il grande mistero di Dio”.
La famiglia è trasparenza di Dio: ripresenta il suo amore appassionato per l’umanità. Rimanda ad un mistero d’amore più grande, al mistero trinitario. Così, il modello originario della famiglia deve essere cercato nel mistero stesso di Dio, nel mistero della sua vita trinitaria;l’esistenza stessa della famiglia rimanda a quel mistero. “Il <<Noi>> divino costituisce il modello eterno del <<Noi>> umano, di quel <<noi>> che è formato dall’uomo e dalla donna, creati a immagine e somiglianza divina”. “Il matrimonio dei battezzati è simbolo reale della nuova ed eterna alleanza”: gli sposi, sono il volto concreto di Cristo sposo, e “la fecondità è il frutto e il segno dell’amore coniugale, la testimonianza viva della piena donazione reciproca degli sposi”.
La coppia/famiglia custodisce il mistero. Lo vive, lo trasmette.
Essa testimonia, dunque, la dedizione con cui Cristo si spende per gli uomini. Nel volto dell’uomo e della donna che si amano traspare l’immagine più bella di Dio.
La famiglia è parola-immagine di Dio, essendo Dio in se stesso mistero nuziale: comunione di persone, che si cercano, si donano, si accolgono, esistendo in un’unica natura divina.
-La famiglia è parola-carne di Dio. Il vincolo d’amore che unisce gli sposi è “ripresentazione di ciò che è accaduto sulla croce”. Il dono sponsale reciproco nel segno del corpo e quindi della totale gratuità rende presente la dedizione nuziale del Cristo sposo.
-La famiglia è parola-parabola di Dio. La vita concreta della famiglia, snodandosi come ricerca costante della comunione e rispetto delle diversità, lascia intravedere il mistero di Dio che è convivialità di tre Persone diverse, esistenti nell’unità della natura divina. Spiega la bellezza dell’Amore che, creando unità, genera nuova vita.
-La famiglia è una buona notizia perché scaturisce dal cuore di Dio. Infatti, il mistero trinitario illumina la nuzialità umana che, a sua volta aiuta a contemplare il mistero.
Esiste “un mistero grande nascosto da secoli nella mente di Dio”. Cristo, parla del sogno di Dio nei confronti dell’umanità. Dio invita l’umanità alle nozze con sé, perché egli stesso è mistero nuziale. Costruendo la sua relazione con l’umanità, sceglie un suo popolo come uno sposo sceglie la sua sposa. E’ la nuzialità la chiave di lettura del mistero di Dio, la “bella notizia” che da esso scaturisce.
Dio si fa conoscere e si comunica nella nuzialità umana. Vuole la coppia umana come “immagine e somiglianza di sé”. Quando gli sposi entrano in relazione e si costituiscono nell’unità “in una sola carne” appare il volto della Trinità, si realizza la coppia-famiglia che racconta Dio, lo dona, lo svela. La coppia umana è chiamata ad essere in se stessa manifestazione di Dio.
L’amore coniugale è “l’immagine e il simbolo dell’alleanza che unisce Dio e il suo popolo”. L’alleanza d’amore che Dio costruisce con l’umanità ha una connotazione sponsale. All’inizio della storia della salvezza sta una coppia (Adamo ed Eva); al termine della storia sta una coppia (Agnello e la sposa). Tra la coppia iniziale e quella finale si sviluppa una stupenda avventura d’amore. La realtà dell’amore coniugale racconta l’alleanza nuziale che unisce Dio al suo popolo, il suo amore per esso. L’amore coniugale è simbolo di tale alleanza, di tale amore.
Cristo “rivela la verità originaria del matrimonio, la verità del principio e, liberando l’uomo dalla durezza del cuore, lo rende capace di realizzarla interamente”. Il grande mistero dell’Amore è rivelato ed attuato in Cristo. Gli sposi, consacrati “nel Signore”, raccontano Cristo. D’altronde, essi si ispirano ad un mistero, quello nuziale (dono del Signore), che già palpita in loro. E la famiglia, esistendo, afferma l’esistenza di Dio.
La famiglia è in se stessa una buona notizia per tutti, per la chiesa e per la società. La famiglia è una stupenda risorsa per l’umanità, in quanto amore, vita, solidarietà, fedeltà, generosità, fecondità. Ma essa è chiamata ad elaborare al suo interno tutti gli stimoli di educazione e di impegno affinché si realizzi l’immagine di Dio. La famiglia deve essere spazio in cui vivere l’uno per l’altro. “le famiglie” – come affermava don Tonino Bello, vescovo di Molfetta – “ non possono dirsi cristiane se non assumono la logica della reciprocità”.
La “buona notizia” che urge nel cuore di ogni famiglia cristiana, sarà, dunque stupenda, perché aprirà un futuro nuovo, fatto di concretezza umana e risonanza divina, realizzando il sogno di Dio per l’umanità.
Don Renzo Bonetti
Tratto da “Settimana – 19 gennaio 2003”
Riduzione e adattamento a cura di Simona Internullo
UNO SPAZIO TUTTO MIO
MOLTI DISAGI FAMILIARI HANNO ORIGINE NELLA DIFFICOLTÀ A CONCILIARE LA DIMENSIONE PERSONALE CON QUELLA DI COPPIA. EPPURE IL TEMPO PER SÉ È FONDAMENTALE PER COSTRUIRE RELAZIONI EQUILIBRATE
· Per la coppia, la ferialità è il superamento della quotidianità, luogo in cui esprime nell’attività di ogni giorno la propria identità · Con lo sguardo fisso al Sabato, alla festività, giorno destinato alla contemplazione e alla festa. Alla libertà.
Ha senso parlare di ferialità e festività? Ci sembra che la cultura moderna tenda a globalizzare tutto. Anche il tempo. Denominiamo questa globalizzazione del tempo «quotidianità». Quotidianità come ripetitività ossessionante, uniformante, omologante. Il formicaio, l'alveare (il vespaio?) potrebbero essere posti come stemma sulla bandiera della così detta «civiltà» occidentale, del nord ricco ed opulento.
La quotidianità è il ripetere giorno e notte (esiste un popolo della notte!) per sette giorni la settimana gli stessi riti, adorare gli stessi idoli, dedicare loro tutto il tempo.
«Fare, avere, produrre, consumare». Agitarsi, correre, non avere mai tempo «per altro». Il tempo libero è diventato preda dell'«industria del tempo libero». I media s'impegnano, con successo, a suscitare sempre nuovi bisogni e desideri. I desideri diventano necessità indispensabili.
Quotidianità è cogliere tutte le occasioni che i media propongono come risolutive per cancellare le insoddisfazioni, i limiti che l'uomo ha in se stesso. Smania del possesso delle cose e delle persone per placare il desiderio di onnipotenza che l'uomo crea nella sua interiorità.
Quotidianità è culto della moda, della fisicità, dell'apparire, dello sport, dell'automobile e della moto, di Internet e del cellulare, della TV e dell'auricolare.
Quotidianità che fa porre la speranza di chi non riesce a realizzare immediatamente i modelli indotti dalle idolatrie consumistiche, nelle lotterie, nelle scommesse, nelle bische, in turpi commerci di sesso e droga.
Quotidianità che non concede mai tempo all'uomo per essere se stesso, per chiudersi nella sua «cameretta» (cf Mt 6,6).
Talvolta, le stesse manifestazioni religiose sembrano cadere nella tentazione della quotidianità, dell'apparire, assumono l'aspetto di manifestazioni di folle, di masse, diventano spettacolo mediatico.
Quotidianità come inutile fatica di Sisifo, o, biblicamente, come «scavarsi cisterne screpolate, che non tengono acqua» (Ger 2,13)... Ed «essi seguirono ciò che è vano, diventarono essi stessi vanità» (Ger 2,5). Quotidianità, forma di schiavitù che sottomette l'essere all'avere, che non concede tempo all'uomo di essere con l'Altro, con l'altro, di «essere coppia».
Gli sposi realizzano la ferialità quando si impegnano per realizzare alloro interno (famiglia) e al loro esterno (società ed «ecclesia») un nuovo modello di famiglia e società. Tutto ciò che è stato creato nell'universo è buono, nulla va demonizzato e nulla va idolatrato.
La coppia nella ferialità sì prende cura di se stessa, ma si assume anche la responsabilità di essere l'affidataria di tutti i beni della terra che deve coltivare e custodire. La coppia si impegna nel lavoro, nella ricerca, nelle scienze, nella tecnica, nella finanza e nel commercio, in campo educativo e socio-solidale, ma trasforma il senso del fare. Il fare è allusione alla finitudine. Il fare, non potrà mai realizzare pienamente l'uomo e
la coppia. La totalità della conoscenza e dell'appagamento, nonostante i progressi meritori che l'uomo fa giorno dopo giorno, secolo dopo secolo, è sempre «oltre».
La sete, il bramare, il soddisfacimento in modo completo di ogni desiderio non è realizzabile perché nell'uomo vi è fame di infinito che la finitudine del tempo rende impossibile attuare. Con questa semplice constatazione, che non deve indurre né a drammatizzazione, né a frustrazione, la coppia dà senso all'impegno della ferialità, avendo come fine il tempo della festività.
Il tempo della festività è il tempo della libertà; libertà dalla schiavitù del lavoro (cf Es 5,14). La ferialità non può indurre l'uomo a vendere la sua dignità e la sua primogenitura per un piatto di lenticchie (cf Gn 25,29-34).
La ferialità è allora il tempo e il luogo dove la coppia esprime fattivamente e attivamente la propria identità, presente e attenta alle necessità dell'altro e degli altri. Non si rifugia in uno spiritualismo disincarnato, ma si fa tutta a tutti, senza esibizioni, con pacata serenità. Svolge bene i compiti che le sono stati assegnati, superando con tenacia e perseveranza, gli ostacoli che ogni cammino, ogni costruzione umana, comporta. La coppia vive di ferialità come proposta per uscire dal «sistema», dal circolo vizioso: «tutto, ora, qui e subito», per un progetto di società nuova, fraterna e solidale.
La coppia vive la ferialità come un continuo esodo dai molti idoli, verso il solo, unico e vero Dio.
Questo traguardo non la rende estranea all'impegno, anzi la induce a «sporcarsi le mani» per progettare e costruire il mondo, dono di Dio, in modo conforme al suo disegno (cf Gaudium et spes 37 e 38).
È qui nel mondo che la ferialità inizia la realizzazione della storia della salvezza che sfocerà in un nuovo cielo e una nuova terra (cf Ap 21,1). Si può allora applicare alla coppia cristiana quanto leggiamo in «A Diogneto»: «Dio ha assegnato loro un posto così sublime e ad essi non è lecito abbandonarlo».
La coppia (la famiglia) esce tutti i giorni di casa per impegnarsi con spirito di servizio nel sociale, non solo per il soddisfacimento dei propri bisogni, ma anche per costruire un ordine sociale nuovo, fondato non sull’egoismo e l'interesse privato, ma per il bene comune. Una società, cioè, in cui solidarietà, giustizia, condivisione, corresponsabilità siano valori primari e fondanti.
Una «società dell'amore».
Ogni settimana ha il suo sabato, il giorno in cui Dio stesso cessò ogni lavoro (cf Gn 2,3). Giorno consacrato alla contemplazione della stupenda opera del Creatore. Giorno di festa. Giorno in cui l'uomo prende coscienza degli inestimabili doni che ha ricevuto in affidamento e innalza canti di ringraziamento. È il giorno del riposo (cf Es 20,8-11), in tutti i tempi (cf Es 34,21) per tutti gli uomini e anche per gli animali.
Per il cristiano, perché la festa è già venuta con Gesù il Cristo, è il primo giorno della settimana che illumina tutto l'impegno feriale. La festa è l'unione fraterna di tutti gli uomini. Non vi sono più gerarchie, ceti, etnie, razze, ecc. Tutti sono chiamati a riconoscersi pari nella dignità e nel valore, perché figli dello stesso Padre.
Ogni anno ha la sua festa. La Pasqua ebraica ricorda il passaggio dalla schiavitù del lavoro alla libertà, per onorare Dio: «questo giorno sarà per voi un memoriale; lo celebrerete come la festa del Signore: di generazione in generazione lo celebrerete con rito perenne» (Es 12,14).
La Pasqua cristiana celebra il passaggio dalla schiavitù del peccato alla libertà dei figli di Dio.
Ogni cinquanta anni (sette settimane di anni) la festa del Giubileo (cf Lev 25). Non solo uomini e animali riposano, ma anche la terra riposa. (Quale l'elenco delle cose da far «riposare», oggi?). Si rimettono i debiti.
La festa insegna a rispettare il sistema ecologico, a non sfruttare, a non inquinare, ad essere attenti alle biotecnologie per non correre il rischio di far pagare ai figli i peccati dei padri.
È il riconoscimento concreto che tutto viene dal Padre e al Padre tornerà (cf Lev 25,23).
Dio ha creato l'uomo libero e nessuno può renderlo schiavo o prigioniero. Non si può lasciare nel limbo di una spiritualità astratta il riconoscimento della paternità di Dio e della fraternità di tutti gli uomini.
La festa è libertà da tutte le schiavitù e passioni, dai vincoli devastanti che vogliono impastoiare l’uomo nell'oppressione dell'«avere» per farlo essere nel riposo, nella pace, nella solidarietà, nella gratuità. Rende gli uomini liberi dalla storia di peccato nella quale sono immersi.
La festa è canto di «osanna e alleluia» per la bellezza della creazione. La coppia vive «alla Presenza» sente «Dio con noi», una luce la illumina e comprende che la sua essenza non si esaurisce nella mondanità, nella ricchezza, nel piacere, ma che ha una vocazione più alta, trascendente.
La festa libera lo spirito dell'uomo.
La festa fa «memoria», e rinvia non solo ad una individuale privata salvezza in un mondo che verrà, ma sollecita ad una attenzione all'oggi, alla salvezza di tutto il popolo. (Già Mosè - come farà poi Gesù in modo perfetto - antepone la salvezza del popolo alla sua: «Mosè tornò dal Signore e disse: "Questo popolo ha commesso un grande peccato, si sono fatti un dio d'oro. Ma ora se tu perdonassi il loro peccato... E se no, cancellami dal tuo libro che hai scritto!"»). Nel mondo vi sono semi di bontà che devono essere fatti fiorire oltre i rovi, le spine, i sassi.
Nella sua realtà esistenziale, la coppia deve realizzare tutti i giorni
la festa. Siano cinque minuti, sia un'ora, o più, gli sposi devono celebrare la festa ogni giorno. Staccare la spina (reale e metaforica) per essere se stessi. Uno di fronte all'altro, uno di fianco all'altro. Contemplare l'uno negli occhi dell'altro la meraviglia del loro amore, e cantare e ringraziare per lo stupendo dono che è stato loro elargito. La festa è:
· fare silenzio. Fermarsi, sedersi, non fare, non parlare con
la bocca. Guardarsi, vedersi. Consentire che la comunicazione si svolga con gli occhi e con il cuore. I pensieri passano con lo sfiorarsi lieve di una carezza. È la pace clic si realizza tra uomo e donna. Purificarsi dagli inquinamenti della ferialità in cui antagonismo, rivalsa, efficientismo avvelenano l'anima; ossigenarsi con la vicinanza. con la prossimità, con la fiducia reciproca, con il sentire che si è «valore» per l'altro, che l'altro ha cura di me. È solidarietà, responsabilità;
· farsi conoscere per quello che si è e non per quello che si appare. Abbandonarsi con fiducia all'accoglienza. Abbassare
la guardia. Offrirsi disarmati sapendo che l'altro non ne approfitta. Conoscersi limitati e non pretendere gratificazioni, farsi carico della fragilità dell'altro, non meravigliarsi o irritarsi perché l'altro non è perfetto come lo abbiamo immaginato. È tenerezza e comprensione;
· confidarsi le fatiche sia lavorative che familiari della giornata, per dividere le pene e raddoppiare le gioie. Capire le motivazioni dello stare assieme, confrontarle. Momento di riposo per ridestare speranze e sogni. Risorgere per dare nuovo impulso, nuova linfa vitale, un senso, un significato a cui tendere come sposi nell'impegno feriale. È progetto;
· rimettersi i debiti. Perdonarsi. Restituirsi reciprocamente la libertà per potersela nuovamente donare. Ridarsi dignità e stima. È onorarsi;
· convivialità, sedersi a tavola assieme. Spezzare e condividere il pane, il vino…
la mela. Rinnovare la gioia e l'allegria del giorno delle nozze. «Il vino allieta la vita» (Qo 10,11). «Sì, le tue tenerezze sono più dolci del vino» (Cc 1,2). La festa della tenerezza disincaglia dai bassi fondali dell'abitudinarietà e della solitudine per far alzare le vele verso la sorpresa, la scoperta, la luminosa meraviglia di essere due, ma di essere una sola carne, un solo spirito nell'unità della distinzione. La cena diventa celebrazione, simbolo e richiamo dell'interiorità. Esprime realtà che la comunicazione orale non può far capire in pienezza. È gratuità e gratificazione;
· dono del corpo. Silenzio, parole, convivialità si condensano, si esprimono nella completezza del dono. Non una parte, ma tutta la persona si offre e si dona. Nel vero amore il dono del corpo diventa sacramento, segno visibile dell'amore spirituale, intimo e interiore che anima
la fisicità. Il dono del corpo è il dono della totalità, è la festa dell'alleanza, la festa della comunione. La logica del dono esclude il possesso, ma non il desiderio, ed esalta
la gratitudine. Gli sposi donano tutto se stessi, il visibile e l'invisibile, non appartengono più a sé stessi, ma sono grazia uno per l'altro. Oltre non si può andare.
La festa domenicale.
In questa cornice si inserisce l'icona della festa domenicale.
Giorno del Signore da celebrare come coppia, liturgia, convito, comunione. Eucaristia. Solenne inno di ringraziamento innalzato al Padre per il dono del Figlio sposo e dello Spirito Santo che rendono possibile l'amore «per sempre».
La festa della coppia è la gioia del Padre, anticipazione della festa escatologica.
La coppia (la famiglia) esce dalla casa in modo particolare la Domenica, le pareti della casa non sono le mura di un fortino assediato dove ognuno sta chiuso in difesa di un suo interesse privato, indifferenti a quanto avviene fuori.
La coppia (la famiglia) apre le porte. Esce. Inizia un cammino, un esodo, un pellegrinaggio con gli abitanti delle case vicine. Da clan diventa popolo, un popolo in cammino verso una Chiesa comunità sponsale, la parrocchia (famiglia delle famiglie).
La festa domenicale diventa il luogo e il tempo in cui loda e ringrazia il Padre per i benefici accordati, chiede aiuto per tutte le necessità personali e comunitarie, ma principalmente ascolta qual è il disegno che il Padre comunica in Cristo Gesù e invoca lo Spirito per avere la capacità di attuarlo.
La festa domenicale non è però una semplice manifestazione di buone intenzioni, una monotona ripetitività di formule e di riti, non è moralismo, adesione formale, soddisfacimento di un obbligo.
La festa della Parola, del ringraziamento (Eucaristia), della comunione si avvera quando il singolo, la coppia, le famiglie prendono sul serio e attuano concretamente le parole che pronunciano con le labbra: «Ti preghiamo umilmente: per la comunione al corpo e al sangue di Cristo, lo Spirito Santo ci riunisca in un solo corpo» (Preghiera Eucaristica II). Si deve riconoscere che quanto noi chiediamo il Padre lo concede immediatamente; spetta alla nostra libertà accoglierlo, attuarlo o rinviarlo ad un futuro ipotetico.
Costruendo e vivendo la comunità-comunione si realizza la parola che il Creatore ha fatto all'inizio: «non è bene che l'uomo sia solo». Comprendere la bellezza della Parola è gioia e piacere, e la si vuole attuare non solo perché volontà di Dio, ma perché salva e libera dall'autosufficienza, dalla pretesa dell’autorealizzazione. È stare insieme, spezzare il pane spirituale e materiale, condividerlo, è servizio («lavarsi i piedi») vicendevole.
È necessario che la festa diventi testimonianza di vita perché solo vivendo in unità e concordia si può convincere il mondo. Si educa e si converte all'amore dando testimonianza d'amore. La festa realizza, all'interno della coppia, della famiglia, della società, della chiesa il momento di sosta e di nutrimento per continuare con speranza e letizia il cammino verso il punto omega dell'incontro, quando risuoneranno: «le grida di gioia e la voce dell'allegria, la voce della sposa e dello sposo» (Ger 7,34).
Tina e Michele Colella
Da “Famiglia domani” 4/2000
UN MONDO DI MAGHI
Noi domandiamo un consiglio, ma in realtà cerchiamo approvazione
(C.C.Colton)
• Che cosa si nasconde dietro la ricerca affannosa di informazioni mediche, di consigli da parte di maghi e fattucchiere, di trasmissioni te-levisive basate su uno psicologismo spesso rozzo e a buon mercato.
• Non si tratta di semplice curiosità, ma di un bisogno più profondo che può forse essere identificato come la ricerca di un senso alla vita
• 0 di un Senso, il bisogno religioso per eccellenza.
Le persone che, entrando in un ambulatorio, spiazzano il medico con una dissertazione sul proprio stato di salute, proprio come se fossero lì a confortare lo specialista con la loro sicurezza, sono sempre più numerose. I termini tecnici e scientifici sono ormai usati e abusati senza pudore né ritegno. Quello che una volta veniva rimproverato alla classe medica quando, per spiegare lo stato di salute di un paziente, usava termini come iperpiressia al posto di febbre o mialgia invece di dolori muscolari, è diventato strumento di linguaggio quotidiano.
A creare questo balzo di qualità (?!?) hanno contribuito almeno due fattori che rappresentano il prodotto più tipico della nostra era mediatica. Il primo è l’insostituibile strumento della informazione cartacea. Al pari di una sirena ricca di richiami e di tentazioni per tutti coloro che avvertono la sudditanza di un vuoto culturale e informativo, la rivista, specie se monografica, con la possibilità che offre di essere raccolta, rilegata e consultata, resta il mezzo principe del sapere popolare. Qualche umorista buontempone ha affermato – ma è davvero solo umorismo? – che quando una categoria professionale batte la fiacca o si trova in crisi di «materia prima», può sempre cercare di procacciarsi nuovi clienti, attirando la loro attenzione su problemi di cui fino ad allora non erano a conoscenza. Il risultato è paradossale e sicuro, come dire: «quando sai che c’è un rischio, cessa la tua tranquillità». La proliferazione di pubblicazioni, quasi sempre a carattere divulgativo, su argomenti attinenti la salute fisica e mentale, con la falsa pretesa di informare e snellire le frequenze negli ambulatori, di fatto ha tolto la tranquillità a tutti coloro che fino ad allora non si erano posti il problema. Gli slogan del tipo «conoscersi è curarsi» o «salute fai da te» hanno fatto buona presa sull’ipocondria latente che è in ognuno di noi, convincendo una gran parte di persone a farsi visitare, dopo essersi documentata su una malattia fino ad allora sconosciuta perché, giurava, quei sintomi li aveva proprio tutti.
Il secondo fattore è dato dalla pletora selvaggia e incontrollabile di maghi, streghe e presunti addetti ai lavori che dai luoghi più disparati invia, soprattutto di notte, informazioni e richiami su possibili rischi di malattie o disagi striscianti. Condannati dal buio della notte a dover sopportare l’insonnia o le sempre più scomode sfalsature degli orari, il terminale domestico del «villaggio globale», la televisione, con un balzello che va dall’oroscopo al paranormale, dalla curiosità sessuale morbosa spacciata per inchiesta di costume al ciarpame new age, ci porta in casa quanto di più acriticamente insulso si possa trovare in questo composito immondezzaio.
La sete di significato
Complici di questa campagna di proselitismo sono le televisioni minori, in genere emittenti locali che, attraverso rubriche dalla pretesa scientifica, ora terrorizzano ora imboniscono quella popolazione di curiosi o di insonni la quale, nella calma della notte, non ha altra possibilità di passare le ore se non davanti alla scatola magica della tv.
Alcune inchieste hanno messo in evidenza un tratto ancora più inquietante: tutte queste trasmissioni sono sempre e regolarmente pagate dai maghi stessi i quali traggono un indubbio beneficio dal fatto che ogni tanto qualcuno abbocchi. Il prodigio si spiega fin troppo bene: il linguaggio allusivo e inconcludente, la frequente visitazione dei luoghi comuni che gratificano il potenziale cliente investendolo dall’inizio di un interesse che si prende cura di tutte le presunte patologie appena enunciate, la constatazione del buio di una ignoranza e di una grossolanità nelle quali ogni lucciola potrebbe accecare, la promessa di una risoluzione sicura in cambio di una incondizionata fiducia. Non può esserci risposta più appropriata ad un inganno desiderato.
L’ignoranza religiosa, del resto, ne è lo specchio fedele: la magia colma per un attimo e a poco prezzo (ma questo sarebbe tutto da verificare!...) una sete di significato destinata a rimanere insoddisfatta, almeno di giorno, quando il dinamismo della quotidianità opprime e ad evocare fantasmi minacciosi di notte, quando il tempo non passa e l’inadeguatezza non garantisce alcuna via di fuga dalle paure. Una decina di anni fa la diocesi di Bologna promulgò un documento che riassumeva alcuni tratti dell’ansia dell’uomo contemporaneo e del suo bisogno di «conoscere il mistero, le forze occulte della natura, ciò che sta oltre la sfera sensibile, il mondo dello spirito, il futuro; un bisogno che si mescola con la ricerca di trascendenza, senza però che se ne accetti la vera natura e si ammettano i limiti dell’intelligenza umana».
Nessun antropologo nega che la sete di sacro sia innestata nell’animo dell’uomo, ma l’incapacità, forse la caratteristica più appariscente nell’uomo acculturato, di dare delle risposte è oggi causa di una cascata di equivoci su scala esponenziale. Il prodotto è una confusione che se da un lato mira a sacralizzare ogni stato psichico appena diverso da quello «usuale» (e qui potrebbero entrare in ballo tutte le codificazioni della normalità), dall’altro tende a ridurre a livello di esperienza ogni sacralità vissuta. Per comprendere questo basti pensare a quali suggestioni sono capaci di trasmettere certe persone dalle pretese doti carismatiche o il richiamo al benessere urlato dal culto della new age. Ma in tutto questo non scopriamo niente di nuovo: le deformazioni ideologiche della realtà hanno un paradigma fin troppo noto: l’errore attorno alla religiosità umana è in stretta derivazione con l’errore sull’uomo stesso.
Ad aggravare questa situazione c’è l’effetto alone che simili sbagli comportano. L’uomo infatti si organizza in comunità e le sue scelte esperienziali finiscono per trasformarsi in fenomeni dalla portata culturale, spandendosi nel tessuto sociale al pari delle onde che nascono dal lancio di un sasso in uno stagno.
La vulnerabilità del nostro progresso
Con l’avvento delle grandi scoperte, e illuminato dal primato della ragione sulla materia, l’uomo moderno ha creduto di poter ribaltare la gerarchia dei valori che per secoli lo aveva guidato. La conoscenza della psicologia, in particolare quella del profondo, ha frantumato le barriere dell’esperienza, e una volta insinuatasi nella periferia dei salotti o dei chiacchiericci, ha ridotto la fenomenologia dell’intimità ad un evento su cui dissertare senza pudore e senza la paura di lasciarsi inghiottire dagli eccessi della banalità. È molto facile parlare di tutto e, al tempo stesso, contestare quanto affermato. La moderna ideologia, così, applicandosi all’esperienza intima – psicologica e religiosa – rischia di ridurre tutto a misura di sé, provocando un disordine che si dipinge facilmente di suggestioni che, dopo aver parodiato il sacro, sfociano nelle superstizioni individuali e sociali. Se anche questo è progresso, dobbiamo essere pronti ad ammettere che il lato che la scienza ci mostra è quello della vulnerabilità e dell’incertezza.
Il risultato che il facile psicologismo produce, specie in chi si dimostra permeabile alle dissertazioni semplicistiche della saggezza televisiva, se da una parte mostra tutta l’ansia e il bisogno di trascendere che sta nell’animo umano, dall’altra mette in evidenza tutti i gradini che si possono scendere quando si confonde la dimensione psicologica con quella religiosa.
In primo luogo troviamo la progressiva perdita dell’esperienza concreta del Sacro, accompagnata da una crescente riduzione della vita interiore che tende ad aderire alla semplice convenzione sociale della morale.
La conseguenza di questo primo passo è la frustrazione dei bisogni spirituali della persona e, per paradosso, un individualismo religioso in cui ognuno avverte la responsabilità del rapporto con la religione senza alcuna mediazione comunitaria.
Ne nasce il consumismo religioso, prodotto originale di quel materialismo spirituale in cui la spiritualità è trattata alla stregua di un prodotto da supermercato o, peggio ancora, da esportare come mezzo utile a colonizzare.
Il traguardo di questa metamorfosi è la «religione-fai-da-te», ossia l’acquisizione di una mentalità desacralizzata in cui religiosità, spiritualità e misticismo si ammantano di uno «pseudo» che porta con sempre più naturalezza a ricercare in esperienze paranormali o in contatti con entità immateriali l’ultimo barlume di divinità indispensabile alla vita dell’uomo.
Ed è proprio l’immagine del vagare, spesso senza meta, di questo uomo post-moderno che ci mostra come, a dispetto del progresso, gli atteggiamenti non cambino molto a distanza di millenni. Cosa portò il figlio prodigo a cercare la via di fuga da casa? E cosa lo convinse a tornare sui suoi passi? Quella favola così ricca di significati e capace di ispirare e condizionare l’espressività degli infiniti linguaggi estetici dalla letteratura al cinema, dalla pittura al melodramma, potrebbe essere riletta, oggi più che mai, per giungere ad immaginare un diverso finale.
Nel bel mezzo di una carestia (una guerra?, un esilio?) e in preda ai morsi della fame, il nostro giovane sente crollare tutte le superbie che lo avevano indotto a lasciare la casa paterna. La fame fa miracoli e, attanagliato dai crampi del digiuno, comincia ad abbassare gli occhi, avendo perduto la capacità di guardare dall’alto delle sue ricchezze. Vede solo i maiali e invidia il loro pastone. Ora ha due possibilità: «rientrare in se stesso» o sedersi al trogolo dei porci. La parabola di Luca ci dà la prima versione; noi immaginiamo
la seconda. Uno sguardo circospetto per assicurarsi che nessuno veda e, preda di un riflesso primordiale, si getta sulle ghiande, afferrandone quante può contenerne la sua bocca per acquietare, senza neppure masticare, quello stomaco provato dagli stenti. Dopo pochi minuti i crampi, tutt’altro che sedati, crescono fino a congestionarlo ed ucciderlo.
Potremmo supporre che le ghiande, per un miraggio della fame, avessero lo stesso aspetto e colore di un prodotto di pasticceria. In realtà la sola deduzione logica che possiamo elaborare è che, nel suo vagabondare, ma sempre in orizzontale, il nostro giovane abbia sentito fortissimo il bisogno di soddisfare il vuoto di Senso e, appena intravisti degli oggetti che potevano offrire una somiglianza con ciò che desiderava e che aveva perduto, privo di spirito critico, abbia seguito l’impulso primitivo a soddisfarsi. Anche a rischio di morire.
Un po’ di umorismo... e di buon senso
Credo che sia questo sia il ritratto più fedele del nostro mondo attuale: una realtà piena di false risposte a bisogni autentici e condannata a nutrirsi di superstizioni trasformate in mercato. Nella mia esperienza di lavoro ho fatto spesso i conti con le emozioni altrui; in qualche occasione, come nei training di gruppo o come nel caso di lezioni a corsi di studenti, ho anche provato un certo interesse a suscitarle, sempre attraverso specifici quesiti, per poter vedere in quale misura si contendevano un primato sulla razionalità. La scoperta più interessante e più liberatoria la avvertivo quando trovavano risposte che erano partorite da uno spirito umoristico.
Quali discipline ti suscitano le emozioni più grandi? Qual è il ruolo degli insegnanti, degli amici, dei familiari nel loro rafforzamento? In che modo le emozioni hanno ostacolato o favorito la tua formazione? Solo per citare alcune delle domande. Alla fine gli stessi corsisti erano interessati a scoprire il ruolo delle emozioni e i percorsi che a quel momento avevano seguito. Ricordo di aver parlato spesso della perdita di senso e di come sia facile arroccarsi su posizioni assurde pur di non ammettere che si è immersi nell’errore. Al termine dei miei discorsi però c’era in genere un silenzio che non mi soddisfaceva perché per primo mi rendevo conto che si respirava un sapore di predicozzo tutto retorica e niente praticità. Un giorno una studentessa mi chiese:
«Può farci un esempio?». Tornai verso la cattedra e lessi una storiella di Niels Ull Jacobsen della Università di Copenaghen.
Un biologo, uno statistico e un matematico partecipano ad un foto-safari in Africa. Viaggiano nella savana a bordo di una jeep scrutando l’orizzonte con i loro binocoli (tranne il matematico che guida la jeep). Improvvisamente il biologo, in preda all’agitazione, esclama:
«Guardate! C’è un branco di zebre! E in mezzo c’è una zebra bianca! Fantastico! Esistono zebre bianche! E io le ho scoperte! Sarò famoso!».
Lo statistico replica:
«Non è un dato significativo. Noi sappiamo che esiste UNA zebra bianca».
Il matematico, senza neppure guardare la zebra, dice con voce calma:
«Vi sbagliate entrambi. In realtà noi sappiamo soltanto che esiste UNA zebra che è bianca da UN lato».
Agli studenti piacque e il risultato fu che decidemmo tutti di sorridere di più e, soprattutto, a distinguere i momenti in cui si cercava la verità da quelli in cui eravamo animati solo da polemica accomodante.
In realtà i nostri atti, le nostre relazioni interpersonali si muovono costantemente tra un polo remissivo e uno espressamente polemico. La tentazione a dissertare è continuamente in agguato e c’è da aggiungere che il più visitato è, comunque, il mondo dei valori. Qui la tentazione a esprimere la nostra opinione, specie se siamo freschi di informazione, è molto forte. Psicologia e religione restano i «siti» preferiti. Su questi argomenti lo spirito polemico può essere sconfinato. Un altro aneddoto riferiva di una disputa tra le menti più eclettiche del mondo su quanto facesse «2x2». L’ingegnere estrasse il regolo calcolatore e dopo lunghi e laboriosi scorrimenti verso destra e sinistra, sentenziò: «3.99». Il fisico consultò i suoi manuali, impostò i suoi cervelloni e corresse: «È un risultato che sta fra 3.99 e 4.01». Il matematico dopo averci pensato bene disse: «Cosa vi importa di quanto fa? L’importante è che il problema sia ben impostato. In questo caso chiunque è in grado di dare la risposta». Il filosofo senza distrarsi dalle sue elucubrazioni disse: «Ma poi, cosa intendete con 2x2?». Il commercialista chiuse porte e finestre e ammiccando con fare circospetto mormorò: «Mettiamoci d’accordo senza farci pubblicità: quanto volete che faccia?».
Don Milani, prete ed educatore, metteva in guardia dalle persone che oggi leggono un libro e domani te lo raccontano, spacciando, magari, quelle teorie per frutto della propria mente. Un invito a non rinunciare a far ricorso al buon senso. Alla fine ci si accorge che la buona volontà, andando di pari passo con la sincerità d’animo, ha sempre la meglio.
Giovanni Scalera
Psicologo - Psicoterapeuta
Il linguaggio dell'amore:
1 - La rassicurazione
2 - I momenti speciali
3 - La collaborazione
Ciascuno di noi possiede un linguaggio dell’amore, ovvero una modalità del tutto personale di esprimere i propri sentimenti e le proprie sensibilità. E non è detto che le due componenti della coppia parlino lo stesso linguaggio. Spesso la costruzione di un linguaggio condiviso è anzi il frutto di un processo lento, di reciproca conoscenza e comprensione. Tuttavia, non è così difficile come si potrebbe credere. Basterebbe infatti riflettere sul proprio linguaggio per renderlo più facilmente comprensibile all’altro, aprendosi al contempo alle sue esigenze.
Quali momenti sono speciali per noi? E in che modo viviamo l’esigenza di essere rassicurati? O di collaborare? Alle volte basta un gesto, una parola che venga incontro alla necessità del partner di sentirsi voluto bene, di sentirsi compreso e apprezzato, per dare un valore positivo all’amore e portare un sorriso in famiglia.
Troppo spesso, invece, la mancanza di comunicazione alimenta le incomprensioni e le difficoltà di relazione.
Bisognerebbe dunque interrogarsi su quale sia il proprio linguaggio dell’amore, che è fatto sì di parole di rassicurazione e tenerezza ma anche della capacità di vivere e condividere momenti speciali (regalarsi una cena romantica, uscire con il proprio partner per una passeggiata...), di donare e ricevere doni, di aiutarsi a vicenda nella gestione delle incombenze quotidiane, di contatto fisico.
Occorre perciò scoprire qual è il proprio linguaggio preferito e comunicarlo all’altro.
Un discorso simile vale anche per i figli, nei cui confronti bisogna utilizzare un linguaggio dell’amore condiviso che consenta di interrogarsi e di capire cosa desiderino veramente, aldilà delle apparenze e delle superficialità.
Maurizio Andolfi
UNA SAGGEZZA ANTICA
Di fronte alla comparsa invadente del dolore nell'esistenza umana e al conseguente tentativo di rimuoverlo, sempre più importante appare il «chiedere aiuto» Per mettere in atto, in un accordo tra medico e «paziente», un progetto di guarigione.
Non c'è dubbio che il senso del malessere fisico favorisca in noi la presa di una coscienza più concreta dell'esistere. Possiamo attraversare momenti di gioia e di euforia: tutto ci appare normale e non ci viene da chiederci la provenienza di quello stato d'animo. Ma il dolore non è più normalità: è il male, e quando lo si avverte ci pone degli interrogativi che possono avere un sapore angosciante; primo fra tutti: quanto durerà? Si inizia da bambini, con la ben nota «angoscia dell'ottavo mese», momento insostituibile per il futuro equilibrio psico-fisico, per giungere, attraverso le prove che la nostra esigenza di vita relazionale ci impone, a fare esperienza di dolore quotidianamente. Non so in quante parti del nostro territorio si usino espressioni che riescano, con una semantica essenziale ed illuminata, a rendere bene l'idea di questo binomio dolore-esistenza. Ricordo un compagno di banco del ginnasio, proveniva dalla zona di Volterra, che quando aveva mal di testa si esprimeva così: «Mi sento la testa». Una volta decodificato il suo modo di ragionare, sono certo che non mi avrebbe meravigliato se avesse aggiunto: «Quando non ho dolori, non mi accorgo neppure di esistere».
La ricerca di aiuto
Quante facce ha il dolore? E chi può dire se ciò che colpisce lo spirito faccia sanguinare più di una cruenta ferita che lacera il corpo? Il protagonista sartriano de «La nausea», Roquetin, ci offre un esempio di come si possa giungere a cogliere il senso dell'esistenza, attraverso il dolore. Non si tratta qui di un malessere fisico, ma di un disagio esistenziale di fronte al quale può sorgere la tentazione all'arrendevolezza. L'esperienza del dolore è qualcosa che, prima o poi, si è fatta strada in ognuno di noi; guarire significa prendere coscienza delle ragioni del proprio star male e impegnarsi con tutta la volontà per uscirne. Nell'immaginario comune, al concetto di salute e di malattia, con sempre maggiore frequenza, si associano attributi esterni alla persona come il delegare totalmente al farmaco il compito di preservarci dal dolore, l'affidarsi alle arti di un guaritore, il raccomandarsi alle forze soprannaturali. In realtà, questi atteggiamenti, che potrebbero suscitare una simpatia per la creatura che coltiva autentici tratti di umiltà, si mischiano sempre più spesso a gesti di abbandono o di superstizione, quando sono prodotti dalla convinzione che le normali vie verso il benessere siano state vanamente esperite e praticate. Qualche volta, poi, si verifica il rifiuto, da parte di un paziente, di praticare i normali percorsi verso la propria guarigione perché questi gli appaiono inopportuni o improponibili per le rinunce che richiedono; altre volte, infine, si nega al medico di offrire spiegazioni, per la paura di apprendere verità che si preferisce non conoscere.
Il dolore appare sempre più invadente nella vita dell'uomo moderno. Se una volta, nel romanzo della vita, la trama che comprendeva l'avventura di ogni essere umano, non sapeva disgiungere nascita, esistenza, sofferenza e morte, oggi il dolore viene quanto più possibile enucleato da questo ciclo, e relegato ad ambienti asettici o luoghi il cui ingresso è riservato agli addetti ai lavori. Il contatto con il dolore, forse perché si contrappone ad una vita dalle premesse e dalle promesse totalmente edonistiche, è rifiutato fino dalla prima presa di coscienza. Piuttosto che soffrire, si preferisce allora aggirare il traguardo della gioia. Sociologi e antropologi ci ammoniscono che le relazioni profonde sono sempre più spesso evitate, perché, non impegnandosi in rapporti troppo coinvolgenti, si evita di soffrire in caso di eventuali fratture o fallimenti.
Ma il dolore, negato e fuggito da ogni essere vivente, per paradosso si rivela un compagno insostituibile. È presente nel trauma della nascita, scruta i nostri rossori nei turbamenti adolescenziali, ci fa abbassare lo sguardo nelle delusioni amorose, ci fa scoprire la sensazione di impotenza nelle aggressività del climaterio, ci nega con sempre maggiore frequenza la compagnia di una mano amica nel momento dell'ultimo trapasso. Forse l'errore dell'uomo moderno è quello di immaginare una esistenza senza dolore, piuttosto che cercare un rimedio per la guarigione.
Guarire tra bisogno e volontà
A prendere in esame i vissuti del dolore, prima ancora dei medici e dei biologi, sono stati i filosofi, i quali hanno cercato di vedere in questo retaggio il lievito di un disagio dai contorni proteiformi e inesauribili. Da Parmenide a Pascal, da Erasmo da Rotterdam a Heiddegger, lo studio dell'uomo e dei suoi bisogni insoddisfatti viaggia di pari passo con quello della sua esistenza, fino ai nostri pensatori attuali, i quali hanno teorizzato che ogni essere vivente oscilli perpetuamente tra il dolore per la mancanza di ciò a cui aspira e il dolore per il tedio e il disgusto per ciò che ha raggiunto. La conseguenza inevitabile è che se il rapporto con il mondo dal quale dipendono salute, benessere e felicità non può essere reso saldo e garantito da nessuna accortezza, c'è solo da affidarsi alla precarietà e, per molti, al primo segnale negativo, è la disperazione. La fragile maturità nell'affrontare la sofferenza da parte dell'uomo moderno è sottolineata da un recente rapporto del Censis che riporta nel numero di 6.000 i suicidi verificatisi nel nostro Paese lo scorso anno.
Se è impossibile annullare il dolore, deve essere possibile recuperare una saggezza che almeno ci ponga in condizioni di affrontarlo. Purtroppo, i grandi cambiamenti che hanno modificato la nostra cultura hanno finito con l'assumere i contorni di una idolatria. Al mondo dei valori nei quali si era sempre creduto si sono sostituiti dei feticci - primi fra tutti soldi e successo - e, a questi, si è dedicata la nostra intera esistenza. Solo le anime grandi provano senso di angoscia per tutte le ferite con le quali viene messo a prova il nostro mondo. Gran parte delle persone si libera della propria tradizione e degli insegnamenti come ci si libererebbe di orpelli inutili per giungere, poi, nei momenti della prova, a raccomandarsi ai propri defunti ai quali crede di poter attribuire poteri magici. Ma i morti non soccorrono i vivi; invocarli sull'orlo dell'abisso ci fa avvertire un silenzio che ha il sapore della complicità. Anche la perdita della fede, più che un fallimento personale, ha il sapore di un torto alla società perché si pone contro tutti gli stimoli che hanno fatto da culla allo sviluppo dell'uomo. L'umiltà e un certo buonsenso raccomanderebbero, allora, che la ricerca di aiuto potesse andare in una direzione capace di portare alla riscoperta di una saggezza antica. L'esempio di quanti ci hanno preceduto, il tesoro della loro esperienza, il desiderio di essere interpreti di un cambiamento, possono portarci a riscoprire le autentiche strade verso
la guarigione. La cosa importante resta la volontà di sentirsi risanati, facendosi carico dello sforzo necessario. Ai malati che gli chiedevano il miracolo, Gesù chiedeva sempre: «Cosa chiedi?», quasi non sapesse quale era la loro vera preghiera. E subito dopo aggiungeva: «Lo vuoi davvero?». Perché ognuno si sentisse protagonista della propria supplica e del proprio risanamento.
Ma l'uomo di oggi ha altre mire e, nel suo incessante occuparsi a produrre beni materiali per esorcizzare il rischio di mancanze o sofferenze, arriva al punto di non riconoscere più se la sua fronte è bagnata dal sudore o dall'angoscia.
Di Giovanni Scalera
Tratto da “Famiglia Domani – marzo