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Mercoledì, 28 Dicembre 2005 19:50

Un mondo di maghi

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UN MONDO DI MAGHI

Noi domandiamo un consiglio, ma in realtà cerchiamo approvazione

(C.C.Colton)

Che cosa si nasconde dietro la ricerca affannosa di informazioni mediche, di consigli da parte di maghi e fattucchiere, di trasmissioni te-levisive basate su uno psicologismo spesso rozzo e a buon mercato.

Non si tratta di semplice curiosità, ma di un bisogno più profondo che può forse essere identificato come la ricerca di un senso alla vita

0 di un Senso, il bisogno religioso per eccellenza.

Le persone che, entrando in un ambulatorio, spiazzano il medico con una dissertazione sul proprio stato di salute, proprio come se fossero lì a confortare lo specialista con la loro sicurezza, sono sempre più numerose. I termini tecnici e scientifici sono ormai usati e abusati senza pudore né ritegno. Quello che una volta veniva rimproverato alla classe medica quando, per spiegare lo stato di salute di un paziente, usava termini come iperpiressia al posto di febbre o mialgia invece di dolori muscolari, è diventato strumento di linguaggio quotidiano.

 A creare questo balzo di qualità (?!?) hanno contribuito almeno due fattori che rappresentano il prodotto più tipico della nostra era mediatica. Il primo è l’insostituibile strumento della informazione cartacea. Al pari di una sirena ricca di richiami e di tentazioni per tutti coloro che avvertono la sudditanza di un vuoto culturale e informativo, la rivista, specie se monografica, con la possibilità che offre di essere raccolta, rilegata e consultata, resta il mezzo principe del sapere popolare. Qualche umorista buontempone ha affermato – ma è davvero solo umorismo? – che quando una categoria professionale batte la fiacca o si trova in crisi di «materia prima», può sempre cercare di procacciarsi nuovi clienti, attirando la loro attenzione su problemi di cui fino ad allora non erano a conoscenza. Il risultato è paradossale e sicuro, come dire: «quando sai che c’è un rischio, cessa la tua tranquillità». La proliferazione di pubblicazioni, quasi sempre a carattere divulgativo, su argomenti attinenti la salute fisica e mentale, con la falsa pretesa di informare e snellire le frequenze negli ambulatori, di fatto ha tolto la tranquillità a tutti coloro che fino ad allora non si erano posti il problema. Gli slogan del tipo «conoscersi è curarsi» o «salute fai da te» hanno fatto buona presa sull’ipocondria latente che è in ognuno di noi, convincendo una gran parte di persone a farsi visitare, dopo essersi documentata su una malattia fino ad allora sconosciuta perché, giurava, quei sintomi li aveva proprio tutti.

Il secondo fattore è dato dalla pletora selvaggia e incontrollabile di maghi, streghe e presunti addetti ai lavori che dai luoghi più disparati invia, soprattutto di notte, informazioni e richiami su possibili rischi di malattie o disagi striscianti. Condannati dal buio della notte a dover sopportare l’insonnia o le sempre più scomode sfalsature degli orari, il terminale domestico del «villaggio globale», la televisione, con un balzello che va dall’oroscopo al paranormale, dalla curiosità sessuale morbosa spacciata per inchiesta di costume al ciarpame new age, ci porta in casa quanto di più acriticamente insulso si possa trovare in questo composito immondezzaio.

 

La sete di significato

 

Complici di questa campagna di proselitismo sono le televisioni minori, in genere emittenti locali che, attraverso rubriche dalla pretesa scientifica, ora terrorizzano ora imboniscono quella popolazione di curiosi o di insonni la quale, nella calma della notte, non ha altra possibilità di passare le ore se non davanti alla scatola magica della tv.

Alcune inchieste hanno messo in evidenza un tratto ancora più inquietante: tutte queste trasmissioni sono sempre e regolarmente pagate dai maghi stessi i quali traggono un indubbio beneficio dal fatto che ogni tanto qualcuno abbocchi. Il prodigio si spiega fin troppo bene: il linguaggio allusivo e inconcludente, la frequente visitazione dei luoghi comuni che gratificano il potenziale cliente investendolo dall’inizio di un interesse che si prende cura di tutte le presunte patologie appena enunciate, la constatazione del buio di una ignoranza e di una grossolanità nelle quali ogni lucciola potrebbe accecare, la promessa di una risoluzione sicura in cambio di una incondizionata fiducia. Non può esserci risposta più appropriata ad un inganno desiderato.

L’ignoranza religiosa, del resto, ne è lo specchio fedele: la magia colma per un attimo e a poco prezzo (ma questo sarebbe tutto da verificare!...) una sete di significato destinata a rimanere insoddisfatta, almeno di giorno, quando il dinamismo della quotidianità opprime e ad evocare fantasmi minacciosi di notte, quando il tempo non passa e l’inadeguatezza non garantisce alcuna via di fuga dalle paure. Una decina di anni fa la diocesi di Bologna promulgò un documento che riassumeva alcuni tratti dell’ansia dell’uomo contemporaneo e del suo bisogno di «conoscere il mistero, le forze occulte della natura, ciò che sta oltre la sfera sensibile, il mondo dello spirito, il futuro; un bisogno che si mescola con la ricerca di trascendenza, senza però che se ne accetti la vera natura e si ammettano i limiti dell’intelligenza umana».

Nessun antropologo nega che la sete di sacro sia innestata nell’animo dell’uomo, ma l’incapacità, forse la caratteristica più appariscente nell’uomo acculturato, di dare delle risposte è oggi causa di una cascata di equivoci su scala esponenziale. Il prodotto è una confusione che se da un lato mira a sacralizzare ogni stato psichico appena diverso da quello «usuale» (e qui potrebbero entrare in ballo tutte le codificazioni della normalità), dall’altro tende a ridurre a livello di esperienza ogni sacralità vissuta. Per comprendere questo basti pensare a quali suggestioni sono capaci di trasmettere certe persone dalle pretese doti carismatiche o il richiamo al benessere urlato dal culto della new age. Ma in tutto questo non scopriamo niente di nuovo: le deformazioni ideologiche della realtà hanno un paradigma fin troppo noto: l’errore attorno alla religiosità umana è in stretta derivazione con l’errore sull’uomo stesso.

Ad aggravare questa situazione c’è l’effetto alone che simili sbagli comportano. L’uomo infatti si organizza in comunità e le sue scelte esperienziali finiscono per trasformarsi in fenomeni dalla portata culturale, spandendosi nel tessuto sociale al pari delle onde che nascono dal lancio di un sasso in uno stagno.

 

La vulnerabilità del nostro progresso

 

Con l’avvento delle grandi scoperte, e illuminato dal primato della ragione sulla materia, l’uomo moderno ha creduto di poter ribaltare la gerarchia dei valori che per secoli lo aveva guidato. La conoscenza della psicologia, in particolare quella del profondo, ha frantumato le barriere dell’esperienza, e una volta insinuatasi nella periferia dei salotti o dei chiacchiericci, ha ridotto la fenomenologia dell’intimità ad un evento su cui dissertare senza pudore e senza la paura di lasciarsi inghiottire dagli eccessi della banalità. È molto facile parlare di tutto e, al tempo stesso, contestare quanto affermato. La moderna ideologia, così, applicandosi all’esperienza intima – psicologica e religiosa – rischia di ridurre tutto a misura di sé, provocando un disordine che si dipinge facilmente di suggestioni che, dopo aver parodiato il sacro, sfociano nelle superstizioni individuali e sociali. Se anche questo è progresso, dobbiamo essere pronti ad ammettere che il lato che la scienza ci mostra è quello della vulnerabilità e dell’incertezza.

Il risultato che il facile psicologismo produce, specie in chi si dimostra permeabile alle dissertazioni semplicistiche della saggezza televisiva, se da una parte mostra tutta l’ansia e il bisogno di trascendere che sta nell’animo umano, dall’altra mette in evidenza tutti i gradini che si possono scendere quando si confonde la dimensione psicologica con quella religiosa.

In primo luogo troviamo la progressiva perdita dell’esperienza concreta del Sacro, accompagnata da una crescente riduzione della vita interiore che tende ad aderire alla semplice convenzione sociale della morale.

La conseguenza di questo primo passo è la frustrazione dei bisogni spirituali della persona e, per paradosso, un individualismo religioso in cui ognuno avverte la responsabilità del rapporto con la religione senza alcuna mediazione comunitaria.

Ne nasce il consumismo religioso, prodotto originale di quel materialismo spirituale in cui la spiritualità è trattata alla stregua di un prodotto da supermercato o, peggio ancora, da esportare come mezzo utile a colonizzare.

Il traguardo di questa metamorfosi è la «religione-fai-da-te», ossia l’acquisizione di una mentalità desacralizzata in cui religiosità, spiritualità e misticismo si ammantano di uno «pseudo» che porta con sempre più naturalezza a ricercare in esperienze paranormali o in contatti con entità immateriali l’ultimo barlume di divinità indispensabile alla vita dell’uomo.

Ed è proprio l’immagine del vagare, spesso senza meta, di questo uomo post-moderno che ci mostra come, a dispetto del progresso, gli atteggiamenti non cambino molto a distanza di millenni. Cosa portò il figlio prodigo a cercare la via di fuga da casa? E cosa lo convinse a tornare sui suoi passi? Quella favola così ricca di significati e capace di ispirare e condizionare l’espressività degli infiniti linguaggi estetici dalla letteratura al cinema, dalla pittura al melodramma, potrebbe essere riletta, oggi più che mai, per giungere ad immaginare un diverso finale.

Nel bel mezzo di una carestia (una guerra?, un esilio?) e in preda ai morsi della fame, il nostro giovane sente crollare tutte le superbie che lo avevano indotto a lasciare la casa paterna. La fame fa miracoli e, attanagliato dai crampi del digiuno, comincia ad abbassare gli occhi, avendo perduto la capacità di guardare dall’alto delle sue ricchezze. Vede solo i maiali e invidia il loro pastone. Ora ha due possibilità: «rientrare in se stesso» o sedersi al trogolo dei porci. La parabola di Luca ci dà la prima versione; noi immaginiamo

la seconda. Uno sguardo circospetto per assicurarsi che nessuno veda e, preda di un riflesso primordiale, si getta sulle ghiande, afferrandone quante può contenerne la sua bocca per acquietare, senza neppure masticare, quello stomaco provato dagli stenti. Dopo pochi minuti i crampi, tutt’altro che sedati, crescono fino a congestionarlo ed ucciderlo.

Potremmo supporre che le ghiande, per un miraggio della fame, avessero lo stesso aspetto e colore di un prodotto di pasticceria. In realtà la sola deduzione logica che possiamo elaborare è che, nel suo vagabondare, ma sempre in orizzontale, il nostro giovane abbia sentito fortissimo il bisogno di soddisfare il vuoto di Senso e, appena intravisti degli oggetti che potevano offrire una somiglianza con ciò che desiderava e che aveva perduto, privo di spirito critico, abbia seguito l’impulso primitivo a soddisfarsi. Anche a rischio di morire.

 

Un po’ di umorismo... e di buon senso

 

Credo che sia questo sia il ritratto più fedele del nostro mondo attuale: una realtà piena di false risposte a bisogni autentici e condannata a nutrirsi di superstizioni trasformate in mercato. Nella mia esperienza di lavoro ho fatto spesso i conti con le emozioni altrui; in qualche occasione, come nei training di gruppo o come nel caso di lezioni a corsi di studenti, ho anche provato un certo interesse a suscitarle, sempre attraverso specifici quesiti, per poter vedere in quale misura si contendevano un primato sulla razionalità. La scoperta più interessante e più liberatoria la avvertivo quando trovavano risposte che erano partorite da uno spirito umoristico.

Quali discipline ti suscitano le emozioni più grandi? Qual è il ruolo degli insegnanti, degli amici, dei familiari nel loro rafforzamento? In che modo le emozioni hanno ostacolato o favorito la tua formazione? Solo per citare alcune delle domande. Alla fine gli stessi corsisti erano interessati a scoprire il ruolo delle emozioni e i percorsi che a quel momento avevano seguito. Ricordo di aver parlato spesso della perdita di senso e di come sia facile arroccarsi su posizioni assurde pur di non ammettere che si è immersi nell’errore. Al termine dei miei discorsi però c’era in genere un silenzio che non mi soddisfaceva perché per primo mi rendevo conto che si respirava un sapore di predicozzo tutto retorica e niente praticità. Un giorno una studentessa mi chiese:

 

«Può farci un esempio?». Tornai verso la cattedra e lessi una storiella di Niels Ull Jacobsen della Università di Copenaghen.

Un biologo, uno statistico e un matematico partecipano ad un foto-safari in Africa. Viaggiano nella savana a bordo di una jeep scrutando l’orizzonte con i loro binocoli (tranne il matematico che guida la jeep). Improvvisamente il biologo, in preda all’agitazione, esclama:

«Guardate! C’è un branco di zebre! E in mezzo c’è una zebra bianca! Fantastico! Esistono zebre bianche! E io le ho scoperte! Sarò famoso!».

Lo statistico replica:

«Non è un dato significativo. Noi sappiamo che esiste UNA zebra bianca».

Il matematico, senza neppure guardare la zebra, dice con voce calma:

«Vi sbagliate entrambi. In realtà noi sappiamo soltanto che esiste UNA zebra che è bianca da UN lato».

Agli studenti piacque e il risultato fu che decidemmo tutti di sorridere di più e, soprattutto, a distinguere i momenti in cui si cercava la verità da quelli in cui eravamo animati solo da polemica accomodante.

In realtà i nostri atti, le nostre relazioni interpersonali si muovono costantemente tra un polo remissivo e uno espressamente polemico. La tentazione a dissertare è continuamente in agguato e c’è da aggiungere che il più visitato è, comunque, il mondo dei valori. Qui la tentazione a esprimere la nostra opinione, specie se siamo freschi di informazione, è molto forte. Psicologia e religione restano i «siti» preferiti. Su questi argomenti lo spirito polemico può essere sconfinato. Un altro aneddoto riferiva di una disputa tra le menti più eclettiche del mondo su quanto facesse «2x2». L’ingegnere estrasse il regolo calcolatore e dopo lunghi e laboriosi scorrimenti verso destra e sinistra, sentenziò: «3.99». Il fisico consultò i suoi manuali, impostò i suoi cervelloni e corresse: «È un risultato che sta fra 3.99 e 4.01». Il matematico dopo averci pensato bene disse: «Cosa vi importa di quanto fa? L’importante è che il problema sia ben impostato. In questo caso chiunque è in grado di dare la risposta». Il filosofo senza distrarsi dalle sue elucubrazioni disse: «Ma poi, cosa intendete con 2x2?». Il commercialista chiuse porte e finestre e ammiccando con fare circospetto mormorò: «Mettiamoci d’accordo senza farci pubblicità: quanto volete che faccia?».

Don Milani, prete ed educatore, metteva in guardia dalle persone che oggi leggono un libro e domani te lo raccontano, spacciando, magari, quelle teorie per frutto della propria mente. Un invito a non rinunciare a far ricorso al buon senso. Alla fine ci si accorge che la buona volontà, andando di pari passo con la sincerità d’animo, ha sempre la meglio.

 

Giovanni Scalera

Psicologo - Psicoterapeuta

Letto 2197 volte Ultima modifica il Martedì, 16 Febbraio 2010 16:31

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