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Venerdì, 16 Dicembre 2005 18:35

Una saggezza antica

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UNA SAGGEZZA ANTICA

Di fronte alla comparsa invadente del dolore nell'esistenza umana e al conseguente tentativo di rimuoverlo, sempre più importante appare il «chiedere aiuto» Per mettere in atto, in un accordo tra me­dico e «paziente», un progetto di guarigione.

Non c'è dubbio che il senso del malessere fisico favorisca in noi la presa di una coscienza più concreta dell'esistere. Possiamo attraversare momenti di gioia e di euforia: tutto ci appare normale e non ci viene da chiederci la provenienza di quello stato d'animo. Ma il dolore non è più normalità: è il male, e quando lo si avverte ci pone degli interrogativi che possono avere un sapore angosciante; primo fra tutti: quanto durerà? Si inizia da bambini, con la ben nota «angoscia dell'ottavo mese», momento insostituibile per il futuro equilibrio psico-fisico, per giungere, attraverso le prove che la nostra esigenza di vita relazionale ci im­pone, a fare esperienza di dolore quotidianamente. Non so in quante parti del nostro territorio si usino espressioni che riescano, con una semantica essenziale ed illuminata, a rendere bene l'idea di questo binomio dolore-esistenza. Ricordo un compagno di banco del ginnasio, proveniva dalla zona di Volterra, che quan­do aveva mal di testa si esprimeva così: «Mi sento la testa». Una volta decodifi­cato il suo modo di ragionare, sono certo che non mi avrebbe meravigliato se avesse aggiunto: «Quando non ho dolori, non mi accorgo neppure di esistere».

La ricerca di aiuto

Quante facce ha il dolore? E chi può dire se ciò che colpisce lo spirito fac­cia sanguinare più di una cruenta ferita che lacera il corpo? Il protagonista sartriano de «La nausea», Roquetin, ci offre un esempio di come si possa giun­gere a cogliere il senso dell'esistenza, attraverso il dolore. Non si tratta qui di un malessere fisico, ma di un disagio esistenziale di fronte al quale può sorge­re la tentazione all'arrendevolezza. L'esperienza del dolore è qualcosa che, prima o poi, si è fatta strada in ognuno di noi; guarire significa prendere co­scienza delle ragioni del proprio star male e impegnarsi con tutta la volontà per uscirne. Nell'immaginario comune, al concetto di salute e di malattia, con sempre maggiore frequenza, si associano attributi esterni alla persona come il delegare totalmente al farmaco il compito di preservarci dal dolore, l'affidar­si alle arti di un guaritore, il raccomandarsi alle forze soprannaturali. In realtà, questi atteggiamenti, che potrebbero suscitare una simpatia per la creatura che coltiva autentici tratti di umiltà, si mischiano sempre più spesso a gesti di abbandono o di superstizione, quando sono prodotti dalla convinzione che le normali vie verso il benessere siano state vanamente esperite e praticate. Qualche volta, poi, si verifica il rifiuto, da parte di un paziente, di praticare i normali percorsi verso la propria guarigione perché questi gli appaiono inop­portuni o improponibili per le rinunce che richiedono; altre volte, infine, si ne­ga al medico di offrire spiegazioni, per la paura di apprendere verità che si preferisce non conoscere.

Il dolore appare sempre più invadente nella vita dell'uomo moderno. Se una volta, nel romanzo della vita, la trama che comprendeva l'avventura di ogni essere umano, non sapeva disgiungere nascita, esistenza, sofferenza e morte, oggi il dolore viene quanto più possibile enucleato da questo ciclo, e relegato ad ambienti asettici o luoghi il cui ingresso è riservato agli addetti ai lavori. Il contatto con il dolore, forse perché si contrappone ad una vita dalle premesse e dalle promesse totalmente edonistiche, è rifiutato fino dalla prima presa di co­scienza. Piuttosto che soffrire, si preferisce allora aggirare il traguardo della gioia. Sociologi e antropologi ci ammoniscono che le relazioni profonde sono sempre più spesso evitate, perché, non impegnandosi in rapporti troppo coin­volgenti, si evita di soffrire in caso di eventuali fratture o fallimenti.

Ma il dolore, negato e fuggito da ogni essere vivente, per paradosso si ri­vela un compagno insostituibile. È presente nel trauma della nascita, scruta i nostri rossori nei turbamenti adolescenziali, ci fa abbassare lo sguardo nelle delusioni amorose, ci fa scoprire la sensazione di impotenza nelle aggressi­vità del climaterio, ci nega con sempre maggiore frequenza la compagnia di una mano amica nel momento dell'ultimo trapasso. Forse l'errore dell'uomo moderno è quello di immaginare una esistenza senza dolore, piuttosto che cercare un rimedio per la guarigione.

Guarire tra bisogno e volontà

A prendere in esame i vissuti del dolore, prima ancora dei medici e dei biologi, sono stati i filosofi, i quali hanno cercato di vedere in questo retaggio il lievito di un disagio dai contorni proteiformi e inesauribili. Da Parmenide a Pascal, da Erasmo da Rotterdam a Heiddegger, lo studio dell'uomo e dei suoi bisogni insoddisfatti viaggia di pari passo con quello della sua esistenza, fino ai nostri pensatori attuali, i quali hanno teorizzato che ogni essere vivente oscilli perpetuamente tra il dolore per la mancanza di ciò a cui aspira e il do­lore per il tedio e il disgusto per ciò che ha raggiunto. La conseguenza inevi­tabile è che se il rapporto con il mondo dal quale dipendono salute, benessere e felicità non può essere reso saldo e garantito da nessuna accortezza, c'è so­lo da affidarsi alla precarietà e, per molti, al primo segnale negativo, è la di­sperazione. La fragile maturità nell'affrontare la sofferenza da parte dell'uo­mo moderno è sottolineata da un recente rapporto del Censis che riporta nel numero di 6.000 i suicidi verificatisi nel nostro Paese lo scorso anno.

Se è impossibile annullare il dolore, deve essere possibile recuperare una sag­gezza che almeno ci ponga in condizioni di affrontarlo. Purtroppo, i grandi cam­biamenti che hanno modificato la nostra cultura hanno finito con l'assumere i contorni di una idolatria. Al mondo dei valori nei quali si era sempre creduto si sono sostituiti dei feticci - primi fra tutti soldi e successo - e, a questi, si è dedi­cata la nostra intera esistenza. Solo le anime grandi provano senso di angoscia per tutte le ferite con le quali viene messo a prova il nostro mondo. Gran parte delle persone si libera della propria tradizione e degli insegnamenti come ci si li­bererebbe di orpelli inutili per giungere, poi, nei momenti della prova, a racco­mandarsi ai propri defunti ai quali crede di poter attribuire poteri magici. Ma i morti non soccorrono i vivi; invocarli sull'orlo dell'abisso ci fa avvertire un si­lenzio che ha il sapore della complicità. Anche la perdita della fede, più che un fallimento personale, ha il sapore di un torto alla società perché si pone contro tutti gli stimoli che hanno fatto da culla allo sviluppo dell'uomo. L'umiltà e un certo buonsenso raccomanderebbero, allora, che la ricerca di aiuto potesse anda­re in una direzione capace di portare alla riscoperta di una saggezza antica. L'e­sempio di quanti ci hanno preceduto, il tesoro della loro esperienza, il desiderio di essere interpreti di un cambiamento, possono portarci a riscoprire le autentiche strade verso

la guarigione. La cosa importante resta la volontà di sentirsi risana­ti, facendosi carico dello sforzo necessario. Ai malati che gli chiedevano il mira­colo, Gesù chiedeva sempre: «Cosa chiedi?», quasi non sapesse quale era la loro vera preghiera. E subito dopo aggiungeva: «Lo vuoi davvero?». Perché ognuno si sentisse protagonista della propria supplica e del proprio risanamento.

Ma l'uomo di oggi ha altre mire e, nel suo incessante occuparsi a produrre beni materiali per esorcizzare il rischio di mancanze o sofferenze, arriva al punto di non riconoscere più se la sua fronte è bagnata dal sudore o dall'angoscia.

Di Giovanni Scalera

Tratto da “Famiglia Domani – marzo 2002”

Letto 2234 volte Ultima modifica il Sabato, 01 Ottobre 2005 14:12