Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input
Lezione Settima
Il dono della terra
Introduzione
Se Israele, all’uscita dalla terra d’Egitto, non avesse avuto una meta verso la quale dirigersi, sarebbe stato condannato a girovagare da nomade per il deserto, ai margini dei paesi occupati da altri popoli. Il suo esodo sarebbe stato un evento puramente spirituale: un’uscita verso la libertà del servizio di Dio, ma senza un segno fisico del dono divino. In realtà la vita umana non si realizza senza un rapporto con le risorse della terra: anche il nomade dipende dal regime economico realizzabile in zone non coltivate e, giuridicamente, non lottizzate. La scarsa vegetazione desertica consente la pastorizia e l’attendamento presso le oasi e le fonti d’acqua.
La sofferenza è una dura prova della nostra maturità umana e cristiana, fa cadere le pretese sicurezze, mette in crisi le motivazioni ideali non adeguatamente approfondite e assimilate, stimola una revisione della nostra visuale di vita e sul nostro modo di capire e accettare Dio.
Le Chiese libere, una realtà in espansione
di Marino Parodi
Un capitolo di notevole importanza nel contesto del protestantesimo moderno è costituito dalle Chiese libere. Si tratta di un mondo assai variegato, complesso, estremamente fluido e a tratti sfuggente, di conseguenza non sempre facile da cogliere e da interpretare.
Cominciamo col premettere che per Chiesa libera si intende qualsiasi denominazione, associazione o comunità cristiana che corrisponda a due caratteristiche di fondo: libertà da qualunque vincolo governativo o politico nei confronti di qualunque istituzione, statale o religiosa; autonomia sul piano dottrinale e teologico. Le Chiese libere sono una realtà in continua espansione, soprattutto nell’America del Nord e nei Paesi di lingua tedesca: l’accennato carattere “fluido” del fenomeno rende praticamente impossibile qualsiasi valutazione numerica, benché approssimativa.
Per certo sappiamo che esistono nel mondo svariate migliaia di Chiese libere, nelle quali si riconoscono altrettanto svariati milioni di fedeli. Il fenomeno delle Chiese libere è tuttora in ascesa, da circa un trentennio, nelle aree geografiche appena citate, ma è ancora troppo recente per interessare il nostro Paese, nel quale normalmente le novità riconducibili alla Riforma approdano in un secondo tempo, per lo più a seguito di un certo consolidamento già raggiunto in Paesi a tradizione protestante. Ad aderire a una Chiesa libera sono sia cristiani provenienti da altre comunità, nelle quali non hanno trovato la spiritualità che cercavano, sia neofiti attratti dall’essenzialità e dall’apertura che normalmente lì si trova.
Due grandi famiglie
Schematizzando non poco, possiamo raggruppare le Chiese libere in due grandi famiglie. Il primo gruppo si può ricondurre alle Libere Chiese evangeliche, il secondo alle libere Chiese che si richiamano ai principi e alla filosofia del New Thought. Le prime, parecchie delle quali negli Stati Uniti, hanno dato vita alla federazione Libere Chiese evangeliche d’America. Sono, sul piano teologico e dottrinale, più vicine al protestantesimo tradizionale, di impostazione luterana. Ciò è abbastanza evidente da un semplice sguardo ai principi alla base della Dichiarazione di fede, sottoscritta da tutte le Chiese aderenti alla federazione. Ossia, totale fede nelle Scritture (Antico e Nuovo Testamento), in quanto parola di Dio; fede nella Trinità e in Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, nostro redentore in virtù della sua morte sulla croce e risurrezione, asceso in cielo alla destra del Padre; fede, nello Spirito Santo.
La sua presenza salvifica nella vita del fedele e della Chiesa viene particolarmente sottolineata, in particolare sul piano della rigenerazione dell’uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio, caduto nel peccato, comunque assolutamente capace, proprio grazie all’azione dello Spirito, di rinascere a vita nuova. E ancora, la salvezza è attribuita all’opera redentrice compiuta una volta per tutte da Gesù Cristo; i sacramenti del battesimo e dell’eucaristia vengono conservati, ma non considerati strumenti di salvezza. Inoltre, «la vera Chiesa è costituita da tutti coloro i quali, in virtù della loro fede salvifica in Gesù Cristo, sono stati rigenerati dallo Spirito Santo e sono riuniti nel corpo di Cristo, del quale egli è il capo».
Essendo Gesù Cristo il solo Signore capo della Chiesa, a ogni Chiesa locale è riconosciuto il diritto di regolare la propria vita. Altrettanto profonda ed essenziale è l’attesa nella «imminente venuta di Nostro Signore Gesù Cristo, a livello della vita personale» del fedele come sul piano storico. Infine, segue la fede nella risurrezione della carne, nella vita eterna e nel giudizio universale.
Per quanto riguarda l’altro grande gruppo, ci troviamo di fronte a una rilettura delle Sacre Scritture che possiamo sintetizzare in base ad alcuni principi compresi come essenza di quel cristianesimo dei primi secoli che tali Chiese vogliono riscoprire. Alla base di tale rilettura vi è come si accennava, il New Thought, nuovo pensiero, scuola teologica e di pensiero e, a un tempo, libero filone protestante risalente alla prima e alla seconda metà dell’Ottocento americano, pur nella diversità dell’impostazione corrispondente alle altrettanto diverse personalità dei suoi maestri (R. W. Emerson, Mary Baker Eddy, le sorelle Brooks e altri ancora), caratterizzato dall’idea di fondo della presenza di Dio nella vita umana e delle conseguenti, enormi, possibilità create da questa.
La consapevolezza della profonda unione tra Dio e la natura umana avviene sulla base dell’intuizione spirituale e viene vista come la fonte di una radicale trasformazioni dell’esistenza a livello di salute, rapporti, lavoro. Il principio del “libero esame” delle Scritture è inoltre tenuto in gran conto. Il regno di Dio è in noi, che siamo tutt’uno con il Padre, e un’enorme importanza è attribuita all’amore del prossimo e al perdono, mentre si sottolinea la necessità di ricambiare il male col bene. La guarigione attraverso la preghiera e la mente, ossia la guarigione spirituale, costituisce un cardine irrinunciabile, così come il costante perfezionamento, cioè l’evoluzione interiore che dimostra la natura in fondo divina dell’essere umano, è visto come lo scopo dell’esistenza.
Dio viene percepito come saggezza universale, amore incondizionato, vita eterna, verità e armonia assoluta, forza suprema, pace e gioia totale, pienezza. In lui noi viviamo, ci muoviamo e abbiamo il nostro essere. Proprio in considerazione dell’unità tra natura umana e natura divina, tutte queste caratteristiche sono potenzialmente messe a disposizione dell’uomo. Di conseguenza, una certa enfasi viene posta sul fatto che il regno di Dio comincia già qua e ora. La realtà è vista come causata dai nostri pensieri e viene attribuita importanza pure alla legge di causa ed effetto. La consapevolezza della vita eterna, e quindi della nostra natura di esseri spirituali che si trovano a vivere un’esperienza in questa dimensione terrena, costituisce un altro punto-chiave.
Un universo spirituale
Di qui la sdrammatizzazione della morte, vista come approdo a uno stato di coscienza più elevato. L’intero universo è visto come una creatura spirituale, governato da leggi parimenti spirituali, al di là di ogni apparenza. Vale la pena di ricordare che alcuni di questi principi, in particolare per quanto riguarda le potenzialità della mente umana e la natura dell’universo, i quali una volta potevano sembrare stravaganti assiomi, sono stati confermati da importanti ricerche scientifiche del secolo scorso. Basterà dire che la natura fondamentalmente spirituale dell’universo, nonché il conseguente carattere “inconsistente” della materia, sono stati constatati dalla fisica quantistica, mentre la psicologia da sempre ha superato ogni dubbio circa le straordinarie potenzialità della mente: molti studiosi sono convinti che, per lo più, gli esseri umani non utilizzano che il cinque o sei per cento di tali potenzialità.
Se le Chiese libere del primo tipo sono imparentate col luteranesimo, pur attualizzato e reinterpretato con la massima libertà, quelle del secondo piuttosto con la Christian Science (cf VP 7/2006, “Salute e guarigione” pp. 84-86). La divisione non è peraltro, a livello concreto, così rigida, non solo perché, proprio in quanto “libere”, al di là dei principi di fondo del cristianesimo stesso, non vi è molto spazio per irrigidimenti dottrinali, ma anche perché le une come le altre nascono dalla stessa esigenza di fondo. Ossia quella di vivere la fede cristiana come un’esperienza spirituale capace di trasformare profondamente l’esistenza. Non a caso la guarigione, che è tematica centrale per le seconde Chiese, è tenuta in gran conto anche presso quelle più vicine al protestantesimo tradizionale.
i quali le donne fanno la parte del leone -scrivono libri di successo, per lo più dedicati a tematiche spirituali, compaiono spesso in televisione, scrivono su giornali autorevoli, tengono conferenze gremite dal pubblico, riescono insomma in vario modo a riportare il cristianesimo al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica.Non meno interessante è poi notare il ruolo di grandi confidenti che essi assumono nei confronti dei fedeli, in un certo senso paragonabile a quello di cui godevano i nostri parroci nella cultura contadina e patriarcale, riuscendo a incarnare al tempo stesso la guida spirituale e il terapeuta, l’amico autorevole e il consulente professionale di fiducia. Non a caso, il libero protestantesimo cerca di conciliare, in linea di principio, l’attenzione alla dimensione sociale e professionale tipica della Riforma con la solidarietà caratteristica del cattolicesimo. Le Chiese libere più orientate verso il protestantesimo tradizionale dedicano largo spazio alle attività di volontariato, mentre quelle del secondo, pur non trascurando tale dimensione, dedicano maggiore attenzione alla formazione spirituale sul piano personale, sulla scia dell’insegnamento del New Thought che riconduce la guarigione, intesa nel senso più lato possibile, come superamento della sofferenza e scoperta della dimensione della gioia, alla valorizzazione delle facoltà da Dio donate all’uomo, prima fra tutte la preghiera.
La guarigione, d’altra parte, è vista non solo come soluzione del problema (di salute o di altro genere), bensì come scoperta della propria natura di origine divina - quindi orientata verso l’amore a Dio, a sé e al prossimo -, di cui la soluzione del problema è poi la logica conseguenza. Pur prive della risonanza istituzionale, le Chiese libere sono orientate in senso ecumenico e la stessa proposta di cristianesimo essenziale di cui esse si fanno portatrici viene recepita con interesse da molte comunità di più antica tradizione.
(da Vita Pastorale, 11, 2006)
Associazione mariologica interdisciplinare italiana
La vergine con i cristiani nel mondo attuale
di Alberto Valentini *
Con l’atto costitutivo dell’associazione nel 1990, si è realizzato il sogno degli studiosi e degli innamorati della Madre del Signore. L’obiettivo è di illuminare la figura della Vergine Maria nel contesto delle scienze teologiche e umane; nello stesso tempo si desidera incentivare sempre più il dialogo ecumenico, talvolta difficile.
L’idea di costituire anche in Italia un’associazione di studi mariologici, sull’esempio di quelle esistenti in altre nazioni, era stata presa in considerazione negli anni cinquanta del secolo scorso, ma per diversi motivi non si era realizzata.
Più di trent’anni dopo, il problema riemerse nell’ambito del Collegamento mariano nazionale: il 12.10.1988, nel corso di una verifica circa le attività svolte dal Collegamento, il direttore Alberto Valentini evidenziava la necessità di un’istituzione italiana di ricerca in campo mariologico.
Cenni storici
Il progetto di una nuova associazione scientifica appariva ambizioso e stimolante, ma comportava non poche difficoltà. Per prima cosa si trattava di sondare il terreno e preparare l’ambiente: con questo intento i monfortani Stefano De Fiores e Alberto Valentini iniziarono degli approcci presso alcuni centri universitari romani.
Incoraggiati dai risultati d itali incontri preliminari, si decise di convocare - con lettera firmata da Salvatore Meo (allora preside del Marianum), De Fiores e Valentini - circa trenta studiosi di teologia, uomini e donne, provenienti da vari centri universitari e istituzioni culturali d’Italia, per studiare insieme il progetto, le finalità e i compiti della nuova associazione.
Nel giro di alcuni mesi si ebbero tre incontri, rispettivamente il 21.12.1989, il 15.2 e il 5.4.1990, sempre a Roma, presso il Santuario di Maria Regina dei Cuori. Nella riunione del 5 aprile si pervenne alla costituzione dell’Ami, Associazione mariologica interdisciplinare italiana, sottoscritta da venticinque soci fondatori. L’atto legale, costitutivo dell’associazione, venne firmato davanti al notaio il 9.5.1990.Membri e finalità
Attualmente l’associazione (sede: via Cori, 18/A — 00177 Roma, telefono 06.83.39.63.02 [segretario Enrico Vidau], www.mariology.it, Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.) conta un centinaio di soci tra ordinari, onorari e sostenitori sparsi in tutta Italia. Tra di essi ci sono anche non italiani, per lo più residenti a Roma. Soci ordinari sono coloro che, in possesso di laurea o licenza in mariologia o in scienze teologiche, oppure di laurea in scienze umane, sono attivamente interessati alla ricerca mariologica. Soci onorari sono studiosi di riconosciuta competenza in campo mariologico o che abbiano acquisito particolari benemerenze nel promuovere le finalità dell’associazione. Soci sostenitori sono quanti in diversi modi cooperano alle attività e iniziative dell’Ami.
Dallo statuto dell’associazione emergono alcune note imprescindibili - come la scientificità e l’interdisciplinarità, l’apertura ecclesiale, il dialogo col mondo contemporaneo - che qualificano l’Ami, ne giustificano la ragion d’essere e ne precisano gli obiettivi. L’Associazione mariologica italiana intende inserirsi con umile, ma consapevole determinazione, nel contesto delle scienze teologiche e umane, per illuminare la figura della Vergine Maria all’interno dell’esperienza cristiana e nel cammino del popolo di Dio in mezzo al mondo.
L’associazione, che non ha fine di lucro, si prefigge i seguenti scopi:
1 promuovere la ricerca scientifica concernente la Vergine Maria Madre di Gesù, nel contesto della fede ecclesiale, con apertura alla dimensione ecumenica, in dialogo con le scienze teologiche e umane, e in collaborazione con analoghe associazioni a livello internazionale, specialmente europeo;
2 elaborare adeguati criteri teologici per illuminare la pietà mariana, prestando attenzione agli orientamenti pastorali della Chiesa italiana;
3 favorire lo studio della mariologia nei suoi vari aspetti, specie tra i giovani ricercatori e gli operatori di pastorale, con particolare riferimento alla tradizione italiana.
Per realizzare questi scopi, l’Ami ricorre alle seguenti iniziative:
• organizzare incontri, convegni, giornate di studio;
• pubblicare e diffondere libri e riviste a carattere mariologico;
• elaborare una banca dati riguardanti Maria, a servizio di tutti e in particolare degli studiosi;
• svolgere qualunque altra attività diretta a incentivare la ricerca mariologica e integrare gli ambiti suddetti.
Pubblicazioni
Organo ufficiale dell’associazione è la rivista scientifica semestrale Theotokos. Ricerche interdisciplinari di mariologia, sorta a Roma nel 1993. Dal 1993 al 2000 la rivista, in una serie di ampie monografie interdisciplinari, ha trattato “Maria secondo le Scritture”. Dal 2001 a oggi ha continuato con studi sistematici a studiare “Maria nei Padri e scrittori ecclesiastici dei primi secoli”.
Alla rivista Theotokos è stata affiancata la collana “Biblioteca di Theotokos”, che raccoglie contributi di valore circa gli aspetti più significativi e attuali della figura di Maria, seguendo i vari approcci delle scienze teologiche e umane. Essa raccoglie in particolare gli Atti di incontri svolti in Italia e dei colloqui internazionali di mariologia. Un’ulteriore serie di studi, “Nuovi percorsi di mariologia”, in linea con, gli obiettivi dell’Ami, intende promuovere il rinnovamento della ricerca mariologica, pubblicando gli Atti dei convegni nazionali dell’Ami. Infine l’Associazione mariologica italiana sta realizzando un arduo e affascinante progetto, con l’impegnativa edizione di Monumenta italica mariana. Studi e Testi. Con essa si intende sottrarre all’oblio opere e documenti della millenaria, ricchissima e variegata tradizione mariana presente in Italia.
Come si vede, sono tante le attività e i campi d’interesse dell’Ami: dalla Bibbia alla patristica, alla teologia, alla liturgia, alla catechesi, fino all’arte e alla bellezza estetica, ambiti nei quali la figura della Vergine è presente in maniera puntuale ed esemplare. Proprio alla dimensione della bellezza, alla via pulchritudinis in mariologia, l’Ami ha dedicato gli ultimi quattro convegni annuali, cercando di illuminare e valorizzare questo sentiero poco battuto, ma indubbiamente promettente e imprescindibile. Si tratta di un’indagine, in qualche misura pionieristica, al servizio della mariologia e della riflessione teologica, in sintonia con la ricca e molteplice sensibilità contemporanea.
* presidente Ami, professore di Nuovo Testamento all’Università gregoriana, Roma, e mariologia biblica al Marianum
(da Vita Pastorale, novembre 2006)
Bibliografia
L’Ami opera fondamentalmente su un duplice versante: la ricerca scientifica, mediante un approccio serio e critico alla mariologia, e il servizio alla fede e alla pietà del popolo di Dio. Di questo duplice orientamento sono espressione i volumi indicati, utili a diversi lettori e operatori di pastorale. Marraccii HiIippolyti, Biblioteca mariana. Trascrizione del testo originale edito in Roma nel 1648, Edizioni Ami 2005, Roma, pp. 1024; Langella A. (ed.), Via pulchritudinis e mariologia, Edizioni Ami 2003, Roma, pp. 304; Dall’Aglio W. - Vidau E. (edd.), La Madre di Dio per una cultura di pace, Edizioni monfortane 2001, Roma, pp. 222; Colasanti G. - Borzomati P. - Vidau E. (edd.), Maria e l’impegno sociale dei cristiani, Edizioni Ami 2003, Roma, pp. 240; Scalisi B. - Vidau E. (edd.), Maria e la cultura del nostro tempo a trent’anni dalla Marialis cultus, Edizioni Ami 2005, Roma 2005, pp.183.
La Bibbia giustifica la pena capitale?
di Gianfranco Ravasi
Ricordo che tempo fa uno dei lettori dei miei scritti sui giornali a cui collaboro mi aveva tempestato di lettere, convinto di avere una giustificazione per la condanna alla pena di morte a causa del fatto che essa appare a più riprese all’interno dell’Antico Testamento.
Preparai, dunque, una risposta che pubblicai su Famiglia Cristiana: naturalmente, essendo necessario un discorso articolato di taglio interpretativo, non mi fu possibile esaurire la questione sottesa a quelle pagine. A questo punto quel lettore cambiò registro e si orientò su un passo evangelico specifico, abbandonando quindi il terreno anticotestamentario e rivolgendosi un Nuovo Testa,mento che dovrebbe essere all’insegna della legge dell’amore.
Proprio per questo si riesce a comprendere che una corretta ermeneutica non vale solo per le Sacre Scritture ebraiche, ma anche per l’orizzonte cristiano che noi consideriamo sgombro da equivoci interpretativi: in realtà i rischi del letteralismo nella lettura della Bibbia possono essere in agguato in ogni pagina.
Il lettore, infatti, faceva riferimento a un detto (tecnicamente un lòghion) di Cristo che riflette lo stile orientale e che ha forti segni di autenticità storica. Egli sospettava che dietro la frase di Gesù: «Chi scandalizza uno di questi piccoli che credono sarebbe meglio per lui che gli passassero al collo una mola d’asino e lo buttassero in mare», presente nei vangeli di Marco (9,42), Matteo (18,6) e Luca (17,2), si celasse un invito ad applicare «la pena di morte anche per i non assassini».
In realtà, come da tempo si insegna, ogni linguaggio adotta alcuni canoni di comunicazione (i cosiddetti “generi letterari”) che richiedono di essere interpretati per cogliere ciò che essi realmente vogliono dire, così da evitare equivoci o fraintendimenti.
Ora è ben noto che Gesù - come tutta la Bibbia - usa un linguaggio simbolico legato alla cultura semitica del suo tempo: esso ha formule espressive, immagini, simboli differenti dai nostri e quindi da comprendere e interpretare.
Nel passo in questione egli sta parlando non tanto dei bambini (in greco paidìon) - a cui pure si fa riferimento nel contesto, assunti però come emblemi della fiducia pura e serena - ma dei “piccoli” (io greco mikròs), una categoria non anagrafica ma esistenziale. Infatti si dice esplicitamente: «I piccoli che credono». Di scena sono quasi certamente coloro che sono deboli nella fede, piccoli nel credere e che devono ancora crescere (non si tratta, dunque, della pur esecrabile e infame vergogna della pedofilia).
È facile che, con superficialità o cattiveria, un fratello che si sente più sicuro nella sua fede possa far cadere questi “piccoli”: si usa infatti la parola “scandalo”, che in greco letteralmente indica la pietra o la trappola che fa inciampare la selvaggina nella caccia. Anche san Paolo, scrivendo la prima lettera ai Corinzi (8,7-13) e la lettera ai Romani (14,1-15,4), affronta questo problema suggerendo carità e pazienza: «Accogliete fra di voi chi è debole nella fede, senza discuterne le esitazioni» (Rm 14,1). Cristo, contro coloro che invece mettono consapevolmente in crisi il fratello, “piccolo” nella fede, pronunzia una sorta di maledizione, esprimendola con un’immagine colorita e veemente desunta dal mondo in cui egli viveva e dalle sue consuetudini.
Si tratta del cosiddetto katapontismòs, ossia dell’esecuzione dei colpevoli per annegamento. Essa era praticata dai romani: l’imperatore Augusto aveva fatto annegare il precettore e i servi di suo figlio Gaio, stando almeno allo storico romano Svetonio; mentre un altro storico, l’ebreo Giuseppe Flavio (I secolo d.C.), menzionava il caso dei galilei ribelli che avevano annegato nel lago di Tiberiade alcuni sostenitori di Erode.
Gesù, che ha insegnato l’amore e il perdono dei nemici, non può certo suggerire una simile macabra esecuzione capitale o il suicidio. Egli, però, non si astiene dal denunciare il male e ricorre a quell’immagine per indicare la gravità della colpa di chi scandalizza il fratello dalla fede fragile. E’ un modo simbolico vigoroso, tipico del linguaggio orientale che ama le tinte forti e le passioni accese, per ricordare il severo giudizio divino su un atto considerato come grave.
L’idea di legare al collo la pesante macina con un foro destinata a contenere la barra che l’asino avrebbe fatto ruotare - un oggetto noto anche dai reperti archeologici - diventa così un segno della condanna grave che incombe sullo “scandalizzatore”. Anzi, come scrive un esegeta, Simon Légasse, «la terribile sorte dell’annegato con la mola al collo è poca cosa in confronto a ciò che attende nel giudizio ultimo dì Dio colui che h provocato lo scandalo».
(da Vita Pastorale, novembre 2006)
Giornata ecumenica del dialogo cristianoislamico
Un decalogo per il dialogo
di Brunetto Salvarani
Tre indicazioni - 2° ottobre 2006, ultimo venerdì di Ramadam 1427, quinta giornata ecumenica del dialogo cristianoislamico - per un unico giorno del calendario. Esemplari, per cogliere la lettura plurale con cui il processo di moltiplicazione di sguardi religiosi con cui, anche nel nostro paese, si legge la realtà: ma anche per evidenziare il bisogno di più dialogo (e non di meno dialogo, come strillano di regola le gazzette che contano) per affrontare con speranze di successo la sempre più difficile situazione in atto. Semmai. di un dialogo più qualificato, consapevole e popolare, su cui le chiese cristiane italiane - così come le comunità musulmane - investano e in cui credano, come l’unico linguaggio credibile per dire Dio nell’oggi della storia.
E’ una volta di più, la linea del Vaticano II con la dichiarazione Nostra aetate, della pedagogia dei gesti così cara a Giovanni Paolo II, della Charta oecumenica stilata nel 2001 a Strasburgo, ma anche delle prime dichiarazioni di Benedetto XVI, non appena eletto al soglio di Pietro lo scorso anno, e ancora alle comunità islamiche di Colonia, ai margini della Giornata mondiale della gioventù, la scorsa estate. Poi, venne Ratisbona, con i ben noti fraintendimenti più o meno cercati, su cui ormai è già stato detto tutto. In ogni caso, segnale vistoso della complessità estrema delle relazioni interreligiose, in una stagione di identità troppo spesso esibite, urlate e violente; nonché, una volta di più, cercando di volgere in positivo la cosa, occasione di purificazione per un colloquio (quello cristianoislamico, in particolare) che è ancora bambino e troppo influenzato dal surriscaldatissimo clima planetario.
La convivenza come “sfida”
In tale contesto, appare quasi miracoloso che l’esperienza della Giornata ecumenica del dialogo, nata all’indomani dell’11 settembre 2001 con un appello firmato da un gruppo qualificato di cristiane e cristiani di diverse confessioni e impostasi con la forza del passaparola, senza finanziamenti e senza amplificazioni mediatiche, sia giunta al termine del suo primo lustro in buona salute.(1) Tra le molte manifestazioni previste un po’ in tutta Italia, cito almeno quella di Roma, che si svolgerà presso la grande moschea e culminerà in una tavola rotonda dal titolo La sfida della convivenza e il dialogo tra le fedi. Vi parteciperanno Abdellah Redouane, segretario del Centro islamico culturale d’Italia, il vescovo Vincenzo Paglia, presidente della Commissione Cei per l’ecumenismo e il dialogo, la pastora Maria Bonafede, moderatore della Tavola valdese. mons. Piero Coda, presidente dei teologi italiani, Paolo Naso, direttore della rivista Confronti. e il ministro per la solidarietà sociale, On. Paolo Ferrero.
Se la Giornata ecumenica ha saputo attraversare indenne questi anni complicati e faticosi, e questi ultimi mesi addirittura affannati, densi di slogan beceri e di contrapposizioni frontali, è perché, in fondo, al dialogo non esiste alternativa. Il problema, piuttosto, riguarda, da un lato, la sua praticabilità, in un contesto di reiterate e penose strumentalizzazioni, di ascolto reciproco sostanzialmente nullo e di reciproche scomuniche quotidiane; e, dall’altro, i suoi contenuti, quelli di una parola che rischia il depotenziamento a causa del suo abuso e della sua banalizzazione.
Ecco allora che, opportunamente, il comitato organizzatore, di anno in anno allargatosi fino a comprendere molte riviste e associazioni oltre ai singoli che lanciarono il primo appello, propone stavolta, quale motto, Un decalogo per il dialogo, con l’obiettivo di riempire di contenuti concreti tale cammino, recuperando e facendo proprio il lavoro prezioso di un gruppetto di specialisti impegnati in prima persona, il sociologo Stefano Allievi, il linguista Paolo Branca, il giurista Silvio Ferrari e Mario Scialoja, presidente per l’Italia della Lega musulmana mondiale. (2)
La loro riflessione prende le mosse dalla constatazione secondo cui la presenza di musulmani nella nostra penisola ha ormai raggiunto una tale mossa critica da non consentire che il fenomeno sia gestito soltanto attraverso forme d’intervento estemporanee e improvvisate, com’è spesso stato finora. L’impegno di molti che si sono prodigati, da una parte e dall’altra, con numerose iniziative, conferma le potenzialità di un tessuto sociale vivo e attivo ma, proprio per non vanificare tali energie e al fine di evitare derive che hanno interessato di recente altri paesi europei, appare indispensabile che le istituzioni e i cittadini italiani e non, coinvolti a vario titolo nella questione, trovino modalità per riflettere e agire insieme all’interno di un progetto comune ispirato a principi chiari e condivisi.
La dimensione politica del dialogo
Per questo, mentre il nostro paese vive un decisivo momento di riformulazione degli equilibri politici e delle sue prospettive di riforma, il documento motiva il richiamo ad alcuni punti che sembrerebbero di cruciale rilevanza nel compito comune che ci troviamo ad affrontare. Va da sé che i musulmani condividono con immigrati di altra origine molte problematiche simili. Sarebbe pertanto indebito ritenere le considerazioni tracciate come pensate esclusivamente per loro, anche se il testo ne tratta in modo specifico: una buona legge sulla libertà religiosa, ad esempio, andrebbe incontro alle esigenze di tutte le comunità e non solamente di quella islamica.
La globalizzazione in atto, contrariamente a quanto ci si poteva ingenuamente aspettare, invece che ad un indebolimento delle identità (reali o immaginarie) sta conducendo piuttosto ad un loro irrigidimento che non sembra cogliere sufficientemente le potenzialità positive pur presenti nell’inedito incontro di uomini e culture che si sta producendo, bensì tende ad enfatizzare diffidenze e timori che inducono alla chiusura e alla contrapposizione.
I quattro si dicono consapevoli dei rischi insiti in un vacuo relativismo che potrebbe portarci a poco auspicabili confusioni e allo svilimento delle tradizioni culturali e religiose di ciascuno: ma il valore che attribuiamo alla nostra e altrui identità li spinge a ritenere necessaria una gestione coraggiosa e consapevole di questo processo di incontro e convivenza, l’unica in grado di portare a buoni risultati nell’interesse comune:
Per entrare più nel dettaglio, riprendiamo un paio di punti del decalogo, a partire dal primo, il più esteso e quello, per certi versi, maggiormente strategico, secondo il quale occorrerebbe incoraggiare la collaborazione con le istituzioni ad ogni livello per promuovere una reale partecipazione, dimostrando che le regole della democrazia tutelano e premiano i comportamenti migliori. A tale scopo sarebbe utile, in particolare, partire dal censimento e dalla valorizzazione delle molteplici esperienze in atto, anche al fine di contrastare una comunicazione basata su semplici opinioni, anziché su evidenze empiriche; e promuovere interventi formativi all’interno delle pubbliche amministrazioni (scuola, sanità, carcere, personale di polizia...) sulle tematiche relative al pluralismo culturale nelle aree di loro competenza, con un taglio che privilegi la concretezza delle situazioni su considerazioni di ordine astrattamente teologico, ideologico o politologico. Il confronto con esperienze internazionali che già affrontano da tempo temi e situazioni analoghe consentirebbe di valutarne gli esiti e di ispirarsi alle pratiche (legislative e operative) più efficaci.
Importante è altresì il punto sette in cui s’incoraggiano i mass media a dare spazio alle numerose esperienze di collaborazione e di condivisione tra persone di fede e di cultura diversa, evitando di diffondere e/o amplificare soltanto fatti e notizie che confermino mutui pregiudizi. Non si tratta evidentemente di occultare le problematicità, ma ancora una volta di partire dalla realtà che è più ricca delle sue rappresentazioni, mediante inchieste sul campo, lavoro di terreno empirico, informazione completa imparziale. Gli esempi delle ultime settimane, ancora una volta, esprimono la centralità di un simile assunto.
La novità più evidente riguarda la dimensione politica del dialogo che non può più restare confinato nelle spesso anguste formulazioni del religioso. Anzi. Questo è il messaggio di fondo, ineludibile: per lavorare nel dialogo con la prospettiva di un confronto sincero quanto fruttuoso, dovremo sempre più usare parole laiche e stili di comportamento laici. Laici e, beninteso, piaccia o no, politici.
Non è lo scontro tra bene e male
Va infatti sottolineato come, attualmente, il dialogo si riveli sovente più aspirazione che realtà: e sarà perciò, per ora, più onesto limitarsi a parlare di incontri interreligiosi, o, più in generale, di rapporti interreligiosi, o ancora, come fa la teologia più avvertita, di scambi o conversazioni tra religioni. Del resto, in più di un documento vaticano - fra cui la stessa Nostra aetate e l’enciclica Ecclesiam suam di Paolo VI - il termine dialogo traduce il latino colloquium, evocarne una versione maggiormente dimessa e quotidiana: è la dimensione dialogica che si manifesta nelle relazioni sociali tra credenti di differente appartenenza. Infatti, accade spesso, oggi, che la fondante dimensione dialogica sia quella personale, privata, concreta, come quella di fatto sperimentata da quanti hanno a che fare, direttamente e non superficialmente, con immigrati di religioni altre. ad
(da Settimana, 15 ottobre 2006)
La sincerità implica il concetto di reciprocità. Quando tra due o più persone si instaura un rapporto (affettivo, di amicizia, di lavoro, di assistenza), l’essere sinceri diventa un imperativo al quale non ci si può sottrarre...
La risurrezione di Cristo,
fonte di ogni nostra speranza
di Vladimir Zelinskij
Se Cristo non è risuscitato, allora è vana la vostra predicazione « ed è vana la vostra fede», dice san Paolo. Non lascia lo spazio al vago e passeggero “senso religioso” che dice che «Dio è nell’anima» e non importa, se ci sia, cosa faccia fuori. Sembra che l’apostolo voglia sottomettere l’impalpabile “tessuto” del credere alla logica aristotelica che esclude la terza via. Non è la logica a essere in gioco, però. Non si tratta di un evento esterno a noi, di un dogma imposto, di un articolo del Credo che siamo costretti a fare nostro.
Il messaggio di Paolo può essere letto diversamente: ogni esistenza umana porta dentro di sé il suo fuoco segreto, un nucleo nascosto che si chiama speranza. E’ la fede che dà alla speranza la gioia di crescere nella fiducia in Dio che, nato da uomo, morto da uomo, sia anche resuscitato da uomo. La fede nella risurrezione è il linguaggio della speranza inespugnabile e irriflessiva, messa in noi, che ci parla della vita del «mondo che verrà». Se Cristo non fosse risuscitato, ogni speranza sarebbe una fantasia, un inutile slancio d’animo, l’evidenza della decomposizione generale sarebbe più forte di quella voce pazza dentro di noi che grida, come Giobbe: «Dopo che questa mia pelle sarà distrutta, senza la mia carne vedrò Dio. Io lo vedrò, io stesso» (19,27).
La speranza dice che si può gridare senza paura, senza cercare le parole corrette e bilanciate perché la notizia della risurrezione porta la promessa folle in cui “io” trovo me stesso solo nell’incontro con il Risorto. La mia vera personalità si rivela solo nella sua rivelazione. Essa tocca me come grano di sabbia nella terra deserta che un giorno, secondo le Scritture, diventerà di nuovo il giardino dell’Eden, come ossa secche che si ricopriranno dalla carne viva nella profezia di Ezechiele.
La promessa s’accende con la Luce che illumina ogni uomo, con la Parola che entra e s’incarna nel nostro cuore, col Volto che ci guarda negli occhi. Quella promessa è la radice di ogni fede cristiana, ma anche il suo “segno di contraddizione”, perché la speranza può parlare con toni diversi. Nell’Ortodossia il suo modo di esprimersi è piuttosto paradossale: Dio è più vicino a noi di quanto lo siamo noi stessi, ma per raggiungerlo ci manca tutta la vita; il Regno è gratuito, è dato a tutti, ma - come dice Gesù nel Vangelo di Matteo - solo «i violenti se ne impadroniscono» (11,12); la promessa è eredità di ciascuno di noi, ma bisogna combattere per acquistarla nel proprio spirito.
L’attesa troppo sicura, quando la salvezza ti arriva come il premio per essere concepito, non è quella che non delude. Il vero messaggio della risurrezione inizia con la follia e la lotta per quella vita che ci fu promessa e che dobbiamo scoprire con «l’amore di Dio che è stato riversato nei nostri cuori».
Teologia africana
Incisività cercasi
di Bénézét Bujo
Studiare e insegnare teologia – come pure scrivere libri in materia – non è un lusso o un motivo di vanto, ma un ministero ecclesiale. Che va curato, rafforzato e apprezzato.
Teologia come ministero
«Vi sono diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diversità di operazioni, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune» (1 Cor 12, 4-7). In una comunità cristiana ci sono apostoli, profeti, maestri, operatori di miracoli, guaritori, leader…..: sono tutti indispensabili per un armonioso andamento delle cose.
ministero è di governare la chiesa locale. Per fare ciò, ha bisogno di collaboratori. Tra questi figura il teologo, che studia, indaga, analizza, elabora, propone, scrive….. La sua opera va offerta al vescovo, il quale è chiamato ad ascoltare, giudicare, decidere….. Più teologi un vescovo ha, meglio saprà condurre la chiesa locale.Temi teologici
Il ministero di teologo va oggi compiuto nel contesto africano del 21° secolo. Un contesto che ha molte dimensioni, tuttora profondamente permeate dalla cultura africana. E superficiale affermare che la mentalità tradizionale è stata spazzata via della modernità. Essa, invece, dà forma al modo di pensare, sentire e agire delle nostri genti. Basti pensare alla diffusa credenza nella stregoneria, all’importanza data ai riti di guarigione, alle diverse concezioni del matrimonio….. Il nostro compito di teologi è quello di ascoltare la nostra gente per scoprirne l”anima” africana.
L’attenzione non dovrà perdersi nell’esame di particolarismi etnici, ma concentrarsi sulla ricerca del vero centro dell’universo simbolico africano, che è comune a molti gruppi. Così, potremmo diventare sempre più consapevoli del modo in cui i vari popoli dell’Africa nera possono dare vita a un dialogo culturale. E’ mia convinzione che il dialogo tra le diverse culture africane risulterebbe più facile di quello tra esse e quelle non africane. Un esempio: invece di presentare all’africano Adamo come antenato, per poi presentare Cristo come “secondo Adamo”, è più sensato sviscerare il concetto africano di antenato per poi “inculturarvi” la fede in Cristo “Proto-antenato”.
Anche il dialogo ecumenico tra le varie denominazioni cristiane risulterebbe più fecondo, se fosse più radicato nella cultura africana. La venerazione degli antenati è un ottimo punto di partenza per una comprensione del mistero della comunione dei santi accettabile anche dai protestanti. E il ruolo riservato a Maria, in quanto Madre di Dio, sarebbe più comprensibile, se visto sullo sfondo dell’importanza attribuita alla madre, “sorgente di vita”, nelle culture africane.
Linguaggi teologici
Se vogliamo che la teologia fatta in Africa diventi veramente africana, dobbiamo cominciare a insegnarla e scriverla nelle nostre lingue, usando concetti e simbologie locali. Le accezioni africane di “padre”, “madre”, “fratello-sorella”, “figlio-figlia”….., non sono quelle occidentali. Quando noi parliamo di “famiglia”, intendiamo una realtà che difficilmente europei e nordamericani capirebbero. Un esempio: l’attuale codice di diritto canonico ammette matrimoni tra due persone imparentate (fino a un dato livello) che le culture africane considerano autentiche unioni incestuose.
Anche il linguaggio riguardante la povertà va rivisto. Per la mentalità africana, povera è soprattutto la persona che “non-è-con” l’altro o gli altri, priva, cioè, di relazioni. In molte lingue nostre non esiste il verbo “avere”, ma soltanto l’”essere con” (kuwa na, kuzala na, kü na…,dove na sta per “con”). Tutto ciò che ci circonda non è lì per essere da noi posseduto, ma per invitarci a creare sempre nuove relazioni. Il possesso individualistico è totalmente fuori posto.
Il linguaggio va ricreato anche a livello di liturgia, omiletica, preghiere... In tutto ciò, è indispensabile che i vari modi di espressione siano liberi di offrire i propri contributi. A questo fine, è auspicabile che nelle facoltà africane di teologia si creino dipartimenti di linguistica. Non possiamo più farne a meno, se vogliamo dare ascolto all’appello lanciatoci da Paolo VI nel lontano 1969, a Kampala: «Africani, voi potete e dovete avere un cristianesimo africano».
(da Nigrizia, febbraio 2006)
Alia mondo eblas
di Marcelo Barros
Significa “un altro mondo è possibile” in esperanto. Questa lingua ausiliaria internazionale si presenta come un fattore che può facilitare una comunicazione meno “mercantilizzata” e come fondamento di uguaglianza tra i popoli
Nel giugno scorso si è ricordato il 30° anniversario del massacro di Soweto. Nel 1976 studenti neri della nota township di Johannesburg scesero nelle strade per protestare contro l’apartheid. Quella manifestazione di migliaia di giovani fu dispersa dalle forze dell’ordine, intervenute con tale brutalità da causare uno dei più sanguinosi massacri di civili del secolo scorso. Quel dramma e quella vergogna del Sudafrica razzista sarebbero poi stati divulgati, con forza ed emozione, in tutto il mondo dal film Cry Freedom (“Grido di libertà” - 1987), di Richard Attemborough. Indimenticabile la straziante sequenza finale, che rievoca il massacro.
È importante notare che una delle principali ragioni che spinsero quegli studenti a invadere le vie della township fu l’imposizione dell’afrikaans come lingua obbligatoria nelle scuole. Gli oppressori - di ogni tempo e di ogni sorta - sanno bene che il miglior modo per garantirsi il controllo socio-economico di un paese è quello d’imporre la propria cultura e la propria lingua ai popoli soggiogati che lo abitano.
In questi mesi sono in programma molti incontri e seminari - a livello locale, nazionale e regionale - in vista del Forum sociale mondiale che si terrà in Kenya, nel gennaio 2007. Ebbene, in molti di questi colloqui e convegni appare la presenza di un gruppo di studio il cui scopo è quello di affrontare la sfida di una “lingua comune” che possa essere fattore d’integrazione dei popoli, e non d’imposizione di una cultura sull’altra.
Nel corso della storia, un popolo forte ha sempre imposto la sua lingua a quello più debole. Il greco, esportato da Alessandro Magno fino all’Estremo Oriente, portò alla nascita dell’ellenismo. Più tardi, durante l’era romana, il latino divenne la lingua parlata da coloro che non desideravano essere considerati barbari. Fino alla fine del 18° secolo, in Brasile si parlava la cosiddetta lingua geral (tupiguarani); poi il portoghese fu imposto come unica lingua consentita nel paese. La stessa cosa avvenne nell’America spagnola, dove l’imposizione della lingua europea portò alla sparizione di migliaia di lingue, impoverendo, così, il mondo intero. Una sorte più o meno uguale è toccata a popoli regionali europei: catalani, galiziani, baschi, fiamminghi, irlandesi…..
Gli “imperi” odierni non possono più impedire alle persone di parlare la propria lingua natia, ma non desistono dal voler imporre all’intera umanità l’inglese come lingua delle assemblee internazionali e delle comunicazioni.
L’esperanto è una lingua ausiliaria internazionale che venne sviluppata tra il 1872 ed il 1887 dall’oculista Ludwik Lejzer Zamenhof a Varsavia. Da subito, cerca di proporsi al mondo intero come lingua comune a tutti i popoli, senza appartenere a nessuno di essi. Agli inizi, l’iniziativa sembra più uno sfizio di alcuni gruppuscoli eccentrici.
Un secolo dopo, però, ed esattamente nel 1985, l’Unesco passa una risoluzione in cui si raccomanda a tutti gli stati membri di sostenere le commemorazioni centenarie della creazione di questo nuovo mezzo di comunicazione e di incentivarne l’apprendimento. Non si tratta di sostituire idiomi locali o nazionali. Al contrario, chi lotta per la giustizia e la pace mira a che ogni popolo torni a valorizzare la propria identità culturale e la propria lingua. Costatando però che in un mondo trasformato in “mercato globale” l’inglese si sta sempre più imponendo come fattore di “macdonaldizzazione” del pianeta, è urgente che la società civile, che mira a un ordine sociale più giusto, diventi sempre più consapevole della necessità di una lingua internazionale che parta dall’uguaglianza di tutti i popoli e sia accessibile e agli eruditi e alle persone appartenenti a culture ancora orali.
La struttura dell’esperanto lo fa collocare nel gruppo delle lingue indoeuropee (in quanto al lessico), ma la sua morfologia; prevalentemente agglutinante, lo porta ai margini di questo gruppo, avvicinandola a lingue come l’ungherese o il giapponese e lo rende veramente “universale”. Coloro che lo parlano sono sparsi in 120 paesi nel mondo, principalmente in Europa e Cina. Oggi i siti in Internet che s’interessano all’esperanto sono moltissimi.
Nell‘Agenda latino-americana 2006, l’esperantista cileno José Antonio Vergara scrive: «Nel processo di costituzione della società civile mondiale come soggetto della costituzione di un ordine planetario più giusto e solidale ed ecologicamente responsabile, l’esperanto si presenta come un fattore che può facilitare una comunicazione meno “mercantilizzata” e come fondamento di uguaglianza tra i popoli. Nei suoi 120 anni di vita, il movimento esperantista ha accumulato una ricca esperienza, facilitando contatti e interscambi culturali, senza soggiogare le persone che parlano altre lingue, in quanto è sempre stato particolarmente legato ai movimenti d’emancipazione, quali quello pacifista, e alle diverse correnti del movimento operaio».
(da Nigrizia, settembre 2006)