Oltre il deserto
di Guido Davanzo
La sofferenza è una dura prova della nostra maturità umana e cristiana, fa cadere le pretese sicurezze, mette in crisi le motivazioni ideali non adeguatamente approfondite e assimilate, stimola una revisione della nostra visuale di vita e sul nostro modo di capire e accettare Dio. Durante la sofferenza la persona è tentata a rinchiudersi nella propria paura, a vedere solamente la propria situazione; senza accorgersi può divenire troppo esigente, anche se rifiuta di chiedere aiuto perché non sa accettare i propri limiti; può divenire una persona insopportabile o infantilmente piagnucolosa; può cadere nella ribellione nevrotica che rifiuta di guardare in faccia alla realtà oppure atteggiarsi a vittima. La stessa religiosità può essere male interpretata e cadere in un dolorismo fatalistico. Accettare la volontà di Dio significa reagire con lui alle nostre e altrui debolezze e sofferenze e attuare una maggiore giustizia.
Più frequente è l’interrogativo sulla bontà e sapienza di Dio che permette le sofferenze anche più assurde. E’ la tematica del libro di Giobbe. I suoi amici richiamano il pensiero comune: Dio castiga i cattivi e premia i buoni, quindi se soffri sei colpevole. Giobbe condivide la stessa mentalità, ma è cosciente di non essere così colpevole e chiama in causa la giustizia di Dio. Il Signore accetta questo processo di fede, ma invita Giobbe a provare prima la sua pretesa competenza di giudicarlo: «Dov’eri tu quand’io ponevo le fondamenta della terra?» (Gb 38,4). La comprensione di fede parte da questa radicale umiltà di prendere atto della nostra piccolezza di fronte al mistero della vita e al mistero più grande di Dio.
Dobbiamo abbandonare la pretesa di ridurre Dio ai nostri schemi umani. Il Signore non ci rincorre per punirci o per premiarci subito. «Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano i vostri pensieri” (Is 55,9). Nella sconvolgente esperienza di una sofferenza umanamente assurda, Giobbe riesce a rivedere la propria fede, a capire meglio Dio: «Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono» (Gb 42,5): è la conclusione di un itinerario spirituale maturato nella sofferenza. Permane il mistero di questa esistenza umana, anzi lo accetta e si rimette nelle mani di Dio, sicuro che la sua presenza lo aiuterà nella prova e questa non sarà senza significato.
Non raramente la crisi provocata dalla sofferenza stimola una nuova visione di vita, una maturazione umana e una spiritualità che difficilmente si avrebbe raggiunto senza questo sofferto itinerario. E’ quanto si costata in modo particolarmente evidente nell’esperienza spirituale dei santi. Dobbiamo allenarci alla sofferenza come dobbiamo educarci a vivere, perché la vita implica sofferenza. Si tratta di un’educazione fatta di coraggio, costanza, capacità di rinviare e moderare i propri desideri, senso di realismo per accettare se stessi e gli altri con i nostri limiti, sbagli, con i nostri peccati. Un’educazione di vita che deve partire dai primi anni, reagendo ad ogni forma di egoismo.
La promozione umana e cristiana oscilla nel difficile equilibrio di non arrendersi di fronte alla difficoltà, di cercare di migliorare se stessi e la convivenza senza la pretesa di soluzioni utopistiche, accettando di collaborare ai tempi lunghi di Dio. L’ascetismo medievale che insisteva in forme di sofferenza fisica, provocate volontariamente, non va inteso come ricerca di dolorismo, ma come forma di allenamento. Oggi l’allenamento alla sofferenza preferiamo esercitarlo maturando in un equilibrio fondamentalmente sereno, pure nelle contraddizioni penose dell’esistenza, nella capacità di accettare noi stessi e gli altri e la convivenza nei reciproci limiti senza rinunciare al coraggio di un dialogo critico, di una rinnovata conversione e dimostrando la capacità di saper accogliere e apprezzare anche le piccole gioie dell’esistenza e soprattutto la disponibilità concreta all’incontro fraterno. E’ la “metànoia” evangelica, il «cambiamento intimo e radicale di tutto l’uomo» che costituisce il sofferente e redentivo itinerario penitenziale del cristiano (cfr. Costituzione apostolica Paenitemini).
La reazione cristiana alla sofferenza deve richiamarsi alla spiritualità dell’esodo. La vita è intesa come pellegrinaggio verso la città del Dio vivente, come un incessante esodo dallo stato di peccato e di egoismo, dalle nostre pretese sicurezze e dalla nostra ricerca di comodità per accettare le prove dell’esistenza, compresa talvolta l’amarezza, la solitudine, l’aridità del deserto. Lo spirito dell’esodo è spirito di distacco, è coraggio di rischio, è spirito di solidarietà umana, è fiducia in Dio che cammina con noi, senza pretese di risultati immediati perché lungo e misterioso è il cammino verso la terra promessa. L’esodo costituisce anche la grande speranza verso una liberazione e promozione umana, ma che si costruisce in comunione con Jhwh e con il suo popolo.
Questa mentalità dell’esodo si oppone ai messianismi esclusivamente terreni, si oppone al mito del facile benessere e dell’affermazione esibizionistica, all’idolatria della salute fisica e del potere, che purtroppo costituiscono i miraggi di una presunta promozione umana e si risolvono di fatto in nuove forme di sofferenza e di oppressione. Lo spirito dell’esodo si matura nel mistero pasquale di Cristo: la vita continua ad essere un passaggio dal peccato, dalla pretesa autosufficienza a una vita nuova in Cristo, dove risorgiamo alla libertà di una promozione umana che va oltre i condizionamenti terreni per aprirsi alla pienezza dell’altra vita.
Si accusano le religioni di aver addormentato la coscienza critica degli emarginati e dei sofferenti in genere con la rassegnazione alla volontà di Dio e con la speranza di compensazioni nell’altra vita. Sono denunce che difettano talvolta di un’analisi più serena e approfondita delle varie concause sociali, ma stimolano a una continuata revisione, conversione, per attuare con maggiore fedeltà evangelica e sensibilità sociale l’impegno di liberazione e promozione umana e cristiana. Accenniamo ad alcuni orientamenti che devono animare la testimonianza di fede-carità delle comunità cristiane. Si eviti ogni forma di paternalismo, di beneficenza: aiutare chi soffre è un dovere di giustizia sociale e di coerenza cristiana.
(riduzione dal “Dizionario di spiritualità”, Edizioni San Paolo)