Mondo Oggi

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Il documento di Ravenna
Commissione mista cattolici-ortodossi




Cattolici e ortodossi concordano sul fatto che «il vescovo di Roma è... il protos tra i patriarchi... La conciliarità a livello universale, esercitata nei concili ecumenici, implica un ruolo attivo del vescovo di Roma, quale protos tra i vescovi delle sedi maggiori, nel consenso dell'assemblea dei vescovi». Queste affermazioni costituiscono «un positivo e significativo progresso» nel dialogo tra cattolici e ortodossi portato avanti dalla Commissione mista internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica romana e la Chiesa ortodossa nel suo insieme, che riunitasi a Ravenna dall'8 al 14 ottobre 2007 per la sua X Sessione plenaria ha approvato il documento intitolato Le conseguenze ecclesiologiche e canoniche della natura sacramentale della Chiesa. Comunione ecclesiale, conciliarità e autorità («Documento di Ravenna»).

Pubblichiamo qui di seguito la traduzione italiana del Documento di Ravenna discusso e approvato all'unanimità dai membri della Commissione mista internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica romana e la Chiesa ortodossa durante la X sessione plenaria della Commissione a Ravenna, 8-14.10.2007.

Il documento è pertanto emanazione di una Commissione e non deve intendersi come una dichiarazione magisteriale. Il progetto base e la stesura finale del documento sono in lingua inglese. La traduzione italiana è stata curata dal Pontificio consiglio per la promozione dell'unità dei cristiani. Cf. Regno-att. 20,2007,664ss.

Introduzione

1. «Perché tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi in noi una cosa sola perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv17,21). Rendiamo grazie al Dio trino che ci ha riuniti - noi, i membri della Commissione mista per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica romana e la Chiesa ortodossa nel suo insieme - affinché possiamo rispondere insieme in obbedienza a questa preghiera di Gesù. Siamo consapevoli che il nostro dialogo prende un nuovo avvio in un mondo che nei tempi recenti è profondamente cambiato. Il processo di secolarizzazione e di globalizzazione, come anche le sfide poste da nuovi incontri tra i cristiani e i credenti di altre religioni, richiedono con rinnovata urgenza ai discepoli di Cristo di dare testimonianza della loro fede, del loro amore e della loro speranza. Possa lo Spirito di Cristo risorto consentire al nostro cuore e alla nostra mente di recare i frutti dell'unità nelle relazioni tra le nostre Chiese, affinché possiamo servire insieme l'unità e la pace di tutta la famiglia umana. Possa lo stesso Spirito condurci alla piena espressione del mistero della comunione ecclesiale, che noi riconosciamo con gratitudine come un dono meraviglioso di Dio al mondo, un mistero la cui bellezza rifulge specialmente nella santità alla quale siamo tutti chiamati.

2. Secondo il «Piano» adottato nel primo incontro di Rodi nel 1980, la Commissione mista aveva iniziato a trattare il mistero della koinonia ecclesiale alla luce del mistero della santa Trinità e dell'eucaristia. Ciò aveva permesso di comprendere più profondamente la comunione ecclesiale, sia a livello della comunità locale radunata attorno al suo vescovo, che a livello delle relazioni tra i vescovi e tra le Chiese locali sulle quali ciascun [vescovo] presiede in comunione con la Chiesa una di Dio che si estende attraverso l'universo (cf. Documento di Monaco, 1982). Nell'intento di chiarire la natura della comunione, la Commissione mista aveva sottolineato la relazione esistente tra fede, sacramenti - con speciale riguardo ai tre sacramenti dell'iniziazione cristiana - e l'unità della Chiesa (cf. Documento di Bari, 1987). Successivamente, studiando il sacramento dell'ordine nella struttura sacramentale della Chiesa, la Commissione aveva indicato chiaramente il ruolo della successione apostolica quale garante della koinonia di tutta la Chiesa, e la sua continuità con gli apostoli, in ogni tempo e in ogni luogo (cf. Documento di Valamo, 1988). Dal 1990 al 2000, il principale argomento discusso dalla Commissione è stato «l'uniatismo» (Documento di Balamand, 1993; Documento di Baltimora, 2000), argomento che la Commissione mista considererà ulteriormente in un prossimo futuro. Essa affronta attualmente il tema sollevato nella conclusione del Documento di Valamo, e riflette sulla comunione ecclesiale, la conciliarità e l'autorità.

3. Sulla base di tali affermazioni comuni della nostra fede, dobbiamo trarre ora le conseguenze ecclesiologiche e canoniche derivanti dalla natura sacramentale della Chiesa. Poiché l'eucaristia, alla luce del mistero trinitario, costituisce il criterio della vita ecclesiale nella sua interezza, in che modo le strutture istituzionali riflettono visibilmente il mistero di questa koinonia? Poiché la Chiesa una e santa è realizzata in ciascuna Chiesa locale che celebra l'eucaristia e, allo stesso tempo, nella koinonia di tutte le Chiese, in che modo la vita delle Chiese manifesta tale struttura sacramentale?

4. Unità e molteplicità, la relazione tra la Chiesa una e le molte Chiese locali, tale relazione costitutiva della Chiesa pone anch'essa la questione della relazione tra l'autorità, inerente a ogni istituzione ecclesiale, e la conciliarità, che deriva dal mistero della Chiesa come comunione. Poiché i termini «autorità» e «conciliarità» abbracciano uno spazio molto vasto, inizieremo con il definire il modo secondo il quale noi li comprendiamo.1

I. I fondamenti della conciliarità e dell'autorità

1. Conciliarità

5. Il termine conciliarità o sinodalità deriva dalla parola «concilio» (synodos in greco, concilium in latino), che denota soprattutto un raduno di vescovi che esercitano una particolare responsabilità. Tuttavia è anche possibile comprendere il termine in un'accezione più ampia, nel senso di tutti i membri della Chiesa (cf. il vocabolo russo sobornost). Di conseguenza parleremo dapprima di «conciliarità» nel suo significato secondo il quale ciascun membro del corpo di Cristo, in virtù del battesimo, ha il suo spazio e la sua propria responsabilità nella koinonia (communio in latino) eucaristica. La conciliarità riflette il mistero trinitario e ha il suo fondamento ultimo in tale mistero. Le tre persone della santa Trinità sono «enumerate», come afferma san Basilio il Grande (Sullo Spirito Santo, 45), senza che la designazione come «seconda» o «terza» persona implichi una diminuzione o una subordinazione. Analogamente esiste anche un ordine tra le Chiese locali, che tuttavia non implica disuguaglianza nella loro natura ecclesiale.

6. L'eucaristia manifesta la koinonia trinitaria attualizzata nei fedeli come un'unità organica di molteplici membri, ciascuno dei quali ha un carisma, un servizio o un ministero proprio, i quali sono necessari, nella loro varietà e nella loro diversità, all'edificazione di tutti nell'unico corpo ecclesiale di Cristo (cf. 1Cor 12,4-30). Tutti sono chiamati, sono impegnati e sono resi responsabili - ciascuno in modo diverso, ma tuttavia non meno effettivo - nel comune compimento delle azioni che, per mezzo dello Spirito Santo, rendono presente nella Chiesa il ministero di Cristo, «via, verità e vita» (Gv 14,6). Così è realizzato nel genere umano il mistero della koinonia salvifica con la santa Trinità.

7. L'intera comunità e ciascuna persona che ne fa parte ha la «consapevolezza della Chiesa» (ekklesiastike syneidesis), come essa è definita dalla teologia greca, ovvero il sensus fidelium secondo la terminologia latina. In virtù del battesimo e della cresima (o crismazione), ciascun membro della Chiesa esercita una forma di autorità nel corpo di Cristo. In questo senso, tutti i fedeli (e non soltanto i vescovi) sono responsabili per la fede professata all'atto del loro battesimo. Secondo l'insegnamento che dispensiamo in comune, l'insieme del popolo di Dio, avendo ricevuto «l'unzione dal Santo» (1Gv 2,20.27), in comunione con i loro pastori, non può errare in materia di fede (cf. Gv 16,13).

8. Nel proclamare la fede della Chiesa e nel chiarire le norme del comportamento cristiano, i vescovi, per istituzione divina, hanno un compito specifico. «Quali successori degli apostoli, i vescovi sono responsabili della comunione nella fede apostolica e della fedeltà alle esigenze di una vita secondo l'Evangelo» (Documento di Valamo, n. 40; EO 3/1851).

9. I concili costituiscono il principale modo di esercizio della comunione tra i vescovi (cf. Documento di Valamo, n. 52). In effetti, «il raccordo alla comunione apostolica collega l'insieme dei vescovi che assicurano l'episkope delle Chiese locali al collegio degli apostoli. Anch'essi formano un collegio radicato dallo Spirito Santo nell'"una volta per sempre" del gruppo apostolico, testimone unico della fede. Questo significa non solo che devono essere uniti tra loro nella fede, nella carità, nella missione, nella riconciliazione, ma anche che comunicano nella stessa responsabilità e nello stesso servizio alla Chiesa» (Documento di Monaco, III, 4; EO 1/2197).

10. Tale dimensione conciliare della vita della Chiesa appartiene alla sua natura più profonda. Ciò equivale a dire che essa è fondata sulla volontà di Cristo per i suoi seguaci (cf. Mt 18,15-20), sebbene le sue realizzazioni canoniche siano necessariamente determinate anche dalla storia e dal contesto sociale, politico e culturale. Definita in questo modo, la dimensione conciliare della Chiesa dev'essere presente nei tre livelli della comunione ecclesiale, locale, regionale e universale: a livello locale della diocesi affidata al vescovo; a livello regionale di un insieme di Chiese locali con i loro vescovi che «riconoscono colui che è il primo tra loro» (Canoni degli apostoli, n. 34); e a livello universale, coloro che sono i primi (protoi) nelle varie regioni, insieme con tutti i vescovi, collaborano per ciò che riguarda la totalità della Chiesa. Inoltre a questo livello i protoi debbono riconoscere chi è il primo tra di loro.

11. La Chiesa esiste in molti luoghi diversi, ciò che manifesta la sua cattolicità. Essendo «cattolica», essa è un organismo vivente, il corpo di Cristo. Ciascuna Chiesa locale, se essa è in comunione con le altre Chiese locali, è una manifestazione della Chiesa di Dio, una e indivisibile. Essere «cattolica» significa pertanto essere in comunione con l'unica Chiesa di tutti i tempi e in ogni luogo. Per questo motivo rompere la comunione eucaristica significa ferire una delle caratteristiche essenziali della Chiesa, la sua cattolicità.

2. Autorità

12. Quando parliamo di autorità, ci riferiamo all'exousia, così come il Nuovo Testamento la descrive. L'autorità della Chiesa deriva dal suo capo e Signore, Gesù Cristo. Avendo ricevuto la sua autorità da Dio Padre, Cristo, dopo la sua risurrezione, l'ha condivisa, per mezzo dello Spirito Santo, con gli apostoli (cf. Gv 20,22). Attraverso di loro essa è stata trasmessa ai vescovi, ai loro successori e, attraverso di loro a tutta la Chiesa. Nostro Signore Gesù Cristo ha esercitato questa autorità in vari modi attraverso i quali, e fino al suo compimento escatologico (cf. 1Cor 15,24-28), il regno di Dio si manifesta al mondo: ammaestrando (cf. Mt 5,2, Lc 5,3); compiendo miracoli (cf. Mc 1,30-34; Mt 14,35-36); scacciando gli spiriti impuri (cf. Mc 1,27; Lc 4,35-36); rimettendo i peccati (cf. Mc 2,10; Lc 5,24); e guidando i suoi discepoli sulla via della salvezza (cf. Mt 16,24). In conformità al mandato ricevuto da Cristo (cf. Mt 28,18-20), l'esercizio dell'autorità propria agli apostoli e successivamente ai vescovi comprende la proclamazione e l'insegnamento del Vangelo, la santificazione attraverso i sacramenti, in particolare l'eucaristia, e la guida pastorale di coloro che credono (cf. Lc 10,16).

13. L'autorità nella Chiesa appartiene a Gesù Cristo stesso, l'unico capo della Chiesa (cf. Ef 1,22; 5,23). Per mezzo del suo Spirito Santo, la Chiesa, in quanto suo corpo, partecipa alla sua autorità (cf. Gv 20,22-23). Scopo dell'autorità nella Chiesa è radunare tutta l'umanità in Gesù Cristo (cf. Ef 1,10; Gv 11,52). L'autorità, connessa alla grazia ricevuta nell'ordinazione, non è possesso privato di coloro che la ricevono né è un qualcosa che la comunità dà in delega; al contrario, è un dono dello Spirito Santo destinato al servizio (diakonia) della comunità e mai esercitato al di fuori di essa. Il suo esercizio comporta la partecipazione di tutta la comunità, essendo il vescovo nella Chiesa e la Chiesa nel vescovo (cf. Cipriano, Ep. 66, 8).

14. L'esercizio dell'autorità compiuto nella Chiesa, in nome di Cristo e per mezzo della potenza dello Spirito Santo, deve essere - in ogni sua forma e a tutti i livelli - un servizio (diakonia) d'amore, al pari di quello che fu di Cristo (cf. Mc10,45; Gv 13,1-16). L'autorità di cui parliamo, in quanto esprime l'autorità divina, può sussistere nella Chiesa soltanto nell'amore tra colui che la esercita e coloro che sono soggetti a essa. Pertanto si tratta di un'autorità senza dominazione, senza coercizione sia essa fisica o morale. In quanto partecipazione all'exousia del Signore crocifisso ed esaltato, al quale è stata data ogni autorità in cielo e sulla terra (cf. Mt 28,18), essa può e deve esigere obbedienza. Allo stesso tempo, a causa dell'incarnazione e della croce, essa è radicalmente diversa da quella esercitata dai capi delle nazioni e dai grandi di questo mondo (cf. Lc 22,25-27). Sebbene sia fuori dubbio che l'autorità è affidata a persone, le quali - a causa della debolezza e del peccato - sono spesso tentate di abusarne, non di meno per sua natura stessa l'identificazione evangelica dell'autorità con il servizio costituisce una norma fondamentale per la Chiesa. Per i cristiani, governare equivale a servire. Ne consegue che l'esercizio e l'efficacia spirituale dell'autorità ecclesiale sono assicurati attraverso il libero consenso e la collaborazione volontaria. A un livello personale ciò si traduce nell'obbedienza all'autorità della Chiesa per seguire Cristo, il quale è stato amorevolmente ubbidiente al Padre fino alla morte e alla morte di croce (cf. Fil 2,8).

15. L'autorità nella Chiesa si fonda sulla parola di Dio, che è presente e viva nella comunità dei discepoli. La Scrittura è la parola di Dio rivelata, così come la Chiesa - per mezzo dello Spirito Santo presente e attivo in essa - l'ha percepita nella Tradizione vivente ricevuta dagli apostoli. Il fulcro di questa Tradizione è l'eucaristia (cf. 1Cor 10,16-17; 11,23-26). L'autorità della Scrittura deriva dal fatto che è la parola di Dio che, letta nella Chiesa e dalla Chiesa, trasmette il Vangelo di salvezza. Attraverso la Scrittura, Cristo si rivolge alla comunità radunata e al cuore di ciascun credente. La Chiesa, attraverso lo Spirito Santo presente in lei, interpreta autenticamente la Scrittura, rispondendo ai bisogni dei tempi e dei luoghi. La consuetudine costante nei concili d'intronizzare i Vangeli al centro dell'assemblea attesta la presenza di Cristo nella sua Parola, la quale costituisce il necessario punto di riferimento per tutti i loro dibattiti e decisioni, e afferma nel contempo l'autorità esercitata dalla Chiesa nell'interpretare tale parola di Dio.

16. Nella sua divina economia, Dio vuole che la sua Chiesa abbia una struttura orientata alla salvezza. A tale essenziale struttura appartengono la fede professata e i sacramenti celebrati nella successione apostolica. L'autorità nella comunione ecclesiale è legata a questa struttura essenziale: il suo esercizio è regolato dai canoni e dagli statuti della Chiesa. Alcune di queste regole possono essere differentemente applicate, secondo i bisogni della comunione ecclesiale, in tempi e luoghi diversi, a patto però che la struttura essenziale della Chiesa sia sempre rispettata. Pertanto, come la comunione nei sacramenti presuppone la comunione nella stessa fede (cf. Documento di Bari, nn. 29-33), allo stesso modo, perché vi sia la piena comunione ecclesiale, dev'esserci, tra le nostre Chiese, il reciproco riconoscimento delle legislazioni canoniche nelle loro legittime diversità.

II. La triplice attualizzazione della conciliarità e dell'autorità

17. Avendo evidenziato i fondamenti sui quali poggiano la conciliarità e l'autorità nella Chiesa, e dopo aver rilevato la complessità del contenuto di tali termini, dobbiamo ora rispondere alle seguenti domande: in che modo gli elementi istituzionali della Chiesa esprimono visibilmente e sono a servizio del mistero della koinonia? In che modo le strutture canoniche della Chiesa esprimono la loro vita sacramentale? Per rispondere abbiamo distinto tre livelli delle istituzioni ecclesiali: il livello della Chiesa locale attorno al suo vescovo; il livello di una regione che comprende un certo numero di Chiese locali limitrofe; e il livello dell'intera terra abitata (oikoumene), che abbraccia tutte le Chiese locali.

1. Il livello locale

18. La Chiesa di Dio esiste laddove vi è una comunità radunata dall'eucaristia, presieduta, direttamente o attraverso i suoi presbiteri, da un vescovo legittimamente ordinato nella successione apostolica, il quale insegna la fede ricevuta dagli apostoli, in comunione con gli altri vescovi e con le loro Chiese. Il frutto di questa eucaristia e di questo ministero consiste nel radunare in un'autentica comunione di fede, di preghiera, di missione, di amore fraterno e di reciproco aiuto tutti coloro che hanno ricevuto lo Spirito di Cristo nel battesimo. Tale comunione è il quadro entro il quale è esercitata tutta l'autorità ecclesiale. La comunione è il criterio di tale esercizio.

19. Ciascuna Chiesa locale ha per missione di essere, per grazia di Dio, un luogo dove Dio è servito e onorato, dove è annunciato il Vangelo, sono celebrati i sacramenti, un luogo dove il fedele si adopera ad alleviare le miserie del mondo, e dove ogni credente può trovare la salvezza. Essa è la luce del mondo (cf. Mt 5,14-16), il lievito (cf. Mt 13,33), la comunità sacerdotale di Dio (cf. 1Pt 2,5.9). Le norme canoniche che la governano hanno lo scopo di garantire tale missione.

20. In virtù dello stesso battesimo, che fa di loro le membra di Cristo, ciascuna persona battezzata è chiamata, secondo i doni dell'unico Spirito Santo, al servizio nella comunità (cf. 1Cor 12,4-27). Pertanto, attraverso la comunione, che pone tutti i membri a servizio gli uni degli altri, la Chiesa locale appare già «sinodale» o «conciliare» nella sua struttura. Questa «sinodalità» non risulta soltanto nella relazione di solidarietà, nell'assistenza reciproca e nella complementarità, che i vari ministri ordinati hanno tra di loro. Senza dubbio il presbiterio è il consiglio del vescovo (cf. sant'Ignazio d'Antiochia, Ai Tralliani, 3), e il diacono è la sua «mano destra» (Didascalia apostolorum, 2, 28, 6), in modo che, secondo la raccomandazione di sant'Ignazio d'Antiochia, ogni cosa si faccia di concerto (cf. Ef. 6). La sinodalità, tuttavia, come esige la comunione ecclesiale, riguarda anche tutti i membri della comunità nell'obbedienza al vescovo, il quale è il protos e il capo (kephale) della Chiesa locale. Conformemente alle tradizioni orientale e occidentale, la partecipazione attiva del laicato, uomini e donne, degli appartenenti a comunità monastiche e delle persone consacrate si attua nella diocesi e nella parrocchia attraverso svariate forme di servizio e di missione.

21. I carismi dei membri della comunità hanno origine nell'unico Spirito Santo, e sono orientati al bene di tutti. Questo fatto mette in luce sia le esigenze sia i limiti dell'autorità di ciascuno nella Chiesa. Non dovrebbero esistere né passività né sostituzione di funzioni, né negligenza né sopraffazione dell'uno sull'altro. Tutti i carismi e i ministeri della Chiesa convergono nell'unità sotto il ministero del vescovo, il quale serve la comunione della Chiesa locale. Tutti sono chiamati dallo Spirito Santo a rinnovarsi nei sacramenti e a rispondere in una costante conversione (metanoia), di modo che sia garantita la loro comunione nella verità e nella carità.

2. Il livello regionale

22. Poiché la Chiesa rivela la sua cattolicità nella synaxis della Chiesa locale, tale cattolicità deve effettivamente manifestarsi in comunione con le altre Chiese che professano la stessa fede apostolica e condividono la stessa struttura ecclesiale fondamentale, a cominciare da quelle che sono vicine tra loro in virtù della loro comune responsabilità per la missione nella regione di cui fanno parte (cf. Documento di Monaco, III, 3 e Documento di Valamo, nn. 52 e 53). La comunione tra le Chiese è espressa nell'ordinazione dei vescovi. Tale ordinazione è conferita secondo l'ordine canonico da tre o più vescovi, e almeno da due (cf. Concilio di Nicea, canone 4), i quali agiscono in nome del corpo episcopale e del popolo di Dio, avendo essi stessi ricevuto il loro ministero dallo Spirito Santo per il tramite dell'imposizione delle mani nella successione apostolica. Quando ciò è compiuto in conformità ai canoni, è garantita la comunione tra le Chiese nella retta fede, nei sacramenti e nella vita ecclesiale, così come è garantita la comunione vivente con le generazioni precedenti.

23. Una tale comunione effettiva tra Chiese locali, ciascuna delle quali è la Chiesa cattolica in un determinato luogo, è stata espressa da alcune pratiche: la partecipazione dei vescovi delle sedi limitrofe all'ordinazione di un vescovo per la Chiesa locale; l'invito rivolto a un determinato vescovo di un'altra Chiesa a concelebrare nella synaxis della Chiesa locale; l'accoglienza estesa a fedeli di tali Chiese a condividere la mensa eucaristica; lo scambio di lettere in occasione di un'ordinazione; nonché l'offerta di assistenza materiale.

24. Un canone accettato in Oriente e in Occidente esprime la relazione tra le Chiese locali in una determinata regione: «I vescovi di ciascuna nazione (ethnos) debbono riconoscere colui che è il primo (protos) tra di loro, e considerarlo il loro capo (kephale), e non fare nulla di importante senza il suo consenso (gnome); ciascun vescovo può soltanto fare ciò che riguarda la sua diocesi (paroikia) e i territori che dipendono da essa. Ma il primo (protos) non può fare nulla senza il consenso di tutti. Poiché in questo modo la concordia (homonoia) prevarrà, e Dio sarà lodato per mezzo del Signore nello Spirito Santo» (Canoni degli apostoli, n. 34).

25. Tale norma, che riaffiora in svariate forme nella tradizione canonica, si applica a tutte le relazioni tra i vescovi di una regione, sia quelli di una provincia, che i vescovi di una metropolia, o di un patriarcato. La sua pratica applicazione può rilevarsi nei sinodi o concili di una provincia, regione o patriarcato. Il fatto che un sinodo regionale sia sempre composto essenzialmente di vescovi, anche quando esso comprende altri membri della Chiesa, rivela la natura dell'autorità sinodale. Soltanto i vescovi hanno voce deliberativa. L'autorità di un sinodo si basa sulla natura del ministero episcopale stesso, e manifesta la natura collegiale dell'episcopato a servizio della comunione delle Chiese.

26. Un sinodo (o concilio) implica in sé la partecipazione di tutti i vescovi di una regione. Esso è governato dal principio del consenso e della concordia (homonoia), che è espressa dalla concelebrazione eucaristica, così come si evince dalla dossologia finale del citato canone apostolico 34. Resta comunque il fatto che ciascun vescovo, nell'esercizio della cura pastorale, è giudice e responsabile davanti a Dio per le questioni che riguardano la sua propria diocesi (cf. Cipriano, Ep. 55, 21); pertanto egli è il custode della cattolicità della sua Chiesa locale, e deve sempre attentamente adoperarsi a promuovere la comunione cattolica con le altre Chiese.

27. Ne deriva che un sinodo o un concilio regionale non hanno autorità alcuna su altre regioni ecclesiastiche. Non di meno lo scambio d'informazioni e le consultazioni tra rappresentanti di diversi sinodi sono una manifestazione della cattolicità, come anche di quella fraterna e reciproca assistenza e carità che debbono costituire la regola tra tutte le Chiese locali a maggiore vantaggio di tutte. Ogni vescovo è responsabile dell'intera Chiesa assieme a tutti i suoi colleghi nella stessa e unica missione apostolica.

28. In questo modo alcune province ecclesiastiche sono pervenute a rafforzare i loro legami di responsabilità comune. Ciò costituisce uno dei fattori che, nella storia delle nostre Chiese, hanno condotto alla costituzione dei patriarcati. I sinodi patriarcali sono governati dagli stessi principi ecclesiologici e dalle stesse norme canoniche dei sinodi provinciali.

29. Nei secoli successivi, sia in Oriente che in Occidente si sono sviluppate alcune nuove configurazioni della comunione tra Chiese locali. Nuovi patriarcati e Chiese autocefale sono stati istituiti nell'Oriente cristiano, e recentemente nella Chiesa latina è emerso un tipo particolare di raggruppamento dei vescovi, le conferenze episcopali. Queste ultime, da un punto di vista ecclesiologico, non sono mere suddivisioni amministrative: esse esprimono lo spirito di comunione nella Chiesa, rispettando allo stesso tempo la diversità delle culture umane.

30. In effetti, indipendentemente dal profilo e dalle regole canoniche della sinodalità regionale, quest'ultima dimostra che la Chiesa di Dio non è una comunione di persone o di Chiese locali estirpate dalle loro radici umane. In quanto comunità di salvezza e poiché questa salvezza è «la restaurazione della creazione» (cf. Ireneo, Adv. Haer. 1, 36, I), essa ingloba la persona umana in ogni cosa che la lega all'umana realtà così come essa è stata creata da Dio. La Chiesa non è una congerie di individui; è fatta di comunità con culture, storie e strutture sociali diverse tra loro.

31. Nelle Chiese locali raggruppate tra loro a livello regionale, la cattolicità appare sotto la sua vera luce. Essa è espressione della presenza della salvezza non in un universo indifferenziato, ma in un'umanità che Dio ha creato e che egli viene a salvare. Nel mistero della salvezza, la natura umana è assunta nella sua pienezza e, allo stesso tempo, è guarita da ciò che il peccato ha introdotto in essa con l'autosufficienza, l'orgoglio, l'incapacità di aver fiducia negli altri, l'aggressività, la gelosia, l'invidia, la falsità e l'odio. La koinonia ecclesiale è il dono per mezzo del quale tutta l'umanità è radunata insieme, nello Spirito del Signore risorto. Questa unità, creata dallo Spirito, lungi dallo scadere nell'uniformità, esige e dunque preserva - e in una certa maniera, accresce - la diversità e la particolarità.

3. Il livello universale

32. Ciascuna Chiesa locale non è soltanto in comunione con le Chiese vicine, ma anche con la totalità delle Chiese locali, con quelle attualmente presenti nel mondo, quelle che esistevano sin dall'inizio, quelle che esisteranno in futuro, e con la Chiesa già nella gloria. In conformità con la volontà di Cristo, la Chiesa è una e indivisibile, è la stessa, sempre e in ogni luogo. Cattolici e ortodossi confessano entrambi, nel Credo di Nicea-Costantinopoli, che la Chiesa è una e cattolica. La sua cattolicità abbraccia non soltanto la diversità delle comunità umane, ma anche la loro fondamentale unità.

33. Di conseguenza, è chiaro che una sola e unica fede dev'essere confessata e vissuta in tutte le Chiese locali, ovunque dev'essere celebrata la stessa e unica eucaristia, e un solo e unico ministero apostolico dev'essere all'opera in tutte le comunità. Una Chiesa locale non può modificare il Credo formulato dai concili ecumenici, sebbene essa debba sempre dare «a nuovi problemi (...) risposte appropriate, fondate sulla Scrittura, in armonia e continuità essenziali con i precedenti enunciati dei dogmi» (Documento di Bari, n. 29; EO 3/1790). Allo stesso modo una Chiesa locale non può modificare, con una decisione unilaterale, un punto fondamentale che riguardi la forma del ministero, né essa può celebrare l'eucaristia in volontario isolamento dalle altre Chiese locali senza nuocere alla comunione ecclesiale. Tutte queste cose riguardano il vincolo stesso di comunione e dunque l'essere stesso della Chiesa.

34. Proprio in ragione di tale comunione tutte le Chiese, per mezzo dei canoni, regolano tutto ciò che riguarda l'eucaristia e i sacramenti, il ministero e l'ordinazione, la trasmissione (paradosis) e l'insegnamento (didaskalia) della fede. Si comprende chiaramente il motivo per il quale sono necessarie in questo campo delle regole canoniche e delle norme disciplinari.

35. Nell'evolversi della storia, quando sono sorti seri problemi circa la comunione universale e la concordia tra le Chiese - a riguardo dell'autentica interpretazione della fede, o ai ministeri e alla loro relazione all'intera Chiesa, o alla disciplina comune che la fedeltà al Vangelo esige - si è fatto ricorso ai concili ecumenici. Tali concili erano ecumenici non soltanto per il fatto che essi radunavano insieme i vescovi di tutte le regioni e in particolare quelli delle cinque maggiori sedi secondo l'antico ordine (taxis): Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme. Essi erano ecumenici anche perché le loro solenni decisioni dottrinali e le loro comuni formulazioni di fede, specialmente su argomenti cruciali, erano vincolanti per tutte le Chiese e per tutti i fedeli, per tutti i tempi e tutti i luoghi. Tale è il motivo per il quale le decisioni dei concili ecumenici restano normative.

36. La storia dei concili ecumenici evidenzia quelle che debbono essere considerate le loro caratteristiche speciali. Tale questione dev'essere ulteriormente studiata nel nostro futuro dialogo, tenendo in considerazione l'evoluzione di strutture ecclesiali verificatasi nei secoli più recenti sia in Oriente sia in Occidente.

37. L'ecumenicità delle decisioni di un concilio è riconosciuta attraverso un processo di ricezione di durata lunga o breve, per il cui tramite il popolo di Dio nel suo insieme - attraverso la riflessione, il discernimento, il dibattito e la preghiera - riconosce in tali decisioni l'unica fede apostolica delle Chiese locali, che è stata sempre la stessa e di cui i vescovi sono i maestri (didaskaloi) e i custodi. Tale processo di ricezione è diversamente interpretato in Oriente e in Occidente, secondo le loro rispettive tradizioni canoniche.

38. Pertanto la conciliarità o sinodalità implica molto di più dei vescovi radunati in assemblea. Essa coinvolge anche le loro Chiese. I primi sono i depositari della fede e danno voce alla fede delle seconde. Le decisioni dei vescovi devono essere ricevute nella vita delle Chiese, specialmente nella loro vita liturgica. Ciascun concilio ecumenico accettato come tale, nel significato proprio e pieno del termine, è, di conseguenza, una manifestazione della comunione di tutta la Chiesa e un servizio reso a essa.

39. Contrariamente ai sinodi diocesani e regionali, un concilio ecumenico non è un'«istituzione» la cui frequenza può essere regolata da canoni; piuttosto esso è un «evento», un kairos, ispirato dallo Spirito Santo, che guida la Chiesa affinché essa generi al suo interno le istituzioni di cui ha bisogno e che corrispondono alla sua natura. Tale armonia tra la Chiesa e i concili è così profonda da far sì che entrambe le Chiese - anche dopo la rottura tra Oriente e Occidente, che rendeva impossibile la convocazione di concili ecumenici nel senso stretto del termine - abbiano continuato a tenere dei concili ogni volta che insorgevano serie crisi. Tali concili radunavano i vescovi di Chiese locali in comunione con la Sede di Roma o, rispettivamente, e sebbene compresi in modo diverso, con la Sede di Costantinopoli. Nella Chiesa cattolica romana, alcuni di tali concili tenuti in Occidente erano considerati ecumenici. Questa situazione, che ha costretto le due parti della cristianità a convocare concili propri a ciascuna di esse, ha favorito i dissensi che hanno contribuito al reciproco estraniamento. Debbono essere ricercati i mezzi che permetteranno di ristabilire il consenso ecumenico.

40. Durante il primo millennio, la comunione universale delle Chiese, nel normale svolgersi degli eventi, fu mantenuta attraverso le relazioni fraterne tra i vescovi. Tali relazioni dei vescovi tra di loro, tra i vescovi e i loro rispettivi protoi, e anche tra gli stessi protoi nell'ordine (taxis) canonico testimoniato dalla Chiesa antica, ha nutrito e consolidato la comunione ecclesiale. La storia registra consultazioni, lettere e appelli alle principali sedi, specialmente la Sede di Roma, che esprimono palesemente la solidarietà creata dalla koinonia. Disposizioni canoniche quali l'inserimento nei dittici dei nomi dei vescovi delle sedi principali e la comunicazione della professione di fede agli altri patriarchi in occasione di elezioni erano espressioni concrete di koinonia.

41. Entrambe le parti concordano sul fatto che tale taxis canonica era riconosciuta da tutti all'epoca della Chiesa indivisa. Inoltre concordano sul fatto che Roma, in quanto Chiesa che «presiede nella carità», secondo l'espressione di sant'Ignazio d'Antiochia (Ai Romani, Prologo), occupava il primo posto nella taxis, e che il vescovo di Roma è pertanto il protos tra i patriarchi. Tuttavia essi non sono d'accordo sull'interpretazione delle testimonianze storiche di quest'epoca per ciò che riguarda le prerogative del vescovo di Roma in quanto protos, questione compresa in modi diversi già nel primo millennio.

42. La conciliarità a livello universale, esercitata nei concili ecumenici, implica un ruolo attivo del vescovo di Roma, quale protos tra i vescovi delle sedi maggiori, nel consenso dell'assemblea dei vescovi. Sebbene il vescovo di Roma non abbia convocato i concili ecumenici dei primi secoli, e non li abbia mai presieduti, egli fu non di meno strettamente coinvolto nel processo decisionale di tali concili.

43. Primato e conciliarità sono reciprocamente interdipendenti. Per tale motivo il primato ai diversi livelli della vita della Chiesa, locale, regionale e universale, dev'essere sempre considerato nel contesto della conciliarità e, analogamente, la conciliarità nel contesto del primato.

Per quanto riguarda il primato ai diversi livelli, desideriamo affermare i seguenti punti:

1. Il primato, a tutti i livelli, è una pratica fermamente fondata nella tradizione canonica della Chiesa.

2. Mentre il fatto del primato a livello universale è accettato dall'Oriente e dall'Occidente, esistono delle differenze nel comprendere sia il modo secondo il quale esso dovrebbe essere esercitato, sia i suoi fondamenti scritturali e teologici.

44. Nella storia dell'Oriente e dell'Occidente, almeno fino al IX secolo, e sempre nel contesto della conciliarità, era riconosciuta una serie di prerogative, secondo le condizioni dei tempi, per il protos o kephale, in ciascuno dei livelli ecclesiastici stabiliti: localmente, per il vescovo in quanto protos della sua diocesi rispetto ai suoi presbiteri e ai suoi fedeli; a livello regionale, per il protos di ciascuna metropoli rispetto ai vescovi della sua provincia, e per il protos di ciascuno dei cinque patriarcati rispetto ai metropoliti di ciascuna circoscrizione; e universalmente, per il vescovo di Roma come protos tra i patriarchi. Tale distinzione di livelli non diminuisce né l'eguaglianza sacramentale di ogni vescovo né la cattolicità di ciascuna Chiesa locale.

Conclusione

45. Resta da studiare in modo più approfondito la questione del ruolo del vescovo di Roma nella comunione di tutte le Chiese. Qual è la funzione specifica del vescovo della «prima sede» in un'ecclesiologia di koinonia, in vista di quanto abbiamo affermato nel presente testo circa la conciliarità e l'autorità? In che modo l'insegnamento sul primato universale dei concili Vaticano I e Vaticano II può essere compreso e vissuto alla luce della pratica ecclesiale del primo millennio? Si tratta di interrogativi cruciali per il nostro dialogo e per le nostre speranze di ristabilire la piena comunione tra di noi.

46. Noi membri della Commissione internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica romana e la Chiesa ortodossa nel suo insieme siamo convinti che la dichiarazione di cui sopra sulla comunione ecclesiale, la conciliarità e l'autorità rappresenta un positivo e significativo progresso nel nostro dialogo, e che essa fornisce una solida base per la discussione futura sulla questione del primato nella Chiesa a un livello universale. Siamo consapevoli delle molte questioni difficili che restano da chiarire, ma è nostra speranza che, sostenuti dalla preghiera di Gesù «perché tutti siano una cosa sola (...) perché il mondo creda» (Gv 17,21), e in obbedienza allo Spirito Santo, ci sarà possibile avanzare sulla base dell'accordo già raggiunto. Riaffermando e confessando «un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo» (Ef 4,5), rendiamo gloria a Dio Trinità, Padre, Figlio e Spirito Santo, che ci ha riuniti insieme.

1 Alcuni dei partecipanti ortodossi considerano importante sottolineare che l'uso dei termini «Chiesa», «Chiesa universale», «Chiesa indivisa» e «corpo di Cristo», nel presente documento e negli altri documenti elaborati dalla Commissione mista, non sminuiscono in alcun modo la comprensione che la Chiesa ortodossa ha di se stessa quale Chiesa una, santa, cattolica e apostolica, di cui parla il Credo di Nicea. Dal punto di vista cattolico, la stessa consapevolezza di sé implica che: la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica sussiste nella Chiesa cattolica (Lumen gentium, n. 8); ciò non esclude il riconoscimento che elementi della vera Chiesa siano presenti al di fuori della comunione cattolica.
Lunedì, 28 Gennaio 2008 23:35

Gregorio Palamas (Jürgen Kuhlmann)

Gregorio Palamas nacque nel 1296 da una famiglia di prestigio. Destinato in un primo momento all’amministrazione statale resistendo alle proposte dell’imperatore, insieme a due fratelli più giovani si avviò verso la vita monastica al Monte Athos. Lì visse per 9 anni in una delle comunità monastiche e poi per due anni in un eremitaggio. Ma nel 1325 dovette fuggire, causa le incursioni dei turchi, e rifugiarsi a Tessalonica dove a 30 anni fu ordinato sacerdote per poi ritirarsi in un piccolo monastero in Macedonia con 10 compagni per vivere una vita armoniosamente equilibrata tra eremo e cenobio.

Lunedì, 28 Gennaio 2008 23:02

L’uomo nuovo (Giovanni Vannucci)

Gesù discese nelle acque dove i battezzati da Giovanni deponevano i propri peccati riemergendone purificati. Lui, l'incontaminato, immergendosi nelle acque assumeva su di sé il peso dei peccati dell'uomo...

Lunedì, 28 Gennaio 2008 22:48

Dio in tutti i modi (Frèdéric Lenoir)

Questo inizio del XXI secolo conosce una vera effervescenza religiosa multiforme. Da decodificare.

Lunedì, 28 Gennaio 2008 22:34

La ricerca spirituale (Isabelle Francq)

di Isabelle Francq

L'uomo moderno va a cercare nelle spiritualità un po' di dolcezza in un mondo di violenza.

Sabato, 19 Gennaio 2008 01:19

Può Dio soffrire? (Bruno Forte)

Vorrei aiutare la contemplazione del volto del Dio sofferente - il Padre/Madre dell’amore della tradizione biblica -, ponendomi in ascolto della Sua rivelazione in tre tappe, tese a scrutare rispettivamente il volto del Dio d’Israele, il volto del Dio di Gesù e quello del Dio della Chiesa.

Sabato, 19 Gennaio 2008 00:57

Novaziano (Lorenzo Dattrino)

NOVAZIANO

di Lorenzo Dattrino

Il suo nome non appartiene solo alla Patrologia e alla storia della chiesa. Fu il primo grande scrittore in lingua latina. Sono incerti il luogo e la data della sua nascita: è opinione ormai accettabile che egli sia nato a Roma intorno all’anno 200. La sua apparizione, però, molto tarda, s’aggira verso il 250, nella chiesa di Roma, prima come catecumeno, poi, per il sopraggiungere d’una grave malattia, in grado di ricevere il battesimo. È da questi primi eventi, pur così modesti, che ebbe inizio la sua ascesa, legata ad avvenimenti di rara gravità specialmente per la chiesa di Roma, come conseguenza della persecuzione di Decio.

Novaziano, ad altissime doti d’ingegno e di cultura, univa purtroppo non poca ambizione, anche se unita a molta austerità di vita e a poca socievolezza. Godette comunque di grande stima nella comunità romana, e venne ordinato presbitero, con probabilità, dallo stesso papa san Fabiano. Infuriava allora la persecuzione di Decio, durante la quale trovò la morte papa Fabiano. La chiesa di Roma rimase per alcun tempo senza pontefice: quell’assenza durò ben quattordici mesi. La comunità cristiana venne allora governata dal Presbyterium, un collegio, di cui faceva parte, non certo secondaria, lo stesso Novaziano. Fu in quel tempo che sorse a Roma, e anche a Cartagine, la cosiddetta questione dei lapsi (i caduti), di coloro cioè che si erano resi colpevoli d’aver prestato culto agli dei, culto imposto dall’imperatore: in seguito essi, dichiaratisi pentiti, chiedevano il pubblico perdono. TI nuovo papa, Cornelio, si mostrò incline a concederlo (251). Novaziano si oppose, fino ad accusare il pontefice di lassismo. Ne nacque presto uno scisma molto violento. Novaziano si abbandonò a una propaganda attivissima, al punto di provocare l’adesione di non poche chiese dell’Oriente. Papa Cornelio, frattanto, riuniva nell’autunno del 251 un solenne concilio romano che deliberò la scomunica di Novaziano. Sulle vicende degli ultimi anni e della morte di lui mancano notizie sicure.

E ora, al di fuori delle sue vicende biografiche e, in particolare, intorno alla questione dei lapsi, che meriterebbe una trattazione a parte, esaminiamo le opere di Novaziano. Sono certamente autentici due trattati, il De Trinitate, composto probabilmente prima del 250, e il De cibis iudaicis, scritto dopo lo scisma; altri due trattati, De Spectaculis e De bono pudicitiae, e, infine, due lettere dirette a S. Cipriano.

Ci interessa in particolare il De Trinitate. Più che un trattato dogmatico vero e proprio, l’opera espone le tre verità principali del Simbolo, la regola di verità (regula veritatis). Si articola in tre parti: la fede nel Padre (cc. 1-8); la fede nel Figlio, del quale è ugualmente affermata la divinità e l’umanità (cc. 9-28), e nello Spirito Santo, di cui rapidamente sono esposti gli attributi (c. 29). Gli ultimi due capitoli (cc. 29-30) dichiarano che la distinzione delle Persone non compromette l’unità divina. Tuttavia, mentre appare sicura la sua dottrina nei confronti del Padre, da meno vi appare quella intorno a Cristo. Pur essendo da lui dichiarato Figlio di Dio, l’autore non lo rende esente da certo quale subordinazionismo.


Per l’approfondimento

Edizioni

PL 3,911-1000; 4,810-860 (tra le opere di Cipriano); CSEL 3,3; CCL 4.

Traduzioni

Studi

V. Loi, Novaziano: La Trinità, Torino 1975

V. Loi, La latinità cristiana nel «De Trinitate» di Novaziano, in «Rivista di cultura classica e medioevale» 13 (1971), 1-42 e 136-172; M. Simonetti, Alcune osservazioni sul «De Trinitate» di Novaziano, in «Studi in onore di A. Monteverdi», Il, Modena 1959, pp. 771-783.

Il tema Maria-Chiesa va visto in questa sede con taglio nettamente liturgico: si tratta cioè di vedere come è vissuto nella liturgia.

Il quarto vangelo
e i vangeli sinottici

di Claudio Doglio – Roberto Vignolo




In quanto «vangelo»: narrazione della vicenda storica di Gesù dal battesimo alla risurrezione, rilievo dato al viaggio fondamentale a Gerusalemme, importanza a informazioni geo-topografiche, aspetto «drammatico» della vita di Gesù, discorsi d’addio in cornice storica, parole e segni come avvenimenti reali e concreti.

Le principali differenze

Anche se gli elementi comuni non mancano (alcuni racconti, logia, citazioni dell’Antico Testamento, brevi parabole, espressioni metaforiche, sentenze e proverbi), esistono pure delle grandi differenze fra Giovanni e i Sinottici. Vediamo le più rilevanti.

- Nel quadro geografico e cronologico. Il ministero di Gesù secondo Giovanni abbraccia il periodo di tre feste pasquali, quindi sembra durare circa tre anni, mentre nello schema sinottico si parla di una sola Pasqua, riducendo il racconto a un solo anno. Per i Sinottici Gesù comincia la missione in Galilea e va una volta sola a Gerusalemme. In Giovanni, invece, Gesù va continuamente avanti e indietro dalla Galilea a Gerusalemme, dove quasi tutto il racconto viene ambientato.
- Nel modo di presentare i miracoli. I gesti prodigiosi raccontati da Giovanni sono chiamati «segni» (semeia), sono in numero di sette (probabilmente simbolico) e appartengono quasi esclusivamente a questo Vangelo: 1) le nozze di Cana; 2) la guarigione del bambino dell’ufficiale; 3) la guarigione del paralitico della piscina di Betzatà); 4) la moltiplicazione dei pani; 5) il cammino sulle acque; 6) la guarigione del cieco nato; 7) la risurrezione di Lazzaro. Solamente due sono comuni con i Sinottici: la moltiplicazione dei pani ed il cammino sulle acque.
- Nel modo di presentare l’insegnamento. In Giovanni abbiamo lunghi discordi di controversie e di insegnamento, mentre i Sinottici hanno in genere antologie di brevi logia indipendenti, anche se Matteo ha raccolto il materiale in grandi discorsi, di fatto si tratta sempre di compilazioni in cui è evidente l’origine autonoma dei vari detti; invece nel quarto Vangelo si trovano molti discorsi, lunghi e organici, strutturati in modo complesso e retoricamente valido.
Vari tentativi di spiegazione

Come spiegare queste somiglianze e differenze tra Giovanni e i Sinottici? Per risolvere questo problema sono stati proposti almeno tre schemi di soluzione:

1) i Sinottici dipendono da Giovanni;

2) Giovanni dipende letterariamente dai Sinottici;

3) Giovanni deriva da una tradizione indipendente che sta alla base anche dei Sinottici.

È inimmaginabile che Giovanni abbia determinato i Sinottici proprio per questione di tempo. Rimangono quindi le altre due possibilità che prendiamo in considerazione.

Nell’antichità i Padri pensavano generalmente che Giovanni dipendesse in qualche modo dai Sinottici. Ma da tale presupposto nasce un altro problema: se Giovanni conosce i Sinottici perché ha scritto un Vangelo così diverso? Nella tradizione patristica sono già state formulate tutte le risposte possibili, riprese poi variamente anche dagli autori moderni:

- Giovanni ha scritto il suo Vangelo per completare quello che avevano detto gli altri evangelisti (ipotesi del completamento);

- Giovanni ha aggiunto molti discorsi allo scopo di evidenziare e interpretare meglio il messaggio teologico che nei Vangeli sinottici non era chiarissimo (ipotesi dell’interpretazione);

- Giovanni voleva superare l’aspetto materiale per arrivare all’annuncio spirituale (ipotesi del superamento);

- Giovanni aveva il desiderio di sostituire i Vangeli sinottici ritenendoli per qualche motivo non validi (ipotesi della sostituzione).

Oggi, tuttavia, l’opinione più sostenuta supera tutte queste varie ipotesi di rapporto coi Sinottici e preferisce sostenere che Giovanni derivi da una propria tradizione indipendente, eppure chiaramente ancorata alla predicazione apostolica più antica. Tutto ciò che è diverso si può spiegare in quanto parte dell’ambiente culturale giovanneo e appartenente all’autentica tradizione dell’apostolo. Così Giovanni utilizza uno schema narrativo proprio, mentre i Sinottici riproducono tutti uno stesso antico canovaccio narrativo.

Possiamo, in conclusione, ritenere improbabile che Giovanni dipenda letterariamente in modo diretto dai Sinottici; le concordanze si possono spiegare con la tradizione orale; ma la tradizione giovannea risulta autonoma nel suo complesso. Una certa conoscenza del contenuto della tradizione sinottica esiste, ma deriva da elementi che possiamo definire «pre-sinottici». Nel quarto Vangelo, infatti, esistono indizi di un’antica tradizione su discorsi e fatti della vita di Gesù, simile nella forma e contemporanea a quella sinottica; con la sua esposizione, però Giovanni persegue un fine suo proprio, che è la chiave migliore per spiegare il sorprendente rapporto di riflessione teologica, è necessario riconoscere che la tradizione giovannea contiene non poche informazioni complementari attendibili sotto l’aspetto storico.

Modelli a confronto: i prologhi dei Vangeli sinottici

Proponiamo, come esemplificazione, un confronto a proposito del mondo di iniziare il racconto evangelico nei Sinottici e in Giovanni.

Stimato fin dall’antichità a ragione quello più recente, il quarto Vangelo doveva conoscere i tentativi già attuati dai suoi colleghi sinottici di produrre una testimonianza scritta della storia singolare di Gesù, proprio perché non si perdesse la memoria di questo evento rivelatore e vivificante, e perché i credenti, in stragrande maggioranza tagliati fuori dalla contemporaneità storica con Gesù, disponessero delle testimonianze adeguate per conoscerlo nella sua autentica identità salvifica, e non ricercarlo a vuoto. Senza pretese di trascrivere tutto su Gesù (così 21,25, con buona pace di At 1,1!), ma pure senza complessi d’inferiorità per il proprio limite, Giovanni dichiara che

Molti altri segni fece Gesù, sotto gli occhi dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro. Questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il cristo, il Figlio di Dio, e perché credendo abbiate vita nel suo nome (20,31).

Giovanni non è, quindi, il primo ad aver affrontato il dilemma di come e da dove cominciare un Vangelo. Sicché, per apprezzarne le scelte con cui aggancia il lettore per offrirgli un’adeguata chiave della persona di Gesù, converrà, quindi, confrontarci con i prologhi di Marco, Matteo e Luca.

Il prologo evangelico più antico (Mc 1,1-15)

Rispetto al più antico Vangelo di Marco, che esordiva con: «Inizio (archè) del Vangelo di Gesù Cristo Figlio di Dio…» (Mc 1,1), Giovanni condivide con il suo «In principio», condivide addirittura lo stesso primo sostantivo (archè).

Ma intorno a questa preziosa somiglianza verbale si accumulano non poche differenze, sia sull’idea stessa di «inizio/principio», sia sulla maniera di organizzare il prologo. Allargandosi vistosamente con un inno di ben diciotto versetti, Giovanni infatti si discosta dal più antico Vangelo di Marco che in senso diametralmente opposto preferiva piuttosto ridurre e nascondere il proprio prologo.

Cocendo il titolo iniziale (Mc 1,1) su di una citazione di compimento a propria volta direttamente assimilata al corpo del racconto: «Come è scritto nel profeta Isaia: “Ecco, io mando il mio messaggero davanti a te, egli ti preparerà la strada. Voce di uno che grida nel deserto: preparate la strada del Signore, t’addrizzate i suoi sentieri”» (Mc 1,2-3; cf. Ml 3,1; Is 40,3), Marco presenta subito Giovanni il battezzatore (1,4-8) per arrivare speditamente al battesimo di Gesù di Nazareth viene a ricevere dalle sue mani (1,9-11), prima di soggiornare nel deserto ( in compagnia di fiere, Satana, e angeli: 1,12-13), sospinto dallo Spirito, e poi di predicare in Galilea (1,1-15) e chiamare i primi discepoli (1,16-20). Marco ha fretta di metterci a più diretto contatto possibile con Gesù già adulto, impegnato nella sua vita pubblica a rispondere alla propria missione.

Mc 1,1-15 parte davvero di scatto, con un’accelerazione in medias res, che in un attimo ci immette nel vivo della storia, avviata con la solidarietà di Gesù al battesimo predicato da Giovanni. Come gli altri penitenti immerso anche lui nel Giordano per mano del suo precursore, misteriosamente partecipe di questo richiamo (kerigma) alla conversione, egli fa di questo evento ben più di un semplice spunto iniziale, assumendolo come un «principio», una sorta di «nucleo originario» anticipatamente comprensivo del suo Vangelo, la quintessenza sia della sua stessa predicazione, come pure come di quella post-pasquale (ecclesiale) su di lui.

Di fronte al battesimo di Giovanni (1,1-8) e a Gesù che, risalendone, ottiene pieno riconoscimento dal Padre (1,9-11.13), il lettore subisce un impatto di sconcertante rivelazione e inaudita profondità salvifica. Sapendo egli già chi sia Gesù (1,1), e conoscendo pure la promessa di Giovanni circa la venuta di uno più forte, a immergere nello Spirito (1,7-8), egli si vede invece arrivare un Gesù imprevedibile sottomesso al battesimo di penitenza, in corrispondenza con il quale riceve la teofania celeste, con lo Spirito e la voce del Padre («Tu sei il mio figlio prediletto: in te mi sono compiaciuto!»: 1,9-11).

Ma proprio a questo punto, ecco le sue cognizioni e predisposizioni sottoposte a uno sconvolgente effetto sorpresa: se infatti Gesù è «più forte» del Battista, perché mai si sottopone al suo battesimo, come gli altri peccatori? Sovente spacciato per un vivace racconto di gusto popolare ( il che è parzialmente vero), e perciò ingenuo ( questo invece è solo un pregiudizio esso stesso ingenuo), quello di Marco è in realtà un imponente racconto kerigmatico, perfino difficile da recepire col suo impatto mozzafiato che intreccia gli eventi compiendo ogni preventiva attesa con le spiazzanti sorprese di misteriose rivelazioni, la cui trafila corre sull’intera narrazione, e culmina nell’annuncio di Pasqua (16,1-8).

Da dove far cominciare la storia di Gesù?

Pur nella sua potenza kerigmatica il prologo marciano, però, non ha evidentemente soddisfatto gli altri tre suoi colleghi evangelisti. Matteo, Luca e Giovanni optano infatti in senso diametralmente opposto rispetto a Marco, tanto per forma quanto per contenuto. E così, se dal punto di vista letterario, invece di un prologo «nascosto», ne elaborano uno di proporzioni vistosamente accentuate; dal punto di vista contenutistico retrocedono invece con la memoria ben oltre il battesimo di Gesù adulto al Giordano, cercando radici più antiche della sua storia, in ordine a una sua identificazione più chiara tramite l’esplicitazione della sua misteriosa origine.

Ancorché fattore irrinunciabile al Vangelo (menzionato già nelle più sintetiche formulazioni kerigmatiche di At 10,37; 11,16; 13,24-25; 19,3-4), il battesimo di Giovanni non si impose come indiscutibile punto di partenza storico-narrativo della storia di Gesù, in quanto rispetto alla sua identità quell’inizio/principio ne offriva un’immagine di difficile decifrazione e perfino equivocabile (almeno fuori dalla stretta cerchia di Marco). Confrontando il più antico incipit marciano con quelli degli altri Vangeli viene da concludere ragionevolmente che nel cristianesimo primitivo dovette prodursi un intenso ripensamento critico circa la maniera di raccontare la storia di Gesù proprio relativamente all’ identificazione del suo inizio/principio. Per render ragione della sua identità, da dove far cominciare la storia di Gesù?

A questa semplice domanda, quanto impegnativa domanda Mc 1,1-15 rispondeva con la teofania prodottasi al battesimo di Gesù, riconoscendovi la manifestazione della sua relazione filiale a Dio, relazione unica, garantita dai cieli squarciati, dalla discesa dello Spirito dalla voce celeste. Irriducibile a semplice investitura (o vocazione) profetico-messianica di Gesù, quella relazione (al momento nota solo a lui, e coincidente col cosiddetto «segreto messianico» destinato a un drammatico svelamento), rimanda ben oltre la circostanza del Giordano, e presuppone, dal punto di vista di Marco, una cristologia se si vuole grezza, ma nient’affatto «bassa.

Sta di fatto comunque, che, raccontata così, quella sua immersione al Giordano generò qualche imbarazzo per le comunità primitive, poiché si prestava a un duplice equivoco: sia quello di un Gesù palesemente inferiore al profeta suo precursore (il dialogo di Mt 3,14-15 cercherà di scioglierlo), sia quello di un Gesù che solo all’uscita dalle acque sarebbe appunto diventato Figlio di Dio, senza esserlo precedentemente, secondo la riduttiva interpretazione nota come adozionista ed ebionita, che i successivi Vangeli, ciascuno a suo modo, si premurano di controbattere.

Un nuovo inizio, secondo Matteo e Luca

Comprendiamo allora la tendenza di Matteo, Luca (e Giovanni) a spostare all’indietro l’origine di Gesù, retrocedendo anche cronologicamente fino a un altro evento in cui far brillare la consistenza della sua relazione a Dio con inequivoca trasparenza. Questo appunto ci inducono a pensare i cosiddetti Vangeli dell’infanzia (Mt 1-2; Lc 1-2), nonché lo stesso prologo giovanneo.

Così dall’età adulta di Gesù Matteo e Luca si spingono indietro, fino alla sua preannunciata nascita e concepimento verginale da Maria a opera di Spirito Santo, per rimarcare com’egli non aspetti certo il battesimo al Giordano per diventare Figlio di Dio, dimostrando di esserlo fin dal suo stesso concepimento.

Ecco allora il prologo matteano ( per limitarci a Mt 1,1-17) intitolato «il libro della genealogia di Gesù Cristo, figli di Davide, figlio di Abramo» (Mt 1,1), e successivamente articolato in una genealogia discendente (1,2-17) ispirata alla tradizione sacerdotale e cronistica. Questo molto ampio prologo genealogico, esplicitamente storico-salvifico (che interfaccia un uditorio giudiaco-cristiano, ma universalistico, con tanto di pagani annessi), si connette bene all’origine e nascita singolari di Gesù ( 1,18ss), conferendo alla sua successiva storia uno sfondo di robustissimo spessore. Fissandone gli inizi da lontano (Davide, Abramo) e dall’alto (Figlio di Dio), Gesù viene situato al singolare incrocio tra promessa orizzontale e pura grazia verticale, tra la discendenza abramitica e diretta potenza pneumatica (1,19ss). Significativa chiave d’interpretazione dell’identità di Gesù è la distorsione finale dell’abituale formula genealogica dove, a differenza degli altri generati, tutti collegati in linea maschile («Abramo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe…») compare Maria, su cui non interviene un uomo: « Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale fu generato Gesù, chiamato il Cristo»: 1,16), bensì lo Spirito («Ciò che fu generato in lei, viene da Spirito Santo»: 1,22).

Per illustrare l’origine di Gesù, anche Luca inserisce una genealogia, ma solo dopo il battesimo (Lc 3,21-22.23-38), e riagganciando Gesù indietro fino ad Adamo e a Dio stesso («Figlio di Adamo, figlio di Dio»). Inoltre, ispirato alle convenzioni degli storiografi antichi, e rivolto a un uditorio di raffinata cultura ellenistica, apre con un breve proemio storico-letterario ( Lc 1,1-4), dove si mantiene piuttosto riservato sul contenuto salvifico-cristologico della sua opera. D’altronde Luca rompe subito ogni reticenza con il suo ben arrangiamento dittico tra Giovanni Battista e Gesù, confrontati in chiave tipologica e secondo il genere delle vite parallele ( che sarà prediletto da Plutarco), a partire dall’annuncio della loro missione pubblica (Lc 3-4), per entrambi portatrice di rivelazione profetica. Il concetto di archè è invece da lui riferito all’inizio della vita pubblica di Gesù (Lc 3,23) come pure all’inizio della missione ecclesiale (At 11,15).

Il prologo giovanneo

Da parte sua Giovanni apre invece con un prologo innico, di stampo sapienzale (Gv 1,1-18). Contando sul potere maggiorato di quel linguaggio poetico, laudativo (e canoro) cui Israele affida le proprie migliori espressioni di fede nel suo Dio, Giovanni più d’ogni altro elabora le potenzialità di un prologo ben spiccandolo rispetto al corpo successivo del racconto, ma anche mantenendo narrativamente e contenutisticamente omogeneo al successivo sviluppo, senza mortificare quest’ultimo. Se infatti per Gv 1,1-18 parliamo d’un prologo innico, un vero e proprio prologo narrativo sarà riconoscibile nella prima sezione del Vangelo (1,19-2,12), comprendente la testimonianza del Battista (1,19-34), la sequela/ricerca dei primi discepoli (1,35-51), fino alle stesse nozze di Cana (2,1-12). Qui all’inizio dei segni di Gesù, coincidente con la prima manifestazione della sua gloria, determinante la prima fede dei discepoli come gruppo (2,11), fissa una bella inclusione sull’idea di inizio (1,1; 2,11), chiudendo così la prima unità letteraria maggiore, magnifica ouverture del quarto Vangelo, comprensiva d’un prologo poetico e di uno narrativo, insieme formanti un unico intenso preludio della storia di Gesù.

In tal senso prologo poetico e successivo racconto giovanneo stanno tra di loro in un rapporto così descrivibile:

Non è solo il Prologo che ha bisogno del Vangelo, ma è anche il vangelo che ha bisogno del Prologo, perché, fin dall’inizio, si veda chiaramente di chi si tratta quando è in questione Gesù. Il genere del Vangelo, in quanto racconto della storia di Gesù. Il genere del Vangelo, in quanto racconto della storia di Gesù, si caratterizza per un punto di partenza preciso e per una fine precisa. Spesso si è fatto notare che il Vangelo di Giovanni radicalizza la questione del punto di partenza rispetto agli altri Vangeli. Non comincia con la comparsa del Battista (Marco), né con il racconto della nascita di Gesù (Luca), né con una specie di genealogia (Matteo), ma situa l’inizio nell’inizio primordiale, prima ancora della creazione, cioè in Dio stesso. La questione del punto di partenza della storia di Gesù è la questione della sua origine. Ora, la questione della sua origine è nello stesso tempo la questione della sua identità. La questione dibattuta nel Vangelo - da dove questo Gesù trae origine? (cf. 7,27-28; 8,14; 9,29.30; 19,9) – è l’equivalente della questione: chi è questo Gesù? Il mistero dell’origine di Gesù, che è quello della persona stessa di Gesù, è svelato nel Prologo.

(da Parole di vita, 6)

Venerdì, 18 Gennaio 2008 23:41

In principio (Roberto Vignolo)

In principio

di Roberto Vignolo

«Principio» (archè), «indica sempre un primato di tempo, o di luogo, o di grado» (G. DELLING). Usato con massima pregnanza nominale diventata addirittura un titolo divino (Ap 3,14), magari in opposizione polare con télos: «Io sono il poncio e la fine» (Ap 21,6; 22,13). Può significare inizio o origine, ovvero quintessenza, prototipo. Magari questi due sensi sono simultanei, come in Gv 2,11, dove il vino di Cana è definito come archè ton deméion, cioè il primo ma anche il prototipo di tutti i segni poi operati da Gesù.

Nella tradizione giovannea si distinguono formule simili costruite con lo stesso sostantivo, ma con preposizioni diverse, e tuttavia differenziate nella loro costruzione, come pure di portata assai diversa. Così più frequenti ( anche nell’ambito del linguaggio ordinario) sono le formule «da principio» (con ap’ archês: 8,44; 15,27; 1Gv 1,1; 2,7.13-14.24; 3,8.11; 2Gv 5-6; e con ex archês : 6,64; 16,4). Più rara invece quella in testa al prologo del Vangelo: «In principio» (en archè: 1,1-2), che riprende Pr 8,23 (LXX), dove la Sapienza proclama: «Dall’eternità fui fondata, fin dal principio (en archè), prima dell’origine della terra» (cf. Sir 24,9; 4Esd 6,1-6).

Diversamente da «in principio», che rimanda al rapporto più originario possibile oltre la storia stessa, tra Gesù Logos/Figlio e il Padre (di cui si è già detto nel testo), «da principio» (ex archês), fa invece riferimento all’avvio dell’esperienza discepolare tra Gesù e i suoi, alla loro primitiva elezione e sequela. A sua volta, «da principio ap’ archês » fa pure riferimento a un evento intrastorico, che in 8,44 indica il principio della storia della salvezza, guastato dall’invidia del diavolo omicida e bugiardo, pregiudizialmente nemico alla verità di Gesù.

Invece 1Gv 1,1-4 indica l’esperienza della originaria manifestazione (phaneròo per ben 2x al v. 2) di Gesù Logos vivificante ai primi testimoni suoi destinatari e in seguito tradenti aisuccessivi credenti. In 1Gv 2,7-8 si riferisce al comandamento dell’amore reciproco, «antico» in quanto ricevuto dai credenti fin dal primo momento della loro esperienza di fede, e tuttavia «nuovo» in quanto verità e luce dissipante le tenebre. Insomma, il principio della fede cristiana coincide nel suo oggetto con il «principio» assoluto del cristianesimo: sia oggettivamente (nella storia), sia soggettivamente (nell’accoglienza dei cristiani), ed è riconducibile al Cristo verità dei e nei credenti (cf. DE LA POTTERIE, Studi di cristologia giovannea, 237).

(da Parole di Vita, 6)

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