Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input
di Marcelo Barros
Molte persone, cristiane e non cristiane, si sono spaventate per i recenti interventi del Vaticano, come il motu proprio del papa a favore dell’antico rito romano in latino. Molti si chiedono cosa possa significare per il mondo nel secolo XXI e, soprattutto, per la stessa Chiesa. Percepiscono che, con questa misura, è in gioco ben più di un problema di rito e di lingua.
Nella tradizione della chiesa incontriamo come secondo sacramento la confermazione. Il nome deriva dal latino confirmatio, da intendere qui nel senso di un rafforzamento. Nei teologi medievali troviamo anche il nome di “Imposizione delle mani”. L’Oriente parla di santo Myron (unzione con il crisma) e la caratterizza come “consolidamento” (bebàiosis) e “compimento” (teléiosis).
di Maria Domenica Ferrari
Parola dalle molteplici implicazioni politiche e religiose, una delle più fraintese in Occidente.
Alla voce imâm nel mio dizionario leggo: capofila, imam, esempio, califfo, comandante (dell'esercito), guida (per i viaggiatori), cammello che marcia in testa agli altri, regola, strumento di precisione, squadra, filo a piombo, regolatore, compito, posizione di colui che prega Dio nella direzione della Mecca, decreto di Dio.
Il significato principale della radice ’mm è: stare davanti a, dirigere, assumere la direzione della preghiera.
Imâm è perciò la parola che designa colui presiede la preghiera, compito che può svolgere qualsiasi musulmano pubere, anche schiavo.
Nei primi tempi era Muhammad a presiedere la preghiera. Alla sua morte i suoi successori vennero chiamati imâm, nel senso di guide della Comunità, khalîfa o ‘amîr al-mu‘minîn amministratore dei credenti, espressione molto usata nei primi secoli.
Khalîfa deriva dalla radice kh l f che indica il venire dopo nel tempo, il succedere.
Si hanno perciò due diversi ambiti: imâm si riferisce alla distribuzione spaziale dei fedeli, mentre khaliîfa indica una successione temporale.
Con il passare del tempo, in Occidente soprattutto, con califfo si tende ad indicare il potere temporale, mentre imâm viene sentito più vicino ad aspetti religiosi.
All'origine vi è in ogni caso un'unicità tra le funzioni di guida religiosa e di guida politica-amministrativa sia a livello di Comunità universale, sia a livello di moschea locale.
Nei primi secoli, in effetti, gli amministratori delle province erano nominati dal califfo con anche il mandato per la preghiera.
Con il passare del tempo la direzione della preghiera fu affidata ad un incaricato funzionario della moschea, pagato o dall'erario e dalle fondazioni pie.
In seguito a ciò ogni moschea ebbe un proprio imâm, anzi si potevano avere più imâm a rotazione, uno per ogni scuola giuridica.
A imâm venivano nominati esperti di scienze religiose (‘ulamâ) che potevano essere giudici, muftî.
La prerogativa religiosa deriva dall'essere un esperto di scienze religiose non dall'essere imâm.
Alla morte di Muhammad, che non aveva lasciato indicazioni, una parte della Comunità considerava che ‘Ali, il cugino genero del profeta, avesse diritto alla successione per vincoli di sangue.
Questi musulmani erano detti il partito di ‘Ali Shî‘at al-‘Alî,, gli sciiti.
L'imâm sciita ha una conoscenza superiore, il suo insegnamento ha valore decisivo ed ha prerogative quali l'infallibilità e la conoscenza delle cose invisibili, e si differenzia dal profeta perché rispetto a lui non trasmette una scrittura divina.
Catechesi di papa Giovanni Paolo II del 28 aprile 1999
Meditando sul mistero di Israele e sulla sua "vocazione irrevocabile" i cristiani esplorano anche il mistero delle loro radici.
di André Chouraqui
“Buddha è l’ultimo genio religioso dell’umanità con il quale il cristianesimo dovrà confrontarsi”, affermava poco più di mezzo secolo fa il teologo cattolico Romano Guardini.
di Sr. Maria Teresa Ragusa o. cist.
La lettura del trattato di San Bernardo di Chiaravalle, «Lodi alla Vergine Madre», sembra prestarsi particolarmente ad accompagnare la meditazione durante questo tempo di Avvento.
L’evangelista nel c. 20 ha descritto le apparizioni del Risorto ai primi discepoli nel giorno di Pasqua, dividendole in due grandi unità letterarie. Nella prima unità, il Risorto si fa vedere a Maria di Magdala nei pressi del sepolcro vuoto (20,1-18); nella seconda, si mostra ai discepoli e a Tommaso in un luogo chiuso (20,19-29). L’epilogo del redattore termina il capitolo con i vv. 30-31. La nostra riflessione si concentrerà sulle apparizioni ufficiali al gruppo apostolico.
di Bruno Maggioni
Nei racconti evangelici della risurrezione non manca mai un accenno al «dubbio» dei discepoli. Per esempio, Matteo scrive: «Vedendolo lo adorarono, altri però dubitavano» (Mt 28,17). E nel Vangelo di Luca si legge: «Perché siete turbati e perché sorgono dubbi nel vostro cuore?» (Lc 24,36-38).
Dal dubbio alla fedeL’evangelista Giovanni, però, ha preferito concentrare il tema del dubbio e del suo superamento in due scene contrapposte (prima l’incredulità e poi la fede), sviluppandolo attorno a un solo personaggio: l’apostolo Tommaso. La tesi principale è senza dubbio teologica: approfondire il rapporto fra il vedere e il credere, la fede del gruppo apostolico e la fede della comunità successiva. Giovanni non tratta il tema concettualmente, ma narrativamente com’è sua abitudine.
Gesù risorto appare la prima volta al gruppo dei discepoli assente Tommaso (20,19-23). Al ritorno di Tommaso i discepoli gli dicono: «Abbiamo visto il Signore»(20,25). Dicendo «il Signore» i discepoli mostrano di riconoscerne la profonda identità: Gesù è il Signore vivente e presente nella comunità.
Una maturazione, dall’inizio alla fineNon basta ritenere che il Crocifisso è tornato alla vita. Occorre capire che ora è il Signore entrato in una vita e in una condizione che appartengono a Dio.
Così è la vera fede.
C’e’ dunque una differenza notevole fra quest’esclamazione e la prima dei discepoli che si legge in 1,41: «Abbiamo trovato il Messia».
- All’inizio i discepoli riconoscono che Gesù è il Messia, alla fine egli è il Signore.
- All’inizio trovano, alla fine vedono.
- All’inizio non sanno che il Messia sarà crocifisso, alla fine comprendono che il Signore risorto è il Crocifisso. Lo riconoscono, infatti, non dal volto o da altro, bensì dai segni della croce.
L’idea di messia è così doppiamente cambiata: il Messia è il Signore, il Messia è il Crocifisso.
Tommaso non si lascia convincere dalla visione che gli altri discepoli hanno avuto. Egli vuole personalmente vedere e toccare. Ma quando poi Gesù ricompare per la seconda volta e lui è presente, non si dice che Tommaso abbia toccato né le mani né il costato trafitto. In questa seconda scena tutto si concentra sul dialogo fra Gesù e Tommaso. Gli altri discepoli assistono silenziosi.
«Il mio Signore»
Nelle parole di Gesù c’è un rimprovero: «non continuare a essere incredulo [così il verbo greco nella forma dell’imperativo presente], ma diventa credente». Tommaso a questo punto riconosce il Risorto, un riconoscimento pieno, il più alto ed esplicito dell’intero Vangelo: «Il mio Signore e il mio Dio». La confessione di Tommaso non esprime soltanto il riconoscimento ma l’appartenenza, lo slancio e l’amore. Non dice: «Signore Dio», ma: «Il mio Signore e il mio Dio». La presenza dell’articolo nel testo greco suggerisce anche la totalità dell’appartenenza. Si potrebbe parafrasare così: «»Sei il mio unico Signore e il mio unico Dio.
La fede sul fondamento dell’ascolto
«Beati quelli che senza aver visto hanno creduto»: è questa la vera beatitudine del Vangelo. Beato è chi crede senza pretendere di vedere. Con la fede di Tommaso si apre una nuova tappa nell’itinerario della fede: credere senza vedere. Quando l’evangelista scriveva il suo Vangelo erano già molti coloro che credevano senza aver visto. Forse è per questo che il verbo è al participio aoristo, come se si riferisse a una situazione già sperimentata («Hanno creduto»).
Dalle poche cose dette si può comprendere che la scena dell’apparizione di Gesù ai discepoli presente Tommaso assume grande importanza, divenendo il punto di passaggio dalla visione alla testimonianza, dai segni all’annuncio. Si apre sul tempo della Chiesa. Credente è ora chi, superato il dubbio e la pretesa di vedere, accetta la testimonianza autorevole di chi ha veduto. Nel tempo di Gesù visione non deve più essere pretesa: basta la testimonianza apostolica. Il che non significa che ora al credente sia preclusa ogni personale esperienza del Risorto. Tutt’altro. Gli è offerta l’esperienza della gioia, della pace, del perdono dei peccati, della presenza dello Spirito. Ma la storia di Gesù deve essere accettata per testimonianza. L’esperienza apostolica, in sostanza, risulta di due elementi: la visione storica (non più ripetibile) e la comunione di fede con il Signore (sempre possibile e attuale).
Il primo elemento è trasmissibile per via di testimonianza, come una memoria fissata e fedelmente raccontata. Il secondo si pone, invece, come fatto perennemente contemporaneo, aperto quindi all’esperienza diretta e personale di tutti coloro che accolgono l’annuncio.
(da Parole di Vita)
di Frei Betto
Può una società “quantificata” dal mercato, come la nostra, trovare spazio per valori etici “qualificanti”? Davanti all’impunità di politici trovati non-etici, c’è speranza che beni “infiniti” possano prevalere su quelli “finiti”?
Socrate fu condannato e giustiziato per “eresia”. I suoi detrattori lo accusarono di corrompere i giovani, predicando loro “nuovi dei”. La conoscenza che egli aveva raggiunto gli aveva aperto gli occhi non per guardare il cielo, ma la terra. Si era convinto di non poter mai dedurre un’etica per gli esseri umani dall’Olimpo. Gli dei potevano, tutt’al più, spiegare l’origine delle cose, ma non dettare norme di condotta.
La mitologia, piena di esempi poco edificanti, obbligò i greci a cercare nella ragione i principi normativi di una buona convivenza sociale. La promiscuità che regnava presso gli dei poteva solo essere “accettata per fede”, non tradotta in atteggiamenti da imitare. Così, la ragione conquistò la propria autonomia nei confronti della religione.
Impegnato nella ricerca di valori normativi per la convivenza umana, Socrate addita il luogo dove trovarli: la ragione. Per lui, l’etica esige nome eterne e immutabili; non può, pertanto, dipendere dal variare delle opinioni. Platone apporta nuova luce in questo senso, insegnandoci a discernere tra realtà e illusione. Nel primo libro della Repubblica, egli riferisce l’opinione di Trasimaco sul rapporto fra la giustizia e il potere: il più forte si serve della giustizia per mascherare il proprio interesse. (Concetto che Marx riprenderà, applicandolo all’ideologia). Cos’è il potere per Trasimaco? Il diritto concesso a un individuo – o conquistato da un partito o una classe sociale – d’imporre la propria volontà a tutti gli altri.
Aristotele si domanda: cosa desidera il popolo sopra ogni altra cosa? E risponde: la felicità. Ma poi si premura di strapparci da ogni forma si solipsismo, associando felicità e politica. Secoli dopo, formulando i principi di una etica politica, Tommaso d’Aquino sottolinea il primato che spetta al bene comune e valorizza la coscienza individuale e la sovranità popolare come principi imprescindibili. Nicolò Machiavelli, invece, destituisce la politica di ogni etica, riducendola a un mero gioco di potere in cui il fine giustifica i mezzi.
Immanuel Kant afferma che la grandezza dell’essere umano non risiede nella sua capacità tecnica di soggiogare la natura, ma nel suo essere “etico”, cioè nella sua capacità di autodeterminarsi a partire dalla propria libertà. Ci sarebbe in noi un senso innato del dovere: non dovremmo astenerci dal fare una data cosa perché è peccato, ma perché è ingiusta.
«Perfino il santo del Vangelo deve essere paragonato con il nostro ideale di perfezione morale [...] Da dove prendiamo il concetto di Dio come sommo bene? Unicamente dall’idea, che la ragione stabilisce a priori, della perfezione morale, connessa indissolubilmente con il concetto di volontà libera» (Fondazione della metafisica dei costumi). Il grande filosofo tedesco aggiunge che l’etica individuale deve essere completata da un’etica sociale, perché noi, esseri umani, non siamo un gregge di individui, ma una società che esige regole e leggi e, soprattutto, la cooperazione di tutti i suoi membri per raggiungere una convivenza sociale felice.
Hegel e Marx sottolineano come la nostra libertà sia sempre condizionata e “in relazione”, poiché consiste nell’edificazione di comunioni (con la natura e con i nostri simili). È l’ingiustizia a rendere alcuni dissimili dagli altri. Dalla tradizione giudaico-cristiana Marx eredita l’irriducibile dignità di ogni uomo e, pertanto, il diritto alla parità di opportunità. In altri termini: siamo tanto più liberi quanto più costruiamo istituzioni capaci di promuovere la felicità di tutti.
La filosofia moderna ha pensato di fare un passo in avanti con l’affermare che, una volta che si obbedisce alla legge, ciascuno è libero di fare ciò che più gli garba. La privacy come il regno della più totale libertà! Il problema con questo tipo di impostazione sta nel suo svuotare l’etica di ogni responsabilità sociale, indirizzandola verso l’esasperata affermazione dei diritti individuali, con il rischio di ridurla a un soggettivismo egocentrico. L’uomo etico moderno sembra preoccupato soltanto dei suoi sacrosanti diritti, sanciti dalla Dichiarazione universale dei diritti umani.
E i doveri? E gli obblighi che una persona dovrebbe sentire nei confronti della società? E i vincoli che la dovrebbe legare agli altri, in particolare all’affamato, all’oppresso e all’escluso? Un’etica universale non può ridursi alla difesa dei fondamentali diritti dell’individuo: deve, invece, essere coronata dalla volontà di intensificare le virtù, i valori e le responsabilità sociali.
Oggi l’etica non sembra di casa nel mondo della politica: chi la viola rimane impunito; chi la vive, non ne riceve onore. L’esame di coscienza di un politico sembra ridursi a rispondere alla domanda: «Ho fatto forse qualcosa di proibito dalla legge?». Ma questo non basta. Il politico è chiamato ad agire secondo giustizia e con generosità: a regolare il suo comportamento ci deve essere il rigore etico. Nello stesso tempo, egli non può supporre che la sua etica dipenda esclusivamente dalle sue virtù personali. Devono esistere una continua interdipendenza e una interrelazione fra la vita individuale e la vita sociale. «Io sono io e la mia circostanza» diceva Ortega y Gasset.
L’etica deve espletarsi nel modo in cui è organizzata la società. Oltre agli individui, anche le istituzioni sociali devono essere imbevute di eticità. In questo modo, l’individuo potrebbe anche cedere alla corruzione, ma si troverà la strada sbarrata dal mortaio della legalità, che, mentre sostiene le istituzioni, impedisce a esse di favorire l’impunità. Sembrare etico è una questione di estetica, tipica dell’opportunismo. Essere etico, invece, è questione di carattere.
(da Nigrizia, settembre 2007)