In verità, l'altro atto di questo “dramma” - pur'esso unico, e di singolare portata - è stato scritto proprio dall'Istituto, di cui celebriamo oggi i venticinque anni di esistenza, e dal suo ispiratore e infaticabile maestro, il Padre Luigi M. Rulla, S.J.: la “Scuola” che egli ha creato ha posto al centro del suo indugiante pensare - della sua σχoλή, appunto - il rapporto in questione, costituendo per le scienze umane il “pendant” di ciò che per la teologia è stata la cosiddetta “svolta antropologica”, il luogo e l'esempio, cioè, di una “svolta teologica” di queste scienze. «L'idea direttrice - scrive Rulla nel Suo “opus magnum” - è di favorire e congiungere una svolta, un orientamento antropologico della teologia con una svolta, un orientamento teologico dell'antropologia, cosicché ambedue le svolte e gli orientamenti si muovano verso un'antropologia cristiana». (1)
Questa semplice costatazione aggiunge un ulteriore significato alla “drammaticità” delle idee qui sviluppate: esse vengono presentate da un “illitteratus”, un inesperto della psicologia, che vive così il suo piccolo “dramma” di confrontarsi con un altro, da lui poco conosciuto e indagato. Vero è che questo “infante” (che parla, cioè, di ciò di cui non potrebbe parlare) ha lavorato più o meno negli stessi anni a un lungo e laborioso progetto teologico - di cui è soprattutto espressione l'ormai compiuta Simbolica Ecclesiale (2) - e che egli ha cercato di assumere nella sua “teologia come storia” le istanze della “svolta antropologica” in teologia: ma lo ha fatto in una direzione apparentemente del tutto opposta a quella invocata dal P. Rulla, e cioè in nome e per la causa di una teologia più teologica, più radicata e fondata nel suo centro e cuore, che è la rivelazione del Dio trinitario in Gesù Cristo. Forse, però, è proprio in questo che potrebbe trovarsi la ragione dell'invito rivoltomi: e cioè che precisamente dove il pensiero della fede si fa più pensante del suo fondamento, più biblico e storico e narrativo degli eventi e delle parole della “revelatio Dei”, esso si ritrova più vicino a quell'abisso, che è il mistero della persona umana, indagato dalla psicologia.
Sarebbe, allora, il “mistero” il luogo dell'incontro, quell'al di là del detto, da cui la Parola proviene e a cui rinvia, quel Silenzio dell'Origine nascosta e della Patria sempre più grande, dove si incontrano i sentieri interrotti dei diversi approcci alla domanda, che è l'uomo. Teologia e psicologia si troverebbero accomunate nella medesima confessione della Differenza, che solo può rischiarare il mondo dell'Identità, sottoposte alla medesima condizione ermeneutica, figlie di un medesimo, necessario “elogio dell'imperfezione”: «Non è la conoscenza che illumina il mistero, è il mistero che illumina la conoscenza. Noi possiamo conoscere solo grazie alle cose che non conosceremo mai». (3) Pensare questa comune povertà come luogo di un'integrazione è il punto d'arrivo delle riflessioni che seguono: che, però, proprio per guadagnare l'essenziale povertà dell'ascolto, dovranno sia pur brevemente percorrere le figure del confronto fra i diversi domini e possessi delle due discipline, verificandole almeno dal punto di vista della teologia. La resistenza, l'indifferenza, la resa saranno le stazioni da attraversare, per giungere a un orizzonte di possibile integrazione, intesa come incontro di pensieri diversi, entrambi in ascolto del Mistero, entrambi al servizio della causa delle donne e degli uomini, che si vogliano pienamente umani.
1. Resistenza
Che il teologo opponga un'effettiva resistenza ad interessarsi della psicologia è un dato di fatto abbastanza facilmente constatabile: lo dimostra lo spazio bibliografico e tematico dedicato a questa disciplina nelle opere dei grandi maestri del pensiero della fede. Karl Barth, nella sua vigorosa protesta antiliberale, che sta all'origine di tutte le vie del Novecento teologico, mette in guardia da ogni possibile confusione fra l'Alterità trascendente e le forze psichiche o altre, a cui una teologia troppo cedevole vorrebbe ridurla: «Dio è il Dio sconosciuto. Come tale egli dà a tutti la vita, il respiro e ogni cosa. Perciò la sua potenza non è né una forza naturale, né una forza dell'anima, né alcuna delle più alte o altissime forze che noi conosciamo o che potremmo eventualmente conoscere, né la suprema di esse, né la loro somma, né la loro fonte, ma la crisi di tutte le forze, il totalmente Altro, commisurate al quale esse sono qualche cosa e nulla, nulla e qualche cosa, il loro primo motore e la loro ultima quiete, l'origine che tutte le annulla, il fine che tutte le fonda. Pura ed eccelsa sta la forza di Dio, non accanto e “soprannaturalmente” sopra, ma al di là di tutte le forze condizionate - condizionanti, né deve essere scambiata con esse, né messa in linea con esse, né senza estrema cautela può essere confrontata con esse». (4)
La resistenza, che il teologo avverte nei confronti della psicologia, può essere ricondotta a molteplici motivazioni. In primo luogo, sul piano epistemologico, la tradizione della teologia occidentale è stata a lungo caratterizzata dal predominio di una concezione noetica della verità, legata al pensiero classico: dove il vero è “adaequatio intellectus et rei”, ogni inadeguazione dell'idea nei confronti del reale è colta come debolezza o caduta. Di conseguenza, la psicologia moderna del profondo, che muove precisamente dalla rilevanza del vitale non portato a coscienza, viene necessariamente ad essere esclusa dal campo di interesse di un orizzonte veritativo, che si vuole “oggettivo”. Per riconoscere dignità epistemologica alla psicologia, la teologia dovrà passare attraverso una autentica conversione ermeneutica, che la porti ad assumere quell'orizzonte della coscienza storica, tematizzato per primo da Giovan Battista Vico, per il quale il criterio del vero si deve cercare nel senso della spiegazione: si conosce una cosa quando la si spiega nel processo del suo farsi, e perciò quando se ne può rappresentare l'evoluzione, la vita. Il senso profondo dell'assioma «verum et factum convertuntur» si oppone allora tanto ad una riduzione idealistica del reale all'ideale, quanto ad una cattura materialistica dell'ideale nel reale, per stabilire una esatta correlazione di soggettività ed oggettività nel conoscere, che non sacrifichi né il valore informativo, il dato, né la trascendenza della norma, la verità assoluta. La storia vichiana è perciò storia aperta: in essa il passaggio a stadi successivi e superiori di civiltà rivela una eterogenesi dei fini, che rimanda all'intervento della Provvidenza divina, insieme trascendente e sovrana ed immanente alla vicenda delle sue creature, che, lungi dal fare concorrenza all'uomo, lo apre nella maniera più radicale al nuovo, all'oltre e al più. L'assunzione della coscienza storica in teologia, frutto del “ritorno alle fonti” caratteristico del secolo che volge alla fine e sancito dall'impianto stesso della riflessione del Concilio Vaticano II sulla Chiesa “inter tempora”, posta cioè fra il “già” e il “non ancora” della salvezza, è allora la via da percorrere fino in fondo per superare in teologia anche la resistenza epistemologica nei confronti della psicologia come scienza.
C'è però una più ampia resistenza, di carattere ermeneutico che agisce nel pensiero speculativo, filosofico e teologico, della modernità nei confronti di tutto ciò che indaga e valorizza il vitale rispetto al logico: è la resistenza “illuministica”, propria della modernità. La esprime bene un pensiero hegeliano: «Così, - scrive Hegel nella Scienza della Logica (5) - dissipate le tenebre, rimossa l'incolore cura di sé dello spirito rivolto a se stesso, l'esistenza parve essersi trasformata nel sereno mondo dei fiori, tra i quali, com'è noto, nessuno è nero». Il “fiore nero” è qui metafora degli aspetti notturni della vita, di quel residuo oscuro, ritornante, che testimonia - fastidiosamente per la logica hegeliana, e più in generale per la coscienza adulta della modernità - l'eccedenza irrisolta del vitale rispetto alla trasparenza della verità saputa. Nei confronti di questa notte il sistema dell'idealismo è quanto mai riluttante e restio: esso tende semplicemente ad eliminarla, nell'ambizione di un possesso solare della realtà, dove tutto sia baciato dalla luce della ragione adulta ed emancipata. Questo rifiuto del “fiore nero” contagia l'intera ideologia moderna, rendendola totalitaria e violenta, incapace di riconoscere e accogliere a qualsiasi livello la differenza irriducibile all'identità: ed anche una teologia ammaliata dall'hegelismo, come quella del protestantesimo liberale, non potrà non opporre una medesima resistenza alle forme del pensiero, che sembrano risolversi nel primato dell'irrazionale. È in questa opposizione che si comprende la fatica della teologia moderna a riconoscere dignità veritativa alle indagini psicologiche. In questo senso, proprio il superamento critico del modello idealistico - ideologico della modernità potrà creare un nuovo spazio ermeneutico per l'incontro fra sapere della fede e psicologia.
Non vanno infine sottovalutate le resistenze di carattere storico-esistenziale, che hanno ostacolato il dialogo fra i due saperi: da una parte, il “carnet de doléances” dei pastori nei confronti delle intrusioni di alcune forme della psicologia nei conventi e nei seminari è sufficientemente nutrito per giustificare la noncuranza del teologo “serio” nei riguardi di una disciplina empirica, tanto molteplice nel suo presentarsi, quanto inaffidabile nella sua eventuale pretesa di oggettività; dall'altra, e proprio nei pensatori più rigorosi e maturi, si insinua una motivazione psicologica di resistenza a quell'inafferrabile, che il pensiero del concreto e del vissuto tenta di portare a coscienza. Qualcosa del genere spiega per Ernst Bloch come Hegel, che è per eccellenza il filosofo del divenire, abbia potuto chiudersi alle sorprese dell'oltre e del nuovo: «Hegel rimuove la tentazione del plus ultra; dietro il termine, nel dover-essere da raggiungere, non si trova interesse, bensì deserto e noia... Il progresso all'infinito, nel modo in cui è stato in particolare legato da Kant al dover-essere,... è chiamato da Hegel “cattiva infinità”. Vi è un qualcosa di insaziabile nel plus ultra, un piacere di non portarlo a termine, un qualcosa di problematico, che, come dice Goethe, non soddisfa alcuna situazione, ed al quale nessuna situazione soddisfa...». (6) Pensare l'oltre disturba, ferisce, perché impedisce di portare a compimento il solo compito del pensiero, che per la razionalità moderna sia veramente degno di esso: la “riconciliazione” (“Versöhnung”), dove la scissione da cui nasce il pensare è superata e risolta. Ed è allora che il teologo “serio e maturo” si difende dai saperi connessi alla psicologia, con l'apparente modestia di chi - invocando la specializzazione delle discipline - preclude ogni accesso dall'una all'altra, ritenendo metodicamente impossibile stare a cavallo di due così diversi processi di conoscenza...
2. Indifferenza
Breve è il passo e larga la via che conduce dalla resistenza all'indifferenza: l'identità si chiude in se stessa e nessuno spazio è concesso all'avvento dell'altro, alle sorprese della differenza. Più che rappresentarla in figure concrete, l'indifferenza del teologo alle scienze umane ed “in primis” alla psicologia può essere colta efficacemente nei rischi delle sue conseguenze. Anche qui esse si lasciano riconoscere sul triplice piano epistemologico, ermeneutico e storico-effettuale. Sul piano epistemologico l'indifferenza esprime - e produce - una presunzione di totalità in teologia: dove il tutto è abbracciato, non c'è spazio per l'altro; ma dove non c'è spazio per l'altro, l'orizzonte è troppo corto e troppo breve. Un pensiero teologico o filosofico “in-differente” alle scienze umane rischia di risolversi in sistema chiuso, in ideologia della totalità, dove, presumendo di possedere la chiave della scienza, si perde anche il senso puro della Trascendenza, che si affaccia nella storia. È la critica radicale che ha mosso al pensiero speculativo dell'Occidente Emmanuel Lévinas: «Il volto dell'essere che si rivela nella guerra si fissa nel concetto di totalità che domina la filosofia occidentale. In essa gli individui sono ridotti ad essere i portatori di forze che li comandano a loro insaputa. Gli individui traggono da questa totalità il loro senso...». Contro questa totalità imprigionante e violenta Lévinas invoca proprio il pensiero biblico, l'escatologia profetica: essa «non introduce un sistema teleologico nella totalità, essa non consiste nell'insegnare l'orientamento della storia. L'escatologia mette in relazione con l'essere, al di là della totalità o della storia, e non con l'essere al di là del passato e del presente». (7) E conclude che per chi supera il dominio della totalità, aprendosi all'avvento dell'Infinito, l'attenzione all'altro, in primo luogo all'altro uomo concreto, si fa decisiva e discriminante: «Non può esserci alcuna “conoscenza” di Dio a prescindere dalla relazione con gli uomini. Altri è proprio il luogo della verità metafisica, indispensabile al mio rapporto con Dio. Non ha affatto il ruolo di mediatore. Altri non è l'incarnazione di Dio, ma appunto attraverso il suo volto, nel quale è disincarnato, la manifestazione della maestosità nella quale Dio si rivela». (8) L'epistemologia del pensiero speculativo, teologico o filosofico che sia, esige di essere aperta, pena la perdita del rapporto fondante con l'Altro: e questa apertura è ospitale della conoscenza dell'altro, dell'uomo concreto e storico, il cui volto è traccia dell'Altro trascendente e sovrano.
Sul piano ermeneutico non meno problematica è la condizione di una teologia che sia indifferente agli altri saperi, ed in particolare a quelli relativi alla condizione umana: come parlare a una cultura viva senza possederne in qualche misura il linguaggio? come dimostrare sensato il discorso di fede su Dio senza rivolgersi a un preciso orizzonte di ricerca del senso? Una teologia che non sia ermeneutica, che non sia cioè sforzo di interpretazione per mediare fra la salvezza offerta nella rivelazione e la presente storia degli uomini, si condanna al silenzio: l'indifferenza per l'altro da sé si risolve in mera ripetizione dell'identico, senza più alcuna presa sulla vita reale. La ricerca del senso della verità, del suo proporsi significativa ed eloquente alla vita degli uomini, non è sacrificio della profondità e dell'oggettività del vero, ma riconoscimento del fatto che la verità è insieme bontà attraente e bellezza irradiante. La verità in sé si fa verità per noi, senza perdere la sua trascendenza: donandosi nell'orizzonte di senso, essa si fa intelligibile e significativa, non a prezzo della sua eccedenza, ma proprio grazie ad essa e al suo mantenimento. «Molte volte rispondiamo a domande che nessuno ci ha posto e non sappiamo rispondere alle domande che ci sono poste. Non è già per se stessa ecclesiale una teologia che rimane con le sue tesi all'interno della solidarietà della “communio fidelium”. È questa una premessa indispensabile, ma non ancora il termine. La teologia è ecclesiale solo quando si sente solidale con gli increduli e considera i loro problemi come riguardanti la sua fede». (9) Assumere la coscienza storica, farsi ermeneutica della fede, in ascolto ed in dialogo con i diversi saperi sull'uomo, apprendendo il linguaggio del tempo in cui è posta, non sarà per la teologia un rinunciare alla «memoria Aeterni», ma un viverla in modo tale, che in essa l'avvento faccia veramente presa sul cammino esodale dell'uomo, offrendosi sensato e liberante per esso.
Infine, l'indifferenza della teologia all'altro da sé mostra le sue conseguenze tragiche sul piano storico - effettuale: perdendo di vista il suo destinatario totale, l'uomo come è in tutta la fatica del suo farsi storico, in tutta l'incatturabilità del mistero della sua persona, il sapere della fede si fa latitante proprio rispetto al suo compito di testimonianza e di servizio nei confronti della causa di Dio e di quella della creatura, realizzata secondo il progetto di Dio. Veramente, «la realtà di un mondo senza Dio, di fronte alla quale ci troviamo, è in parte solo la reazione ad un Dio senza mondo». (10) La teologia deve liberarsi dalla sua indifferenza, da quella “asetticità” che ancora viene invocata per essa, per farsi interlocutrice attenta, sensata, che assume e rispetta l'alterità e la temporalità, e sa fondare cammini graduali di incontro fra la Parola e la storia. In tal senso, una teologia “imperfetta”, che sa mediare la verità senza catturarla nella prigione di un sistema compiuto, appare più coerente con la grande tradizione della fede ecclesiale impegnata a dire la Verità nella storia, che non un pensiero teologico che si voglia definitivo e compiuto. In questo tempo di indifferenza, che è la vera notte del mondo, è dall'indifferenza che la teologia deve soprattutto guardarsi, per essere testimone dell'Altro nella compagnia della vita e della fede degli uomini reali: «Il tempo della notte del mondo è il tempo della povertà perché diviene sempre più povero. È già diventato tanto povero da non poter riconoscere la mancanza di Dio come mancanza... E perché i poeti nel tempo della povertà?... Esser poeta nel tempo della povertà significa: cantando, ispirarsi alla traccia degli Dei fuggiti. Ecco perché nel tempo della notte del mondo il poeta canta il Sacro»: (11) ed ecco perché - in questo stesso tempo - il teologo deve testimoniare l'Avvento con un linguaggio che faccia sua la notte e la rischiari, evocando in essa e per essa la forza della salutare Differenza.
3. Resa
Oltre la resistenza, decisamente contro l'indifferenza, c'è chi sembra aver scelto la resa: la teologia si consegna alle architetture ed all'ermeneutica della psicologia. In una sorta di abbandono liberatorio, il sapere della fede pare dismettere i suoi panni - talvolta, in verità, piuttosto arcaici - per assumere l'epistemologia, l'ermeneutica e l'effettualità storica della vittoria sull'angoscia, promessa dalla psicologia del profondo. Terribile esito, che, tuttavia, non può impedire di riconoscere come ci sia in questa resa un contenuto di verità da non perdere...
Sul piano epistemologico il trionfo moderno del metodo storico - critico porta con sé non pochi problemi relativi alla stessa concezione della verità: chi è veramente criterio e arbitro nella conoscenza del vero trasmesso dalla rivelazione, il metodo o l'oggetto? È la domanda radicale che già Karl Barth aveva rivolto al suo antico maestro Adolf von Harnack, bollando quel mondo teologico «cui è diventato estraneo e inaudito il concetto di un oggetto normativo, davanti all'unica normativa del metodo». (12) L'Oggetto puro nell'atto del suo dirsi è per Barth l'unico criterio della verità della fede: ad esso si deve obbedire in ascolto radicale di quella Scrittura, che è nel senso più oggettivo possibile “sui ipsius interpres”. È tuttavia precisamente questo forte oggettivismo che salda la svolta barthiana a quanto apparentemente appare il suo opposto: il metodo storico critico, lì dove sia privo di un corretto rapporto fra il soggetto interpretante e l'oggetto da interpretare, può essere superato tanto in direzione dell'oggetto, come fa Barth, quanto in direzione del soggetto, come fa oggi una diffusa interpretazione ispirata alla psicologia del profondo. E come va riconosciuta la validità del contributo barthiano al recupero del primato del “Deus dixit” e del “soli Deo gloria” nella teologia del Novecento, così bisogna riconoscere che «la psicologia e la psicanalisi aprono la strada a una comprensione pluridimensionale della Scrittura e aiutano a decifrare il linguaggio umano della rivelazione». (13) La resa della teologia, tuttavia, è anche qui possibile e sta precisamente nell'assolutizzare una forma di “esegesi psicanalitica” o un metodo attento a scrutare nei testi «le zone dell'esperienza religiosa che non sono accessibili al ragionamento puramente concettuale, ma hanno nondimeno un valore per il problema della verità». (14) Ciò che evita la resa è il tenere aperta la circolarità ermeneutica soggetto - oggetto, superando le possibili aridità del metodo storico - critico, senza rinunciare agli apporti di oggettività che esso consente, ed assumendo l'istanza di un accostamento più “caldo” al testo, capace di illuminare la domanda di liberazione dall'angoscia, senza per questo rendere l'interpretazione del testo esclusivamente funzionale ad essa.
Anche sul piano ermeneutico la resa è possibile: qui essa si presenta nell'uso strumentale della Scrittura, ai fini di trovare in ogni modo in essa le risposte alle domande del cuore umano, quali si pongono nel contesto storico culturale dell'interprete. È la riduzione del messaggio a puro kerygma, svuotato di ogni contenuto storico, quale ad esempio è stato proposto dalla grandiosa impresa bultmanniana: «Io in fondo non voglio condurre il lettore ad una “osservazione” della storia, bensì ad un incontro personale al massimo con la storia». (15) Ciò che va cercato nella parola della fede è la risposta agli interrogativi del presente, non un'astratta verità teoretica: «Se dunque noi nella storia di Gesù incontriamo delle parole, esse non devono essere giudicate a partire da un sistema filosofico in relazione alla loro validità razionale, ma le incontriamo quali interrogativi sul modo in cui vogliamo comprendere la nostra esistenza. Con questo si presuppone che noi stessi siamo spinti dall'interrogativo della nostra esistenza». (16) Su questa strada non è però evitato il rischio che l'antropologia inghiotta la cristologia e addirittura che la fede crei il suo oggetto: ecco perché la reazione dei cosiddetti post-bultmanniani all'interpretazione esistenziale e al programma della demitizzazione non solo è stata necessaria e salutare per l'esegesi e la teologia, ma continua a mettere in guardia da qualunque uso meramente strumentale del testo biblico, in cui si consumi la resa della teologia a una qualsiasi interpretazione dell'essere umano, anche se questa apparisse più attuale e incisiva di una antropologia teologica. A nessuno è lecito rinunciare alla verità storica in nome di una presunta agonia del metodo storico-critico e della nobile intenzione di parlare al cuore dell'uomo, per ridurre tutto ad una commovente, ma volatile interpretazione, che obbedisca soltanto alle domande della psicologia del profondo. (17)
Bruno Forte
(prima parte - continua)
Note
[1] L.M. Rulla, Antropologia della vocazione cristiana, I, Basi interdisciplinari, Casale Monferrato 1985, 47; cf. specialmente 21-47. Sul rapporto fra le due discipline cf. tra l'altro D.S. Browning, Religious Thought and the Modern Psychologies: A Critical Conversation in the Theology of Culture, Philadelphia 1987. 19893; A. Cencini, Per amore. Libertà e maturità affettiva nel celibato consacrato, Bologna 1994, 183-207; G. Groppo, Psicologia e Teologia: modelli di rapporto, in Orientamenti Pedagogici 5(1980) 783-798; F. Imoda, Aspetti del dialogo tra le scienze umane e pedagogiche e la dimensione teologica, in Seminarium 1(1994) 89-108 (con bibliografia); B. Kiely, Psicologia e teologia morale. Linee di convergenza, Torino 1982, 294-301; A. Manenti, Teologia e psicologia: il metodo interdisciplinare, in Rivista di Teologia Morale 19(1987) 71-82; 20 (1988) 87-97.
[2] Cf. B. Forte, Simbolica Ecclesiale, 8 volumi, Milano 1981-1996.
[3] P. Evdokimov, L donna e la salvezza del mondo, Milano 1980, 13.
[4] K. Barth, L'Epistola ai Romani, a cura di G. Miegge, Milano 1974, 11s: «Gott ist der unbekannte Gott. Als solchergibt er allen Leben und Odem und alles. Und so ist seine Kraft weder eine Naturkraft noch eine Seelenkraft, noch irgendeine von den höheren und höchsten Kräften, von denen wir wissen oder möglicherweise wissen könnten, weder ihre oberste, noch ihre Summe, noch ihr Zorn, sondern die Krisis aller Kräfte, das ganz andere, an dem gemessen sie etwas sind und nichts, nichts und etwas, ihr erstes Bewegendes und ihre letzte Ruhe, ihr sie alle aufhebender Ursprung und ihr sie alle begründendes Ziel. Rein und überlegen steht die Kraft Gottes nicht neben und nicht (“supranatural”) über, sondern jenseits aller bedingt-bedingenden Kräfte, nicht mit ihnen zu verwechseln, nicht an sie anzureihen nur mit äußerster Vorsicht mit ihnen zu vergleichen» (Der Römerbrief, München 19222, 11s).
[5] Wissenschaft der Logik, I. Die objektive Logik (1812-1813), (Gesammelte Werke, XI), hrsg. Fr. Hogemann u. W. Jaeschke, Hamburg 1978, 6: «So daß, nach Vertreibung dieser Finsternisse, der farblosen Beschäftigung des in sich gekehrten Geistes mit sich selbst, das Dasein in die heitere Welt der Blumen verwandelt zu sein schien, unter denen es bekanntlich keine schwarze gibt».
[6] E. Bloch, Soggetto - Oggetto. Commento a Hegel, Bologna 1975, 464s.
[7] E. Lévinas, Totalità e infinito. Saggio sull'esteriorità, Milano 1980, 20s: «La face de l'être qui se montre dans la guerre, se fixe dans le concept de totalité qui domine la philosophie occidentale. Les individus s'y réduisent à des porteurs de forces qui les commandent à leur insu. Les individus empruntent à cette totalité leur sens... (L'eschatologie) n'introduit pas un système téléologique dans la totalité, elle ne consiste pas à enseigner l'orientation de l'histoire. L'eschatologie met en relation avec l'être, par delà de la totalité ou l'histoire, et non pas avec l'être par delà le passé et le présent» (Totalité et Infini. Essai sur l'extériorité, La Haye 1974, Xs).
[8] Ib., 76s: «Il ne peut y avoir, séparée de la relation avec les hommes, aucune “connaissance” de Dieu. Autrui est le lieu même de la vérité métaphysique et indispensable à mon rapport avec Dieu. Il ne joue point le rôle de médiateur. Autrui n'est pas l'incarnation de Dieu, mais précisément par son visage, où il est désincarné, la manifestation de la hauteur où Dieu se révèle» (51).
[9] W. Kasper, Per un rinnovamento del metodo teologico, Brescia 1969, 41s.
[10] Id., Fede e storia, Brescia 1975, 160.
[11] M. Heidegger, Perché i poeti?, in Sentieri interrotti, tr. P. Chiodi, Firenze 1984, 247. 249s: «Die Zeit der Weltnacht ist die dürftige Zeit, weil sie immer dürftiger wird. Sie ist bereits so dürftig geworden, daß sie nicht mehr vermag, den Fehl Gottes als Fehl zu merken. “...und wozu Dichter in dürftiger Zeit?” Dichter sein in dürftiger Zeit heißt: singend auf die Spur der entflohenen Götter achten. Darum sagt der Dichter zur Zeit der Weltnacht das Heilige» (Wozu Dichter?, in Holzwege, Frankfurt a.M. 19725, 248. 250f.).
[12] K. Barth, Risposta alla lettera aperta del Professor von Harnack, in Le origini della teologia dialettica, a cura di J. Moltmann, Brescia 1976, 390.
[13] Pontificia Commissione Biblica, L'interpretazione della Bibbia nella Chiesa, Città del Vaticano 1993, I, D, 3 (Approcci psicologici e psicanalitici), 55s.
[14] Ib.
[15] R. Bultmann, Gesù, ed. it. a cura di I. Mancini, Brescia 1972, 102: «Also zu einer Geschichts ‑ Betrachtung will ich den Leser im Grunde nicht führen, sondern zu einer höchst persönlichen Begegnung mit der Geschichte» (Jesus, Tübingen 1926, 10.
[16] Ib., 106: «Begegnen uns also in der Geschichte Jesu Worte; so sollen sie nicht von einem philosophischen System aus in Bezug auf ihre rationale Gültigkeit beurteilt werden, sondern sie begegnen uns als Fragen, wie wir selbst unsere Existenz auffassen wollen. Daß wir selbst von der Frage unserer Existenz bewegt werden, ist dabei freilich die Voraussetzung» (14).
[17] Il rischio non sembra assente nell'opera di Eugen Drewermann: cf. C. Casale-Marcheselli, Il caso Drewermann. Psicologia del profondo: un nuovo metodo per leggere la Bibbia?, Casale Monferrato 1991, che - sebbene simpatizzi non poco con l'Autore, di cui ricostruisce accuratamente le scelte - non esita ad affermare: «I due metodi (quello storico - critico e quello ispirato alla psicologia del profondo) sono destinati a restare a lungo, forse per sempre in piedi. Integrati, sì, ma soppiantati, no. Essi colgono due aspetti del problema che appartengono alla natura stessa dell'uomo e del messaggio di Dio all'uomo: si tratterà di saperne condurre una sintesi, che il Drewermann stesso sembra non aver raggiunto» (33, n. 12).