Mondo Oggi

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Lunedì, 05 Maggio 2008 23:00

Il risveglio identitario (Serge Lafitte)

di Serge Lafitte



Oggi non si nasconde più la propria appartenenza a una comunità religiosa, ma la si afferma e la si ostenta.

Ugo Janni (1865-1938), pastore valdese, è una delle figure più significative della cultura evangelica italiana, i cui meriti furono ampiamente riconosciuti anche all'estero con il conferimento di un dottorato honoris causa.

Il secondo discorso di Pietro (At 3,1-26)

di Santi Grosso



Il secondo discorso tenuto da Pietro negli Atti degli Apostoli (At 3,11-26) è occasionato dalla reazione del popolo di fronte alla guarigione dello storpio. I due apostoli, Pietro e Giovanni, che lo hanno incontrato mentre chiedeva l'elemosina alla porta Bella del tempio, devono giustificare la guarigione miracolosa di fronte a un popolo stupito e meravigliato.
L'azione taumaturgica è così stupefacente che si presta a più di una interpretazione. C'è il rischio che la gente, presa dall'entusiasmo e dal fanatismo, cominci a fraintendere il ruolo che i due apostoli hanno avuto nella guarigione.
Il motivo per cui Pietro rivolge il suo discorso ai presenti è proprio per spiegare il gesto da lui compiuto. In questo senso, la seconda allocuzione tenuta dal capo degli apostoli ha la stessa funzione della prima, diretta agli abitanti di Gerusalemme dopo l'evento straordinario ed eclatante della Pentecoste: egli, rivolgendosi ai presenti, deve dare la corretta spiegazione di ciò che è accaduto.

Presentazione letteraria

A grandi linee il discorso è suddiviso in due parti, secondo la ripartizione che il narratore stesso dà a questo testo nel quale per due volte Pietro si rivolge direttamente al suo uditorio: "Uomini di Israele" (v. 12) e "Ora, fratelli" (v. 17). Questa duplice menzione dei destinatari divide l'allocuzione in due parti: nella prima Pietro si concentra sull'annuncio di Dio che si rivela in Gesù, il quale è stato il vero autore dell'azione guaritrice (vv. 12-16); nella seconda l'apostolo invita alla conversione nella prospettiva della venuta ultima e definitiva del messia (vv. 17-26).
Se confrontato con gli altri discorsi degli Atti, si scopre che anche questo è costruito con lo stesso canovaccio. L'introduzione è sempre data dall'aggancio con la situazione immediata (cf v. 12), centrale risulta la proclamazione kerygmatica di Gesù il crocifisso, morto e risorto (cf vv. 13b-15). Per dimostrare che Gesù è il compimento della rivelazione di Dio, gli autori dei discorsi degli Atti inseriscono delle citazioni scritturistiche (cf vv. 13.22-23.25). L'allocuzione si rivolge ai destinatari con l'appello alla conversione (vv. 19.26).
Mentre nel primo discorso petrino (At 2,14-41) il centro verte fortemente sul kerygma cristiano e soltanto alla fine il capo degli apostoli invita l'uditorio al la conversione, nel secondo l'annuncio di Gesù il Signore crocifisso risorto costituisce soltanto la fase preliminare dell'appello alla conversione che in questo testo appare abbastanza articolato e illuminato da elementi nuovi: la prospettiva minacciosa del giudizio futuro (v. 20); l'avvertimento dell'importanza del presente come tempo di decisione (vv. 22-24); l'indicazione del ruolo d'Israele nella storia della salvezza (vv. 25-26).
La scenografia creata dal narratore per il discorso è data dal portico di Salomone, che si estendeva lungo la parte orientale del cortile dei pagani al di fuori della porta di Nicanore. In questo luogo dove si raccoglieva la gente a discutere e i maestri giudaici tenevano il loro insegnamento, anche la comunità cristiana si ritrovava. (1)
Non è né casuale, né fortuito, che nel primo e nel secondo discorso sia proprio Pietro a prendere la parola. Egli è il capo degli apostoli, il leader autorevole, responsabile e allo stesso tempo portavoce di tutto il gruppo dei credenti.

Il vero autore del miracolo

Come abbiamo detto, è lo stupore del popolo che induce Pietro a prendere la parola e a dare una spiegazione di ciò che è accaduto. Egli si rivolge al suo uditorio con l'appellativo "Uomini di Israele",(2) mettendo immediatamente in guardia i suoi destinatari che il miracolo operato non è il risultato delle loro capacità terapeutiche e magiche, nemmeno delle loro particolari attitudini o predisposizioni spirituali. (3)
Per scoprire il vero autore del miracolo, Pietro fa compiere ai suoi ascoltatori un percorso che parte dalla comune esperienza che sia essi che lui hanno in Dio, riconosciuto appunto attraverso la formula di fede ripresa dall' Antico Testamento: Egli è "il Dio di Abramo, di Isacco, e di Giacobbe, il Dio dei nostri Padri" (cf Es 3,6.15).
Questo Dio, che nell'esperienza biblica si rivela personale e vicino alla storia del popolo d'Israele di generazione in generazione, si è manifestato nella missione di Gesù, il "servo". (4) Tale appellativo, di marca anticotestamentaria, rimanda alla presentazione isaiana dell'inviato che esercita una solidarietà con il popolo e una fedeltà a Dio fino alla morte (Is 52,13; 53,10-12). Il titolo non descrive soltanto la relazione di dipendenza di Dio, ma anche il suo rapporto profondo e privilegiato con lui. (5) E in virtù di questa relazione particolare che Gesù è stato glorificato dal Padre attraverso la sua morte, risurrezione e ascensione al cielo.
Per mostrare come Gesù sia stato scelto da Dio per esercitare la sua missione messianica, Pietro mette in rilievo il contrasto tra l'azione dei Giudei, che hanno cercato di sopprimere il messia, e il piano stesso di Dio, il quale invece ha voluto per lui un destino di risurrezione.
I giudei per uccidere Gesù lo hanno dovuto consegnare a Ponzio Pilato, il governatore romano che aveva la responsabilità su tutte le esecuzioni capitali eseguite in Palestina, territorio occupato dai Romani, dimostrando così di rinnegare il "santo" e il "giusto". (6) Troviamo di nuovo dei titoli che, assieme a quello di "servo", mettono in rilievo come il discorso di Pietro sia impregnato di una cristologia che affonda fortemente le sue radici nella tradizione biblica.
L'assurdità del rinnegamento di Gesù si dimostra dal fatto che tra i due condannati a morte, il popolo ha scelto di salvare l'assassino Barabba, mentre ha richiesto l'esecuzione capitale per l'"autore della vita". (7) È il quarto titolo cristologico di questo discorso e crea un contrasto tra il destino di crocifisso e la vera identità di Gesù, datore della vita. Egli è la guida che inaugura una nuova via verso la vita, perché, con la sua vittoria sulla morte, diventa il capo di una umanità definitivamente rinnovata.

Ora Pietro si fa portavoce dell'annuncio specificatamente cristiano: quel Gesù giudicato colpevole e reo di morte, in realtà viene chiamato da Dio ad un destino di gloria che, secondo l'interpretazione lucana, corrisponde alla sua vicenda di risurrezione e di ascensione al cielo (cf Lc 24; At 1).
I garanti di questo evento sono gli stessi apostoli che sono stati i primi destinatari delle apparizioni di Gesù dopo la sua risurrezione. La loro autorevole testimonianza nasce soltanto dall'esperienza diretta e personale dell' incontro con il Risorto, così come Luca nella sua opera ha cercato di descrivere (Lc 24,36-49; cf At 1,8).
Il discorso, avviato come giustificazione del miracolo compiuto da Pietro, è poi passato alla proclamazione di fede nel Dio di Israele che si conosce nella storia e che si incontra personalmente, alla fine, è approdato all'affermazione che questo Dio si è pienamente manifestato nella missione di Gesù.
Il percorso che l'oratore sta facendo fare al suo uditorio, serve a dimostrare come il miracolo operato al tempio in favore dello storpio non sia altro che il risultato dell'azione di Dio attraverso la persona di Gesù. Questi non è uno dei tanti presunti messia che fanno leva sulle proprie capacità carismatiche o terapeutiche, ma l'Atteso dal popolo d'Israele.
La salvezza portata da Gesù corrisponde alla reintegrazione fisica e sociale dell'uomo. Il Dio di Israele si rivela nel messia in modo sempre più preciso come un Dio che salva l'uomo dai suoi drammi e dalle sue disavventure storiche. Non è stratosferico e disincarnato, ritirato nel suo mondo celeste e quindi assente, ma entra nella storia degli uomini e li salva dalle loro sconfitte umane.
Pertanto il vero autore di questo miracolo sconvolgente non è altro che Gesù, il Signore che il popolo di Israele ha rifiutato. Tuttavia il motivo che ha reso possibile il suo intervento efficace e salvifico ancora oggi, mentre egli si trova glorioso in cielo, è la "fede" in lui professata dalla comunità cristiana. (8) Ma non si può fare della fede "nel nome di Gesù" una formula magica. Essa presuppone la conoscenza della persona e dell'opera di Gesù. Solo la fede rende possibile e comprensibile il miracolo, che può essere invece oggetto di strumentalizzazioni fanatiche e integriste o fideistiche.

Le conseguenze "sociali" del miracolo: una nuova comunità

Nella seconda parte del discorso Pietro, facendo leva sull'evidenza del miracolo accaduto davanti a tutti, mette in rilievo come il rifiuto che ha condotto Gesù alla morte da parte del popolo e dei capi è però causato dall' "ignoranza", ovvero dall'incapacità dei Giudei di riconoscere in quel falegname di Nazaret l'inviato di Dio. (9)
Tuttavia l'uccisione di Gesù da parte dei giudei non significa lo scacco del piano di Dio, ma il suo compimento. Il progetto che fa di Gesù il Signore glorioso non dipende dalle scelte umane, ma le supera, trascendendole. Infatti proprio da una lettura approfondita della volontà di Dio, codificata nella tradizione biblica, si capisce che il messia avrebbe dovuto essere sottoposto ad un destino di sofferenza e di morte (Lc 9,22; 17,25; 22,15; 24,26.46; At 1,3; 17,3). L'opera lucana infatti mette in rilievo come la sorte inspiegabile di Gesù, anche se è stata in realtà causata dal rifiuto del popolo giudaico, sia geneticamente in scritta nel piano di Dio, di cui costituisce l'adempimento.
A causa di questo rifiuto Israele ha perso per sempre l'occasione della salvezza? Certamente no, se rispondono all'invito di Pietro che sollecita il popolo al pentimento e alla conversione. Attraverso due imperativi, "pentitevi [ ... ] convertitevi", (10) l'apostolo segna il percorso che i giudei devono intraprendere per non perdere definitivamente l'occasione di essere salvati. Infatti la croce non inaugura il tempo della vendetta di Dio, ma quello del perdono e della riconciliazione. È questo l'itinerario che gli Atti degli Apostoli stabiliscono sia per i Giudei che per i pagani, i quali sono chiamati ad aderire all'esperienza ecclesiale che ha come contenuto il kerygma cristologico.

Il perdono, o cancellazione del peccato, non avviene più attraverso lavacri e riti di purificazione, ma proprio attraverso la presa di coscienza del proprio peccato (in questo caso è il rifiuto del messia) e nell'adesione ad uno stile di vita nuova che significa partecipazione all'evangelo proclamato.
Soltanto dopo il riconoscimento da parte di Israele che Gesù di Nazaret è il messia promesso, giungeranno i "tempi della consolazione", espressione di marca apocalittica che descrive il momento dell'inizio del tempo escatologico, inaugurato dal ritorno dell'inviato messianico. Gesù infatti resterà nel mondo celeste fino al momento della "restaurazione di tutte le cose", quando egli porterà a termine la storia mediante il suo giudizio.
Per fondare questo annuncio che vede come protagonista del tempo finale Gesù, il Signore crocifisso e risorto, Pietro ora ricorre ad un collage di testi biblici anticotestamentari che venivano usati nel mondo giudaico per annunciare la venuta del messia.
Il testo, composto da Dt 18,15 (11) e Lv 23,29, presenta l'arrivo di un messia, identificato con caratteristiche sia mosaiche sia profetiche. (12) Di fronte al "profeta" atteso, due sono le possibili reazioni del popolo: una di accoglienza, l'altra di rifiuto. Chi respingerà la parola da lui portata verrà estromesso dal popolo.
Attraverso questa composizione biblica il narratore degli Atti degli Apostoli intende presentare la sua prospettiva della storia della salvezza che sfocia nella costituzione della comunità cristiana.
La chiesa non è una cellula impazzita del popolo d'Israele, ma ne è l'evoluzione più matura e autentica. In altre parole chi non ascolta la parola del "profeta escatologico" non può entrare a far parte del nuovo popolo. Al contrario, chi accoglie quella parola di salvezza è chiamato ad aderire finalmente in modo profondo alle esigenze di Dio che si rivelano nella storia.
Che il nuovo popolo di Dio non coincida più con un'etnia, una razza o una cultura, secondo la concezione ebraica, lo si capisce dal riferimento fatto da Pietro all'alleanza con Abramo di cui gli ascoltatori giudei sono figli. Il richiamo a questo personaggio è intenzionale (Gn 12,3). (13) Infatti Abramo, il primo credente della storia della salvezza, sancisce con Dio un patto nel quale egli ha una responsabilità non soltanto nei confronti del popolo di Israele, ma in rapporto a tutti i popoli della terra. Infatti egli, secondo la pagina biblica di Genesi, è chiamato a diventare una "benedizione" per tutte le famiglie della terra. Se con Mosè l'alleanza ha come contraente il popolo d'Israele, con Abramo entrano in causa tutte le genti della terra. La comunità dei discepoli si inserisce in questo grande piano di Dio che non prospetta la salvezza in modo elitario soltanto per Israele, ma che inscrive tutte le genti all'interno del suo intendimento salvifico.
La "benedizione" attesa attraverso la personalità del primo patriarca si realizza mediante Gesù, il servo. Tale benedizione consiste nell'entrare a far parte della comunità dei credenti fondata e radicata in Gesù, il Signore. Partecipando a questa potenza di risurrezione, la chiesa è effettivamente una comunità di benedetti e quindi salvati già da ora. La comunità dei credenti è l'ambito nel quale Dio vuole aprire le porte della salvezza non solo a qualcuno, ma a tutti.
Il discorso di Pietro riportato dal Libro degli Atti non è sicuramente un resoconto stenografico, né tanto meno un testo scritto a tavolino. Esso conserva dell'antica tradizione e catechesi cristiana quanto basta per illustrare la crisi dei rapporti tra la prima comunità credente e il popolo giudaico. Tuttavia ha acquistato nella riflessione cristiana una tale attualità, da incentivare i credenti a interrogarsi sul ruolo di Gesù Signore nella propria esistenza, sulla loro speranza di salvezza, sulla loro fedeltà al piano di Dio, sulla loro capacità di lettura e interpretazione di quegli eventi che continuano la potenza salvatrice di Gesù.

(da Parole di vita, 2, 1998)

Note

1) Cf At 5,12; anche Ant XX,221.
2) Lo stesso appellativo viene usato nel discorso di Pentecoste (2,2) e nell'intervento di Gamaliele (5,35).
3) La domanda circa la responsabilità del miracolo verrà posta in seguito dal collegio sinedrita (4,7).
4) In questo discorso il kerygma non fa riferimento alla missione pubblica di Gesù, ma direttamente si concentra sul suo destino di glorificazione che ha avuto luogo attraverso la passione, morte e risurrezione.
5) Il titolo di "servo" rivolto a Gesù si incontra negli Atti quattro volte (3,13.26; 4,27.30).
6) Il titolo di "giusto" è riservato al messia anche in 1 En 38,2; 53,6. Si tratta tuttavia ancora di una velata allusione alla figura del servo "giusto e santo" di Is 53,11.
7) L'appellativo "l'autore della vita" è una espressione rara che ricorre solo negli Atti e nella Lettera agli Ebrei (At 5,31; 26,23; Eb 2,10; 12,2).
8) Abbiamo qui la prima comparsa negli Atti degli Apostoli del termine "fede" che risuona due volte nella dichiarazione di Pietro.
9) Il motivo dell'ignoranza si ritrova anche in l Cor 2,8. L'ignoranza che mette i giudei al pari dei pagani, è la radice del peccato (cf Rm 1,18-3,20).
10) Il verbo greco epistrephô ritorna per undici volte negli Atti; significa "volgersi verso" e sottintende il ritorno a Dio.
11) È questo un passo che nel giudaismo post-biblico ha mantenuto viva la speranza messianica, anche quando la monarchia davidica è andata in crisi.
12) I due testi dell'Antico Testamento sono citati e interpretati come a Qumran (4QTest 5-8; 1QS IX 11; 4Q 175).
13) La citazione di Abramo (Gn 12,3) è secondo la formulazione di Gn 22,18 (LXX).
Gesù interprete delle Scritture
negli Atti degli Apostoli

di Pier Luigi Ferrari



La prima comunità cristiana ha vissuto, fin dagli inizi, la consapevolezza che Gesù aveva realizzato la secolare attesa d'Israele. Le Sacre Scritture dell'Antico Testamento convergevano verso di lui e gli rendevano una straordinaria testimonianza rivelando tutto d'un tratto la loro «vera portata».

Era stato Gesù stesso, durante la sua vita terrena, a inaugurare questa utilizza zione delle Scritture. Nella finale del suo Vangelo, Luca mette sulla bocca del Risorto, che affianca i due discepoli sulla strada di Emmaus nel giorno di Pa squa, una lezione di interpretazione «cristologica» dell'Antico Testamento: «Cominciando da Mosè e da tutti i profeti, interpretò loro in tutte le scritture ciò che lo riguardava» (Lc 24,27). La sera stessa, apparendo agli Undici conti nua questa singolare istruzione: «Era necessario che si adempisse tutto ciò che è scritto di me nella Legge, nei Profeti e nei Salmi», indicando in tre punti il contenuto di tale compimento: 1) Il Messia doveva patire; 2) doveva risuscita re dai morti il terzo giorno; 3) nel suo nome il messaggio di salvezza doveva essere portato al mondo intero, comprese le nazioni pagane (cf Lc 24,44-47).

Sarà nel Libro degli Atti che Luca affronterà in maniera più organica questa dimostrazione. Egli dà sviluppo ad una operazione già avviata dalla prima comunità, la quale dopo avere semplicemente affermato che morte e risurre zione erano «secondo le Scritture», ha cercato precise citazioni della Bibbia disponendo tutta una serie di testimonia, che giustificassero il «bisognava» (in greco dei) dell'evento di Cristo.

Prima di presentare i testi sarà utile qualche nota sul metodo lucano. La sua lettura scritturistica suppone la Bibbia nella traduzione greca dei Settanta, tanto che per capire certe argomentazioni occorre partire da questa e talvolta dalle sue varianti. Quanto poi ai procedimenti esegetici degli Atti si scopre che essi hanno molto in comune con i midrashim giudaici: si nota la stessa adesione alla lettura del testo, vi si pratica una attualizzazione in rapporto al le circostanze del presente. Ma la vera novità distintiva di questa esegesi è che essa è sempre «messianica».

Attraverso le Scritture

Ripercorrendo 1'AT secondo il programma indicato dal Risorto - Mosè, i profeti e i Salmi - proponiamo qualche testo significativo sotto il profilo cristologico.

1. La legge di Mosè. Sono tre i personaggi della Torah (detto «pentateuco» o, semplicemente, «La legge»), la cui vicenda è letta in chiave cristologica. An zitutto nel compendio storico fatto da Stefano sono citati Giuseppe (7,9-16) e Mosè (7,17-42), mostrando come la loro vicenda è simile a quella di Gesù e ne è prefigurazione: rigettati ambedue dai fratelli o dagli Israeliti, rivestiti am bedue da Dio di una missione di salvezza a favore del loro popolo. Anche la promessa fatta ad Abramo, in base alla quale tutte le generazioni sarebbero state benedette nella sua «discendenza» (Gn 12,3; 22,18), viene letta in chia ve cristologica: questa «discendenza» è Cristo e nel suo nome si realizza la «benedizione» che comporta l'evangelizzazione dei pagani.

Altri due passi sono rilevanti per l'interpretazione cristologica. Grazie al l'ambivalenza del termine greco anistemi, che significa sia «suscitare» che «risuscitare», le parole dette da Dio a Mosè: «Io susciterò loro, in mezzo ai loro fratelli, un profeta simile a te» (Dt 18,15.18.19) sono interpretate da Pie tro (3,22) e da Stefano (7,37) come annuncio di un profeta che sarebbe stato risuscitato da Dio. At 5,30 e 10,39 vedono nella citazione della Legge che di chiara «maledetto chi pende dal legno» (Dt 21,23), dove si allude evidente mente alla pena capitale, una allusione alla crocifissione del Messia: è Gesù colui che, sospeso al legno della croce, è stato messo nella situazione di uno che la legge dichiara maledetto (cf 1 Pt 2,24 e Gal 3,13).

2. I profeti. È noto che il giudaismo con la parola «profeti», oltre agli scritti profetici propriamente detti, indica anche l'insieme dei libri storici. Mentre scarso è il rilievo dato dagli Atti a questi ultimi, diversi sono i passi di profe ti interpretati in chiave cristologica. Ne vediamo alcuni tra i più interessanti. La citazione di Gioele (3,1-5a), fatta da Pietro nel giorno di Pentecoste (2,17-21), concludeva che per essere salvati nell'ultimo giorno occorreva «in vocare il nome del Signore». Pietro spiega che questo Signore è Gesù, pro clamato tale mediante la sua risurrezione, il cui nome dev'essere invocato da quanti vorranno essere salvati nell'ultimo giorno. Anche il racconto di Giona (2,1) secondo il quale il profeta stette per tre giorni nel ventre del pesce, già letto tipologicamente da Gesù (cf Lc 11,29s), è alluso nell'insistito particola re della risurrezione di Gesù il «terzo giorno» (10,40; cf 1 Cor 15,4).

Un testo profetico ha colpito in modo particolare la prima generazione cri stiana: il grande Canto del Servo sofferente del secondo Isaia (Is 52,13 -53,12). Esso è citato esplicitamente una sola volta nel contesto dell'incontro di Filippo con l'etiope (8,32-33), ma si trovano in tutto il libro numerose allusioni che lasciano trasparire la profonda influenza di questa profezia. Si identifica Gesù, sofferente e risorto, con il servo che il profeta descrive come vittima innocente che soffre per riscattare i peccati di molti. Con lo stesso criterio è utilizzato da Paolo nel suo discorso ad Antiochia di Pisidia (13,47) anche il passo di Is 49,6, dove il misterioso Servo è costituito da Dio «luce delle nazioni» con la missione di portare la salvezza di Dio «fino alle estre mità della terra», quindi ai pagani.

3. I Salmi. Ampia risulta anche l'attualizzazione cristologica del Salterio, considerato dai primi cristiani come una raccolta profetica, composta dal «profeta» Davide.

L'utilizzo che la comunità cristiana, raccolta in preghiera, fa del Sal 2 (At 4,25-27) è un limpido esempio di come si faceva una lettura messianica dei Salmi. In questo caso, con una dettagliata applicazione alla passione di Gesù, si parla di una congiura dei popoli e delle nazioni contro il Signore e contro il suo Unto; i popoli corrispondono a Israele, le nazioni ai Romani; tra i con giurati vi sono Erode e Ponzio Pilato: tutti si sono dati convegno a Gerusa lemme contro Gesù, che è l'Unto di Dio.

Nel Sal 16,10 il salmista esprimeva la fiducia che Dio sarebbe venuto in suo aiuto nei pericoli: «Tu non abbandonerai la mia anima allo Sheol, né lascerai che il tuo fedele veda la fossa». Partendo dalla traduzione greca della LXX, che al posto di «fossa» usa «decomposizione», Pietro il giorno di Pentecoste (2,25-61) e Paolo nella sinagoga di Antiochia di Pisidia (13,34-37) applicano l'oracolo alla vicenda di Gesù, che non ha conosciuto la corruzione del se polcro perché risuscitato da Dio.

In Sal 110,1 è, fra tutti, il più abbondantemente utilizzato nelle varie tradizioni neotestamentarie perché non v'erano dubbi sul suo significato messianico. Il primo versetto: «il Signore (JHWH) ha detto al mio signore (Davide): siedi al la mia destra» è letto da Pietro, nel discorso di Pentecoste (2,34-36) come l'invito rivolto da Dio a Gesù Messia di sedersi alla sua destra in seguito alla sua risurrezione e intronizzazione. A questo Salmo si deve accostare il Sal 118,16, che torna in due discorsi di Pietro (2,33; 5,31), dove il Messia è esal tato alla destra di Dio (solo nella versione greca).

Due titoli significativi: Gesù Messia e Signore

L'attualizzazione cristologica della Scrittura trova una delle sue massime espressioni in due titoli che si imporranno nella tradizione cristiana anche a motivo del loro denso significato. Si tratta dei titoli Cristo e Signore, solen nemente proclamati nel discorso di Pietro il mattino di Pentecoste: «Sappia con certezza tutta la casa d'Israele che Dio ha costituito Signore e Messia (= Cristo) questo Gesù che voi avete crocifisso» (At 2,36). Nel pensiero della chiesa primitiva questi due titoli rappresentano i due aspetti fondamentali del la regalità di Gesù risuscitato, quantunque a questo stadio della tradizione non devono essere letti con quella pienezza di significato che acquisteranno solo nella riflessione cristologica successiva. Altri titoli presenti nel Libro de gli Atti, quali Servo di Dio, Santo e Giusto, Capo, Salvatore, Figlio di Dio, te stimonianze di una cristologia arcaica, cadranno presto in disuso - eccetto Figlio di Dio - e non si trovano più negli strati posteriori del NT.

1. Gesù Messia. Con la morte e la risurrezione di Gesù, la prima comunità cristiana comprese che egli era davvero il Cristo, cioè il Messia atteso. Que sto messaggio trovava garanzia nelle Scritture. Così vediamo che fin dai pri mi giorni gli apostoli a Gerusalemme «non cessavano di insegnare e di an nunciare, nel tempio e nelle case, il Messia Gesù» (5,42) e l'apostolo Paolo è impegnato a dimostrare che «questo Gesù è il Messia» nelle sinagoghe giu daiche della diaspora: a Damasco (9,22), a Tessalonica (17,3), a Corinto (18,5) e davanti ad Agrippa (26,22-23).

Questa predicazione comporta un salto di qualità rispetto alle attese messia niche del giudaismo. Prima della passione l'idea di Messia era legata, nelle credenze popolari, al figlio di David restauratore del regno di Israele, con un carattere eminentemente politico che aveva indotto Gesù a mostrarsi riserva to riguardo al titolo di Messia e a imporre cautela. Egli soprattutto aveva in sistito sulla necessità della sua morte come parte essenziale della sua missio ne messianica e salvifica. Ma dopo la risurrezione c'è uno spostamento di accento: i primi cristiani cominciano a valorizzare le profezie riguardanti un Messia che doveva morire e risorgere e il titolo di Messia perde il suo carattere regale con le risonanze politiche che poteva evocare: Gesù non ha re staurato il trono di Davide e quindi il titolo richiama ora solo la missione sal vifica che egli ha realizzato.

Un'ultima osservazione va fatta. Il titolo Christos-Messia appartiene inizial mente solo alla predicazione di tendenza apologetica destinata ai giudei. Quando esso viene trasferito nel mondo greco-romano subirà un'ulteriore evoluzione: sganciato definitivamente dal contesto giudaico nel quale era sor to, perde il suo valore e si avvia ad essere usato come un nome proprio, di ventando cognomen di Gesù.

2. Gesù Signore. Durante la sua vita terrena Gesù veniva chiamato normal mente Rabbi, Maestro, ma sono interessanti alcuni casi nei quali i Sinottici usano per il Gesù storico il titolo Kyrios perché dipende da essi l'uso invalso nella chiesa primitiva. Si tratta dei testi nei quali Gesù designa se stesso come «Signore», quando descrive la sua funzione di giudice sovrano e di re alla fi ne dei tempi: «Molti mi diranno in quel giorno: Signore, Signore!» (Mt 7,21. 22); e ancora: «Signore, quando ti abbiamo visto affamato ... ?» (Mt 25) e in alcune parabole espressioni quali: «Signore, Signore, aprici» (Mt 25,12).

È proprio in questa aspettativa che Gesù viene chiamato Signore dalla chiesa primitiva, la quale ha coscienza che con la sua risurrezione i tempi ultimi si sono compiuti. Essa si rivolge a Gesù come al Signore, figurandoselo assiso alla destra di Dio e pronto a manifestarsi come sovrano e giudice. Così Pietro il giorno di Pentecoste interpreta l'effusione dello Spirito come l'inizio di quei tempi definitivi. La speranza d'Israele cede il posto alla speranza cristia na. All'attesa del messia subentra l'attesa del Signore, espressa nella grande supplica liturgica: Marana tha! Signore vieni!

È singolare, poi, come alla luce della risurrezione si applichino alla persona di Gesù formule e testi dell'AT che parlano del Kyrios JHWH. Attribuendo al Risorto il titolo di Kyrios, la cristianità primitiva riconosceva che egli era sta to investito, nella sua umanità, di una funzione regale escatologica che era prerogativa veramente divina. Per osare attribuire a Gesù la regalità che il Dio dell'AT si riservava di esercitare personalmente alla fine dei tempi, i primi cristiani hanno dovuto concepire un'idea altissima del Risorto. A questo non hanno potuto essere condotti se non dall'insegnamento di Gesù stesso.

Infine va ricordata l'importanza che assume nella chiesa primitiva l' «invoca re il nome del Signore», sia nella liturgia cristiana (cf 1 Cor 11,26: 16,22; Ap 22,20), sia nelle confessioni di fede (cf Rm 10,5ss; 1 Cor 12,3; Fil 2,8-11). Il giorno di Pentecoste Pietro, concludendo la lunga citazione di Gioele, affer ma: «Allora chiunque avrà invocato il nome del Signore sarà salvo» (At 2,21; Gl 3,5), un'idea ripresa dallo stesso Pietro in un successivo discorso (At 4,12)e da Paolo in Rm 10,12-13. È interessante annotare come in Fil 2,8-11 dal l'ambito delle assemblee cristiane si passa audacemente ad una liturgia cosmica: è l'universo intero che «confessa» il nome di Gesù, proclamando Signore il Risuscitato. Nel linguaggio della chiesa primitiva, «invocare il no me del Signore» sarà anche sinonimo di «essere cristiani» (cf At 9,14.21;22,16; 1 Cor 1,2 e 2 Tm 2,22). Forse uno degli esempi più belli di tale invoca zione è la preghiera di Stefano durante il martirio: «Signore Gesù, accogli il mio Spirito» (At 7,59), rivolta a colui che si trova alla destra di Dio (7,55-56), come Gesù aveva dichiarato dinanzi ai suoi giudici (Lc 22,69).

Conclusione

La cristologia degli Atti è essenzialmente pasquale. Tutta l'attenzione della comunità delle origini è concentrata su questo evento decisivo: Gesù di Na zaret, il Crocifisso, è stato risuscitato e siede alla destra di Dio, divenuto sal vezza per noi. È la risurrezione ciò che gli apostoli propriamente proclamano come vangelo e lieto annuncio: così Pietro, riassumendo la missione dei Do dici, afferma che il loro compito precipuo è di essere «testimoni della risurre zione» (1,22) e Paolo nella sinagoga di Antiochia di Pisidia: «Noi vi portiamo questo messaggio di salvezza: Dio ha fatto risorgere Gesù» (13,32).

Questa affermazione della risurrezione di Cristo, per essere compresa, viene collocata sullo sfondo delle Scritture e attraverso di esse viene mostrato il ca rattere messianico. Per i primi cristiani si tratta di provare a se stessi e ai Giu dei il profondo collegamento tra questo singolare evento di Gesù e l'attesa di fede dell'antico popolo di Dio. Anzi, se la salvezza promessa da JHWH nel l'AT consisteva in una sua presenza, in un suo dono, ora agli occhi dei primi cristiani appariva del tutto logico, sia pure nella sua radicale imprevedibilità. che Gesù risorto, costituito Cristo e Signore, era questo «dono», il decisivo gesto salvifico di Dio, la sua comunicazione personale agli uomini.

La risurrezione però non cancella tutto quanto l'ha preceduta. Anzi, chi è ri sorto, è quel Gesù di Nazaret del quale sono menzionati la nascita storica, la discendenza davidica, il ministero pubblico preceduto dalla predicazione del Battista, i miracoli e, infine, la morte avvenuta per una condanna sulla croce. È nella duplice luce della risurrezione e delle Scritture che viene riletta e in terpretata la vita terrena di Gesù. Egli appare ora ai loro occhi come un esse re singolare, «unto di Spirito Santo e di potenza» (10,38), non racchiudibile entro schemi puramente umani. I discorsi missionari fondano l'annuncio del vangelo su questa identità costantemente affermata tra Gesù terreno e Risor to, tanto che per poter essere «testimoni della risurrezione» nel senso indica to da Pietro quando si trattò di sostituire Giuda, bisogna essere tra quelli che sono stati con Gesù «per tutto il tempo che ha vissuto con noi cominciando dal battesimo di Giovanni» (1,21-22).

In ultima analisi, di questo danno testimonianze le Scritture: in Gesù è «il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, Dio dei nostri Padri» (3,13) che ri vela il suo volto; è lui che lo ha risuscitato mostrandosi in modo definitivo come il Dio fedele alla promessa, colui che anche dalla morte sa «suscitare-ri suscitare» la vita, colui che «non permette che il suo Santo veda la corruzio ne». Meditando la Scrittura, i primi cristiani maturano la convinzione che il Dio vivente è il Dio indefettibilmente fedele.

(da Parole di vita, 2, 1998)

Religioni e pace. Nello spirito di Assisi

La pace: riposo di Dio nell'uomo

di Andrea Sciffo *


Nelle parole di Gesù raccolte dai vangeli, la pace assume un significato particolare: esprime un’integrità dell’uomo, effetto della grazia di Dio.

È la sua forma intatta, così come il Signore la concede: per questo «pace» non appare tanto come antitesi di «guerra» (in senso militare), quanto di «peccato» (lo stato di inimicizia interiore dell’uomo).

Del resto, «in pace» è l’espressione ebraica tipica di chi esce incolume da un incidente che avrebbe potuto causargli seri danni fisici.

Anche nel Primo Testamento era assente il riferimento alla pace come interruzione di un conflitto armato: Dio è anche il «Dio degli eserciti» del popolo di Israele.

Anche nella massima «vita militia est», che sintetizza l’impegno del cristiano nel mondo, il combattimento è certo spirituale, ma non per questo perde le sue caratteristiche di battaglia.

Il cristianesimo delle origini non sceglie la pace come opzione culturale o esistenziale, piuttosto la chiede come dono ricevuto gratuitamente da Dio. Le parole di Gesù erano chiare al proposito: «Vi do la mia pace... non come la dà il mondo».

La pace cristiana non è dunque la classica eirené, il rilassamento del saggio, bensì una tensione dell’inquieto cuore alla meta, poiché essa sola è pacifica. Consiste nella carità, cioè nell’amore di Dio: nel doppio senso di amore che il credente prova per Dio e che Dio manifesta al credente.

La storia della spiritualità cattolica successiva è anche la storia delle forme che la pace assume nella vita degli uomini e delle società, dopo che le comunità si sono espanse nell’ecumene romana.

In pieno medioevo, il padre della chiesa san Bernardo di Chiaravalle era «doctor mellifluus», cantore estasiato di Maria Vergine e delle dolcezze della vita contemplativa, ciò non gli impediva di farsi anche predicatore della crociata.

Prima di lui, da sant’Agostino («il mio cuore è inquieto finché non riposa in te») a sant’Ambrogio («Dio trova riposo nell’uomo»), la pace è stata vista e vissuta come dono di Dio all’uomo, che vive nelle vicissitudini terrene, ma rientra nell’alveo della fiducia (preghiera, lode, sacrificio...).

Sempre in tempi medievali, la pace è pace dell’anima e appartiene all’altra vita: qui gli esempi maggiori, e più noti, sono il Cantico delle creature di san Francesco d’Assisi e la sua preghiera «O Signore, fa’ di me un istrumento della tua pace». Se ne ricorderà Dante, raffigurando l’inferno come assenza di pace, in quanto assenza di Dio dall’anima dell’uomo (dannato), e il paradiso come luogo di coloro che hanno fatto già in vita spazio al Creatore: «e ‘n la sua volontade è nostra pace» (Piccarda, Par. III,85).

Petrarca è invece il prototipo dell’ambivalenza umanistica e poi moderna, nel suo sonetto «Pace non trovo et non ò da far guerra».

Nel Cinquecento spagnolo, il grande mistico carmelitano san Giovanni della Croce, nel Cantico Spirituale, pone il quesito all’anima moderna: si va al Dio della pace attraverso la «notte oscura» della tribolazione.

La pace cattolica dopo le rivoluzioni scientifica e illuminista è rappresentata dal Manzoni nella «notte dell’Innominato» e anche nel viaggio di Renzo verso l’Adda, in fuga dalla Milano appestata: è una pace temporanea, ma radicata nel mistero della vita dopo la morte.

Un romanziere contemporaneo, Eugenio Corti, rappresenta la condizione dell’uomo in guerra ne «Gli ultimi soldati del re»: la pace è l’amore per Dio e i fratelli, anche in circostanze estreme, anche in guerra, non odiare mai! La pace cattolica si condensa nell’amore verso il prossimo, che è specchio e sostanza purissima dell’amore per Dio; dicono i padri: «Hai visto il tuo fratello, hai visto il tuo Dio».

(da MC, gennaio 2007)

* Andrea Sciffo, insegnante di lettere, giornalista e scrittore, studioso di letteratura e costume, ha frequentato la scuola di teologia per laici del decanato di Monza e la facoltà di teologia al Pontificio ateneo della Santa Croce in Roma. Collaboratore del centro culturale Talamoni di Monza, ha pubblicato saggi e prose e scrive per vari mensili (Studi cattolici, Fogli, Il Testimone).


IL PAPA: RISORSA FORMIDABILE PER LA PACE

di Don Armando Cattaneo *

Domanda

Pace come riposo in Dio, bello... ma se uno non crede? E non chiedere reciprocità non è vergognarsi di Dio?
Il riposo del cuore non deve arrivare troppo presto: la fede è ricerca e fatica; spesso è difficile da trovare. La pace cristiana è una ricerca esistenziale, non intellettuale, ma non è mai disperata. Ad Auschwitz si chiedeva: «Dov’è Dio adesso?». «È là, impiccato con le altre vittime» fu la risposta. Nelle difficoltà il mio prete di paese mi raccontava sempre questa storia: «Quanto è alta la burrasca? Anche la burrasca più alta non supera i 40-50 metri; ma il mare è profondo migliaia di metri… e sotto la burrasca c’è la pace».
Vergogna? No, solo chi accetta il dialogo ha forza e la dimostra; più si è insicuri e più ci si irrigidisce. L’incontro interreligioso di Assisi nel 1986 è stato un segno di grande forza di papa Wojtyla.

Oggi sono invitato a parlare come «testimone». Ruolo inedito per un prete, che sempre rischia di scadere a fare il predicatore! Ma noi cristiani siamo chiamati «a rendere ragione della speranza che è in noi», a essere proprio e solo questo: testimoni! Anch’io, «prima di essere prete per voi, sono cristiano con voi» (s. Agostino). E ho accettato, prima come cristiano e poi come cattolico! Non per tradire la mia identità, ma per valorizzarla!

La chiesa cattolica (nel senso di universale) nasce con la controriforma nel xvi secolo, in contrapposizione a Lutero: quindi per differenza, per guerra!

Gesù l’aveva detto: «Non sono venuto a portare la pace, ma la spada, a mettere figli contro padri, uomo contro donna...». La pace non è quieto vivere e non è cristiana, se confusa con il buonismo.

Il cattolicesimo immediatamente richiama papato e Vaticano: formidabili risorse. Disporre di un’unica autorità ci conferisce, all’interno, unitarietà nella fede, garanzia di messaggio e di verità, perché il pericolo della dispersione è tremendo. All’esterno ci rafforza «politicamente» (in senso alto, non partitico) nella società internazionale, e ci libera dai poteri forti, economici e politici.

I veri padroni del mondo, 200 famiglie ricche quanto 2 miliardi di uomini, fanno molta paura agli Usa e agli arabi, ma non intimoriscono la chiesa cattolica!

Il rappresentante vaticano all’Onu subisce le stesse pressioni di tutte le altre religioni, eppure è libero di parlare nell’interesse di tutta l’umanità senza timori reverenziali verso alcuno. Giovanni Paolo ii, pur inascoltato, ha detto chiaro a Bush: «Non fare questa guerra». La pace che la chiesa cattolica porta si fonda sulla forza della pulizia e della libertà… non sulle armi.

Potere esprimere questa autorevolezza col volto del papa è una fortuna mediatica, che le altre religioni non hanno.

Osama Bin Laden è il volto degli islamici, ma non ne rappresenta che il 2%. Il buddismo ha il Dalai Lama, ma non tutti quelli del passato avevano la stessa comunicativa dell’attuale.

Il papato ha anche evitato ai cattolici di avere chiese nazionali come, purtroppo, hanno gli ortodossi. Le loro chiese: greca, russa, rumena... sono distinte fra loro e tutte rischiano pericolose identificazioni politiche ed etniche con i propri stati.

Quanto a quelle protestanti, alcune (specie le più americane: battisti, mormoni e altri) spesso si piegano agli interessi delle multinazionali. Nessuno ha l’autorevolezza del papato nel porsi come primo ostacolo alle guerre «per la democrazia» o «del sottosviluppo».

Passando dalla diplomazia alla nostra realtà quotidiana, io ringrazio gli immigrati! Venendo da noi e portando con sé le proprie convinzioni, stanno sconquassando la nostra società svuotata di valori e passioni. Risvegliano nei cattolici incolori l’esigenza di una più consapevole e sana identità, di scelte coerenti, e la capacità di argomentare le ragioni della propria fede: la pace non va confusa con l’inerzia! E favoriscono il dialogo interreligioso che definisco come: confronto e arricchimento reciproco. È bello quando mi parla di Dio, col secchio in mano, il muratore musulmano che lavora nella mia chiesa!

Quanto alla reciprocità dobbiamo rivendicare la nostra libertà di non averla. È giusto che la chiedano i politici e governanti... Ma i cristiani no! Gesù ci ha insegnato a porgere l’altra guancia ed è morto per tutti, lui solo!

Nella chiesa i laici devono contare di più, ma essere più sanamente laici, consapevoli delle proprie ricchezze culturali, orgogliosi di un maestro come Cristo, ma non «più papisti del papa» e integralisti, ovvero pericolosamente ignoranti...

(da MC, gennaio 2007)

* Armando Cattaneo, parroco a Cinisello Balsamo (MI), giornalista e scrittore, fondatore e direttore per vari anni del Circuito Marconi (network radiofonico di 25 radio private cattoliche in tutta Italia), ha di recente fondato il sito www.jesus1.it, di cui è direttore. Collabora con la rivista Famiglia Cristiana

Dalla civiltà della paura alla civiltà della pace
Un guizzo di utopia

di Ernesto Balducci

Vorrei impegnarmi a una riflessione forse presuntuosa, comunque un po' complessa, articolata, capace di assumere il tema della pace come tema totalizzante, che riconduce in sé gli aspetti diversi dei processi innovativi del nostro tempo, e capace quindi di suggerire una strategia globale, dove le varie battaglie per il rinnovamento possono ritrovare unità e coordinamento reciproco.

Vorrei sostenere la tesi che il nostro impegno per la pace non può più essere inteso come volto semplicemente a deprecare la guerra e a invocare il disarmo. Se vuole rispondere alle provocazioni oggettive della situazione pericolosa in cui siamo, non può essere che una «mutazione culturale».

Io sono convinto, con molti grandi testimoni, artefici del nostro tempo - penso qui ad Einstein, per citare il più importante - che noi stiamo vivendo all'interno di una mutazione storica che coinvolge non soltanto gli assetti dei rapporti tra i popoli, ma il modo stesso di pensare, la forma mentis dell'uomo, la cultura dell'uomo. Il famoso scienziato aggiungeva che dopo Hiroshima «o l'umanità cambia modo di pensare, o il suo destino è la catastrofe». Questo è il dilemma posto da uno scienziato che per vari versi potrebbe essere chiamato padre o nemico della bomba atomica, visto che le ricerche atomiche devono qualcosa alle sue grandi teorie della relatività ed ancora che egli stesso, nell'estremo cimento della guerra, non fu alieno dal pensare che la bomba poteva essere usata per porre fine alla guerra, soprattutto alla minaccia nazista. Ma con prontezza di coscienza, subito dopo Hiroshima, Einstein e dopo di lui B. Russell e altri grandi scienziati dichiararono, con il prestigio che avevano, che occorreva modificare radicalmente il modo di pensare, il modo di far politica, se si voleva evitare la catastrofe.

Dobbiamo riconoscere dopo trent'anni che il modo di pensare, almeno a certi livelli, là dove la storia agisce con i suoi strumenti ufficiali, non si è modificato. Il modo di pensare è ancora quello anteriore alla soglia atomica. E sta di fatto che dinanzi a noi è aperto il baratro della catastrofe.

Ma negli ultimi anni si sono succedute in Italia e in Europa manifestazioni pacifiste di tale entità da dare subito l'impressione che qualcosa di nuovo pulsasse nella coscienza collettiva, che questa mutazione che negli strati di superficie non si avverte, nel fondo della coscienza dei popoli, fosse invece avanzata, confortando quella che poteva sembrare un'utopia da conservare nel cuore, stando in agguato nella storia se per caso venisse il momento giusto. Il momento giusto probabilmente è venuto, perché la situazione dell'umanità, dopo l'escalation atomica, che non ha mai cessato di avanzare, è tale da determinare ormai una larga presa di coscienza, una reazione collettiva della base, dei corpi sociali, o la catastrofe è inevitabile.

E con questo sentimento che i popoli stanno riprendendo in mano il proprio destino. Il genere umano è all'interno di una mutazione storica, quella che Teilhard de Chardin con il suo linguaggio chiama soglia evolutiva, la soglia dove è necessario un salto di qualità, una nuova concentrazione della coscienza umana, cioè un punto di riferimento delle coscienze a partire dal quale sia possibile prendere possesso dei dinamismi della società.

La paura e l'inventiva

Ogni qualvolta - la storia dell'evoluzione ce lo dimostra - si tocca la soglia dove è necessario un salto di qualità, dove cioè non è più saggezza la continuità col passato, dove è saggezza la rottura col passato, ogni qualvolta si entra nella soglia, abbiamo una duplice reazione: quella della paura ad attraversare la soglia - perché la paura è la percezione che si deve morire al nostro passato, all'insieme dei principi culturali su cui si è basata la nostra coscienza - e quella dell'utopia. La paura, perché le istituzioni, che sono nate per realizzare gli obiettivi che ci eravamo proposti, la nostra stessa identità civica e culturale, tutto è messo in discussione. E come una morte storica; per scomodare il linguaggio biblico, dobbiamo morire a noi stessi per nascere. L'altra reazione è quella della inventività, della improvvisa presa di contatto con ciò che ieri sembrava utopia. Oggi ciò che è utopistico diventa realistico e ciò che ieri era realistico diventa utopistico in senso catastrofico. Per esempio, quello che è stato detto dalle massime autorità americane, (che sarebbe anche possibile fare una guerra atomica controllata) dimostra come il realismo ha toccato la follia. Sembra davvero poco attendibile l'idea che una eventuale contesa sia da una parte controllata senza che l'altra parte non subisca la tentazione di rispondere in maniera smisuratamente più grande, senza che si entri nel rigurgito dell'escalation delle armi atomiche. Ne consegue che il momento in cui siamo è quello in cui l'utopia può pretendere di presentarsi con tutti i titoli di realismo storico. Questo è il punto essenziale per capire gli obiettori di coscienza che noi difendemmo nel '63. Oggi siamo in grado di dire che ciò che ci nascondono gli obiettori di coscienza è in nuce, come in un germe, una alternativa di scelta. La tesi che sto svolgendo è che quello della pace è un tema capace di riannodare le fila sparse di un ideale tessuto di società diversa.

La mutazione culturale

Noi sappiamo come procedono dal punto di vista culturale le società. C'è una cultura dominante, che è quella che fa tutto, che ha i giornali, le televisioni, le Case editrici, quella che dà l'immagine della società globale, senza che questa immagine vi risponda effettivamente. Noi potevamo dire vedendo i libri di testo, gli articoli di giornalisti di grido, che tutto procedeva come prima (e del resto le carte di identità dei partiti politici risalgono, nonostante la gloriosa frattura della resistenza, ad epoche anteriori alla soglia atomica). Dalle stesse ideologie - che sono anteriori alla soglia atomica - l'idea dell'uomo come violento è accettata come un dogma, non mutabile.

Noi oggi ci troviamo in una condizione in cui deve prendere voce quella cultura (la chiamo così in senso antropologico) che non ha avuto voce, che è sempre stata emarginata o connotata in qualche modo nel tratto del ridicolo, dell'estroso. Come del resto, ora che ci ripensiamo dall'altezza drammatica della storia attuale, capitò a Francesco d'Assisi, che disse di se stesso «Io penso che Dio volesse che io fossi nel mondo un novello matto». Uno strano matto: credo che tutti gli uomini della cultura dominante pensassero così, dal papa al cardinale Ugolino; gente furba, però, che sapeva usare anche i pazzi, li sapeva inserire nelle strategie di potere. Erano uomini di grande cultura, tanto che avevano strutture così elastiche da accogliere anche il nuovo, diversamente dai nostri tempi. Oppure possiamo pensare, per andare a esempi più grandi, a Gesù Cristo, che fu rivestito come un pazzo da Erode, simbolo del potere. Ogni volta che un'idea nuova, fresca, verginale viene alla luce del sole, la cultura dominante ha subito gli schemi di lettura per bloccarla, qualificandola come pazzia. Ma ora noi siamo in una condizione storica in cui i pazzi forse avevano ragione; la voce della coscienza disarmata, che si fa forte soltanto del consenso delle coscienze, è più potente di un esercito.

Il destino dell'umanità è unico

Sono maturate le grandi verità di Hiroshima, così vorrei chiamarle, che sono tre a mio giudizio, e fondamentali. Su queste verità, via via, attraverso quel lento spostamento sismico che è avvenuto alle fondamenta del corpo sociale, si sono preparati i cambiamenti.

Ila prima verità di Hiroshima è che il destino dell'umanità è unico e indivisibile, cioè per la prima volta la storia ha capito che il suo destino di morte è un destino indivisibile, poiché è possibile la morte simultanea. È un'idea che non era potuta mai balenare nella mente umana prima, salvo che in Caligola, il quale, come si racconta nella scuola, nei suoi sogni sadici, desiderava che il genere umano avesse una testa sola per tagliarla in un sol colpo. Ma i sogni di Caligola sono diventati possibilità oggettiva. Noi sappiamo che gli armamenti atomici sono tali da poter distruggere più volte il genere umano nella sua interezza. Anzi essi possono per sempre abolire dal pianeta Terra, unico nell'universo ad avere la biosfera, la stessa pellicola di biosfera che l'avvolge.

carattere ormai planetario. O il bene comune è planetario o non è bene comune. E ogni coscienza politica che assuma il bene comune del proprio paese, come sufficiente a fondare le virtù politiche, è una menzogna. L'unico bene comune, concreto, che si risolve nel bene comune anche del singolo paese, èil bene comune del genere umano. Questa intuizione ha acquistato una esplicazione di carattere scientifico, attraverso le analisi condotte da grandi competenti, uno dei quali è Brandt (o l'équipe che fa capo a lui) che ha steso un suo rapporto in cui si dimostra che le interdipendenze nel genere umano sonocosì strette che non è possibile ormai nessuna pianificazione economica, nessun risanamento del bilancio che non tenga conto di questa interdipendenza. Non si dovrebbe parlare di dipendenza del povero Sud dal Nord, ma del contrario, perché la grandezza del Nord, i suoi sperperi consumistici, la sua stessa posizione di privilegio del potere a livello degli armamenti, sono legate al fatto che sopravvive l'economia di rapina nei confronti del Sud. Ma il Sud, in questi ultimi anni, a partire dal 1955 ad oggi, ha compiuto una rivoluzione, simile a quella del rapporto servo-padrone. Il Sud, servo, ha preso coscienza che il padrone senza il servo non conta niente. E questa idea, come spiega Hegel, quando balenò nell'uomo, mutò la storia.

Noi siamo in un momento in cui il Sud del pianeta, il così detto Terzo mondo, ha preso coscienza che il mondo sviluppato senza di lui non è più niente. La storia muta. Probabilmente per questo gli armamenti sono un argomento estremamente provocatorio, poiché se io vi dico che nell'ultima guerra abbiamo avuto 50 milioni di morti, giustamente provoco sgomento. Ma forse pochissimi di voi sanno che due anni fa, nel '79, 50 milioni di morti li ha provocati la fame, e questa non è nata dalla malvagità della natura, ma dall'assetto economico del pianeta, perché nello stesso anno furono spesi 45 miliardi di dollari in armamenti, la decima parte dei quali bastava a eliminare i morti di fame. Il genere umano ha preso coscienza di questo e ormai nessuno si salva da un'inquietudine morale. Ogni tanto si sentono uomini politici che appartengono al vecchio ceppo, che parlano con molta sicurezza, con un linguaggio illuministico, con delle riflessioni paternalistiche nei confronti del terzo mondo; ma noi sentiamo che quella è una cultura morta. Quelli sono gli uomini politici pericolosi, perché non sono passati attraverso questa cruna d'ago, prima della quale c'è la stoltezza e oltre la quale c'è la consapevolezza che la salvezza del genere umano è unica e indissolubile, anche a livello delle pianificazioni economiche. Mentre parlo sento che questo tema dovrebbe diventare centrale nelle scuole, nei pulpiti, dovunque. Questa è l'educazione delle nuove generazioni, e non il ritorno a Garibaldi e la sua celebrazione.

L'istinto coincide con la morale di pace

In secondo luogo sentiamo che è maturata, non molto a livello della consapevolezza diffusa ma moltissimo in quello delle consapevolezze anticipatrici, la certezza di un'altra verità che i nostri padri non potevano percepire adeguatamente. Noi in passato abbiamo distinto la sfera della morale dalla sfera dell'istinto: due sfere tra loro inconciliabili, destinate al conflitto. L'istinto non è solo sede del male, ma anche principio di propulsione creativa, di arricchimento della vita morale dell'uomo, però la sua condizione normale è il conflitto con la ragione morale. La pace, per esempio, è un imperativo della morale. L'istinto nell'uomo, così ci è stato sempre insegnato, è aggressivo, e quindi la morale può contenere, regolare questa aggressività, ma sempre col presupposto che tra un principio e l'altro pace non ci può essere. E invece oggi noi siamo a un punto storico nuovo in cui quell'istinto di fondo della specie umana, della specie come tale, ci porta ad aver paura di morire. La volontà di sopravvivere arriva a coincidere con l'imperativo della coscienza morale, cioè tra biologia e coscienza c'è un punto d'incontro oggi, e questo poi si apre ad altre prospettive complesse anche su tutti gli altri settori.

Non è vero che si debba fare la morale dell'uomo a prescindere da quello che è il suo contenuto istintivo. L'istinto profondo dell'uomo, la vastità, la globalità della voce della specie arriva a coincidere con la legge morale; ora fare pace non è più un dovere a cui ci chiama la coscienza, è una necessità a cui ci chiama l'istinto di sopravvivenza. Questa è una soglia antropologica nuova, quella che le ricerche di morale di vario tipo dovranno approfondire e sviluppare. Conseguentemente non si può vivere sulla paura della guerra. Ricordo un episodio capitato ad Amburgo il giugno scorso, quando i vescovi luterani vollero celebrare il «giorno della chiesa» e diedero come motto a questo giorno una parola del Vangelo intesa spiritualisticamente, «non abbiate paura, io ho vinto il mondo». Parole di Gesù Cristo; ma i giovani, che arrivarono più numerosi del previsto, inalberavano cartelli in cui dicevano «noi abbiamo paura». Paura della bomba atomica, paura del disastro ecologico, ed elencarono le ragioni della loro paura. E in questo capovolgimento dall'idealismo evangelico astratto al realismo si è visto un sintomo di ciò che maturava nelle coscienze.

Nelle coscienze matura una richiesta profonda, che se avesse a disposizione le mediazioni politico-culturali, determinerebbe il cambiamento storico del genere umano. Questa paura è degna dell'uomo. Non è una paura egoistica, gretta, di chi si rifiuta di sacrificarsi per un ideale superiore a lui, è una paura che ha la sanità della specie, è quindi una paura che porta i segni, la trasparenza della coscienza morale. Questo è un fatto nuovo ed importantissimo.

La guerra è uscita dalla sfera della ragione

La terza verità è che la guerra è uscita definitivamente dalla sfera della ragione. Non c’è mai stata, dirà qualcuno. Si, è vero. Ricordo quando imparavo il latino a scuola, in prima ginnasio, e studiavo Tibullo: «Chi fu il primo a produrre le spade?», con senso di deprecazione. Ma questa lagna, di deprecare le spade e di fabbricarle, è antica quanto l'uomo. La guerra è stata sempre considerata come un evento nefasto, ma necessario. Poi questa fatalità poteva essere connotata di provvidenzialità, di punizione di Dio per i peccati dell'uomo; ognuno aveva le sue categorie per renderla accettabile. Nelle litanie medievali si diceva «dai fulmini, dalla tempesta, dalla fame, dalla guerra liberaci o Signore», come se la guerra appartenesse alle calamità di natura. Il concetto della fatalità della guerra è stato sempre presente nel genere umano prima della soglia atomica. E la ragione si è limitata a disciplinare la guerra, a contenerla in certi limiti, quelli per esempio stabiliti dalla dottrina stoico-romana, ma diventata cattolica con S. Agostino, la dottrina della guerra giusta. Per non parlare poi di altre giustificazioni più nefaste, come quella hegeliana, in cui la guerra appariva uno strumento della ragione, dello Spirito assoluto, per celebrare nella storia le alterne investiture degli spiriti eletti.

Noi queste cose le abbiamo bevute nella nostra infanzia di bambini vestiti con la camicia nera di balilla. Il fascismo poi ci educava al senso di grandiosità della guerra, e senza contestazioni di fondo, perché non faceva altro che portare agli estremi una ideologia giacente alla base della civiltà occidentale. La guerra è sempre nefasta, ma inevitabile e anzi provvidenziale, come spiegava un mio maestro di università, Benedetto Croce, «la guerra come accadimento è nefasto, ma come avvenimento è fausto» (accadimento è il fatto singolo, l'avvenimento sono i risultati complessivi; è questa la strana eterogenesi dei fini: un accadimento nefasto produceva però avvenimenti grandiosi).

Questa teologia della guerra, anche laica (perché ognuno ha la sua teologia) si è inserita nella storia. Ma questa cultura è finita: la guerra è uscita per sempre da ogni possibile disciplina razionale. Questo è un fatto nuovo, che già papa Giovanni nella «Pacem in Terris» sottolineava. Ma direi che in qualche modo non faceva che notificare un'evidenza. Le evidenze è difficile che poi riescano a fermentare in tutte le implicazioni che contengono, o almeno, ancora non lo hanno fatto; però sono sempre più luminose agli occhi della coscienza comune, mentre sono un segno di frattura fra il passato e il nostro presente.

Sono obbligato a dire qual è la presente situazione a cui ho fatto allusione. Noi siamo vissuti in questi anni che ci separano dalla invenzione della bomba atomica, la storia di questa terribile bomba la conosciamo. Prima era nelle mani degli Stati Uniti d'America soltanto, che in qualche modo erano garanti della pace sul pianeta. Quando l'Unione Sovietica ha avuto la bomba atomica, si è creata una competizione tra le due massime potenze, si sono formati i blocchi e abbiamo avuto l'equilibrio del terrore. Perfino il Concilio brucia qualche grano d'incenso all'equilibrio del terrore. La parola equilibrio introduceva nella parola terrore, che fa paura alla ragione, uno spezzone di razionalità. La parità tra le due forze sembrava un trionfo della ragione.

resta che il disarmo perché la parità degli armamenti non è più una garanzia. Siamo in questa necessità contro la quale urtano molti altri condizionamenti.

La generalizzazione del terrore

Qui le cose si fanno delicate e sono quelle più direttamente sotto la nostra osservazione quotidiana, soprattutto di chi come me non ha responsabilità politiche o di altra natura, ma vive tutti i giorni sulla frontiera delle coscienze, dove avvengono cose che probabilmente osservatori distratti da altro non riescono a percepire e a catalogare. La guerra, come abbiamo visto, veniva in qualche modo inglobata in una visione razionale dello Stato, della società, del progetto politico collettivo. Lo Stato, questa grossa creazione dell'uomo, in fondo vive all'interno di una cornice, come è una Costituzione, espressa dalla volontà popolare.

Ora la cornice della nostra vita non è più la razionalità, ma l'irrazionalità, ed il terrore è la parola che meglio la definisce. Esso non ha più la possibilità di essere integrato in una visione razionale del futuro, il terrore è negazione delle ragioni razionali della vita, vi si oppone nettamente. Il fatto che il terrore presieda alla convivenza tra i popoli, ha sollecitato, per così dire, il terrore in tutto il corpo sociale. Quella fiducia nella democrazia, nella Costituzione, dell'uomo nell'uomo, senza di che la democrazia non vive, scompare sempre di più. Il terrorismo dal basso non è altro che l'immagine speculare del terrorismo dall'alto. L'assenza di ragione ai vertici dei rapporti tra i popoli trova una sua simmetria drammatica nell'assenza di ragione di chi ritiene che con il crimine si possa veramente cambiare la società. La mancanza di razionalità ai vertici della convivenza nazionale e internazionale, è anche alla base della nostra convivenza, contamina il corpo sociale.

Come i rapporti tra individuo e individuo sono segnati sempre più dalla sfiducia e dalla competizione, così la violenza è un tratto comune della nostra società. Quindi la riforma morale richiesta, alludendo a questo o quello scandalo (deprecabili certo) che si vuoI compiere, è senza esiti. L'irrazionalità ci attraversa. Le nostre difese culturali sono velleitarie, e il senso di impotenza, che avverto spesso negli insegnanti, nei genitori... mi conferma nell'idea che il nostro male è collettivo, che ci tocca come genere umano.

Inesorabile decadimento della democrazia

D'altronde la democrazia non sta decadendo solo per ragioni etiche, ma perché è colpita nel suo cuore anche dal punto di vista formale, istituzionale. E sempre stato riconosciuto da tutti che i diritti del soggetto sovrano nella democrazia del popolo trovano il loro momento culmine nella decisione se fare qualcosa è bene o male. Questo è il diritto supremo di un popolo. Però ora i popoli non hanno più questo diritto. All'interno dei patti militari è previsto che un singolo popolo non possa decidere niente. Anzi questo svuota-mento della sovranità è stato anche formalizzato per quanto riguarda la Nato. Nel '62, ad Atene, i vari paesi hanno riconosciuto al presidente degli Usa il diritto di toccare il bottone a suo arbitrio, perché, evidentemente per ragioni tecniche, una guerra atomica non può avere l'ultimatum. Solo chi anticipa l'avversario può vincere. Quindi il nostro destino è in mani lontane, uno stato non ha più capacità di decidere. Nel caso della guerra atomica le mosse non sono più partecipate democraticamente, perché l'elemento decisivo della vittoria è il segreto, e quindi la sorpresa. Se l'asse essenziale dei diritti democratici è colpito, non ci restano che spazi piuttosto ludici. E nella logica del sistema che la decisione ultima non sia nelle mani della base, ma in mani irraggiungibili. La democrazia deperisce perché i suoi elementi formali diventano sempre meno credibili.

Noi, per poter vivere la nostra vita secondo ragione, dovremmo prendere le decisioni sulla base della conoscenza delle cose. L'informazione è diventato un elemento decisivo come mai lo era stato. Attualmente siamo informati coattivamente da centrali di informazione che sfuggono al nostro controllo. E allora il male peggiore, a mio giudizio, contro cui siamo chiamati a combattere è l'occultamento ideologico della verità delle cose. Viviamo all'interno di un gioco di occultamento, non solo istituzionalizzato per quanto riguarda la dichiarazione della guerra e i segreti atomici, ma concernente l'occultamento sullo stato delle cose. E questo è ciò che suscita in me più indignazione. Se provate a fare il bilancio delle informazioni televisive, noterete disparità incredibili. Pensate a quante ore sono state dedicate dalla nostra televisione al caso polacco, e poi confrontatele con quelle dedicate al caso Nicaragua, Salvador ecc.; vedete subito la disparità. Ma questo è nulla. In realtà noi siamo tenuti all'oscuro della condizione di pericolo in cui versiamo. Perciò dobbiamo veramente mobilitarci per smascherare questo meccanismo che è così potente ora con i mass media - dove le informazioni private, o controinformazioni sono cose visibili - che veramente si è portati a disperare. Il potere che decide le guerre è anche il potere che decide come informarci.

Esiste un'alternativa?

Potrei continuare nella mia analisi, ma questi tre aspetti mi sembrano sufficienti per farvi comprendere che non è più possibile continuare. Qual è l'alternativa? Noi dobbiamo passare a una cultura della pace.

Nel dire queste parole sento che rischio di divenire utopista. In fondo, chi come me è vissuto sempre predicando il Vangelo, contrae a livello umano un vizio inguaribile, quello di prendere per veri gli ideali; questo è il lato savonaroliano della mia anima e non me ne vergogno. Con i tempi che corrono, fra l'altro, avere questi spazi di respiro sul piano personale è una garanzia di salute. Ma non sono così ingenuo da credere che il discorso evangelico sia destinato a restare un discorso sulle ultime cose. Sono convinto che sia venuto il tempo, il Kairòs, il tempo opportuno, per scoprire un'antropologia profetica del Vangelo. E una risposta straordinaria alla congiuntura in cui siamo; ma il Vangelo lo pongo al termine della mia riflessione per rimanere in uno sviluppo laico dell'argomento, cioè affidato alla ragione. Parlo della ragione critica, che tende verso le ultime cose, che cerca le radici dell'esistenza, il suo significato ultimo, già di per sé profondamente evangelico. Siamo giunti al tempo in cui è possibile riscoprire questa simmetria tra l'uomo inerme e l'unico uomo possibile nel futuro.

Intanto per questa cultura della pace dobbiamo vincere uno dei dogmi che ci siamo portati dietro e che ritorna continuamente nella cultura che si amministra nei giornali, nelle scuole ecc., e cioè l'idea che l'uomo sia per sua natura aggressivo, un lupo per l'uomo. Questa idea ha fatto sempre il gioco dei fautori della guerra, che l'hanno definita inevitabile. Oggi non si può più parlare dell'uomo e della sua natura secondo una visione medioevale, che lo vedeva astrattamente, l'uomo è dentro la cultura in cui vive.

Ogni dogma sulla immutabilità dell'uomo va eliminato come residuo della cultura preistorica che ancora ci opprime. Ci sono virtualità che la storia vissuta fino ad oggi non ha espresso: la stessa concezione dello stato come un monopolio pubblico della violenza privata (quando si sostiene che lo stato può essere legittimamente violento quando vuole). Questa concezione è finita storicamente; noi entriamo in una età in cui dobbiamo sviluppare l'altro aspetto dell'uomo, profondamente radicato nella sua virtualità, cioè quello dell'uomo amico dell'uomo. Non è vero che san Francesco fosse una eccezione meravigliosa. Francesco d'Assisi viveva con la convinzione di essere una alternativa praticabile, e infatti lo era. Il Francesco che è in noi è l'altra faccia dell'uomo, è l'altra possibilità in cui siamo invitati a credere. Noi invece, finora, di gente seria in gente seria, siamo arrivati a estinguere in noi ciò che attendeva il sole della fiducia per fiorire. Noi vogliamo questa dignità evangelica e umana dell'uomo, che non fa suo vanto la «serietà» che comporta la sfiducia nel prossimo, ma fa suo principio la fiducia nell'uomo; questo è fondamentale. Io qui ricordo due maestri, Teilhard de Chardin e Jaspers, un credente e un laico, e ambedue han detto: non c'è possibilità per il futuro se non nasce una grande fiducia nell'uomo, la fiducia sia come individuo, sia come collettività o umanità in genere. L'umanità ha risorse straordinarie, è in grado di dare risposte impensate a congiunture impreviste. La storia del passato ce lo dimostra anche.

La fiducia di partenza

Noi sappiamo che nell'umanità esistono risorse, inventive eccezionali che possono far fronte alla nuova congiuntura. Questa è la fiducia di partenza. Naturalmente essa non può essere documentata. Nella fiducia c'è sempre un di più, che sovrasta i quozienti dei dati accettati e fa credito alla inventività interna dell'uomo non ancora manifestatasi. C'è un elemento in questa fiducia che è provocatore di valori.

Lo so che il discorso non piacerebbe alla Nato o al Patto di Varsavia, dove hanno la sicurezza assoluta di sapere cosa è l'uomo e se si guardano allo specchio ritrovano la riprova, ché in realtà questa sfiducia, questa paura della democrazia, si ritrova in tutti e due i settori, la democrazia non esiste né nell'Est né nell'Ovest, se noi guardiamo il mondo con l'occhio dei generali. Ma noi dobbiamo veramente mutare il cuore nostro e del prossimo attraverso questo contare sulla fiducia nell'uomo.

I luoghi della mutazione

Alcune indicazioni.

La mutazione non va pensata soltanto in rapporto al tema specifico della guerra che ci minaccia, va pensata - se è vera la mia analisi - in rapporto a tutti i luoghi della società dove si rompe il vecchio schema di violenza; la pace è uno stile di vita, è una cultura. Si dice cultura della pace come si dice cultura neolitica, cultura dell'età del ferro. Si allude cioè a un insieme di valori che si unificano e si esprimono nel rifiuto della violenza come strumento adatto a regolare i rapporti tra gli uomini.

Quali sono i luoghi di rottura della vecchia cultura della violenza? Non mi dispiace ripetere un principio già detto all'inizio: il fatto della crescita della dimensione planetaria. I giovani pensano sempre di più a dimensioni planetarie. L'internazionalismo, che nella storia della classe operaia è stata una grande pagina, ma che oggi la classe operaia non riesce più a portare avanti perché anch'essa erede della cultura borghese, è assunta dalle nuove generazioni in maniera più spontanea, e con l'idea che l'umanità sia un individuo solo, al quale manchi, per esserlo sul serio, soltanto una specie di unificazione della sua coscienza. Perché la coscienza del genere umano tende ormai alla unificazione, ma è come una coscienza ancora viziata da schizofrenia, da frantumazioni interne.

Noi dobbiamo abbandonare l'Eurocentrismo, la più grossa minaccia a questa unificazione del genere umano (noi siamo parte e vogliamo esser tutto). Noi abbiamo inibito le altre culture, le quali oggi si ribellano; noi siamo in una fase di colluttazione di universi culturali, i quali alludono alla loro unificazione, che rispetti la diversità, ma che allo stesso tempo gestisca in maniera concorde il destino non più divisibile. Questo è un processo importante a tutti i livelli.

La scuola, la guerra e la cultura della pace

Noi notiamo come la nostra scuola, così come è (senza far torto ai fermenti di novità, anzi è proprio a quelli che alludo come alternativa), è una cultura che ha trasmesso la mentalità di guerra.

La memoria storica che si è data alla nostra generazione è una memoria in cui la storia dell'umanità è fatta di paci e di guerre, dove però le paci erano soltanto intermezzi labili tra paci combattute. Dove l'immagine che l'uomo ha di se stesso è rimasta per sempre quella dell'uomo con la dava, le frecce, poi coi cannone, poi con la bomba atomica. Dove la storia del passato è quella che i vincitori hanno raccontato, schiacciando i vinti, dove la nostra memoria è già contaminata dalla ideologia della potenza. La scuola ha immesso questa cultura. Non solo, ma ha trasmesso una cultura che è stata sempre quella delle classi dominanti, con il disprezzo dei dialetti dell'uomo, (uso la parola dialetto come simbolo) dell'uomo che vive nella sua immediatezza, che crea la sua coscienza dall'universo della sua esperienza immediata. Questa cultura l'abbiamo schiacciata, per creare classi dirigenti, non per creare comunità umane.

Noi sentiamo oggi una profonda reazione a questa cultura della scuola. Essa non può cambiare per assestamenti di strutture e di gestione. Deve cambiare perché un nuovo contenuto deve pregnarla. E io oso dire che questo contenuto deve essere la cultura della pace, perché si fa pace quando si comincia a riconciliare il ragazzo col proprio mondo, a renderlo cosciente del proprio mondo. Per farvi un esempio, personale ma eloquentissimo, io, che ero figlio di minatori, sono stato in una scuola in cui tutti erano figli di minatori. Tutti i nostri genitori erano silicotici, tossivano in continuazione e non facevano altro che bere per attutire la silicosi. Bestemmiavano naturalmente, perché la bestemmia è liturgia della bettola, con la maledizione del prete che diceva che era peccato mortale ubriacarsi. Poveri uomini, i nostri padri, che ci hanno abituato a disprezzare perché erano ubriachi, bestemmiavano ed erano silicotici! Le miniere erano a duecento metri, i nostri padri si rovinavano, e a scuola le maestrine ci parlavano di Attilio Regolo e di Cartagine e di Roma, e non delle miniere. Era cultura di guerra quella, perché separava la coscienza dal reale, perché non diventava presa di coscienza dell'esperienza vissuta, ma estraneazione.

La cultura della pace è una cultura in cui la coscienza deve crescere a partire dall'esperienza. Una dimensione planetaria, si è detto, ma calata nel particolare. Questo cambiamento è fondamentale per una cultura di pace. Ed allora il discorso della cultura dominante e della cultura oppressa scompare, perché certamente la cultura borghese, che è anch'essa cultura dominante, ha valori immensi che non vanno sperperati, vanno anzi ereditati. Sempre però col presupposto che la cultura di potere deve essere orientata ad una crescita comune dell'uomo nella pluralità delle sue esperienze.

Nuovi rapporti conoscitivi

Terzo elemento: noi ci siamo accorti appena, a livello generale, che il nostro ambiente di esperienza collettiva è stato rovinato dalla cultura della violenza. Lo spazio fisico della natura è stato considerato come uno spazio di illimitate conquiste, come se la nostra figura del progresso avesse a sua disposizione, senza discussione, riserve di energia inesauribili. Questa cultura della violenza, che ha colpito oltre agli uomini le piante, i fiumi ecc., si rivolta contro di noi: abbiamo una natura che ci deperisce attorno. La catastrofe ecologica non è che un capitolo della cultura della guerra. Il rapporto conoscitivo prepara solo il momento dello sfruttamento. Il rapporto conoscitivo deve invece essere simbiosi, partecipazione. Questa passione ecologica su cui è facile sorridere, perché spesso prende forme ludiche, favorisce la necessità di un nuovo rapporto con la natura, di un nuovo postulato che è quello di pace, perché un capitolo fondamentale della società del futuro sarà quello di vedere se siamo maturi.

Ecco un altro capitolo importante di questa silloge della cultura della pace che è già cominciata, che attende solo di collegare le sue strategie, di trovare un momento unitario per combattere il pericolo della guerra atomica: è quella che ha condotto le nuove generazioni a percepire che il vero luogo della violenza a livello antropologico è il rapporto maschio femmina, la sessualità come luogo di violenza in cui sono stabiliti i rapporti di dipendenza (anzi voluti dalla natura, si diceva): è così che la natura ha fatto la donna, il maschio è per natura superiore alla femmina. Sono luoghi comuni, che appartengono alla cultura laica e a quella cattolica. Oggi si riscopre che nella sessualità, e nella famiglia in cui questi modelli si sono codificati, si ha la perpetuazione del virus della violenza. Il femminismo, inteso come lotta di emancipazione della donna, per il quale non abbiamo documenti nel passato, per il perseguimento di un soggetto storico che sia insieme un uomo e una donna, che stabilisca una soggettività creativa in cui l'elemento femminile e l'elemento maschile giochino in parità è tutto da inventare. La donna non deve essere la crocerossina del maschio guerriero, non deve entrare nell'esercito per arricchirlo di una nuova fisionomia.

I partiti

Noi dobbiamo godere di una nuova politica in cui i partiti si trasformino sino a diventare una espressione costantemente collegata a ciò che ferve nella base, a questa nuova volontà, che non è la cultura che sto descrivendo. Se alla fine non fanno questo, si isolano dal corpo sociale, non sono un vantaggio collettivo, ma il marasma, il caos. Si parla di una contestazione delle istituzioni, che non sia un giudizio globale della loro inefficienza, ma una rimessa in campo del loro rapporto organico tra ciò che ferve creativamente nel corpo sociale e le funzioni di potere che esse rappresentano: questa è una battaglia che si combatte sul terreno della pace.

Le chiese

L'ultimo punto riguarda le chiese. Anche a questo proposito devo dire con gioia che le chiese hanno subito un cambiamento che era follia sperare ai tempi della obiezione di coscienza. Era follia sperano, perché la «Pacem in Terris» di Papa Giovanni fu come qualcosa di inatteso, e capisco perché Papa Giovanni, secondo cronisti attendibilissimi perché vicini fisicamente a lui, quando la firmò senza averla fatta passare per il Santo Uffizio, uscendo dalla regola, disse: «Finalmente è fatta». E aveva senza dubbio compiuto un gesto rivoluzionario nella nostra storia cattolica, perché ha introdotto un discorso profondamente nuovo, la cui fecondità è ancora al di là da venire.

Il Concilio ha portato avanti parzialmente quel discorso. Ma poi è avvenuto un cambiamento profondo, non soltanto nelle strutture della chiesa cattolica, direi più ancora nelle chiese evangeliche. Le chiese evangeliche tedesche, per esempio (mi riferisco a quelle perché il loro governo è più significativo) durante il nazismo erano state succubi del Führer molto più della Chiesa Cattolica, salvo eccezioni come Bonhoeffer e altri. Ebbene, in questo ultimo periodo le chiese evangeliche si sono coinvolte nell'impegno per la pace, nella animazione delle manifestazioni pacifiste, mostrando una vivacità e una creatività inaspettate. Ma non solo. Tutte le chiese evangeliche che hanno fatto capo al Consiglio Ecumenico delle chiese, a partire dagli anni 60, hanno compiuto un processo di revisione della propria realtà storica, non si chiedono più se l'uomo si salva solo con la fede o anche con le opere, se la sola scrittura è la sorgente della fede. Questi problemi, pur importanti, sono ai margini. I problemi centrali sono quelli relativi al futuro dell'uomo, alla pace dell'uomo. Da Upsala, a Nairobi, agli ultimi incontri delle Chiese evangeliche, che, queste ultime si sono schierate sul tema della pace come tema qualificante della loro presenza nel mondo. Ed è ormai certo, a mio giudizio, che il modo in cui le Chiese potranno confessare il Cristo in maniera credibile è obbligo, e il tema della pace è la lotta per la pace.

Le chiese hanno a loro disposizione quel patrimonio profetico che per le condizioni storiche non è ancora potuto fiorire. Noi che studiamo il futuro dell'uomo su una specie di schema normativo, che è la storia della salvezza, sappiamo che le parole di Dio non subito fruttificano, è necessario che venga il Kairòs, la stagione storica in cui le condizioni di struttura necessaria danno alla parola seminata secoli prima la possibilità di fruttificare. Questa è una simmetria asimmetrica tra storia e Parola. Ora trovo nel Vangelo una antropologia di pace. Quando Gesù parlava, nel discorso della Montagna, non faceva della poesia, bella, da celebrare come una impossibilità, che tuttavia onora l'uomo l'averla sognata. No, Gesù ha proposto una alternativa all'uomo, che è sempre lì alle porte come un imperativo da realizzare. Allora l'uomo evangelico è l'uomo inerme, l'uomo che non risponde con la violenza alla violenza, è l'uomo che vince con la sua mitezza, che disarma l'avversario non tenendosi al suo livello, ma eludendolo e svegliando nell'avversario il volto che in lui stesso è stato mascherato e oscurato. Questa dinamica di nonviolenza è la possibilità che ci resta. Francesco e il lupo, questa leggenda aurea, è l'emblema di ciò che sto dicendo. L'alternativa della storia è l'uomo mite, che non significa uomo inerme, ma uomo che pone alla base della convivenza la collaborazione e non la competizione.

Le chiese hanno, per così dire, una cultura che ha due strati diversi: lo strato profondo, è quello del filo aureo dell'Evangelo, che le chiese evidentemente non hanno mai disdetto, anche se spesso lo hanno soffocato e perfino proibito. Oggi ormai la parola di Dio è consegnata al popolo, e questo fermento profetico comincia a fermentare nelle comunità cristiane. Hanno poi un'altra cultura, quella delle teologie codificate, ben pensate, che si preoccupano di dire oggi ciò che hanno detto ieri, e di non dire cose in contrasto con ciò che un papa ha potuto dire un secolo fa. Questa preoccupazione della continuità archivistica, della cultura che allarga il proprio codice senza smentire quello precedente, è una ripetizione all'infinito del già detto, mentre è necessaria una invenzione creativa. Le chiese sono a un bivio: o vogliono rispondere alla congiuntura nuova con la cultura codificata dai loro teologi, di ieri, ed esse non fanno che balbettare e restano nella comune confusione, o esse attingono alla parola profetica che hanno nella loro memoria, nella pratica pastorale, facendo credito totale a quella Parola, ed esse saranno la guida della mutazione antropologica di cui si è parlato.

La volontà profetica della chiesa di farsi carico della pace nel mondo, della «Pacem in Terris», la registriamo con istituzionale gioia poiché anche la chiesa istituzionale ha un grande debito contratto nel passato di fronte alla pace del futuro. Infatti troppe cose sono state permesse e benedette, ma quando vediamo i mutamenti ci rallegriamo, perché non desideriamo che Dio punisca i peccatori, visto che noi saremmo - ahimè! - nel rogo insieme agli altri. Noi vogliamo che Dio converta i cuori e renda le sue chiese capaci di assolvere il ruolo a cui la storia le ha destinate senza alternative.

E allora i segni ci sono e sono omogenei a quelli della metamorfosi culturale che rapidamente ho descritto. Non spero che i generali della Nato o i nostri ministri degli esteri diventino profeti, chiedo solo che agiscano con la saggezza di cui farebbe obbligo la loro causa, una prudenza di cui abbiamo già qualche segno. Ma la profezia non è sul tavolo di Ginevra. La profezia passa attraverso la volontà dei popoli. Allora sono convinto che stiamo vivendo questa mutazione. Tutti i nostri discorsi, non solo quelli di questo convegno, sono delle verità epocali, che acquistano il diritto di essere onnipresenti, perché sono quelle in cui si decide il destino dell'uomo. E molto importante non dimenticare che a dare la spinta alla mutazione è anche la certezza che essa non ha alternativa; o la nostra cultura diventa una cultura per la pace, o la terra diventa un cimitero per sempre. L'appello alla nostra volontà è ormai decisivo, estremo.

Dialogo ecumenico

Il documento finale approvato a Sibiu

di Andrea Pacini

Su temi etici centrali è emersa la distanza rispetto a una posizione comune delle Chiese.

Soltanto sul finire del mese di settembre è stato reso pubblico il messaggio finale dell’Assemblea ecumenica europea di Sibiu. La pubblicazione è avvenuta dopo una lunga attesa, tenuto conto che l’Assemblea si è conclusa sabato 8 settembre, e che il documento era stato approvato la sera dell’ultimo giorno. Le ragioni di questo procrastinare e i suoi esiti meritano di essere conosciuti e sollevano alcune riflessioni. In primo luogo occorre osservare che, mentre lo sviluppo dell’insieme dei lavori dell’Assemblea di Sibiu ha offerto spazi minimi al coinvolgimento assembleare, non altrettanto è avvenuto per l’itinerario di estensione del documento finale. In questo caso si è in effetti partiti da uno schema molto sobrio, che è stato presentato all’Assemblea per riceverne pareri e integrazioni. Questa fase di ascolto assembleare è stata decisamente ampia e bisogna dare atto alla commissione di redazione di aver accolto ed elaborato in modo articolato le istanze presentate.

Questo processo ha portato alla redazione di una bozza di documento finale, che è stato ulteriormente discusso in Assemblea, per poi arrivare a una versione definitiva che è stata pubblicamente letta e approvata. È in quest’ultima fase delicata e conclusiva che si è verificato un reale inconveniente: al momento della lettura del testo proposto all’approvazione, l’Assemblea è stata esortata a porre attenzione al testo proclamato oralmente, che in un paio di punti non corrispondeva al testo scritto distribuito. La discrepanza tra testo scritto e testo orale è stata giustificata dai tempi ristretti di lavoro, che avevano richiesto la stampa del testo scritto, prima che la discussione sul testo stesso si fosse definitivamente conclusa in tutti i suoi dettagli. In effetti l’Assemblea ha approvato il documento proclamato oralmente, anche perché gli incisi "nuovi" – solo un paio – sono stati bene evidenziati dal lettore e non sono passati inosservati. A questo punto è interessante chiedersi quali fossero le "novità" intercorse nell’ultima stesura proclamata oralmente. In effetti la vera "novità" consisteva nell’accoglimento di una proposta presentata nella fase assembleare di consultazione, che suggeriva di inserire un inciso in cui si affermava l’urgenza di tutelare la dignità della vita umana dal concepimento alla sua fine naturale. Questo inciso, effettivamente letto nel documento finale e non pubblicamente rigettato da nessuna voce al momento finale dell’Assemblea, è comparso in alcune versioni scritte con alcune varianti. Evidentemente tale inciso è stato poi impugnato da alcuni delegati per vie esterne ai lavori assembleari. Questo "ricorso" ha provocato la ripresa del documento finale da parte della commissione di redazione e la sua pubblicazione solo dopo parecchi giorni. Nel documento finale, formalmente posto in circolazione, l’inciso in questione è scomparso. Al suo posto è stata inserita una nota in calce nel paragrafo relativo al rispetto della vita umana in cui si spiegano le difficoltà incontrate nella stesura del messaggio.

Il paragrafo suona così: «Riteniamo che ogni essere umano sia stato creato a immagine e somiglianza di Dio (Gen 1,27) e meriti lo stesso grado di rispetto e amore nonostante le differenze di credenza, cultura, età, sesso, origine etnica». Nella nota in calce si aggiunge: «A questo punto, durante la lettura del messaggio all’Assemblea è stata presentata oralmente la frase "dal concepimento alla morte naturale" che è stata successivamente tradotta in – "dalla nascita alla morte naturale" – "dall’inizio della vita fino alla morte naturale". Nessuna di queste formulazioni è parte del testo ufficiale del messaggio». Che cosa dire di tutto questo? Certamente l’idea di far approvare un documento la cui versione orale – che si era invitati a considerare quella definitiva – differiva da quella scritta e distribuita non è stata una scelta felice. Ma ci si può chiedere se sia stata una scelta felice approvare in Assemblea un documento – senza che alcuna voce sollevasse eccezioni – per poi ritornare sulla sua redazione riguardo a un punto di valore non certo secondario.

È chiaro che l’inciso proposto mirava a promuovere una comune convergenza di tutte le Chiese su temi quali la lotta contro l’aborto, la tutela dell’embrione, fino alla condanna dell’eutanasia; tutti problemi aperti nell’Europa contemporanea. Ma proprio su questi temi è emersa la distanza rispetto a una posizione comune, con una sostanziale opposizione tra dottrina cattolica e ortodossa da un lato e visione di alcuni ambiti protestanti dall’altro. Senza volere assolutamente proporre istanze di rigorosa omogeneità in tutti gli ambiti, ci si può però ragionevolmente chiedere non solo se queste diversità profonde su nodi etici centrali non scavino nuovi solchi di divisione tra le Chiese, ma anche se questa incapacità di proporre una visione teologica comune dell’uomo con le sue conseguenze fondamentali di ordine morale non riduca alla radice la possibilità per le Chiese nel loro insieme «di immettere energie spirituali nel dialogo» con le istituzioni europee, secondo gli auspici del documento.

In altre parole si apre l’interrogativo su quali siano i contenuti prioritari rispetto ai quali si gioca l’apporto spirituale che le Chiese intendono dare all’Europa, perché quest’ultima non sia solo uno spazio politico ed economico, ma anche di valori condivisi cristianamente ispirati, anzi «direttamente ricavati dal Vangelo», come si dice nella nona raccomandazione del documento; quest’ultima fa a sua volta eco a un paragrafo iniziale in cui si afferma di essere convinti che «la famiglia cristiana debba anche cercare un consenso più ampio riguardo ai valori morali derivati dal Vangelo e uno stile di vita credibile che testimoni nella gioia la luce di Cristo nel nostro esigente mondo laico moderno, nella sfera privata così come in quella pubblica».

L’opposizione messa in atto contro l’inciso sulla tutela della dignità della vita umana nella sua integralità – al di là della modalità confusa con cui era stato introdotto – ci porta inevitabilmente a prendere atto che le considerazioni di ordine generale sul consenso riguardo ai valori evangelici da proporre in Europa stentano a trovare formulazioni specifiche su punti centrali del dibattito etico odierno.

Non può non essere fonte di tristezza notare che per le Chiese è stato più facile arrivare a posizioni comuni sulla salvaguardia del creato o sulla lotta a varie forme di ingiustizia – tutte cose assai buone – che dire una parola autorevole e illuminata su un punto essenziale che riguarda il significato trascendente della persona umana e della sua vita, nodo essenziale della fede cristiana e della visione di uomo a essa inerente. Di fronte a questo esito non certo entusiasmante, alcuni rappresentanti protestanti hanno invocato ancora una volta la ragione del pluralismo: le Chiese parlano all’Europa in modo plurale. Ci si può però chiedere quali siano i limiti di un legittimo pluralismo nell’ambito della fede comune; e se il pluralismo in ambito cristiano sia un valore fondato in se stesso, o se debba comunque esprimere l’obbedienza al Vangelo. Un’assoluta affermazione del pluralismo non può infatti che consolidare le divisioni confessionali. Si ripropone allora la grande sfida per tutte le Chiese, che è al centro dell’impegno ecumenico: solo una vera e profonda conversione a Cristo e al Vangelo, al cui giudizio sottoporre anche i soggettivismi individualistici e le logiche consolidate, può generare una comunione ecumenica profonda, chiamata a esprimersi sul piano della fede creduta e vissuta in una sinfonica obbedienza al Vangelo

(da Vita Pastorale, dicembre 2007)

Le nostre liturgie



Sacramentum caritatis: qualche precisazione


di Rinaldo Falsini



Alcuni passi della recente esortazione apostolica di Benedetto XVI meritano chiarimenti teologici e liturgici.


Nella presentazione generale del documento ho accennato all’opportunità di alcune precisazioni e chiarimenti soprattutto per il lettore meno esperto nel linguaggio teologico-liturgico. Questa esigenza maturò fin dalla lettura dei Lineamenta per il Sinodo, a cominciare dal termine "eucaristia", del quale non viene data una spiegazione circa la varietà del suo significato lungo la storia fino ad oggi (cf Jesus 12/2005, pp. 10-12; Vita Pastorale 1/2006, pp. 54-55).

di Giovanni Nicolini

La sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il costato. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. (Giovanni 20,19-23)

Ruolo della ragione nella vita dell'uomo

di Giordano Muraro

Quando si parla di problemi relativi all’uomo tutti hanno il diritto di intervenire, perché tutti sono coinvolti in prima persona. Ma l’intervento avrà un valore diverso a seconda della capacità di riflessione e il grado di studio di ognuno. La vita non può essere appesa all’esile filo dell’«a me sembra che…». L’ uomo ha bisogno di certezze quando è in gioco la sua vita e il suo futuro.

«A me sembra che...». È la frase con la quale in una discussione privata o in dibattito pubblico una persona si contrappone all’interlocutore o all’oratore. Naturalmente non avviene quando, si tratta di argomenti scientifici. Nessuno azzarderebbe dire a un astrofisico che espone la sua teoria sull’inizio del l’universo o a un antropologo che disserta sulla datazione dell’uomo di Cro-Magnon che l’ipotesi presentata è falsa. Gli verrebbero subito richieste le prove che fondano il suo disaccordo Nel mondo della chimica della fisica, della matematica, della medicina, della botanica, della paleontologia, ecc. si ascolta l’esperto e si accettano le sue conclusioni. E anche se interiormente si dissente non si ardisce obiettare perchè si e consapevoli di non avere la preparazione sufficiente per competere con l’esperto.

Tuttalpiù si fanno domande per avere chiarimenti, con l’atteggiamento del discepolo che si rinvolge al maestro. Solo chi ha una competenza pari a quella dell’oratore può permettersi di dissentire e di opporre una sua tesi che poi ha il dovere di dimostrare. Ma tutti gli altri assisteranno muti a questa discussione cercando di capire il frutto degli studi e delle ricerche degli esperti. Sarebbe curioso che una persona qualunque che non ha a cuna competenza medica e chirurgica si opponesse all’esperto in trapianti con un «a me sembra che… ». E’ come se uno che e andato sempre e solo in bicicletta volesse insegnare a Schumacher le tecniche di guida di una Ferrari. Verrebbe considerato un disturbatore ingenuo e presuntuoso che non ha il senso dei suoi limiti o un esibizionista che non si accorge di creare solo fastidio e riprovazione.

Tutti competenti ed esperti?

Invece in campo morale tutti si sentono esperti, e ritengono di avere pari diritto di esprimere il proprio punto di vista e anche il proprio dissenso con la convinzione che tutte le ipotesi hanno lo stesso valore, e la propria opinione vale quanto quella del professionista che ha studiato il problema per anni. Si dice che gli italiani si sentono tutti competenti anzi esperti in sport, in amore, in politica. Ma soprattutto in morale.

Nel passato si aveva di più il senso dei propri limiti e si dava più autorevolezza a quelli che per scienza ed esperienza esponevano un problema e presentavano le conclusioni operative. Oggi tutti vengono azzerati allo stesso livello. Si parla di procreazione medicalmente assistita, o di aborto o di cellule staminali, di eutanasia e di accanimento terapeutico di pena di morte, di droga, e si presume che tutti sappiano tutto e tutti abbiano la stessa preparazione competenza.

Eppure bisogna chiedersi: perché non si propone un referendum sul tempo e sulla causa della scomparsa dei dinosauri, o sul problema della relatività mentre si propone un referendum sui problemi morali quali la procreazione medicalmente assistita, l’aborto, il testamento biologico ecc. ? E’ vero che si vive anche senza sapere quando e perché i dinosauri sono scomparsi, mentre i problemi che abbiamo ricordato interessano tutti. Ma tutti hanno la stessa competenza per esprimere un giudizio fondato e dimostrato su questi problemi? La verità è frutto di numeri o di dimostrazioni?

Il diritto di esprimere il proprio pensiero sui problemi umani

Eppure c’è un motivo che in qualche modo e in una certa misura giustifica la validità dell’intervento fondato sull’«a me sembra che...», anche se dobbiamo insistere sul fatto che molto spesso questo intervento è come l’entrare a gamba tesa sul pallone. Presentiamo prima la ragione essenziale, e poi cerchiamo di esplicitarla. Ogni uomo può dire in una discussione «a me sembra che...» perché, nei problemi che riguardano l’uomo, egli è al contempo soggetto indagante e oggetto indagato; ha una esperienza di sé stésso per cui, quando si parla dell’uomo, sente che non si sta parlando di qualcosa di totalmente sconosciuto, ma si sta trattando della sua vita che sperimenta ogni giorno. Quando invece si parla delle realtà esterne, sa che vengono trattati argomenti che riguardano cose che sono «altre da sé», di cui conosce solo gli aspetti esteriori, e che riesce a raggiungere nella loro realtà solo con uno studio e una ricerca pazienti.

L’uomo ha la possibilità e il diritto di esprimere il suo pensiero quando si parla dell’uomo, mentre del mondo esterno può dire solo quello che ha visto e studiato. Per cui quando si parla del mondo esteriore non ha alcun titolo per discutere sulla sua natura e sui suoi dinamismi se prima non ne ha fatto oggetto di studio e di ricerca, mentre quando si parla dell’uomo, egli ha un qualche titolo per parlarne, perché la sua persona è oggetto di esperienza quotidiana, e quanto più è attento a quello che si svolge nella sua vita, tanto maggiormente può intervenire per dare un suo reale apporto alla discussione. Ma fino ad un certo punto. Perché?

I limiti di questo diritto

Il fatto che la persona sia nello stesso tempo soggetto indagante e oggetto indagato espone l’uomo ad alcuni rilevanti pericoli. Il primo è quello di trasformare le proprie esperienze personali in principi assoluti con i quali pensa poi di potere giudicare gli altri. Se io per esempio sto bene e non ho mai conosciuto stati di depressione, posso pensare che la depressione non esista e che il depresso sia solo un pigro e un accidioso che non reagisce di fronte alle difficoltà della vita. Per cui ritengo superfluo studiare la depressione e non mi impegno a intervenire in modo efficace sulla vita del depresso per aiutarlo a superare il suo stato. Sbrigherò il problema con un semplice:. «Si muova, si dia da fare, smetta di compiangersi», e altre simili espressioni. La stessa cosa vale per l’anoressia, o i cicli biologici, e tanti altri problemi che affliggono la vita dell’uomo.

Un altro pericolo è rappresentato dal fatto che il pensiero dell’uomo è condizionato dalle sue passioni, dai suoi stati d’animo, dai suoi interessi, dalla sua educazione, dalla sua cultura. Un musulmano troverà assurdo che una donna si presenti in pubblico senza velo, e non sentirà il bisogno di dimostrare la sua posizione perché ritiene che sia un fatto ovvio, frutto di buon senso, e non gli passa neppure lontanamente per la testa che sia il frutto di un pregiudizio o di una tradizione assunta acriticamente. Così il deputato di un partito darà il suo voto secondo le indicazioni date dal partito stesso, anche se non ha mai studiato il problema e non se ne è fatta una idea personale: così una persona sosterrà una tesi in base alla propria ideologia che non ha mai messo in discussione, o in base a un presunto buon senso sostenuto dall’interesse personale. Perché non permettere la procreazione assistita se promuove la vita? Perché non permettere il divorzio se due persone non si amano più? Perché non permettere l’eutanasia se una persona ritiene di non continuare a vivere una vita sofferente, tenuta in vita artificialmente? Perché non permettere l’aborto se crea difficoltà serie alla madre e alla coppia? Perché non eliminare le persone che sono socialmente dannose? La risposta immediata sembra scontata: permettiamo tutto quello che libera dal male e non obblighiamo per legge le persone a vivere nella sofferenza. Ma è la soluzione giusta?

Tanti ritengono di risolvere i problemi in base alla propria esperienza, al proprio buon senso, alla propria capacità di ragionare. Abbiamo tutti lo stesso strumento per affrontare e risolvere i problemi della vita: la ragione, e la ragione è la stessa in tutte le persone.

I quattro cavalieri dell’apocalisse

Si dimentica che se tutti hanno la stessa ragione, non tutti sono capaci di utilizzarla in modo ragionevole. Tutti ragioniamo, ma non tutti ragioniamo bene. Si può avere la ragione e ragionare male. Uno psicologo americano, John Gottman, parlando della coppia dice che in essa possono entrare i quattro cavalieri dell’apocalisse che distruggono tutto. Questo vale anche per la ragione. Possiamo parlare di quattro cavalieri che fanno terra bruciata nella ragione e le impediscono di bene ragionare. Il primo riguarda lo strumento stesso, la ragione; il secondo riguarda invece l’oggetto, il problema da risolvere; il terzo riguarda l’atteggiamento della persona; e il quarto i condizionamenti esterni.

undefined1. La mancanza di manutenzione. Anche la ragione ha bisogno ogni tanto di essere oggetto di revisione. Come per ogni altro strumento, è necessario ogni tanto fare il tagliando. Infatti abbiamo una iniziale e radicale capacità di ragionare, ma questa iniziale capacità non è sempre sufficiente. Ha bisogno di essere formata, sviluppata, addestrata. C’è addirittura una scienza che educa la ragione a ragionare e a evitate i trabocchetti e gli errori che può incontrare nella sua attività, ed è là scienza logica. undefined

La ragione possiede questa arte in modo iniziale; come l’artista possiede in modo iniziale il talento artistico. Ma come chi è dotato del talento artistico deve poi perfezionarsi se non vuole restare per tutta la vita un dilettante, così chi ha la ragione deve esercitarla e addestrarla a bene ragionare. Tutti ogni tanto devono esaminare il proprio modo di ragionare per verificare se stanno utilizzando bene questo dono straordinario. Sappiamo che è una idea che non trova molti consensi, ma è indispensabile per non trovarsi in mano uno strumento usurato e inceppato che serve a poco o nulla.

undefined2. La superficialità. Si sviluppa in tutti coloro che ritengono di non avere bisogno di applicarsi allo studio e all’esame dei molti problemi che l’uomo incontra nella sua vita e che richiedono un cammino di studio e di ricerca. Si affidano ad una specie di “fiuto” o di “istinto” che suggerirebbe immediatamente la soluzione di qualunque problema. E propongono la propria soluzione con l’arroganza dell’ignorante che è certo delle sue idee per l’unico motivo che non ne ha altre. La sua certezza è frutto non di acutezza d’ingegno, ma di incapacità di vedere oltre l’immediato. undefined

Una novella orientale racconta di quattro ciechi che vogliono farsi un’idea sull’elefante. Uno tocca l’enorme zampa e dice che l’elefante è simile a una colonna; il secondo tocca la punta della zanna e di ceche è simile a una lancia appuntita; il terzo tocca il ventre e dice che è simile a una botte, il quarto tocca le ampie orecchie e dice che è simile a un flabello. Mentre bisticciano tra di loro passa un uomo che ci vede. Gli chiedono chi ha ragione; e chi vede cerca di far capire che ognuno di essi si è fatto una idea parziale, ma l’elefante vero è qualcosa di diverso. E allora i ciechi ritenendosi beffati da chi vede, si rivoltano contro di lui e lo uccidono.

E’ quello che spesso avviene nello studio dell’uomo. Si dà un giudizio globale partendo da un aspetto particolare e rimanendo nel particolare. Sono ciechi che trascinano nel fosso chi si fida di loro.

undefined3. L’autosufficienza, cioè non sentire il bisogno di confrontarsi con altri per vedere se le proprie posizioni reggono alla discussione, alla critica e al ragionamento dio altre persone che si stanno applicando allo studio dello stesso problema.undefined

La verità spesso e difficile da raggiungere. È come una montagna che si riesce a scalare solamente mettendosi in cordata, e verificando con altri se si sta percorrendo un sentiero che conduce alla cima, oppure si sta perdendo tempo percorrendo sentieri che non conducono da nessuna parte o che portano a un precipizio.

Affine a questo atteggiamento è quello di chi nel confronto con gli altri vede vacillare le proprie convinzioni, ma si chiude a riccio e ostinatamente continua a difendere la sua posizione e rifiuta di mettersi in discussione per paura di veder cadere tutto il castello ideologico sul quale fino a quel momento ha costruito la sua vita L’onestà intellettuale è una merce rara, ed è troppo severa per essere accolta quando disturba troppo.

4. I molti condizionamenti che provengono dall’esterno e che possono condizionare il funzionamento della ragione: le passioni, gli interessi personali, l’influsso della cultura nella quale la persona è nata e cresciuta. Spesso diamo per scontate certe convinzioni che abbiamo ereditato dall’ambiente sociale, familiare e non ci preoccupiamo di metterli in discussione. San Tommaso d’Aquino porta questo chiaro esempio. La ragione dell’uomo è come un specchio: se è nitido e terso rifletterà la realtà com’è; ma se è offuscato o deformato nella sua curvatura, rappresenterà la realtà in modo deformato. Gesù diceva in modo molto semplice che se il tuo occhio è limpido tutto è chiaro; ma se il tuo occhio è torbido, tutto diventa oscuro (cf Mt 6,22-23).

La ragione è il grande strumento che Dio ha donato all’uomo per guidarsi nella vita; ma è uno strumento che mentre rivela la dignità dell’uomo, manifesta anche la sua fragilità. La ragione non vede tutto immediatamente e facilmente, ma raggiunge la verità impegnandosi nello studio e nella ricerca, e in questa ricerca può cadere nell’errore: Di fronte ai grandi problemi della vita l’uomo non può affidarsi all’esile filo del «mi sembra che..»; ma ha bisogno di sicurezze per garantire a sé stesso e agli altri che sta camminando verso il bene che lo realizza La superficialità dell’improvvisazione non è accettabile, perché è in gioco la stessa vita, nostra e degli altri.

Come cristiani abbiamo la sicurezza che viene dalla parola di Dio che è «lampada ai miei passi»; ma Dio chiede all’uomo un contributo, quello di dimostrare con la ragione la ragionevolezza di quello che gli ha donato con la rivelazione. Dio non si sostituisce mai all’uomo nelle cose che sono in potere dell’uomo; e anche quando si affianca alla sua creatura per guidarlo nel cammino della verità non vuole sospendere e liberarlo dalla fatica della ricerca, ma vuole semplicemente agevolarlo e stimolare la sua capacità di ragionare. E’ come il maestro di guida che sta accanto al principiante non per sostituirsi a lui, ma per fargli evitare errori.

(da Vita Pastorale, 6, 2007)

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