Mondo Oggi

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

La istituzione dei sette
Un metodo ecclesiale per affrontare
e superare i problemi (At 6,1-7)

di Mauro Orsatti





La finale del cap. 2 del Libro degli Atti presentava una comunità ecclesiale tanto perfetta da non lasciar spazio a ombre, tanto suggestiva da sembrare irreale. Il quadro composto da Luca con dati veri, e quindi da valorizzare anche dal punto di vista storico, non rappresenta tutta la realtà. Egli, infatti, fedele alla sua fine sensibilità di storico e di teologo, continua la descrizione della vita comunitaria, senza tacere le difficoltà che la minacciano dall'esterno e, ancora più gravi, quelle che la minano all'interno. Ad alcune di queste difficoltà riserviamo la nostra attenzione, per osservare come sono state affrontate e superate. Poiché molte sono identiche o affini a quelle che assillano le nostre comunità ecclesiali, potremo valutare se le soluzioni proposte siano idonee a fronteggiare anche i nostri problemi.

Un quadro di luci e di ombre

I primi capitoli degli Atti hanno presentato una comunità cristiana nascente in forte sviluppo e animata da un grande spirito di unità: "Il teatro d'azione è Gerusalemme, i cristiani sono un gruppo omogeneo costituito da giudei palestinesi [ ... ] che vivono la loro fede in perfetta comunione all'interno e tra la benevolenza e la relativa tranquillità all'esterno, guidati dagli Apostoli e soprattutto da Pietro". (1) Un quadro così idilliaco (cf 2,42-48; 4,32-35; 5,12-16) non deve trarre in inganno, perché questa descrizione, tutta luce e niente ombre, è da collegare ad un genere letterario particolare, quello di raccogliere in poche battute un quadro che risponde alle caratteristiche di stilizzazione, di idealizzazione e di modello attrattivo. Luca non fa altro che descrivere "il meglio" per fornire un valido punto di riferimento. Non intende certo negare o tacere le difficoltà che pure avvinghiano la giovane comunità: alcune sono originate all'esterno della comunità, altre all'interno. Tra quelle esterne ricordiamo la persecuzione nei confronti di Pietro e Giovanni, incarcerati, battuti e impediti nell'esercizio del loro ministero. Ci vuole ben altro per bloccare coloro che lo Spirito ha reso intrepidi testimoni! Gli interessati reagiscono con una puntuale disobbedienza, e, insieme alla comunità, con una preghiera corale. Ancora più perniciose le difficoltà che giungono dall'interno. La comunità fa anche l'esperienza di una costitutiva fragilità, nella triste ed enigmatica vicenda di Anania e Saffira. L'appartenenza formale (potremmo dire de iure) al gruppo cristiano non sancisce necessariamente una condivisione profonda del progetto di vita (de facto). Si potrebbero forse applicare anche a loro le parole di Giovanni nella sua prima lettera: "Sono usciti di mezzo noi, ma non erano dei nostri; se fossero stati dei nostri, sarebbero rimasti con noi; ma doveva rendersi manifesto che non tutti sono dei nostri" (1 Gv 2,19). Si trattò di un fatto che riguardava una coppia; il caso fu presto risolto e archiviato, anche se il messaggio rimane a monito perenne.
Con l'episodio di 6,1-7, l'orizzonte si amplia e la crisi rischia di infettare la comunità, lacerandone il tessuto comunionale. Si profilano conseguenze devastanti. Da qui la necessità di capire il problema e di ben impostarlo per una corretta soluzione. Siamo in presenza di un brano, importante per almeno tre motivi: inizia una seconda grande parte degli Atti, in cui la comunità cristiana supera i confini di Gerusalemme e si prepara a portare il Vangelo nel mondo; la comunità cristiana conosce una nuova forma organizzatrice che delinea meglio la struttura della Chiesa e, accanto ai Dodici, si incontra il gruppo dei Sette; infine, non tutto è chiaro e sereno nella vita quotidiana della comunità e sorgono dei problemi; il brano mostra come si affrontano e come si risolvono.
Se analizzato e vivisezionato, il brano offre questa semplice struttura: introduzione (v. 1); proposta degli apostoli (vv. 2-4); accettazione da parte della comunità (vv. 5-6); conclusione (v. 7).

Il problema: diversità che crea contrasto

La nuova difficoltà, sorta all'interno stesso della comunità cristiana, viene meglio compresa se pensiamo ad un gruppo in rapida crescita. L'aumento del numero di cristiani, chiamati qui per la prima volta "discepoli", porta un nuovo problema, racchiuso nel termine complessivo di "malcontento". La rara parola greca gonghysmós conserva qui il semplice significato di mormorio o di mugugno, (2) originato dal fatto che una parte del gruppo si sente trascurato. Anche se finora la comunità è composta da soli giudei, è inevitabile che un accrescimento numerico porti a contatto mentalità diverse. (3) Esistono due diversi gruppi di giudei, distinti con l'appellativo di "ellenisti" e di "Ebrei".
Gli ellenisti sono giudei cresciuti in stretto rapporto con la cultura greca provenienti dalla diaspora, che li ha visti dispersi in tutta la regione del Mediterraneo; oppure essi traggono la loro origine da quelle zone palestinesi o dei dintorni che, in seguito alla penetrazione della cultura ellenistica sotto Alessandro Magno, hanno finito per assimilare la lingua ed i costumi greci. Per quanto riguarda il culto, essi dispongono di proprie sinagoghe nelle quali le Scritture vengono lette in greco. Proprio per venire incontro alle esigenze di questi giudei che conoscevano poco o non conoscevano affatto l'ebraico, si iniziò verso il III secolo a.C. la traduzione delle Scritture in greco, producendo quella poderosa opera conosciuta come la Traduzione dei Settanta (= LXX). Gli ebrei sono i nativi della Palestina, usano come lingua corrente l'aramaico, e leggono le Scritture in ebraico. Costituiscono, all'inizio della Chiesa, il gruppo principale della comunità giudeo-cristiana di Gerusalemme. Li caratterizza un forte attaccamento alle tradizioni dei padri che li porterà ad assumere atteggiamenti di chiusura, a differenza dei più aperti ellenisti che non vedevano di buon occhio.
I due gruppi insieme costituiscono i "discepoli", cioè il primo nucleo della comunità cristiana. Eppure sono divisi da forte contrapposizione, che potrebbe degenerare in aperta lacerazione. Incombe la minaccia di una scandalosa divisione all'interno della comunità. Proprio nel momento in cui la comunione di fede deve diventare visibile e operativa, viene rilevata una discriminazione tra i due gruppi cristiani. Gli ellenisti rimproverano agli ebrei, ai quali era affidata l'organizzazione dell'assistenza giornaliera, di trascurare le loro vedove. Il numero di vedove doveva essere consistente, poiché gli ebrei della diaspora avevano la consuetudine di trasferirsi a Gerusalemme negli ultimi anni della loro vita, per poter essere sepolti nella Città Santa. (4)
Anche se storicamente non siamo ben informati sul tipo di servizio, pensiamo con tutta probabilità che si trattasse di una specie di mensa popolare, capace di garantire il minimo vitale ai più bisognosi. Tale "distribuzione" (in greco diakonia, cf v. 1), già praticata nell'ambiente giudaico dell'epoca, "consisteva nel fornire una scodella di cibo ogni giorno ai poveri, anche quelli di passaggio, da parte di un gruppo che si incaricava della colletta nelle case. Era anche presente una cassa dei poveri che ogni venerdì forniva il denaro necessario per 14 pasti, ma soltanto ai poveri della città". (5) Neppure siamo informati sulla causa della trascuratezza; (6) possiamo invece stabilire, partendo dall'uso del tempo imperfetto (azione continuata nel passato), che la situazione si protraeva da un po' di tempo. Quindi, non siamo in presenza di un "disguido" o di un "imprevisto", al quale si cerca di rimediare all'ultimo momento, ma di un'azione abitudinaria. Da qui il contrasto tra i due gruppi. Come risolverlo? La soluzione arriva per gradi seguendo il metodo semplice ed essenziale di vedere, giudicare, agire.
La soluzione del problemaI Dodici (7) accettano senz'altro la critica mossa dagli ellenisti e sono stimolati a rivedere alcune posizioni. Essi seguono la traiettoria di vedere il problema, di giudicare la situazione e di agire con coerenza. Essi reagiscono senza esitazione per cercare di ovviare alla rottura venutasi a creare: giocano un ruolo mediatore per ristabilire l'unità. La protesta aveva quindi un suo fondamento, non privo di pericoli. Anche se probabilmente non erano loro a regolare il servizio delle mense, restavano i responsabili ultimi in quanto a loro venivano consegnati i beni (cf 4,35; 5,2). Inoltre come autorità costituita e riconosciuta, devono esaminare il caso. I problemi e le difficoltà devono essere affrontati, perché forme di mimetismo o di insabbiamento si rivelano poco produttive, quando non addirittura rovinose. TUTTI vengono convocati per iniziativa dei Dodici (autorità) al tavolo della discussione e TUTTI partecipano: "Allora i Dodici convocarono i discepoli (= i cristiani) e dissero" (6,2a). Per prima cosa essi coinvolgono la comunità, alla quale viene riconosciuta una propria dignità e corresponsabilità. Non si è in presenza di un'autorità dispotica, bensì "di una gestione che si potrebbe chiamare "democratica" e assembleare se i due termini non fossero carichi di connotazioni estranee alla mentalità di Luca". (8) La pedagogia adottata è quella del dialogo, che aiuta a ricomporre ogni situazione dopo una lite. Dopo aver convocato l'assemblea dei cristiani, gli apostoli esprimono la proposta concreta per superare la crisi: la disgiunzione del servizio alla parola di Dio da quello alle mense. Occorre distinguere i ruoli, articolare meglio la comunità. Gli apostoli invitano i "fratelli" della comunità a ricercare sette (9) uomini, che rinunciano a scegliere personalmente, limitandosi ad indicare le due qualità esigite, "buona reputazione e "pieni di Spirito e di saggezza", richieste a coloro che svolgono una mansione pubblica e direttiva (cf 1Tm 3,7-10).
La prima è la buona reputazione presso la comunità. In greco viene usato il verbo martyrein che significa, usato all'attivo, "rendere una buona testimonianza", e, usato al passivo, "riscuotere buona testimonianza". Nel nostro caso ha il senso passivo. In pratica, si esige dal candidato una condotta degna di lode, imparziale e disinteressata. Chi lo sceglie deve quindi fondarsi su ragioni documentabili.
La seconda caratteristica richiesta è la dote di Spirito e saggezza: "Qui il ruolo dello Spirito costituisce una garanzia e un presupposto. La pienezza delle Spirito è richiesta per coloro che dovranno essere scelti e ribadita nel case specifico di Stefano (cf At 6,3.5). In questo caso il ruolo dello Spirito si avvicina a quello di un indicatore di coloro sui quali l'elezione dovrà ricadere e diventa quindi segno distintivo per l'assunzione di un servizio che poi, almeno nei casi di Stefano e Filippo, si esplicherà come servizio della Parola". (10)
Una sostanziale novità viene dunque a inserirsi all'interno della vita comunitaria: per la prima volta si arriva ad una ripartizione dei compiti. La vocazione a predicare la parola di Dio viene così distinta dall'opera di servire alle mense. Gli apostoli riservano per sé il compito della "preghiera" e della "predicazione della parola".
Solo qui, al v. 4, la preghiera è presentata come specifico impegno dei Dodici. Luca non specifica se si tratti di preghiera personale o comunitaria, privata o pubblica. Egli sottolinea che la perseveranza nella preghiera rende possibile il servizio della parola. Questo servizio non appartiene in esclusiva agli apostoli, perché in seguito sarà esercitato da Stefano, Filippo, Barnaba e da tanti altri. Il loro specifico sta in una testimonianza, unica e irripetibile, che risale al ministero stesso di Gesù e a una missione divina. Nessuno più e meglio di loro è in grado di annunciare quel kerygma che salva, perché è annunciare Gesù stesso (cf 4,12).
La completa dedizione a questi due compiti essenziali spinge gli apostoli a liberarsi da altri impegni che potrebbero risultare di intralcio al perfetto adempimento della loro missione. Ben inteso, non vogliono scegliere la parte migliore o ripartire il lavoro tra direttivo e privilegiato da una parte e esecutivo e umile d'altra. Tali categorie sono aliene dallo spirito del testo, oltre che dalla vocazione apostolica. Essi "certamente stimano moltissimo l'attività caritativa, ma al tempo stesso sono anche coscienti della diversa graduazione dei doveri e conoscono il senso immediato della missione ricevuta dal Signore dopo la risurrezione". (11) Tale missione è chiara fin dall'inizio: "mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra" (1,8). Un loro eventuale maggiore impegno per le mense, li sottrarrebbe all'annuncio della Parola. Non sembra quindi saggio tralasciare un compito di loro specifica spettanza per attendere ad un altro, per quanto nobile e valido esso sia.
Fin qui la valutazione dei fatti e l'abbozzo di un progetto di soluzione. Nulla viene imposto autoritativamente da coloro che sono l'autorità costituita e pacificamente riconosciuta. La proposta avanzata dai Dodici incontra il pieno consenso di tutta la comunità, (12) che compie la sua scelta. Non siamo informati sulla modalità di scelta dei sette. Sappiamo però dall'elenco che i nomi sono tutti di origine greca. Il nome greco potrebbe essere portato anche da una persona non greca. (13) Nell'ipotesi, non impossibile, che le persone scelte siano tutte effettivamente di origine greca, potremmo concludere che, per fare cosa gradita ai giudeo-cristiani di origine ellenistica, la scelta sia caduta su esponenti di questa provenienza, mirando così ad un più facile superamento del disaccordo sorto.
Nell'elenco dei nominativi dei sette designati, solo accanto al primo e all'ultimo nome compaiono alcune precisazioni. Per primo viene nominato Stefano, il quale si distingue per la pienezza "di fede e di Spirito Santo". Egli risponde pienamente ai requisiti richiesti e di lui avremo in seguito un discorso dettagliato e il resoconto della sua morte. Di fatto si potrà constatare la pienezza di Spirito di cui si fa qui menzione. Nicola, l'ultimo dell'elenco, viene indicato come un proselito (14) di Antiochia. Degli altri non viene riportata alcuna informazione complementare, anche se Filippo sarà in seguito nominato (cf 8,26ss).
I neoeletti vengono presentati agli apostoli e insediati nel loro ufficio mediante l'imposizione delle mani accompagnata dalla preghiera. Il testo greco permette più di un'interpretazione a questo riguardo: è stata tutta la comunità ad imporre le mani, oppure solo gli apostoli? Il v. 3 b ("ai quali affideremo quest'incarico") lascerebbe intendere che solo gli apostoli sono attivi. Del resto, l'imposizione delle mani, gesto che riprende un'antica usanza giudaica, è già attestata nell'AT per indicare la trasmissione di determinati poteri (cf Nm 27,18; Dt 34,9).
È la prima forma di struttura ecclesiale, dopo la composizione del gruppo apostolico; è un primo passo verso la distinzione dei ruoli e la collaborazione diversificata. Se lo si vuole, possiamo parlare anche di decentramento del "potere", se intendiamo per potere l'esercizio di un'autorità che promuove il bene comune.
Il testo biblico riserva agli studiosi tanti interrogativi e aspetti oscuri come l'identificazione del preciso ruolo sociale, la partecipazione o meno al sacramento dell'ordine (diaconato), la creazione di una struttura parallela a quella esistente e tanti altri. Non è nostro compito affrontare tali questioni nel presente contesto. A noi è bastato mostrare come un problema ecclesiale è stato accolto, giudicato e risolto.
Una indiretta approvazione del metodo seguito e una conferma del ritrovato equilibrio vengono dal versetto conclusivo: "Intanto la parola di Dio si diffondeva e si moltiplicava grandemente il numero dei discepoli a Gerusalemme" (6,7). Grazie alla designazione dei sette, la crisi interna della comunità è superata. La rimozione dell'ostacolo permette alla prima Chiesa di riprendere il suo progressivo e gioioso cammino di crescita. La nuova organizzazione adottata all'interno della comunità è da subito apportatrice di frutti: la Parola di Dio si diffonde, il numero dei discepoli aumenta considerevolmente e persino un gran numero di sacerdoti (15) diviene credente. Questo versetto sembra esprimere il placet dello Spirito Santo che benedice una comunità che ha trovato la capacità e la forza per affrontare e superare i propri problemi.

Un insegnamento per le nostre comunità ecclesiali

Difficoltà e incomprensione accompagnano e turbano anche le nostre comunità ecclesiali. Il brano insegna che davanti ad un problema che rischiava inquinare i rapporti dei primi cristiani si è adottata una linea di soluzione che, partendo dalla istanza iniziale, dopo una valutazione, è approdata ad una conclusione rispettosa delle persone e dei diversi ruoli. L'unità e la comunione di una comunità non sono incrinate dai problemi o dalle difficoltà, bensì dalla non voglia di guardare in faccia i problemi, oppure dalla egoistica difesa cl: interessi di parte. Là dove affiorano buona volontà, serenità di valutazione capacità decisionale, lo Spirito benedice e fa crescere una comunità che si dimostra accogliente e capace di fantasia.
I cristiani maturi sanno che esistono le difficoltà e davanti ad esse né si scoraggiano né si nascondono, ma le valutano e le affrontano alla ricerca di una equilibrata soluzione. Sanno applicare il criterio valutativo e operativo che Paolo indicava alla giovane chiesa di Tessalonica: "Non spegnete lo Spirito [ ... ], esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono" (l Ts 5,19.21). Così la chiesa è cresciuta e si è scoperta una realtà senza frontiere, ha preso coscienza sé, in modo definitivo, come chiesa in dialogo con il mondo, chiesa per il mondo (cf la prima enciclica di Paolo VI Ecclesiam suam e il documento de Vaticano II Gaudium et Spes). Le difficoltà interne ed esterne, accolte e superate, hanno stimolato questa apertura, hanno dimostrato un forte equilibrio, hanno creato comunione tra autorità e semplici fedeli, hanno promosso la maturazione di tutti. Venti gagliardi di opposizione si abbatteranno, passando dalle minacce o dall'imprigionamento alla persecuzione violenta. Stefano è la prima vittima, ma altresì il primo luminoso esempio che si è forti, della fortezza dello Spirito, anche quando si soccombe morendo. Il vero vincitore è proprio colui che muore per la fedeltà al suo Signore. Considerando lo sviluppo degli eventi, forse viene da ripetere anche in questo caso: felix culpa.

Note

1) B. PAPA, Atti degli Apostoli, I, EDB, Bologna 1981, p. 175.
2) Il termine greco ricorre quattro volte nel NT: Gv 7,12; At 6,1; Fil 2,14; 1 Pt 4,9. Solo nel primo caso mantiene il significato più teologico di mormorazione nel senso di mancanza di fede, come spesso nell'AT (cf Es 16,7.8; Nm 17,5.10), cf K. H. RENGSTORF, GLNT, II, coll. 587-590.
3) "È un principio elementare di sociologia: finché un gruppo è ristretto, è facilmente governabile e l'autorità che vi si esercita può essere di tipo famigliare. Ma quando si allarga e quanto più si allarga, diviene sempre meno governabile in quel modo. Sono necessarie un'organizzazione ed una autorità più forti, proprio per evitare inconvenienti e rivalità tra i vari gruppi che inevitabilmente si formano in una grande massa, pur animata da uno stesso alto ideale e fortemente aggregata intorno ad una autorità carismatica da tutti riconosciuta; nel nostro caso quella dei Dodici", G. SEGALLA, Carisma e istituzione a servizio della carità negli Atti degli Apostoli, Libreria Editrice Gregoriana, Padova 1991, p. 95.
4) B. PAPA, Atti degli Apostoli, cit., p. 180.
5) La Bibbia Piemme, Piemme, Casale Monferrato (AL) 1995, p. 2598.
6) Cf G. SEGALLA, Carisma e istituzione a servizio della carità negli Atti degli Apostoli, cit p. 97 "La causa potrebbe essere stata anche banale, come la non comprensione della lingua aramaica e la conseguente impossibilità di spiegarsi".
7) L'uso assoluto "i Dodici", frequente nei Vangeli, appare solo qui e in 1 Cor 15,5 nel resto del NT, cf G. SCHNEIDER, Gli Atti degli Apostoli, I, Paideia, Brescia 1985, p. 590.
8) R. FABRIS, Gli Atti degli Apostoli, Borla, Roma 1984, p. 203.
9) Scrive G. SEGALLA, Carisma e istituzione a servizio della carità negli Atti degli Apostoli, cit., p. 98: "Il numero sette per consigli amministrativi era abbastanza diffuso sia in ambiente giudaico che romano. Sette erano i membri del consiglio amministrativo delle comunità giudaiche locali. Sette erano pure i membri degli antichi collegi romani, chiamati "semptemviri", cui incombeva il compito di organizzare le funzioni liturgiche (a Giove) per i giochi popolari".
10) G. BETORI, Lo Spirito e l'annuncio della parola negli Atti degli apostoli, "Rivista Biblica" 35 (1987), p. 425.
11) J. KORZINGER, Atti degli Apostoli, cit., p. 156.
12) La traduzione CEI "tutto il gruppo" potrebbe essere intesa come una delle due parti in causa; il termine greco pléthos indica inequivocabilmente tutta la comunità.
13) Per il fatto che nell'elenco solo Nicola sia detto proselito, qualche autore propende a ritenere tutti gli altri di origine giudaica, cf R. PESCH, Atti degli Apostoli, Cittadella, Assisi 1992, p.299.
14) Precisa A. MISTRORIGO, Guida alfabetica alla Bibbia, voce Proseliti, Piemme, Casale Monferrato (AL) 1995, p. 485: "Erano i pagani convertiti al giudaismo. Ce n'erano due classi: da un lato stavano coloro che accettavano la circoncisione e la Legge ed erano, perciò, riconosciuti Giudei di nazione e di religione; dall'altro non mancavano i riluttanti al rito della circoncisione, i quali si limitavano ad osservare il monoteismo, il riposo del Sabato, la frequenza alla sinagoga e il contributo al Tempio. Costoro erano assai numerosi e si trovavano sparsi dappertutto. San Paolo nei suoi viaggi ne incontrerà molti e li troverà ben disposti ad accogliere il Vangelo".
15) Difficile interpretare rettamente l'identità di queste persone. I commentatori sono divisi: per R. FABRIS, Gli Atti degli Apostoli, cit., p. 206, sono sacerdoti di rango inferiore, per B. PAPA, Atti degli Apostoli, cit., p. 180, è gente proveniente dagli esseni di Qumran, per G. SCHNEIDER, Gli Atti degli Apostoli, cit., p. 598, sono i sacerdoti del tempio.

(da Parole di vita, n.2, 1998)

La dimensione ecclesiologica

 

Ricerca di un orizzonte di relazioni e di presenza

 

di Silvano Pinato





Il Concilio ha riconosciuto alla vita religiosa uno statuto teologico che la colloca nel cuore stesso della Chiesa. Ma questa scoperta va valorizzata. Ecco quindi farsi avanti una nuova coscienza ecclesiale nei religiosi, che fa intravedere un orizzonte di relazioni e di comunione: i modi sono in parte ancora da inventare.

Come rendere oggi percorribile
l’esperienza religiosa e interreligiosa

di Javier Melloni

Solo nel cammino comune le religioni possono liberare il meglio delle energie umane per trasformare il mondo.

Nel passaggio attraverso il deserto non ci sono solo sete e desolazione. Ci sono anche incontri sorprendenti, e albe e tramonti di una bellezza sconvolgente di fronte ad un orizzonte aperto e illimitato. Ma tutto questo non si conosce se non si inizia la traversata se non si esce dalla città, dove la luce del Sole si intravede solo attraverso le strade strette del già noto e troppe volte attraversato.

All'inizio dell'esodo c'è solo il dolore perché lo sradicamento ci lacera. Però, andando avanti nel cammino, sorge una domanda: e se la nostra casa, il nostro focolare, le nostre famiglie non fossero alle nostre spalle, ma davanti a noi?

I viandanti di piccoli ponti
(il Centro di San Clemente a Kiev)

di Vladimir Zelinskij




 

I tanti anni di ricerca di una rapida e visibile unità ci hanno convinto che non esiste ancora un unico grande ponte che possa unire le due estremità del burrone che da mille anni separa l’Oriente dall’Occidente. Ma si può trovare o, piuttosto, costruire di nuovo dei piccoli ponti – se non ancora tra le Chiese storiche, almeno tra le persone, le culture, le iniziative, gli slanci dello spirito che cercano uno spazio comune nelle realtà divise. Uno di questi ponti porta il nome di San Clemente, papa e confessore della fede del I secolo, morto nel 101 (secondo la tradizione, martire) a Chersones sul Mar Nero. Nella stessa città, quasi 9 secoli dopo, ha ricevuto il battesimo il gran principe di Kiev San Vladimir, il quale ha trasportato a Kiev una parte delle reliquie del papa. Un’altra parte del corpo del Santo fu portata da San Metodio a Roma. Oggi, 19 secoli dopo la morte, San Clemente, presente nelle sue reliquie a Roma e a Kiev, può fare un lavoro – discreto, ma miracoloso – per la costruzione di quei piccoli legami di unità che a volte si mostrano più resistenti e duraturi di tanti ambiziosi progetti.

L’ultimo di questi miracoli è stata l’apertura del Centro “San Clemente” a Kiev l’8 dicembre scorso (proprio nel giorno del Santo, secondo il calendario giuliano e della festa dell’Immacolata per la Chiesa Cattolica). Il Centro è stato inaugurato da una parte dal cardinale Walter Kasper, presidente della Commissione Pontificia per l’unità dei cristiani e dall’altra, dall’arcivescovo di Poltava Filippo, presidente della Commissione per l’educazione religiosa, il catechismo ed il lavoro missionario della Metropolia ucraina del Patriarcato di Mosca. Questa iniziativa ha ricevuto il pieno appoggio e la benedizione anche dal capo della Chiesa Ucraina, il metropolita Vladimir Sabodan e del capo della Chiesa greco-cattolica in Ucraina, il cardinale Lubomir Husar.

“Con la vostra benedizione – ha detto il cardinal Kasper durante la sua omelia davanti al pubblico riunito nella sala – l’importante Centro ecumenico, come speriamo, sarà un punto di riferimento, per lo studio, il dialogo e l’incontro fraterno tra le Chiese. Sembra che questo sia un albero piccolo, ma con l’aiuto di Dio e con il vostro sostegno, esso potrà portare buoni frutti”.

Certo, l’apertura in un appartamentino di tre stanze a Kiev dove si trova il nuovo Centro, non è avvenimento che possa attirare l’attenzione dei grandi quotidiani in Occidente. Ma chi conosce dall’interno la situazione ecumenica nell’Est dell’Europa capisce che anche le piccole cose possono acquistare un significato simbolico. Prima di tutto è significativo il contesto storico di oggi, condizionato da due avvenimenti che non sono legati fra di loro. Il primo è l’incontro di Ravenna (dove la Chiesa Russa non ha partecipato) e nel quale si è fatto un grande passo verso la riscoperta della lingua comune del primo millennio cristiano. La lingua comune presto o tardi aprirà la strada anche alla piena comunione – e pur se il cammino sarà lungo e difficile, un passo importante è stato fatto. Un altro avvenimento o, meglio, processo – molto meno visibile per l’Occidente, che si sta svolgendo proprio nei nostri giorni – è “l’ucrainizzazione” graduale della Chiesa Russa in Ucraina. Processo che si esprime anche nella sua crescente indipendenza, se non canonicamente, di certo nella sua “linea” ecumenica e pratica. Davvero, bisogna avere un po’ di fantasia per immaginare nelle condizioni attuali che un cardinale della Chiesa Romana insieme al nunzio apostolico abbiano partecipato ad ogni azione comune – specialmente all’apertura comune del Centro ecumenico – con un arcivescovo ortodosso. Anzi, con il responsabile degli affari interni della Chiesa Ucraina, l’arcivescovo Mitrofan Yurchuk, accanto al nunzio apostolico Ivan Yurkovic, con il rettore dell’Università Cattolica di Lviv, Boris Gudziak ed il presidente dell’Università nazionale Pietro Mohila, Vyacheslav Briuchovetsky e con tanti altri. Basta ricordare la visita recente del patriarca Alessio in Francia, accolto con grande entusiasmo a Notre Dame di Parigi, ma sospettato in Russia dai fondamentalisti ortodossi per il “reato” di aver pregato per qualche istante insieme con i cattolici. I fondamentalisti non mancano, certo, anche in Ucraina, ma non sono loro a dare il là. Così l’ultimo Concilio della Metropolia Ucraina ha condannato senza mezzi termini la cosiddetta “Unione dei cittadini ortodossi”, il bastione dell’integralismo locale.

Il Centro di San Clemente, secondo il progetto del suo promotore e direttore Constantin Sigov, è destinato a costruire – attraverso gli incontri, le conferenze, i corsi teologici, i seminari – un altro ponte che possa mettere in comunicazione l’educazione nelle scienze umane con la formazione propriamente religiosa – la quale rappresenta il nucleo di ogni conoscenza autentica dell’uomo. Il Centro stesso è collegato al Campus Universitario Politecnico, la più importante fra le università ucraine. Tutti i paesi dell’Est europeo soffrono della totale mancanza del sapere più elementare in materia spirituale, a causa del vuoto lasciato in eredità dall’epoca sovietica.

Un altro scopo del Centro è la fondazione, in un futuro abbastanza vicino, di una nuova casa editrice, la “San Clemente”, la quale pubblicherà nella traduzione ucraina e russa degli agevoli volumetti (che presenteranno alcuni classici del pensiero teologico del nostro tempo). Una collana del tipo “Farsi un’idea”, dedicata proprio all’ambito del pensiero spirituale. Fra gli autori previsti ad essere pubblicati per primi: Yves Congar, Hans Urs von Balthasar, Jean Danielou, Tomas Spidlik, Enzo Bianchi ed altri ancora...

Ma lo scopo, se dobbiamo formularlo in una frase, è la creazione di un clima per la comunione, proprio nel suo senso originale di koinonia – oggi si potrebbe chiamare anche “ecumenismo nello spirito”. “Possa lo Spirito di Cristo risorto, - ha detto il cardinale Kasper durante l’apertura, - consentire al nostro cuore e alla nostra mente di recare i frutti dell’unità nelle relazioni tra le nostre Chiese, affinché possiamo servire insieme l’unità e la pace di tutta la famiglia umana. Possa lo stesso Spirito condurci alla piena espressione del mistero della comunione ecclesiale, che noi riconosciamo con gratitudine come un dono meraviglioso di Dio al mondo, un mistero la cui bellezza rifulge specialmente nella santità alla quale siamo tutti chiamati. Ed il centro di San Clemente dovrebbe diventare un segno di speranza”.

Nello stesso giorno durante il ricevimento a casa del metropolita Vladimir, il metropolita stesso ha fatto un brindisi per coloro che lavorano per l’unità. Il suo tono era sobrio, ma pieno di speranza. “Noi lavoriamo per l’unità, ma non riusciremo a fare tutto durante la nostra vita. Tuttavia il nostro lavoro sarà compiuto da coloro che attraverseranno i ponti costruiti da noi”.

Il buddismo offre attraenti metodi di lavoro su di sé. Ma è sempre ben compreso dagli Occidentali che tendono ad applicarvi delle categorie che non sono necessariamente le sue?

Martedì, 06 Maggio 2008 00:53

L'autore de La nube della non conoscenza

La nube della non conoscenza (XIV secolo)








I. LA MISTICA MEDIEVALE IN INGHILTERRA


Anche in Inghilterra la mistica ha vissuto nel medioevo un eccellente periodo di fioritura. Qui ricevette un impulso decisivo allorché monaci cistercensi vennero inviati dal loro abate Bernardo di Chiavaralle sull’isola, per diffondervi quella nuova religiosità «affettiva» che considerava come vertice della vita cristiana la dedizione d’amore dell’anima alla persona del Dio fatto uomo. Ancora oggi chi viaggia per l’Inghilterra può ammirare le rovine impressionanti delle abbazie cistercensi di Byland, Fountains e Rievaulx (tutte nella contea dello Yorkshire).

Martedì, 06 Maggio 2008 00:42

L’annuncio trinitario (Giovanni Vannucci)

L’annuncio trinitario

di Giovanni Vannucci




«Andate, battezzate nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo tutte le genti» (Mt 28, 19).

Due brevi precisazioni sulla terminologia di questa frase. Battezzare è sommergere qualcuno nell’onda vivificante e purificatrice. L’onda in cui i credenti son chiamati a sommergere l’umanità è il Nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Cos’è il Nome? Per gli antichi, il nome non era un qualcosa di convenzionale o di secondario, definiva l’essenza della cosa o della persona che lo portava. Per noi che valutiamo il nome dal punto di vista delle nostre lingue esclusivamente fonetiche, è molto difficile capire questa particolarità. Il nome divino specificato nelle sue tre personali componenti, sulle labbra di Cristo indica la viva realtà di Dio, avente un legame diretto con tutta la realtà cosmica, come Creatore, come animatore di vita e di ascesa, come compimento del faticoso e glorioso cammino della creazione nello sconfinato oceano dell’Amore.

Siamo chiamati a immergerci e a immergere in quest’onda divina tutto il creato! A vivere cioè nella consapevolezza che la creazione non è la risultante di un cieco impulso di cellule e di facoltà, ma il frutto di un intervento costante, a-temporale, sempre nuovo, la cui natura, pur sfuggendo alla coscienza razionale - tributaria com’è del tempo e dello spazio - è avvertita e creduta per la fede. A vivere nella certezza profonda che il tribolato cammino del creato non è abbandonato a se stesso, ma accompagnato da una Presenza che prende su di sé gli errori, i peccati, la morte, bruciandoli per trasformarli in germinazione di vita. A muoverci nella fiducia che l’esistenza creata, nonostante le sue tragiche ombre, le sue dure chiusure, le sue disperanti esperienze, un giorno sarà illuminata da una luce, una pace, una pienezza di gioia e di amore inimmaginabili.

Sì, il cammino è duro. La mèta sognata dalle più profonde esperienze umane è in contraddizione con l’esperienza normale. Immersi in una forma di coscienza embrionale, tortuosa, avida, aneliamo al possesso di Dio; legati a una mente incerta e oscura, sogniamo una luminosa e completa conoscenza; lacerati da guerre, ingiustizie, bramiamo trasformare le lance in aratri; aneliamo a una libertà assoluta e costruiamo delle società sempre più condizionanti; avendo un corpo fragile e caduco, nutriamo la speranza che la nostra mortalità si rivesta d’immortalità. La ragione, constatando il divario insormontabile tra l’ideale e la realtà, diffida degli elevati sogni e preferisce l’umile e dolorosa realtà, chiudendosi in più limitati orizzonti e in uno, apparentemente giustificato, scetticismo.

Noi che crediamo, che per la nostra fede vivente siamo chiamati ad accendere nei cuori i più folli sogni, ad annunciare la parola magica della speranza, a comunicare a tutti la coppa del vino migliore, non possiamo che continuare ad attendere e ad annunciare il compimento del miracolo della trasmutazione della morte nella vita, della coscienza imperfetta nella luminosa pienezza della coscienza vivente in Dio, della carne nello Spirito.

Nell’insufficienza dell’esistenza c’è il germe della redenzione e della pienezza della vita. Nelle tenebre esiste la luce che le consumerà, nelle strutture limitatrici un’energia liberante.

Sono sogni di una mente esaltata? Proviamoci ad avere pensieri immensi come l’immensità divina, rompiamo i nostri piccoli amori in un amore sempre più vasto, dilatiamo le nostre piccole libertà nella sconfinata libertà dei figli di Dio. E vedremo che la realizzazione di Dio, nell’intimo e nell’esteriore, è il più alto e legittimo senso della vita umana.

«L’annuncio trinitario», Ascensione del Signore, Anno A; in Risveglio della coscienza, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984, pp. 81-82

Salvezza e guarigione.
Una prospettiva teologica africana

di Mary Getui


Salvezza e guarigione sono in relazione l'una con l'altra, in quanto ciascuna di esse, ed entrambe, implicano una restaurazione laddove c'è stata rottura, un ritorno alla totalità, al benessere, alla salute e alla pienezza della vita.

Una prospettiva cristiana africana della salvezza e della guarigione deve prendere in considerazione la comprensione cristiana e il suo coinvolgimento in materia, così come la comprensione autoctona africana. I due sistemi dì credenze hanno molto in comune riguardo a ciò che la salvezza e la guarigione implicano, agli ostacoli sulla strada della loro realizzazione e del loro raggiungimento, ai passi necessari per affrontare tali ostacoli. Le differenze, se esistono, saranno più sulla diversità di accento. Questa discussione presenta un approccio collettivo, che puntualizza gli aspetti unici e appropriati.

Salvezza e guarigione sono centrate sull'apprezzamento e il rispetto per la vita come dono di Dio e per i beni e valori che contribuiscono alla pienezza della vita, come la buona relazione con Dio, la fertilità della terra, il cibo, la salute dei bambini e delle famiglie, il rispetto per la dignità umana, la sicurezza, la giustizia, la salute, la libertà dei prigionieri, il riso e la gioia, la speranza, l'unità, il lavoro, la vitalità e la spiritualità profonda.

Purtroppo, la situazione non può essere considerata ideale, dal momento che la pienezza della vita è assente o sperimentata parzialmente a causa della realtà dell'esistenza umana, caratterizzata dalla povertà, dalla fame, dalle malattie, dalla sofferenza, dalla disperazione, dalla desolazione, da relazioni familiari spezzate o conflittuali, dai conflitti etnici, a livello nazionale e internazionale, dalla devastazione dell'ambiente, dalle inondazioni, dagli incidenti, dai rifugiati, dalla solitudine, dalla mancanza di abitazione, dalla corruzione di massa e cronica, dalla decadenza morale e da carenti politiche di assistenza sociale.

Mentre la comprensione cristiana della salvezza enfatizza la dimensione individuale, quella autoctona africana riconosce che la vita è un ciclo che incorpora esseri vivi, quelli che non sono nati e persino i morti. I vivi hanno la grande responsabilità, mediante uno stile di vita morale retto, di preparare il cammino per una vita sana a coloro che non sono ancora nati. I vivi devono anche mantenere una relazione cordiale con coloro che sono morti, compiendo certi doveri, come quello di mantenere il buon nome della famiglia, di nuovo attraverso una vita morale retta.

La comprensione cristiana della salvezza non si limita alla realizzazione escatologica futura, ma la enfatizza. Il sistema di credenze africano vede la vita nella sua totalità, guidato dall'importante considerazione - indicata nei vari miti dell'origine/creazione - che la vita ha un inizio, un proposito e un destino dati da Dio.

L'amalgama di questi due sistemi di credenze si può riassumere nell'idea che la salvezza non è limitata al piano spirituale ma abbraccia la vita intera: la dimensione psicologica, mentale, emotiva, sociale e anche cosmica. Ciò si applica anche alla guarigione, che si riferisce non solo al benessere fisico dell'individuo, ma alla guarigione interiore e alla ricostruzione delle relazioni spezzate, come a una sana relazione con la natura. Per esempio, esistono vari tabù relativi all'uso sano delle risorse come l'acqua e la terra e al rispetto della flora e della fauna.

Le ragioni del perché l'ideale non si realizza e, pertanto, della necessità di guarigione e salvezza sono varie. Si possono ordinare su una scala che va dalla deviazione dal piano divino fino al modo in cui gli individui si relazionano con se stessi, con gli altri e con il mondo intero, tanto visibile quanto invisibile.

Nello sforzo di cercare la guarigione, si sono adottate varie soluzioni. Ci si può rivolgere alla medicina tradizionale, visitando ospedali e altre postazioni mediche create e amministrare dai missionari. Molto spesso, tuttavia, la gente si avvicina all'eredità culturale africana attraverso un intermediario e, segretamente, consulta curanderos che variano dagli indovini che indicano la causa dell'infermità agli erboristi o a qualunque altro specialista che offra una cura. Il rimedio può essere preventivo o curativo. La consultazione attraverso un intermediario o in segreto avviene perché molte delle principali Chiese tendono a condannare le pratiche curative indigene africane. Le Chiese africane carismatiche ed evangeliche accettano maggiormente le pratiche africane autoctone.

I servizi di guarigione nelle Chiese cristiane variano dall'imposizione delle mani agli infermi alle visite a persone malate in casa e all'ospedale, all'unzione con olio consacrato e acqua benedetta e altri simboli speciali. Considerando che la guarigione include altri aspetti della vita, le preghiere per la buona salute si applicano anche ad altre necessità, come ad esempio quelle di coloro che sono stati danneggiati socialmente perché la loro famiglia è stata distrutta o di coloro che sono stati abbandonati. Le preghiere legate alla cura o alla prosperità si rivolgono nel momento in cui la gente intraprende qualcosa di nuovo, come un nuovo lavoro, una nuova casa, o quando si celebra un matrimonio, un compleanno o un anniversario, quando si costruisce un nuovo edificio o quando si ara il campo per la semina, o quando si utilizzano nuovi strumenti di lavoro. Il rito della riconciliazione invoca anch'esso la cura. Tali servizi sono condotti principalmente da sacerdoti, ma è comune che anche i laici “unti” partecipino ad essi. La partecipazione di piccole comunità cristiane, gruppi di preghiera e di studio biblico è anch'essa considerevole.

Un elemento significativo della guarigione è dato dalle testimonianze di quanti hanno sperimentato o assistito a casi particolarmente straordinari di cure ricevute. Tra questi casi straordinari vi sono quelli che riguardano l'infertilità, le malattie croniche, le benedizioni ricevute sotto forma di lavoro o di matrimonio. Si esprimono certe riserve sul carattere genuino o fraudolento di queste cure. E questo continua a destare sospetti, ma la tendenza continua ad essere viva e in crescita.

Anche la salvezza ha creato controversie in circoli cristiani, quando viene interpretata come destinata unicamente a coloro che sono “nati di nuovo", perché hanno vissuto un'esperienza o una rivelazione speciale. Essi sono stati accusati di adottare un atteggiamento "più papista del papa". Ciò provoca conflitto e malintesi.

Risulta chiaro come da un contesto teologico africano la salvezza e la guarigione siano intimamente legate. La conclusione per entrambe è che ogni individuo riconosce e promuove la volontà di Dio per l'esistenza umana, che si percepisce come pienezza di vita nel passato, nel presente e nel futuro. E chiaro anche che la pienezza di vita può essere ostacolata o può rimanere incompleta a causa delle azioni umane e delle loro idee su Dio, su se stessi e sugli altri, inclusa la natura. Mentre la salvezza può essere più orientata verso la pienezza ultima della vita alla fine dei tempi, la guarigione è vincolata all'esistenza quotidiana.

(da Adista, n. 86, 02.12.2006, pp. 14-15)
I martiri: interpellanza per la chiesa

di Jon Sobrino

1. Introduzione - il bisogno di interpellanza alla chiesa odierna

I martiri, presi nel loro insieme come martiri gesuanici, che vivono e muoiono come Gesù, e come popoli crocifissi, che vivono e muoiono come il servo di Jahweh (1), offrono alla chiesa luce e salvezza, come è stato già detto in precedenti articoli. In questo contributo vogliamo insistere sul fatto che essi sono pure interpellanza, cosa che è buona e necessaria.

Paragonata a quella che è sorta dal Vaticano Il, la chiesa universale vive un processo di involuzione. Certamente ci sono numerosi gruppi di cristiani solidali con il dolore del mondo, profetici e utopici, che cercano di rinnovare lo spirito e la fede. E anche oggi vi sono alcuni martiri gesuanici, soprattutto in Africa. Ma nel suo insieme la chiesa si sta configurando come istituzione alla ricerca di una “pastorale del successo" (Pedro Trigo) che mantenga o le restituisca presenza sociale e una dimensione di massa. Per paragonarla a quella di Medellin bastano queste parole di J. Comblin:

Oggigiorno l'impressione dominante è che la gran parte delle Chiese, nei pastori e nelle pecore, sta tornando al passato. Mantiene lo stesso linguaggio, ma la pratica è diversa. Torna alle sagrestie e alle case parrocchiali. Non ascolta più la voce delle maggioranze povere e ascolta di più il suo pubblico tradizionale, quello che partecipa al culto. La Chiesa torna a preoccuparsi di se stessa. Cerca di recuperare posizioni di potere culturale, politico e perfino economico. Torna ad alimentare i sentimenti religiosi, le emozioni. Non le manca la clientela, perché il modello neoliberale ha fatto crescere l'angoscia, la disperazione, l'insicurezza, lo sconcerto dei popoli” (2).

Per invertire questa involuzione non è sufficiente riconoscere che la chiesa è peccatrice, casta meretrix, e chiedere perdono nel modo in cui è stato fatto negli ultimi anni dal vertice ecclesiale; in quanto astratta e poco coinvolta, infatti, la confessione del proprio peccato è stata inefficace. La domanda è dunque cosa può interpellare la chiesa.

Indubbiamente può interpellarla Dio, ma, a causa della sua trascendenza, Dio può rimanere distante e la sua interpellanza rimanere inascoltata. E, come ogni creatura, la chiesa fa in modo che così sia. Anni addietro, in epoca di antimarxismo viscerale, ho scritto che “la chiesa non ha paura del marxismo, ma di Dio". Può pure interpellarla Gesù Cristo, presenza storica del Dio trascendente, ma anche Gesù Cristo può essere situato in una lontananza senza volto né vigore interpellante. E quando si presagisce che il suo avvicinarsi è reale, allora può succedere quanto è accaduto nella leggenda del grande Inquisitore: il cardinale arcivescovo di Siviglia dice a Cristo: “Signore, non tornare".

Ma la fede cristiana è ostinatamente incarnazionale. La chiesa deve confessare che Cristo è presente nell'eucaristia, nella celebrazione della parola, nella comunità, nei pastori. Ed essa può essere interpellata da tutto questo, anche se può disattendere queste interpellanze. Ma c'è un'ultima specificazione - che in realtà è la prima - della presenza di Dio e del suo Cristo: “Ha voluto identificarsi con speciale tenerezza con i più deboli e poveri" (i Documenti della Terza conferenza genera/e dell'episcopato latinoamericano, Puebla 1979, n. 196). I poveri sono la massima presenza di Cristo nella storia: “vicari di Cristo" venivano chiamati nel Medioevo. Essi, pertanto, sono buona novella ed evangelizzano la chiesa. Ma essi sono pure lamento e chiamano alla conversione (Puebla 1979, n. 1147). Il motivo formale è stato già detto: sono presenza di Cristo. Il motivo materia/e è che i loro lamenti non possono essere zittiti (i Documenti della Seconda conferenza generale dell'episcopato latinoamericano, Medellin 1968; I: Giustizia, 1).

Facciamo ancora un passo. I poveri e i loro lamenti trovano la massima manifestazione nei martiri - in quelli gesuanici e, soprattutto, nei popoli crocifissi -, e per questo essi hanno la massima capacità di interpellare la chiesa. Dal punto di vista quantitativo essi sono tanto numerosi che solo con cecità e sordità colpevoli è possibile ignorarli. Dal punto di vista qualitativo è tale l'orrore che manifestano, che sono in grado di scuotere coscienze - e spingere pure alla conversione. E, inoltre, non permettono di utilizzare la fallace scusa cui la chiesa è incline - solo Dio può interpellarla -, perché Dio è in loro.

L'interpellanza dei martiri gesuanici si verifica più puntualmente in determinate epoche della storia (gli anni successivi a Medellin sono stati una di queste epoche in America Latina, e pure in Africa e in Asia), anche se, per interpellare, rimane sempre il loro ricordo. L'interpellanza dei popoli crocifissi e permanente, come lo è il mysterium inquitatis che permea la storia.

Abbiamo fatto un piccolo carosello teologico per mostrare quale sia la radice più profonda ed efficace dell'interpellanza alla chiesa, anche se questa radice - poveri, vittime e martiri - è palmare per qualunque cuore di carne. E tuttavia ci è sembrato importante farlo, tenendo conto che si tratta di interpellare la chiesa. Questa non può difendersi da una interpellanza che viene da loro, perché sono loro la massima presenza di Dio. E dato che l'interpellanza proviene da loro, e non da altro, l'interpellanza di fondo non verterà su alcunché di generico, ma sul nucleo stesso della fede cristiana: la misericordia, l'amore e la difesa del povero, l'identificazione con le vittime.

La conclusione è che la chiesa può essere interpellata e, come diceva mons. Romero, ne ha bisogno: “Abbiamo bisogno che qualcuno serva da profeta anche a noi, perché ci chiami alla conversione, perché ci impedisca di collocarci in una religione ormai del tutto intoccabile" (Omelia dell'8 luglio 1979) (3).

E, per finire questa introduzione, diciamo che, secondo quanto affermato, la prima e fondamentale interpellanza alla chiesa verte sul fatto stesso se essa sia o meno disposta a lasciarsi interpellare. Su cosa? Se somiglia o no a Gesù, se segue Gesù nella sua incarnazione, missione, croce e risurrezione. Vediamo.

2. Prima interpellanza: l'incarnazione, "superamento della irrealtà”

In questo terzo millennio la situazione delle masse del nostro mondo è miserabile. Vivere continua ad essere il loro impegno più difficile, e morire - nel proprio corpo, nella propria dignità, nella propria cultura, nel proprio spirito - la sorte più vicina. Orbene, la prima cosa che la chiesa deve fare per divenire "reale” e incarnarsi in questa realtà.

Una tale incarnazione non è facile per la chiesa anche se, partendo dalla sua fede, l'esigenza dovrebbe essere ovvia e fondamentale. Il Prologo di Giovanni esprime la volontà di Dio stesso di essere reale nel nostro mondo, volontà che consiste non solamente nel farsi storicamente carne, ma nel farsi carne debole. E, nel linguaggio della cristologia conciliare, la realtà assunta dal Figlio non è semplicemente l'humanitas, ma la sàrx, ciò che nella carne è debolezza. E nel cristianesimo trascendenza è in ultima analisi trans-discendenza (L. Boff). E questa discendenza non è solo diventare "l'altro", ma "il debole e piccolo".

Ciò a livello teorico è basilare, ma non suole esserlo nella vita della chiesa. Anche per essa - e non solo per la cristologia - il problema più grande è il docetismo (W. Kasper), ovvero crearsi un proprio ambito di realtà - dottrinale, liturgica, canonica - che la renda distante e così possa difenderla dal mondo reale, soprattutto dalle sue croci. Superare questo docetismo non è facile, ma almeno bisogna essere coscienti di quanto siamo inclini a cadervi e di quanto siamo assopiti dinanzi a questa realtà. E allora bisogna essere aperti all'interpellanza che Antonio Montesinos ha fatto cinque secoli fa: "Come è possibile che siano addormentati in un sonno letargico così profondo?".

Come aprire gli occhi alla realtà e superare questo docetismo che diventa quasi un esistenziale storico? Il miracolo può essere fatto dai popoli crocifissi che gridano con gemiti inenarrabili e invitano ad abbassare lo sguardo. E i martiri gesuanici ce ne danno un esempio. Perché non ci siano pretesti, questi mostrano le diverse maniere di farlo nel mondo attuale: Martin Luther King nel contesto di un movimento sociale, Silvia Arriola [religiosa salvadoregna, assassinata] nel contesto di una comunità popolare, Ignacio Ellacuria nel contesto universitario.

Per mons. Romero era evidente che la chiesa dovesse essere, innanzitutto, "reale". Con parole estreme, alcune davvero tremende, soleva dire: "Sono contento, fratelli, che la chiesa sia perseguitata proprio per la sua opzione preferenziale per i poveri e per il suo tentativo di incarnarsi nell'interesse dei poveri" (15 settembre 1979). "Sarebbe triste che in una patria dove si sta assassinando in modo così orrendo non contassimo tra le vittime anche dei sacerdoti. Essi sono la testimonianza di una chiesa incarnata nei problemi del popolo" (24giugno 1979).

Chi scorgesse in queste parole sacrificalismo o masochismo non ha compreso né come era la realtà salvadoregna di allora né la profondità della scelta di mons. Romero nei confronti di questa realtà. Ciò che mons. Romero veniva a dire è che una chiesa che non è povera in tempi di povertà, che non è perseguitata in tempi di persecuzione, che non è assassinata in tempi di assassinii, che non si coinvolge in tempi di impegno e non incoraggia ad esso in tempi di indifferenza, che non ha speranza in tempi di speranza e non incoraggia ad essa in tempi di disincanto, non è una chiesa reale, ma una chiesa docetista. Va bene formulare l'ideale della chiesa come quello di una chiesa santa, autentica... Ma innanzitutto, l'ideale è il minimo-massimo di essere una chiesa reale.

Della chiesa di mons. Romero si potrebbe dire che era una chiesa con limiti, errori e peccati, ma ciò di cui non si potrebbe dubitare è che fosse una chiesa "salvadoregna", "reale". E perché partecipava non solo alla sofferenza della realtà salvadoregna, ma pure al suo spirito e alla sua creatività. "Voi, una chiesa così viva, così piena di Spirito!". Era una chiesa salvadoregna, segnata dalla generosità e dall'impegno della sua gente.

Superare il docetismo non è mai stato facile. La vera umanità di Cristo, pur essendo evidente nel Nuovo Testamento, è stata definita a Calcedonia (451) molti anni dopo che ne era stata definita la divinità a Nicea (325), che non era così evidente. C'è qualcosa di profondo che ci fa propendere verso il docetismo. Al suo superamento ci invitano e ci spingono i martiri: il popolo crocifisso in se stesso è un grido a volgere gli occhi su questa realtà, i martiri gesuanici insegnano ad abbassarsi a questa realtà.

3. Seconda interpellanza: la missione, "compassione verso la realtà

Medellin e Paolo VI nella Evangeli nuntiandi (n. 30) hanno fatto della liberazione integrale un elemento essenziale alla missione della chiesa. Vogliamo ora ricordare due caratteristiche di questa missione di liberazione, non per riprodurle oggi meccanicamente, quanto per raccogliere il pathos di quella missione che sta morendo la morte di mille scuse.

La prima caratteristica è la salvezza di un intero popolo. Mons. Romero è stato definito da Ignacio Ellacuria "un inviato di Dio per salvare il suo popolo" (4), e lo stesso arcivescovo ha visto se stesso come portavoce della parola di un intero popolo, un "essere voce per i senza voce" (29 luglio 1979). Ignacio Ellacuria insisteva sull’"invertire la storia, sovvertirla e lanciarla verso un'altra direzione" (5), e ha formulato l'utopia come una nuova "cultura della povertà" (6).

Il tentativo di lavorare per "un intero popolo" può - o ha potuto - essere più facile empiricamente in alcuni posti (America Latina) piuttosto che in altri, laddove i cristiani sono minoranza, e in alcune epoche, due decenni addietro, piuttosto che ora. Ma ciò che qui vogliamo sottolineare è l'orizzonte della missione, capace di coinvolgere e inglobare ciò che è vita e dignità delle maggioranze oppresse: il regno di Dio, la famiglia umana. Le chiese, grandi o piccole, devono tenerlo in considerazione e agire da lievito efficace. Questo è stato l'orizzonte di molte chiese, quella del Brasile per esempio; ma la tendenza odierna è quella di concentrarsi e di favorire la salvezza individuale, al massimo familiare -buona e necessaria -, più che quella di un popolo, ossia la salvezza interiore più che quella storica.

La seconda caratteristica è il pàthos dialettico, profetico. All' annuncio del regno era consustanziale la denuncia dell'antiregno, e così si originava il conflitto. Oggigiorno la missione non mette la chiesa, nel suo complesso, in seria opposizione al mondo oppressore, anche se vi sono alcune scaramucce. Su tutto ciò può essere che stiano esercitando il loro influsso la postmodernità, con la sua allergia verso i grandi racconti, e l'ideologia della globalizzazione, che ignora ciò che è dialettico per canonizzare - quasi sempre ipocritamente - il dialogo e la tolleranza, che quasi per necessità degenerano in indifferenza nei confronti dei poveri. Ma una chiesa che non è dedita alla difesa dei popoli, che non lotta né entra in conflitto per questo, diventa una setta chiusa o forse anche una istituzione di massa, ma certamente disinteressata alla realtà, un nuovo tentativo di cristianità socio-culturale.

E tuttavia, non può sparire la memoria sovversiva interpellante. Dove sono la profezia, le omelie e le lettere pastorali degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso? Dov'è l'abbassarsi verso i poveri, il condividere la loro impotenza e il loro destino? Insomma, dov'è quel primo amore della chiesa del Vaticano II, rispetto alla dignità del cristiano all'interno della chiesa, e soprattutto della chiesa di Medellin, rispetto all'essere chiesa dei poveri?

È evidente che le cose cambiano, ma né la realtà né il vangelo sono cambiati in tal guisa che il vecchio pathos sia ormai irrilevante. Questo pathos di liberazione, utopico e profetico, non è altro che la compassione che consegue allo stare di fronte ai popoli crocifissi. Non che la chiesa non abbia più nulla di tutto questo, ma essa rimane più a livello etico che profetico, cerca il dialogo con altri poteri e rifugge dal conflitto con essi, parla molto di nuova evangelizzazione ma poco della dimensione agonistica della missione, parla di comunità ecclesiale ma poco del regno di Dio come mensa di condivisione che mette al centro i poveri. Comblin lo ha affermato con forza - e ironia: "Si continua a ripetere il discorso dell'opzione preferenziale per i poveri, ma la pratica è altra cosa. Sono parole... Words, words, words... Una volta le parole esprimevano ciò che si diceva" (7).

Oggi, ovviamente, vi sono compiti nuovi nella missione: genere, indigeni, afroamericani, rifugiati, AJDS, ecologia, dialogo interculturale e interreligioso... E nello sguardo dall'oggi si scoprono i limiti della visione precedente. Comblin, per esempio, riconosce che la teologia della liberazione "non ha dedicato attenzione sufficiente al vero dramma delle persone umane, al loro destino, alla loro vocazione e, di conseguenza, al fondamento della loro libertà" (8). Ma una cosa è riconoscere le novità del presente e i limiti del passato, altra è ignorare il pàthos di cui prima era impregnata la missione: misericordia e verità, in opposizione all'assassinio e alla menzogna (Gv 8,44).

Recuperare questo pàthos non è facile. Vi possono pure essere - e vi sono - masse di poveri che non sono neppure interessate a ciò. Non va dimenticato che la chiesa ha fatto una opzione per i poveri, ed essi se ne sono andati, in buona parte, nelle chiese pentecostali. Ma ciò non deve servire da scusa per non riprendere il pàthos di Medellin. "La chiesa dei poveri è latente. Una nuova circostanza può portarla nuovamente alla superficie della storia. Medellin riapparirà nuovamente domani come nuovo avvenimento ecclesiale" (9). La questione è se nella chiesa ci sia questo convincimento.

Mantenere vivo il pathos del Vaticano Il e, dalla nostra prospettiva, il pathos di Medellin soprattutto, è un problema basilare per la chiesa odierna, e a questo spingono i martiri. I martiri gesuanici non hanno dato la loro vita solo per cose buone, ma per qualcosa di più profondo: la salvezza di un popolo. I popoli crocifissi continuano ad attendere dalla chiesa compassione, che lavori e lotti - insieme a molti altri - per farli scendere dalla croce. Di elemosine e piccoli aiuti, di parole compiute a metà o incompiute, di disinteresse o disprezzo, di illusori orizzonti della globalizzazione che li emargina hanno avuto già a sufficienza. E non va dimenticato che nel portare a compimento la missione in un modo o in un altro la chiesa si gioca la propria identità; infatti "non e la chiesa a creare la missione, ma la missione a creare la chiesa" (J. Moltmann).

4. Terza interpellanza: la croce, farsi carico del peso della realtà

La realtà è un carico pesante per i milioni di vittime e diventa carico oneroso per coloro che solidarizzano con esse. I popoli crocifissi sono espressione della prima e i martiri gesuanici della seconda. Su quest'ultimo concetto vogliamo insistere ora.

Per i martiri farsi carico della realtà non è stato masochismo né mero desiderio mistico di identificarsi con il Cristo crocifisso, ma la conseguenza derivante dal seguire quel Cristo, ovvero dal praticare la misericordia sino alla fine, e pertanto senza rifuggire da conflitti e rischi. In un certo senso la pretesa di Gesù ("Prendi la tua croce e seguimi") è tautologica: essere e fare come lui - seguirlo - porta a farsi carico di ciò di cui egli si è fatto carico - la croce.

In questo senso "croce" è la sofferenza e la morte che sopraggiungono per difendere l'oppresso e lottare contro l'ingiustizia, e proviene dalla volontà di incarnarsi nella conflittualità della realtà ingiusta. Analogamente, "croce" può esprimere altre sofferenze, angosce, malattie, insuccessi, disincanti, paure, che talora possono perfino essere più dolorose di quelle che provengono dalla lotta per la giustizia.

Ciò dovrebbe essere chiaro partendo dalla tradizione biblico-gesuanica. La storia è segnata da un conflitto teologale tra un Dio della vita e gli idoli di morte che esigono vittime per sopravvivere. Nella teologia di Giovanni il maligno non è solo "cattivo", ma pure "assassino". Per così dire il male è più che male, ha il potere di distruggere coloro che lottano contro di esso. La grande aporia della storia è che il peccato ha potere e, se la questione si pone così, la chiesa deve prendere posizione nei confronti di un male che è conflittuale.

Ciò avviene in alcune circostanze, e certamente è accaduto in America Latina in epoche passate: la missione della chiesa era essenzialmente conflittuale, al di là delle psicologie, per il fatto di essere incarnata nella realtà e per il fatto di difendere le vittime. Ma oggi c'è un deficit di tutto ciò. Ci possono essere scontri verbali tra gerarchia e poteri, ma le parole sono ordinariamente scelte in tal guisa che vi possono essere parole e testi conflittual4 ma non ci sono molti conflitti reali. Ci sono delle eccezioni come, solo per menzionare vescovi martiri, mons. Gerardi in Guatemala, mons. Isaías Duarte in Colombia, mons. Munzihirwa nella Repubblica democratica del Congo, ma nel suo complesso la chiesa non si fa carico oggi di croci notevoli per dire ciò che dice né fare ciò che fa, a differenza di quanto è accaduto anni addietro. E neppure canonizza questi e molti altri martiri dei nostri giorni - cosa che pure le causerebbe conflitti con i loro assassini ancora viventi. Di più, talora cerca il ritorno a una certa armonia con i poteri di questo mondo. In America Latina molte nomine di vescovi sono state guidate da questa logica.

Si ripete oggi che non bisogna essere anacronistici, ma noi aggiungiamo che non bisogna essere acritici e neppure autoingannarsi. Sia la fede cristiana che la realtà storica continuano ad essere onerose e conflittuali. Comunque qualcosa bisognerà mantenere della parresia paolina, coraggio, audacia e fiducia, e non cadere nella vigliaccheria. Non vi esibito un cristianesimo fanatizzato, ma ancor meno un cristianesimo annacquato, che in ultima analisi potrebbe parlare allo stesso modo con le vittime e con i loro carnefici Non bisogna fare del cristianesimo una "grazia a buon mercato" che, come diceva Bonhoeffer, è il suo più grande pericolo. Non bisogna introiettare subliminalmente che la croce (e, logicamente, anche la risurrezione) sono cose buone nella liturgia e nella devozione privata, ma che non dicono nulla di serio sulla realtà di cui la chiesa deve farsi carico. In questa situazione i martiri ci interpellano e ci incoraggiano a farci carico della croce della realtà, e con ciò fanno un gran bene.

In primo luogo bisogna ricordare che, seppure non si tratti di una verità filosofica universale (ma certamente di una verità biblica e cristiana), per redimere il male esso va combattuto non solo dall'esterno, con tutti i mezzi legittimi ed efficaci, ma pure dal di dentro, facendosi carico di esso. Se non si accetta questo, vana è la parola di Dio sul servo sofferente e su Cristo crocifisso.

In secondo luogo, farsi carico della croce procura alla chiesa credibilità, cosa che non si consegue in alcun altro modo, e invera che la chiesa sta agendo cristianamente; infatti se non le accade, in maniera notevole, quanto è accaduto a Gesù, non si vede per quale ragione essa debba essere compresa e accettata come chiesa di Gesù. Così pensava mons. Romero: "Una chiesa che non soffre persecuzione, ma che sta godendo dei privilegi e dell'appoggio della terra, questa chiesa abbia paura! Non è la vera chiesa di Gesù Cristo" (11 marzo 1979).

A volte abbiamo eccellenti esempi di assunzione della realtà, rimanendo immersi in essa pur, nella consapevolezza che essa scaricherà tutto il suo peso. E il caso dei sette monaci trappisti di Thibirine (Algeria) che, nonostante le minacce, sono rimasti nel loro monastero, trasformato dal priore Christian de Chergé in un centro per il dialogo cristiano-islamico. Sono stati sequestrati e poi, il 26 maggio 1996, assassinati. Pur conoscendo quale sarebbe stato il loro futuro essi sono rimasti là. Sono stati "reali" fino all'estremo. Questo esempio, come le citate parole di mons. Romero, costituiscono ovviamente un caso limite, ma sono un esempio di come i martiri incoraggino - ordinariamente in modo più modesto - a farsi carico della realtà.

L'invito a "farsi carico della croce" è tanto antico quanto il cristianesimo. Non è mai stato facile ieri, e non lo è oggi. Ma almeno questo invito dovrebbe rimanere chiaro nella teoria cristiana e non si dovrebbero cercare strade per eliminarlo. E questo, che non è mai stato un compito facile, è ciò che viene reso facile dai martiri; ad ogni modo, essi ci interpellano al riguardo. Se i popoli crocifissi non muovono la chiesa a farsi carico della loro sofferenza e a partecipare al loro destino, nessuno sarà in grado di farlo. Se i martiri gesuanici non persuadono del fatto che l'amore più grande è possibile e umanizzante, e che passa dal farsi carico della croce della realtà, nessuno sarà in grado di farlo.

5. Quarta interpellanza: la risurrezione, “lasciarsi portare dalla realtà"

Formuliamo questo concetto in simmetria con il linguaggio precedente. I martiri ci interpellano-invitano pure a partecipare della risurrezione di Gesù.

Nella realtà c'è peccato; per questo essa è onerosa e bisogna farsene carico. Ma nella realtà c'è pure grazia; per questo essa è forza e può farsi carico di noi. I martiri - e tutta la gente buona lungo la storia - impregnano la realtà di amore e verità, cosa che rende questa più leggera perché ce ne facciamo carico, e la rende potente perché essa si faccia carico di noi. Per questo motivo non parliamo ora solo di interpellanza - scossone, messa in discussione -, ma pure di invito - offerta di grazia. Anche se aggiungiamo che, sebbene lo sembri, neppure è facile lasciarsi prendere in carico dalla realtà, perché sempre appare con vigore la hybris, l'arroganza degli uomini, il loro non lasciarsi donare. E per questo bisogna continuare a parlare di interpellanza.

Mettiamo ciò in rapporto con la risurrezione. Questa realtà impregnata di amore e verità rende possibile che possiamo già vivere come risorti nelle condizioni della storia. Per non cadere in forme angelicali ricordiamo che dal Risorto non sono sparite le piaghe, e ancor meno spariscono quelle di coloro che vivono la risurrezione nella storia. Non si trasformano in sostanze celesti. Ma una realtà di dono rende possibile il vivere con amore la sequela di Gesù, con la sfumatura di "pienezza e vittoria" che la risurrezione aggiunge. In termini storici questo significa, per la chiesa e per la vita dei cristiani, vivere con liberta, come trionfo sull'egocentrismo e l'egoismo, in maniera tale che nulla sia di ostacolo per fare il bene. Vivere con gioia, come trionfo sulla tristezza, in maniera tale che la sofferenza non produca amarezza ma purificazione. Vivere con speranza contro la rassegnazione, in maniera tale che il mistero dell'iniquità, l'ancora-no, il certamente-no, il disincanto, non seppelliscano la promessa... In questa libertà, in questa gioia e in questa speranza c'è già come un riflesso della risurrezione.

Questo è l'invito che i martiri fanno alla chiesa. E per tutto ciò l'interpellanza ultima è a non dimenticare. Non per il loro interesse - perché essi non vivono più in una struttura di egoismo -, ma per bisogno della chiesa.

6. Conclusione

Su questo bisogno diciamo una parola finale. Il Vaticano II ci ammoniva a far attenzione che "in questa genesi dell'ateismo possono avere non piccola parte gli stessi credenti che […] hanno velato più che rivelato il genuino volto di Dio" (GS 19). E con parole più forti la Scrittura denuncia: "Per causa vostra il nome di Dio è bestemmiato fra le nazioni" (Rm 2,24).

Orbene, i martiri gesuanici non hanno velato il volto di Dio: con la loro vita e la loro morte lo hanno rivelato. In chiese di martiri non si bestemmia il nome di Dio, ma lo si benedice o, almeno, lo si rispetta. A partire da loro si può dire con gratitudine: "A causa vostra il nome di Dio viene benedetto tra i poveri". Questo per quanto concerne il mondo che guarda alla chiesa.

Per ciò che riguarda i popoli crocifissi, che pure hanno lo sguardo rivolto alla chiesa, solo una chiesa di martiri gesuanici che si lasci coinvolgere da loro e ne raccolga l'eredità avrà credibilità dinanzi ai popoli crocifissi e manterrà viva la loro speranza nel tentativo di deporli dalla croce.

(traduzione dallo spagnolo di Mauro Nicolosi)

Note

1) Su questa distinzione, cf. il nostro articolo in Concilium 1, 2003: Il nostro mondo. Crudeltà e compassione, pp. 21-32.

2) J. COMBLJN, Medellin ayer, hoy y mañana, in Revista Latinoamericana de Teologia 46 (1999) 79s.

3) [Cf O. ROMERO, Il mio sangue per la libertà di El Salvador. Le omelie dell'arcivescovo di San Salvador ucciso nella cattedra/e, Eurostudio, Milano 1980].

4) Cf I. ELLACURÌA, Monseñor Romero, un enviado de Dios para salvar a su pueblo, in Revista Latinoamericana de Teologia 19 (1990) 5-1 0.

5) ID., El desafio de las mayorias pobres, in Estudios Centroamericanos 493-494 (1989)1079.

6) ID., Utopia y profetismo desde América Latina, in Rivista Latinoamericana de Teologia 17 (1989)164-184.

7) J. COMBLIN, Medellin, in Revista Latinoamericana de Teologia 46 (1999) 79.

8) ID., Called For Freedom, Orbis Books, Maryknoll/N.Y. 1998, 197.

9) ID., Medellin, cit., 81.

(da Adista, n. 30, 12.04.2003, pp. 9-13)

Il dono di Dio,
mistero di inesauribile gratuità

di Sr. Germana Strola o.c.s.o.

"...Tutto mi sa di miracolo..."'

Sono piuttosto rari, anche nella vita contemplativa i momenti in cui emerge chiaramente alla coscienza la gratuità e la sovrabbondanza con cui il Signore ricolma il mondo, la storia, la vita di qualsiasi uomo. Nella società di oggi, la cultura dominante fortemente determinata dai media, rende maggiormente difficile a tutti i cristiani guardare alla propria esperienza con un profondo sguardo di fede: le difficoltà quotidiane, le notizie prevalentemente angustianti dei molti conflitti che imperversano nei paesi più poveri del pianeta - da quelli più noti in Medio Oriente o in Iraq, a quelli più ignorati nell'Africa subsahariana - oltre agli interessi economici di una globalizzazione che ritorna sempre a scapito delle fasce più deboli, si aggiungono ai travagli personali o familiari che non risparmiano nessuno (infortuni, malattie, incomprensioni di coppia o generazionali, ecc.) : tutto questo costituisce un peso greve, spesso non facile da portare o da attraversare con la forza della speranza.

Lo stesso clima oscuro, tuttavia, e lo stesso cupo orizzonte può infiltrarsi talora anche nelle mura del monastero e minacciare l'atmosfera luminosa del cosiddetto «paradiso claustrale». Conservare alto lo sguardo, rivolgendolo là dove le nostre vite sono nascoste con Cristo in Dio (Col 3, 1-3), esige - nell'esperienza quotidiana di tutti - una paziente e amorosa ascesi rispetto alla tendenza che porta a ripiegarsi su di sé e sui propri moti istintivi: quante volte la sensibilità o l'emotività è tentata di lasciarsi imprigionare dalle mille invisibili reti dei conflitti interni ed esterni, delle difficoltà o dei contrattempi che intrecciano il tessuto esistenziale e relazionale di ogni uomo.

Non è quindi scontato sapersi fermare, e guardare; e nemmeno fare realmente silenzio, per sentire il palpito della vita, oppure affinare lo sguardo e vedere realmente l'alterità di quanto esiste fuori di se: cioè accorgersi, per grazia, come risplende la luce e la bellezza del dono di Dio in ciò che l'opacità quotidiana tenta di mascherare con il suo grigiore. A volte, tuttavia, alla povertà interiore, al cuore contrito o umiliato si aprono degli orizzonti inattesi, percepiti come attraverso sensi spirituali donati dall'alto e affinati dalla prova: la creazione in quanto tale (iniziale e continua), le persone, e gli eventi vissuti appaiono allora nel loro aspetto di gratuità, nel loro carattere di miracolo, di eccedenza.

Sono pochi coloro che, senza essere passati per una lunga educazione o per il crogiolo della prova, hanno il dono di percepire immediatamente l'ampiezza, l'altezza, la profondità del mistero di grazia in cui siamo immersi (cf. Ef 3,18): il dono della Vita - verità lapalissiana, ma che non si può mai dare per scontato - non è un prodotto delle mani dell'uomo, nonostante tutte le provette dei suoi laboratori (dove egli usa comunque cellule non create dal nulla) o le sue tecniche eugenetiche. Nulla si crea e nulla si distrugge, dice la fisica: la trasformazione dell'energia, non il suo annientamento, è uno dei principi fondamentali della scienza sperimentale. La creazione dal nulla invece, in quanto tale, è uno degli argomenti dell'esistenza di Dio (cf. Ef 3,9; Col 1,16; Ap 4,11: Perché tu hai creato tutte le cose, e per la tua volontà esse sussistono): non abbiamo nulla che non sia stato gratuitamente ricevuto (1Cor 4,7). E nessuno di noi ha mai pensato, desiderato, chiesto o voluto venire al mondo, né aveva diritto a nulla: anche colui che si ritiene il più sventurato e il più infelice tra gli esseri umani, è stato ed è oggetto di un gesto - di un amore - totalmente gratuito.

Assorbiti dalle urgenze, dalle esigenze e dalle sollecitazioni del sussistere quotidiano, rischiamo, come dei robots, di vivere (o di correre) un po' sempre alla superficie, e di perdere la qualità squisitamente umana della consapevolezza, dell'interiorità, delle dimensioni dello Spirito. Dio, il Padre del Signore nostro Gesù Cristo, non aveva nessuna necessità di condividere con noi il dono di se stesso e del proprio Figlio, nello Spirito dell'Amore: ogni necessità è preclusa in Dio, in quanto Dio. Ma per potersene accorgere, bisogna innalzare lo sguardo oltre se stessi e il condizionamento immediato, al di là delle proprie limitazioni, insoddisfazioni o sconfitte, profonde o superficiali che siano, finché si aprano e divengano - quali ferite gloriose - orizzonti aperti sul mistero che ci è dato di vivere.

La creazione

La bellezza dell'infinito cosmico-stellare e la perfezione insondabile delle leggi della natura sono così superiori alla mente umana e alle sue pur alte capacità sia conoscitive, sia creative. Solo la terra, in tutto l'universo in espansione, mirabilmente retto da leggi che ancora non si conoscono pienamente - affermano gli studiosi di astronomia - offre le condizioni per l'esistenza: frutto di una attività cosmica di miliardi di anni luce. Miriadi e miriadi di grandezze spaziali e temporali si concentrano nell'attimo presente in cui è dato a noi di respirare, di guardare, di vivere, ora.

Colmano di stupore non solo gli orizzonti maestosi, gli spettacoli crepuscolari che illuminano al sorgere e al calare del sole le distese boreali e non, ma la sovrabbondanza d perfezione, di fascino trasparente e verginale bellezza delle creature più piccole, apparentemente - o realmente - del tutto inutili: chi di noi ha mai potuto contemplare (e contare...) tutti i ciclamini che in primavera e in autunno fioriscono fin sotto gli sterpi dei nostri boschi - oppure i fiorellini minuscoli e multicolori che ammantano senza numero le superfici dei campi... Ma chi si ferma a contemplare la bellezza degli alberi, grandi e piccoli, sempreverdi e no (non solo i cedri... né i colori delle foglie d'autunno, le viti vergini, ma anche il ciclo stagionale dei tigli, dei pioppi, dei faggi, per menzionarne solo alcuni). Francesco, forse, con il suo spirito poetico, lo stupore e il senso del miracolo scavato nel suo cuore, nel suo corpo crocifisso dalla sequela di Cristo, in compagnia di Madonna Povertà (cf Gb 36,15: «Egli libera il povero con l'afflizione, gli apre l'udito con la sventura»).

Chi ha mai perlustrato il fondo degli oceani, o le segrete profondità dei recessi più remoti che l'occhio umano probabilmente non visiterà mai? Chi si ferma a contemplare la perfezione dei piccoli licheni, dei muschi, della minuta e variegata flora abbarbicata alla roccia, dalla più piccola alla più maestosa? Per non parlare dei fenomeni atmosferici che, pur nell'aspetto terrificante che assumono talora, fecondano la terra... Tutto questo, insieme alla descrizione della creazione del cosmo e della bellezza, della forza degli animali diventa nel libro di Giobbe (36,27-37,16; 38-41; cf. Sal 104)) argomento di consolazione, risposta di Dio che nella teofania addita all'incalzare del questionamento umano un'altra sapienza, un altro livello di coscienza.

Rare volte, probabilmente, qualcuno si è fermato a guardare lo svolazzare delle farfalle nel mese di settembre, o il gioco in cui si librano gli uccelli, quasi sempre in coppia. Ma anche la tenerezza dei mammiferi (soltanto?) per i loro piccoli... Perché una tale sovrabbondanza di fecondità, in tutte le specie vegetali e animali, conosciuta o no dall'occhio umano? E per quale mai motivo proliferano le infinite specie di insetti, ecc.? La mente piccola, calcolatrice, egocentrica dell'uomo si sarebbe abbandonata a questo grande spreco di vitalità? Una potenza vitale diffusiva, prorompente, anima la creazione, senza altro fine, si direbbe, che il suo moltiplicarsi, sempre nuovo, inatteso, semplicemente bello.

L'essere umano

Noi non ne abbiamo coscienza, ma la contemplazione del formarsi del piccolo uomo, il suo crescere in corpo e in persona adulta. permette di ammirare tutto un dispiegarsi di eccedenza e di miracolo, non solo in dimensione fisica, ma anche e soprattutto psichica, fino alla completa costituzione della sua mente, del suo spirito. Le capacità intellettuali, artistiche, morali dell'uomo hanno lasciato una traccia mirabile nei fastigi di civiltà millenarie, mentre non cessano di progredire le realizzazioni tecnico-scientifiche contemporanee... Nessuno si è fatto da sé, né da sé solo trae la possibilità di perseguire obiettivi tanto alti. Gli esseri viventi che conta attualmente il nostro «villaggio globale» sono circa 6,7 miliardi: e tutti sono per Dio come il Figlio unico, amati, chiamati alla conoscenza della verità, alla perfezione dell’amore trinitario.

L'universo intero è ben lungi dall'essere stato esplorato, e nessuna mente umana può abbracciare in sé la conoscenza, la visione, la contemplazione di tutte le sue bellezze. Allo stesso modo, Dio eccede l'uomo da tutti i punti di vista. Di tutto, Egli è più grande. Bellezza e finalità costruttiva, positiva, nella creazione e nella storia, nonostante tutte le apparenze contrarie, si coniugano: il tutto è per un bene, perseguito da una insondabile sapienza. Movimento ciclico (stagionale, epocale) e lineare (teleologico) si coniugano, al di là della presa dell'uomo. Il fine eccede l'uomo, che non ne penetra pienamente il senso, se non contemplando l'Altro attraverso il tutto, in ogni suo frammento.

La Parola della Scrittura

Ma soffermiamoci solo un istante sulla Parola di Dio, che più direttamente ci introduce nel Suo mistero. La redenzione dell' uomo e segnata da una dinamica di sovrabbondanza: lo ripete l'apostolo Paolo, che non si stanca di moltiplicare nelle sue lettere i termini composti con hyper. Con alcuni esempi, tratti dai testi più noti, si potrebbe perfino tracciare una linea di continuità tra la sovrabbondanza di Dio («laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia», Rm 5,20) e la sovrabbondanza del cristiano («in tutte queste cose - anche nelle prove più, dure, interne ed esterne - noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati», Rm 8,37). È questo il sigillo di Dio nella storia: «Sta scritto infatti: Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, ne mai entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano» (1Cor 2.9).

Ogni dono di grazia (a partire dalle prime pagine dell'Antico Testamento: creazione, elezione, alleanza, attraverso tutto lo svolgersi della storia sacra) se «già era glorioso, non lo è più a confronto della sovraeminente gloria della Nuova Alleanza» (2Cor 3,10). È Cristo Gesù, Uomo-Dio, la manifestazione somma della gratuità e sovrabbondanza del Padre, donato a noi perché in Lui possiamo realmente vivere, come dice Gesù stesso nel Vangelo di Giovanni: «io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10). Egli è il principio dell'umanità nuova, ricostituita nella sua autentica dimensione filiale, nella sua vocazione e immagine divina: «Infatti se per la caduta di uno solo la morte ha regnato a causa di quel solo uomo, molto di più quelli che ricevono l'abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo del solo Gesù Cristo» (Rm 5,17).

La moltiplicazione sovrabbondante dei pani e dei pesci - simbolo del Pane Vivo, del cibo eucaristico - esemplificava già nei Vangeli Sinottici l'inesauribile gratuità del dono che Dio, nel Cristo Gesù, fa di se stesso: «Tutti mangiarono e furono saziati; e portarono via dodici ceste piene di pezzi avanzati. Quelli che avevano mangiato erano circa cinquemila uomini, senza contare le donne e i bambini» (Mt 14,20-21; cf 15,37; Lc 9,17; 12,15; Gv 6,12).

Il mistero di Cristo, l'Eterno Vivente, continua misteriosamente nelle sua Chiesa, cioè in noi, membra del Suo Corpo vivo: «con lui ci ha anche risuscitati e ci ha fatti sedere nei cieli, in Cristo Gesù, per mostrare nei secoli futuri la straordinaria ricchezza della sua grazia mediante la sua bontà verso di noi in Cristo Gesù» (Ef 2,7). La sua presenza in noi, è il perno centrale su cui poggia, per la fede, il nostro esistere nel tempo, come esortava Paolo: «il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori e così, radicati e fondati nella carità, siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l'ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e conoscere l'amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio» (Ef 3,19).

La vitalità divina che la Sua umanità gloriosa infonde nel nostro essere mortale è tale che l'Apostolo delle genti non trova parole e quasi forza i limiti del linguaggio umano per poter comunicare l'inesprimibile: «Possa egli davvero illuminare gli occhi della vostra mente per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi e qual è la straordinaria grandezza della sua potenza verso di noi credenti secondo l'efficacia della sua forza» (Fi1,19).

Se da un lato Paolo insiste sulla debolezza creaturale del nostro essere umano - «noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta, perché appaia che questa potenza straordinaria viene da Dio e non da noi» (2Cor 4,7) - proprio per questo essa diviene l'ambito privilegiato in cui si dispiega la partecipazione già attuale alla vittoria di Cristo: «il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria» (2Cor 4,17). Calcando anche le tinte della sua confessione personale, egli si pone come esempio per il cammino dei cristiani, perché la fiducia e la speranza non vengano mai meno: «Rendo grazie a colui che mi ha dato la forza, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia chiamandomi al mistero: io che per l'innanzi ero stato un bestemmiatore, un persecutore e un violento. Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo senza saperlo, lontano dalla fide; così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fide e alla carità che è in Cristo Gesù» (1Tm 1,13-14).

Nel travaglio di una esistenza apostolica interamente segnata dalla contraddizione, dalla persecuzione e dalla minaccia dei falsi fratelli (2Cor 11,23-33), egli quindi può dire, in tutta verità: «Sono pieno di consolazione, pervaso di gioia in ogni nostra tribolazione» (2Cor 7,4). È sempre lo stesso vocabolario che sottolinea l'eccedenza di Dio nella esistenza umana: «Infatti, come abbondano le sofferenze di Cristo in noi, così, per mezzo di Cristo, abbonda anche la nostra consolazione» (2Cor 1,5). Per questo l'azione di grazie accompagna ogni supplica, anche nella prova: «A colui che in tutto ha potere di fare molto più di quanto possiamo domandare o pensare, secondo la potenza che già opera in noi, a lui la gloria nella Chiesa e in Cristo Gesù per tutte le generazioni, nei secoli dei secoli! Amen» (Ef 3,20).

L'intensità della sua paternità spirituale gli ispira formule sempre nuove di esortazione e ammonimento, perché le comunità da lui fondate possano crescere nelle vie dello Spirito: «Camminate dunque nel Signore Gesù Cristo, come l'avete ricevuto, ben radicati e fondati in lui, saldi nella fede come vi è stato insegnato, abbondando nell'azione di grazie» (Col 2,7). E ancora: «Non angustiatevi per nulla, ma in ogni necessità esponete a Dio le vostre richieste, con preghiere, suppliche e ringraziamenti; e la pace di Dio, che sorpassa ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e i vostri pensieri in Cristo Gesù» (Fil 4.7). E di nuovo: «Perciò, fratelli miei carissimi, rimanete saldi e irremovibili, prodigandovi sempre nell'opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore» (1Cor 15,58). Le attestazioni della forza di Dio che agisce in Lui, ispirando ogni sua parola e muovendo ogni sua scelta pastorale si potrebbero moltiplicare:

«Il Dio della speranza vi riempia di ogni gioia e pace nella fede, perché abbondiate nella speranza per la virtù dello Spirito Santo» (Rm 15,13).

La parenesi dell'Apostolo Paolo non si stanca inoltre di richiamare i fratelli al comandamento dell'amore, perché sia vissuto, con uguale e sovrabbondante gratuità, ad immagine di Colui che ci ha chiamati, nell'umile e gioiosa fedeltà i discepoli di Cristo: «Il Signore poi vi faccia crescere e abbondare nell'amore vicendevole e verso tutti, per rendere saldi e irreprensibili i vostri cuori nella santità, davanti a Dio Padre nostro, al momento della venuta del Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi» (1T 3,12). Esso è la pietra di paragone di una novità di vita tutta segnata dal dono che Dio non cessa di riversare nell'uomo:

«Tutto infatti è per voi, perché la grazia, ancora più abbondante ad opera di un maggior numero, moltiplichi l'inno di lode alla gloria di Dio» (2Cor 4,15).

(da Vita nostra, n.3, 2004, pp. 5-10)