Un presente senza catture
di Raimundo Panikkar
L'incontro delle tradizioni religiose dell'umanità oggi è inevitabile, importante, urgente, confusionale, rischioso, purificante.
Ripeto, è inevitabile. Lo splendido isolamento dei vedantisti, dei cattolici, dei cristiani, di quelli che stanno dentro la muraglia cinese non è più possibile; l'incontro avviene già a casa nostra.
Alcuni paesi o civiltà come l'India sono sempre stati un mosaico di religioni, ma anche l'India ha creato le sue caste, caste religiose, per non contaminarsi gli uni con gli altri e da parecchi secoli spesso i cristiani hanno vissuto accanto agli indù senza avere nessun rapporto più profondo. L'Occidente ha vissuto con una certa ossessione dell'Islam durante alcuni secoli, ma poi si è accomodato in uno splendido isolamento, al punto che è stato necessario che venissero fuori i protestanti, perché altrimenti i cattolici da soli si sarebbero annoiati troppo.
L'incontro è inevitabile, ma ho detto che è importante, perché non è un incontro casuale; dal risultato di questo incontro dipende il futuro dell'umanità, che si verifichi una nuova guerra, una guerra religiosa; le guerre sono sempre più o meno religiose, perché si tratta di vita o di morte e non c'è altro modo di risolvere il problema; la definizione fenomenologica della religione: un problema ultimo.
L'incontro è così importante che il futuro dell'umanità dipende non dal capriccio di un politico o di un altro, ma dal clima che si è creato, che renda possibile che i politici in seguito ne siano influenzati.
Se le tradizioni religiose del mondo - e per tradizione religiosa intendo non soltanto quelle che hanno l'etichetta di religione, ma anche il marxismo, l'umanesimo, - non trovano in questo incontro un qualche cosa di positivo, l'umanità è condannata a sparire, i popoli a distruggersi a vicenda.
L'incontro è importante, non è un lusso, ma è anche urgente. Il culmine della saggezza in certo senso, anche in quello più volgare. consiste nel sa-per combinare l'urgenza della cosa con la sua importanza. Ci sono cose molto urgenti, ma non importanti, mentre al contrario, ci sono cose molto importanti, ma non tanto urgenti. A volte dimentichiamo le cose importanti e facciamo soltanto quelle urgenti, rovinando così la nostra vita; altre volte cerchiamo soltanto l'importante, senza accorgerci che questa cosa importante è rovinata perché quella urgente è già avvenuta e tutto è finito. La saggezza personale di ogni individuo consiste precisamente nel combinare l’urgente con l'importante. E urgente perché non c'è molto tempo. Non siamo preparati, dunque dobbiamo prepararci. L'incontro fra le religioni è confusionale. Io prima sapevo dove sono stato e adesso... sono confuso; chi non si sente confuso vuol dire che non ha capito, vuol dire che è superficiale, vuol dire che non gli importa niente di niente. Dunque anche la confusione fa parte del cammino, perché poi questa confusione è tanto più profonda in quanto tocca i pilastri stessi della nostra sicurezza. Abbiamo sentito una delle frasi più belle di Sartori, che se uno non muore alla sua fede non è degno della sua fede. E tutte le nostre sicurezze? Questa grande ossessione post-cartesiana dell'umanità, che fa sì che si cominci con la certezza e si finisca con la sicurezza, che si cominci con la certezza epistemologica e si finisca con la sicurezza politica delle armi?
È dunque confusionale questo incontro e lo deve essere; inoltre è rischioso. E rischioso perché quello che io metto in gioco è la mia fede, è la mia vita, è tutto quello che io penso sia la verità, è la cosa più importante e più centrale di tutta la mia esistenza, è quello che finora non si toccava. E rischioso, detto in linguaggio storico religioso, perché tocca il tabù. Come dice Avinava Gupta e dopo di lui Giovanni della Croce, (gli estremi si toccano) c'è un momento dove non c'è sentiero: anupaya, y en la fin no hay camino. Una in sanscrito, l'altra in spagnolo, ma vogliono dire la stessa cosa. E dunque rischioso. E rischioso, perché là dove non c'è un sentiero c'è pericolo.
Ultimo, è purificante. Forse proprio oggigiorno che siamo così sofisticati con la psicologia e con tante altre cose, questo incontro è l'unica scuola di vera umiltà. L'umiltà specifica che da solo non ce la faccio, che non sono autosufficiente, che non so tutto, che quel poco che sapevo e ritenevo che fosse certo, nemmeno questo lo è. E purificante, perché ci fa vedere nello stesso tempo i nostri errori personali e quelli del passato. E purificante, perché non giustifica che io mi lavi le mani perché durante le crociate io non c'ero, e quindi la mia visione personale, fantastica, del Cristianesimo va molto bene, ma non vuol sapere niente di altre pagine nere. E l'Induismo, il Buddhismo, per limitarmi a queste tre religioni, hanno anche loro le pagine nere. Se io fossi unjaìna, e lo sono un po' quasi onorariamente vi potrei parlare delle persecuzioni indù ai jaina. Quindi nessuno ha il diritto di scagliare la pietra su nessuno. E una purificazione collettiva, che riguarda i buoni, i cattivi, i giusti, tutti quanti. Sostengo dunque, come introduzione, che l'incontro fra le religioni ha queste caratteristiche.
le catture
Ma veniamo al tema le catture. La mia riflessione è che noi ci dobbiamo liberare, e liberazione vuol dire nirvana, vuol dire moksha, vuol dire soteria, vuol dire anche teologia della liberazione, se volete. Ci dobbiamo liberare dalle possibili catture che ci tengono o ci possono tenere prigionieri durante questo pellegrinaggio verso il futuro, perché mi si chiede che parli del futuro senza catture. Io preferirei questa volta disubbidire, soltanto parzialmente, e sognare un momento con voi, un presente senza catture. Se riesco a spezzare alcune di queste catture per il presente, avrò fatto - penso - il migliore servizio per il futuro.
Io ne vedo troppe di catture, ma ne vorrei segnalare quattro.
La prima ci viene dal di dentro, dalle nostre reazioni viscerali, da ciò che non è stato mai sognato, mai pensato, che è stato giudicato impossibile e quindi costituisce una specie di resistenza passiva, incosciente la maggior parte delle volte. Esiste un'inerzia dello spirito, favorita da tutta la parte pesante del nostro essere, dal costume, dalle consuetudini. Si dovrebbe e si potrebbe fare una psicoanalisi di questa nostra inerzia, che non è formulata, perché non è nemmeno cosciente, ma che è normale; là si fa così, ma qui si fa in questo modo e basta. Dobbiamo superare questa reazione viscerale.
le idee comandano?
La seconda cattura è ancora più forte. Se fossi in sede accademica direi che ci tiene prigionieri da Parmenide in poi. Siamo prigionieri del pensiero. Le idee comandano e ci dominano. E la prova più straordinaria che il pensiero è così potente, è che io calcolando con numeri irrazionali e facendo pura matematica costruisco un ponte e il ponte sta in piedi. In Occidente - e questo è il grande miracolo, se diabolico o divino, lo lascio da parte adesso - il pensiero ha dominato l'essere. Forse, però, siamo diventati schiavi dei nostri pensieri, dei nostri schemi intellettuali. Detto in un'altra forma, il logos ci domina. Già da principio i Padri greci avevano capito che c'era pericolo in Occidente, del cosiddetto subordinazionismo, cioè di subordinare nel fare teologia lo Spirito al logos e che il logos fosse tutto; mentre lo Spirito soffia non soltanto dove vuole, ma anche come vuole.
L'esempio più chiaro è la prigione dell'ortodossia. Io non ho niente contro l'ortodossia, dico soltanto che è una prigione, anche se alcuni la trovano confortevole perché si trovano sicuri. E interessante vedere questa specie di degradazione dall' ebraico, al greco, alle lingue che già i latini chiamavano volgari, de] termine kabot, la gloria del Signore, doxa, la potenza della gloria e doxa, la ortodossia, che ha molte poco di questa rifulgenza, di queste lume, di questa luminosità interna che si è convertita in schemi chiari precisi, distinti, cartesiani, sicuri forse certi, dentro un certo limite. Ci si è dimenticati che anche grandi pensatori, come il divus Thomas, sostennero che l'atto di fede non consiste nei dogmi, negli enunziati, ma punta direttamente alla cosa e che i dogmi sono soltanto canali per arrivare a quella, come nella metafora orientale in cui è il dito che punta la luna; se tu non guardi il dito, non vedrai la direzione della luna, ma se pensi che la luna stia nel dito, allora ti sbagli. Quindi, una volta che hai visto il dito, lo devi dimenticare.
Tutte le spiritualità, quando arrivano alla ultima formulazione forte, hanno una omogeneità straordinaria. Dice il Mahayana: «Se vedi il Buddha, uccidilo», perché quello che era il tuo aiuto per arrivarci, può dIventare il tuo ostacolo. Dopo Emmaus, penso che i cristiani possano egualmente dire: «Se vedi il Cristo, mangialo, non chiuderlo sotto chiave in qualche parte; fallo tuo, mangialo».
Le dottrine sono necessarie. La dottrina è una cosa straordinaria. Viviamo tutti in una società di consumo sulle dottrine, ma la dottrina non è la vita, lo scheletro non è l'individuo. Io non ho niente contro le dottrine, critico soltanto l'assolutizzazione delle dottrine e la confusione tra dottrina e realtà.
la contingenza delle culture
C'è un'altra cattura più sottile ancora, perché meno cosciente. La parola che forse la può descrivere meglio sarebbe l'ambiente, mentre il termine più appropriato sarebbe la cultura. Tutti quanti noi ci muoviamo dentro un ambiente, dentro una cultura. Abbiamo delle limitatezze che sono necessarie, di cui non possiamo far a meno; tutti noi siamo radicati dentro una cultura.
Un esempio banale, ma almeno chiaro: quando io ho cominciato a parlare, sicuramente tutti quanti di voi avete percepito che io parlavo con un accento piuttosto strano. La mia cattura dell'ambiente, non può essere vinta dicendo: «Beh, io non mi lascio imprigionare!». Ma soltanto essendo consapevole che io sono dentro un ambiente, che sto dentro una cultura, che sono contingente, limitato, che la mia visione non esaurisce l'esperienza umana, che io non posso in nessuna maniera avere la pretesa che le mie parole, le mie verità, le mie idee, le mie rappresentazioni, siano la totalità, che il mio mondo sia il mondo, la verità, l'ambiente, la realtà. Esse sono tinte del mio accento, delle mie limitatezze, della mia contingenza, della mia cultura, della mia forma di vedere, di tutto. Dobbiamo precisamente dire: «Sì, sto dentro un ambiente e questa è la mia condizione, questa è la condizione umana». Questa stessa pretesa d'universalità, di neutralità è ovviamente un'allucinazione possibile soltanto a colui che non ha avuto il correttivo dell'altro.
Perciò la quarta cattura è quasi il rovescio. Volendo uscire dal mio ambiente, volendo uscire dalle mie limitazioni, finisco per lasciarmi condizionare dall'ambiente e dalle limitazioni degli altri. Quindi parlo per gli altri, mi lascio alienare, in certo qual modo, da quello che penso sia il mio ruolo, (c'è un ruolo che consiste nel fare un po' il teatro). Non dimentichiamolo: il giansenismo, il manicheismo ci sono dappertutto. E in questo campo possono chiamarsi xenofobia come xenofilia, possono voler dire che tutto quello che viene da fuori dell'Italia è migliore o che soltanto noi cattolici o noi italiani siamo i migliori del mondo. Quello che dobbiamo realizzare non è un esercizio di pensiero, non è un esercizio di filosofia, di teologia, di acutezza, non è un esercizio di carità, (la tentazione di fare del bene è molto sottile, ma già Cristo ci ha avvertito: «lascia che le pietre rimangono pietre e non volerle convertire in pane»). Dentro la tradizione cristiana, (non l'indiana, perché qui la parola sarebbe molto diversa) si potrebbe dire che è una questione di santità, di purezza di cuore, di audacia, di libertà di spirito, di docilità alla grazia. E una questione che abbiamo avuto l'audacia di toccare sia l'anno scorso che quest'anno, e richiesta in maniera esigente di una donazione totale, di una docilità assoluta, una purezza trasparente. Diceva la Ung Ciung... «soltanto la sincerità più pura, soltanto la purezza più trasparente può effettuare un cambiamento». Qualsiasi cosa che venga da un cuore totalmente trasparente, da una intenzione completamente irriflessa, senza che nessun'altra cosa l'accompagni, può effettuare un mutamento.
Lasciate che vi racconti questa piccola storia di Bapuji Gandhi. Una buona donnetta del suo asram Damedavat che lo vedeva di tanto in tanto, un giorno va, tocca i piedi di Bapuji e gli dice: «Bapuji, dite alla mia ragazzina, (aveva una ragazzina di otto dieci anni) che non mangi tanti dolcini che le rovinano lo stomaco, che sia un po' più buona e che mi ascolti. Diteglielo per favore!». Gandhi non rispose niente, sorrise, lei capì e se ne andò senza dire altro. Settimane più tardi lo trovò un'altra volta e allora la donna, che non aveva più questo desiderio di far del bene a sua figlia, disse: «Bapuji per curiosità, perché non mi avete risposto quando vi ho fatto quella richiesta per mia figlia?» e Gandhi le rispose: «Sai, in quel tempo piacevano anche a me un po' troppo i dolci» e quindi le sue parole non avrebbero avuto nessun senso, nessun effetto. Soltanto la più pura sincerità, la più totale trasparenza può effettuare il minimo cambiamento, dice la saggezza cinese. Questo è il corollario: non si tratta di una buona teologia, si tratta di un'altra cosa; questo è il Kairòs, questa è la sfida.
l'avventura della fedeltà
Il primo problema è teologico. Intendo anzitutto teologico nel senso tradizionale della parola, cioè che implica santità, fedeltà E qui vorrei essere molto chiaro. Non si tratta in alcun modo di diluire, debilitare la propria convinzione, la propria fede, la propria religione; non si tratta di cercare un comune denominatore facendo concessioni qua e là, a motivo della pace, dell'ecumenismo, della convenienza, della tolleranza tra i popoli. Non si tratta dunque dì creare una specie di ecumenismo alla bière, come io lo chiamo parlando con gli ecumenisti francesi. Dinanzi a un bicchiere di birra tutti quanti siamo ecumenici. E il problema che mi sta a cuore non è domandare un'apostasia; non è che io diluisca le mie convinzioni e che a motivo degli altri sia traditore, cerchi un comune denominatore e voglia fare dei compromessi. Non si tratta, per ripetere le parole di Paolo, di svuotare lo scandalo della croce, di essere meno cristiani per essere più ecumenici; si tratterebbe, semmai, di essere migliori cristiani per essere migliori ecumenisti. Il dialogo non è un segno di insicurezza, ma è un segno di maturità e soprattutto di assenza di paura. Se vado al dialogo con paura, tutto quello che ho paura di perdere è bene che lo perda quanto prima, perché allora sarò liberato dalla paura. Tutto quello che può morire muoia quanto prima e più presto verrà la risurrezione. Quindi il problema teologico consiste nel non minimizzare le differenze, non evitare i problemi scottanti imbarazzanti, ma nel penetrarli più dal di dentro e dì compiere quello che io posso.
Lasciatemi qui stabilire tre punti fermi che prendo da: 1° Timoteo, 2° Timotero, e 3°, tutta l'epistola agli Ebrei e ai Romani, tre punti fermi garantiti dalla stessa Scrittura fondamentale del cristianesimo. «Deus vult omnes homines salvos fieri, Dio vuole che tutti gli uomini si salvino»: questo dicono i cristiani ripetendo la loro Scrittura. Dunque, se Dio vuole che tutti gli uomini si salvino e questa non è una velleità divina, questo stesso Dio, parlo il linguaggio cristiano tradizionale, deve concedere agli uomini dei mezzi di salvezza che siano alla loro portata di mano. E quello che sta a portata di mano di tutti gli uomini sono precisamente le tradizioni religiose. Quindi le religioni dell'umanità sono i mezzi ordinari voluti da Dio per la salvezza degli uomini; sto facendo teologia cristiana. Ogni autentica religione è cammino di salvezza, e prima già ho detto che io non limitavo il nome di religione a quelle che ne hanno l'etichetta, che in fondo sono soltanto le religioni abramiche, perché né il Buddhismo né l'Induismo sono contente se le chiamano religioni. Non possono «religare» niente, è tutto un altro universo di discorso; comunque possiamo utilizzare questa parola, se gli indù e i buddhisti l'ammettono, perché la utilizziamo tra virgolette. Questo è così pacifico - non voglio fare qui autobiografia – che anche il Concilio l'ha accettato.Seconda, e forse il più difficile di questi punti fermi. «Unus mediator, un unico mediatore» dice anche l'epistola a Tito. Sì, i cristiani non possono fare a meno di credere che c e un unico e solo mediatore. Se rinunciano a questa intuizione per motivi di ecumenismo tradiscono venti secoli di tradizione cristiana. Da parte mia credo che c'è soltanto un unico mediatore (con questo mi rendo più vulnerabile, se volete), che c'è Cristo e soltanto Cristo come simbolo per i cristiani, che è l'unico mediatore tra Dio e gli uomini, che è l'alfa, l'omega, il ricapitolatore di tutto l'universo, il monoghenés, il protoghenés, il primogenito, l'unigenito, la luce che illumina ogni uomo che viene a questo mondo, colui per cui tutte le cose sono state create, in cui tutto risiede, consta e ha la sua forza, in modo tale che io filosoficamente direi che l'essere è una cristofania. Quindi, ci credo. Continuo però dicendo che: 1°) Il Cristo, (vi faccio questo riassunto neotestamentario assai rapido) non è identico a Gesù. Gesù è il Cristo e chi dice questo credendoci è un cristiano, ma Cristo, pur essendo Gesù, è molto di più, (il «più» qui non va) e non si può identificare con Gesù. L'eucarestia per il 90% dei cristiani è il Cristo, ma nella eucarestia non si mangiano le proteine di Gesù di Nazaret. «Lo avete fatto a me», ho commentato prima. Gesù è morto, quello che è risorto è il Cristo, che è un'altra cosa; che è la stessa da un certo punto di vista, ma che non si può identificare. 2°)1 cristiani non hanno il monopolio di Cristo. 3°) I cristiani non conoscono del mistero di Cristo che una piccolissima parte, non lo possono manipolare per i propri fini, questo Cristo li trascende totalmente; il Cristo ha altre dimensioni, aspetti, forme, di cui i cristiani non sanno assolutamente niente, non sono loro i padroni di Cristo, loro conoscono del Cristo qualcosa che per loro è essenziale, che per loro è centrale, ma questo Cristo-Mistero trascende da tutte le parti quello che i cristiani pensano, credono in Cristo. Perciò io mi per-metto di dire che il Cristo, in questo terzo senso, è nascosto, sconosciuto, presente e effettivo in ogni autentica religione.
Quindi il mistero di Cristo è mistero di Cristo e, se noi utilizziamo la parola nel suo senso reale, non possiamo in alcun modo pretendere di avere conoscenza, manipolazione di questo mistero.
Qui c'è una cosa che io ho chiamato «pars pro toto effecto». Ciascuno di noi vede il mondo da una finestra e non può non vederlo che da una finestra e quanto più trasparente e bella è la finestra meno si vede, meno consapevoli siamo di vedere attraverso la nostra finestra. E noi vediamo tutto il mondo, tutto. Io non sarei cristiano se pensassi di appartenere ad una piccola setta che esiste soltanto da due millenni; io non voglio appartenere a nessuna setta, io non voglio consacrare la mia vita soltanto a una cosa che è avvenuta duemila anni fa, quando l'umanità esisteva per lo meno da mille anni prima e aveva fatto tante cose belle... No, la mia appartenenza al Cristianesimo non è l'appartenenza settaria a una forma; io riconosco le mie limitatezze e so che non posso fare a meno di dire che per me il Cristo è il simbolo di questo, che gli altri chiamano con altro nome, che vedono in modo diverso, che ha anche dimensioni per me completamente sconosciute e per me anche inaccettabili dal mio punto di vista. È il «pars pro toto effecto». Io vedo il totum in parte e ho bisogno dell'altro per dirmi che sto guardando attraverso l'apertura di una finestra, perché io non la vedo; quanto più la finestra è pura finestra tanto meno è visibile, ma qui», e io gli dirò: «Anche tu». Ebbene, noi due vediamo la stessa cosa, non vediamo due punti diversi. La mentalità scientifica ci ha contagiato in modo tale che tante volte l'ecumenismo consiste nel dire: Beh, qui c'è il grande dolce, facciamo una parte per te, una parte per me, la mia è un po' più grande della tua, è un po' superiore, ma tutti insieme facciamo la torta. Non è una torta. Io non mi accontento di avere una parte di torta, io la voglio tutta, ma la voglio tutta con la mia limitatezza. Quindi, vedete, non si tratta di un po' plus bon marché, di fare un cristianesimo più facile; al contrario, «unus mediator». Il cristiano cesserebbe di essere cristiano, se non pensasse che nel Cristo sta tutta la pienezza, la ricchezza della divinità, ma questo mi trascende; perciò qualsiasi discorso cristiano, ecumenista, che taccia sul Cristo evita il problema. Quello di cui c'è bisogno è una cristologia umile e perciò capace di non voler essere né universale né onnicomprensiva, ma non per questo cessa d'essere la mia visione. I cristiani non possono fare a meno di dire che questo Cristo loro lo hanno tutto, nella loro forma, nella loro limitatezza. Le mie premesse adesso si capiscono forse meglio.
Ho detto che non volevo parlare troppo di questo excursus teologico. La terza grande verità, che non sarebbe solo cristiana, ma anche di tante altre religioni: sola fides. La salvezza non è un atto automatico, un happy end e quindi è necessaria la fede. E questa la dottrina cristiana; senza fede uno non si può salvare, senza entrare ora nel merito di cosa sia la salvezza. Se noi manteniamo questi tre punti penso che anche il teologo più esigente non può dire che nell'incontro delle religioni si faccia un eclettismo più o meno superficiale. Devo subito aggiungere che quando dico fede, dico fede, non credenza, non l'articolazione della fede secondo un linguaggio, secondo una cultura, secondo una prospettiva, secondo «una finestra». Gli articoli di fede non sono la fede, sono quel bagaglio dì cui c'è bisogno perché io possa, come essere intelligente e intellettuale, più o meno formulare una cosa che mi permetterà poi dì saltare in una realtà che non ha formulazione possibile. Anzi, io direi - e qui non lo sviluppo da un punto di vista esclusivamente teologico, cattolico, apostolico, tridentino - che la fede non ha oggetto; sarebbe idolatria. La fede è una dimensione costitutiva dell'uomo, la fede è la capacità di essere aperto, di essere non-finito, infinito, di più, d'essere capace di trasformarmi, di crescere e, che io sappia, questa capacità dì «più» tutta la tradizione cristiana l'ha chiamata theosis, la divinizzazione dell'essere e dell'essere umano, io direi di tutte le cose. Quindi la fede è necessaria, ma la fede non sono le mie idee sulla fede o il mio articolo di fede o tutto il mio credo. Il mio credo è là dove io deposito il mio cuore, che è quello che la parola credo vuol dire: credo, cardia, in sanscrito stradda, la donazione del mio cuore. Ma devo esser breve, quindi passo al secondo punto dei tre problemi fondamentali. Il primo problema fondamentale, ripeto, è il problema teologico nel suo doppio versante di santità, di fedeltà e di elaborazione intellettuale, per poter esprimere il più correttamente possibile questo mistero. In questo caso di una religione che, essendo concreta, si apre a tutto il possibile.
Il secondo problema è il problema ermeneutico. Ermeneutico è una di queste parolacce che i teologi, i filosofi inventano e che vuol dire interpretazione. Io devo saper interpreta-re le altre tradizioni religiose, devo saper interpretare cosa è l’induismo, cosa è il Buddhismo o cosa sono gli altri. Il metodo ermeneutico non può essere mai a senso unico; cioè a me piacèrebbe sapere come se la cavano questi indù, buddhisti in queste cose, ma non sono disposto a che loro mi facciano la stessa domanda. Se l'incontro delle religioni non si fa sempre a doppio senso, non è un vero incontro. Seconda regola ermeneutica: non posso fare la caricatura d'una religione e confrontare l'inquisizione, le crociate, le guerre di religione con il dammapala, le Upanishad, la mia grande filosofia indiana; o non posso mettere a confronto le superstizioni e tutte quelle cose che capitano nel Gange e il sermone della montagna, la purezza del Vangelo... Non si può fare la caricatura dell'uno e confrontare aspetti eterogenei. Se vogliamo confrontare la superstizione confrontiamo la superstizione, se vogliamo confrontare una cosa buona, facciamolo con un'altra cosa buona.
C'è un malinteso direi quasi costitutivo nell'interpretazione vicendevole delle tradizioni religiose. I cattolici hanno interpretato i poveri indù, cominciando col dar loro un nome che non avevano; l’Induismo è stato un'etichetta che hanno dato loro, ma loro non si chiamavano indù, erano molto contenti senza questo nome. Io direi che più del 90% di tutti i libri scritti in Occidente sulle religioni dell'Asia fanno una descrizione inadeguata e, se ne volete la conferma, provate a leggere qualcosa che alcuni indù o alcuni buddhisti hanno scritto sul Cristianesimo: sì, dicono delle cose vere, ma non capiscono. È chiaro, perché qui sta il grande problema ermeneutico: non si può capire una religione soltanto dal di fuori, non si può capire una cosa, se allo stesso tempo uno non è convinto che quello che capisce è verità. Non posso capire qualsiasi cosa dell'ordine della fede, se io non credo in certo qual modo che quella è la verità; non posso capire l'Induismo, se io non sono convinto che l'Induismo è un veicolo di verità.
In sede accademica io ho sviluppato tutta una teoria sulla fenomenologia religiosa che dice che la fenomenologia religiosa è sui generis e così sui generis che non ha «noema», come ben sanno quelli che sono specializzati su Husserl. Non c'è noema, ma c'è una cosa che io ho battezzato col nome di pistema, cioè la fede del credente appartiene essenzialmente al fenomeno religioso. Perciò io debbo descrivere quello che il credente crede, non quello che io credo che lui creda, e io non posso descriverlo se non ci credo, perché allora non descrivo quello che lui crede, descrivo quello che io credo che lui dovrebbe credere o che lui non crede. Si capisce che le autorità, al plurale, siano così preoccupate, perché tu non lo puoi capire se non ci sei dentro, quindi se, in un certo modo, non ti puoi convertire, altrimenti fai una caricatura. La necessaria conversione. Io non posso dire: «questo è verità», se è sbagliato, perché, se lui non crede a quello che io credo che lui creda, è tutta un'altra cosa.
Ho passato 40 anni a fare questo lavoro, quindi vi potrei parlare del sistema, pistis-fede, pistema, corrispondente a noèma, da noùs. Se possa prendere il pistema del credente di un'altra tradizione religiosa per poterlo prima descrivere e poi valutarlo in certo qual modo, è un problema ermeneutico formidabile.
E terzo, sempre a proposito dell'ermeneutica: c'è un'altra cosa che appartiene a quello che io dicevo con il logos (almeno il mio sistema è coerente). Non è necessario di capire tutto. Perché vogliamo capire tutto! Io penso che questa è la sindrome maschile più perniciosa. Voi ricordate Luca, il maschio Luca evangelista, per tre volte con una condiscendenza maschile ci dice che Maria non aveva capito ma conservava le cose nel suo cuore. Meno male! Conservare le cose nel cuore senza capirle forse appartiene a una saggezza superiore.
La situazione attuale non ha modelli
Il problema filosofico è ugualmente serio. Sono convinto - e qui faccio un discorso eminentemente occidentale, - l'Occidente non deve dimenticare una delle sue forze più importanti, lo spirito critico, lo spirito d'analisi, il senso di dubbio, uno spirito critico che direi post-illuministico. Perciò prima ho detto, e non mi sono voluto correggere perché non ho visto nessuna mano che mi domandasse un chiarimento, che le religioni sono mezzi ordinari di salvezza. Il filosofo e lo spirito critico correggerà questa frase e dirà che le religioni sono progetti di salvezza, non mezzi. Hanno il progetto e tutte le religioni ce l'hanno, ma un progetto non è necessariamente un mezzo. Il discorso filosofico, che è quello dello spirito critico, vuoi dire, in altre parole, che la situazione di questa nuova costellazione umana delle diverse tradizioni religiose dell'umanità che cominciano a riconoscersi le une con le altre, non va risolta con l'esclusivismo: Io, e se non sono unico, sono almeno un po' superiore. La superiorità cristiana è un peccato contro lo Spirito Santo. Non va risolta nemmeno con l'inclusivismo: in fondo diciamo la stessa cosa, tu sei un cristiano anonimo, tu sei un credente che si ignora, nel fondo più profondo, nella mistica siamo tutti la stessa cosa, nella notte tutti i gatti sono neri… Siccome ebbi la fortuna di essere il primo ad ascoltare, il contributo a Salisburgo di Karl Rhaner (eravamo Alexander von Rondl, Vareno, io e un altro) io gli chiesi, quando lui sviluppò la teoria dei cristiani anonimi, se lui sarebbe stato contento che io lo chiamassi un buddhista anonimo. Quindi, né esclusivismo ne inclusivismo. L'unica parola che qui forse servirebbe è quella di pluralismo, e pluralismo non è pluralità, non e considerare ciascuno come il piccolo pezzo di tutto il grande meccanismo; no, pluralismo è quel pars toto che dicevo prima, pluralismo vuoi dire che nessuno può esaurire, tutto lo spettro dell'esperienza umana. Che non si può racchiudere la realtà in un solo schema, perché la realtà non è schematica, non è nemmeno trasparente a se stessa, cioè uno non ha bisogno di essere aristotelico, monoteista o hegheliano per credere nella noesis, nella riflessione totale o in un Dio trasparente a se stesso, onnisciente rispetto a tutto il reale. La verità stessa è pluralista che non vuoi dire plurale. E un altro spunto che non sviluppo di più. Passo subito al mio quarto e ultimo punto di questa quaternitàs perfetta. Questo è il mio ultimo e breve punto, quello che mi piacerebbe chiamare la fecondazione mutua. Non possiamo soltanto guardare indietro, non possiamo soltanto ritornare alle fonti, non possiamo credere che la storia sia finita, non possiamo accontentarci di rifare gli sbagli degli altri o correggerli. Siamo in una situazione nuova e non sarei originale se io citassi della Bibbia che lo Spirito fa nuove tutte le cose. La situazione attuale non ha modello, non si tratta soltanto di andare indietro odi predicare tolleranza, o di fare tutte queste piccole cose che ho cercato di fare. Siamo dinanzi a una situazione medita, perciò ho cominciato dicendo che tutto il mio discorso voleva essere una preghiera, perché è pieno di questo senso di precarietà, dato che non sappiamo dove andiamo, ma non c'è nemmeno bisogno di saperlo, purché si sappia quel è il prossimo passo.
senza preservativi spirituali
La conseguenza di tutto quello che ci è stato detto è che non dobbiamo aver paura, paura dell'ignoto, paura del nuovo, paura dell'insospettato, paura del pericoloso, paura del rischio, paura di perdere la fede o la vita, paura di non sapere qual è il prossimo passo. Il nuovo è nuovo perché è sconosciuto, perché rischioso e quando parlo della fecondazione mutua tra le diverse religioni penso che la maggioranza di voi ha capito che non c'è fecondazione senza amore, che non c'è fecondazione se mettiamo preservativi spirituali e preservativi religiosi. La fecondazione deve essere naturale e deve essere figlia dell'amore; e il figlio che nasce malgrado tutte le cautele è sempre un rischio, è sempre insospettato, è sempre più bello in ultima istanza, almeno per i genitori, di quello che si aspettavano. Se noi non siamo coscienti che facciamo qualcosa di storico, allora non vale la pena. Se tutta la nostra vita, la nostra fedeltà, tutta la nostra storia è soltanto per fare un piccolo scherzo per passare il tempo, allora non vale la pena.
Non sappiamo dove andiamo. Niente è più difficile che gestire la libertà vogliamo sempre le cipolle d'Egitto e quando ci dicono: questa sicurezza no, quell'altra no, allora cerchiamo di guardare indietro per tornare un'altra volta a qualcosa che ci dia almeno un appiglio. Se parlasse il buddhista direbbe che non si tratta nemmeno di prendere rifugio nel Buddha, che il Buddha è sparito. Racconta una bella leggenda mahayana, che un grande bodhisattva dopo la sua vita se ne andò nel settimo cielo per vedere dove abitava l'Adibuddha, Gautama, il Buddha primigenio; non stava nel primo cielo, nè nel secondo nemmeno, nel terzo. Percorre tutto il Paradiso di Dante e finalmente arriva nel settimo cielo, animato dalla sua curiosità di vedere dove si trovi questo grande, il primo dei bodhisattva, l'Adibuddha. Tutte le stanze sono vuote, non c'è niente da trovare, finalmente un angelo se volete gli dice «Che cerchi?» «Cerco il Buddha, Adibuddha». Lo guarda con questa faccia di angelo innocente. «Ma non sai che il Buddha è sceso sulla terra e starà là fino a che l'ultimo essere vivente sia riuscito ad avere la liberazione!».
La fecondazione mutua vuoi dire, conoscenza, che non è possibile senza simpatia e senza amore; dopo il rischio che nasca un figlio, il rischio che venga qualcosa di nuovo. L'atto della libertà: se la fede non ci fa liberi, non so cosa sia la fede.
Diceva Gregorio di Nissa, vecchio cappadociano, padre della chiesa, commentando l'atto fondamentale di tutte le religioni abramiche, quando Abramo con un atto di fede ubbidisce a Javeh che gli dice di andarsene, lui e tutta la sua tribù, fuori della città di Ur: «e allora Abramo sapeva che andava per un buon cammino, perché non sapeva dove andava». Soltanto se noi sappiamo dove andiamo, se non programmiamo dove andiamo, se non abbiamo bisogno di una intelligenza artificiale o di un computer che ci dica i passi da fare, faremo la continuazione dell'opera creatrice. Questo è il programma che io penso che abbiamo dinanzi di noi. Questo mi ha portato in altra sede a invocare la necessità non di un Vaticano III, né di una Chicago 1, ma di una Gerusalemme II°, cioè di adunare tutti gli uomini e io direi, dato che sono troppo buddhista, tutte le cose, gli animali, le piante e di fare un concilio questa volta veramente ecumenico, per vedere se l'umanità sa reggere la sua libertà, questo dono di cui finora abbiamo abusato. Io credo che il destino sta nelle nostre mani e questo, almeno per me, è una sorgente di gioia.
(da Rocca, 1 ottobre 1987, pp. 54-59)