Non è forse questa la sensazione che stiamo provando sempre di più? Le tende e i templi dove abitavamo e dove rendevamo i nostri culti sono stati sradicati. E l'intemperie ci ha gelato il sangue, mentre diversi oracoli proclamavano la morte di Dio e degli dei. Le immagini si sono staccate e le cupole crollate, ma per lasciare aperto il cielo. Le pietre non ci sono cadute addosso, sebbene ci abbiano sfiorato. Sono rimaste sulla sabbia e ora possiamo cominciare a contemplarle a distanza senza quella nostalgia che suscitano sempre le rovine.
Abbiamo imparato a guardare in un altro modo, e a riconoscere una Presenza dove prima sentivamo solo vuoto. Senza dubbio assistiamo alla crisi della istituzionalizzazione del sacro, ma non del sacro in sé. Perché ciò che è Reale (sacro proviene dalla radice indoeuropea sak-, che significa "conferire realtà") continua ad attrarre il cuore umano, sebbene cambino i modi di cercarlo e di identificano. Parlare oggi della praticabilità dell'esperienza religiosa presuppone questo crollo. Ma anche la serenità di una comprensione e di una contemplazione che libera energie per continuare ad avanzare per l'ampiezza del deserto, che non sembra essere tanto desolante. Perché il deserto è il paesaggio dell'assenza, e succede che andiamo captando nuove forme di Presenza che all'inizio non sapevamo percepire. Perché quando si vive l'esperienza religiosa, non si soccombe in nostalgie né in lamenti, ma l'energia psichico-spirituale è ricondotta verso nuovi modi di celebrare il mistero della Vita.
La nostalgia che produce l'esodo è un dolore da sanare. Perché “mettersi in cammino (ex-hodòs)” è esattamente ciò che permette di aprirsi a nuove prospettive, e di scoprire che non si è mai smesso di stare in casa. Questo è uno degli aspetti dell'esperienza religiosa emergente: da una concezione lineare dell'exòdo, scissa tra un luogo che si è lasciato e un luogo che si deve raggiungere, si sta passando ad una concezione circolare (un cammino verso il Centro); e da una temporalità lineare, chronos, dove il passato e il futuro tirano ognuno dalla propria parte, lacerando l'unica cosa che abbiamo, che è il presente, si sta imparando a vivere secondo una temporalità kairologica, basata sulla qualità di saper cogliere l'istante, il sacramento dell'adesso.
Con questo sto già indicando gli aspetti di un esperienza religiosa che non sia solo attuabile, ma significativa e feconda per il tempo in cui ci è toccato vivere. Più concretamente la spiego a partire da tre fattori: che sia capace di unificare le diverse dimensioni della vita, che comporti apertura all'altro, e che susciti uno stato sia di interiorizzazione come di audacia e di lucidità. Questi tre aspetti non solo consviene che siano presenti in ogni esperienza spirituale, ma pure che esercitino la funzione di criteri di discernimento per identificare la sua praticabilità.
1. Unificazione
Innanzitutto, lo specifico di una esperienza religiosa è ciò che indica il suo stesso nome: il rilegare, la capacità di creare vincoli. Nati come essere solitari, tale esperienza ci rilega ai tre ambiti del Reale: il divino, l'umano e il cosmico, cosa che si verifica nella realtà cosmoteandrica (Raimon Panikkar, La intuizione cosmoteandrica, Ed Trotta, Madrid 1999). Nella capacità di non vivere separatamente queste tre dimensioni si gioca la praticabilità di una esperienza spirituale significativa per i nostri giorni. Di fronte all'antica scissione tra il sacro e il profano, si percepiscono possibilità di rivelazione insospettabili in una secolarità sacra. Quello che un tempo era rimasto al margine del religioso, oggi si rivela come il suo luogo propiziatorio. Lo possiamo concretizzare in tre ambiti: la corporeità, la terra e la polis.
1.1. Il recupero del corpo
Malgrado i pericoli di classismo e di narcisismo in cui certi culti del corpo possono cadere, non c'è dubbio che il ritorno al corpo faccia parte dell'esperienza religiosa attuale. È in gioco la capacità di autoascolto. L'ascolto del corpo è tutto il contrario dell'ascolto dell'ego. Abbiamo dimenticato il corpo proprio perché ci siamo fissati sull'ego. Abbiamo preferito il potere alla gioia, e abbiamo soggiogato il nostro corpo per metterlo al servizio della conquista del potere. Tornare al corpo significa de-assolutizzare l'ossessione di dominare e sottomettere per seguire dimensioni più gratuite del nostro essere, che iniziano dalla conoscenza e dal rispetto per le leggi della natura iscritte nella nostra terra primordiale che è la nostra stessa corporeità. Ascoltare il corpo significa non forzare i suoi ritmi, interpretare i suoi dolori, vivere le infermità come percorsi verso forme più sane di vita, riportarlo al suo ambito naturale, che è la madre terra, scoprire la sessualità come ambito dell'esperienza spirituale, dove corporalmente si esercita l'arte della dedizione e dell'abbandono all'altro... Perché quello che ci priva dell'esperienza di Dio non è il corpo, ma la mente-ego. È lei che ci intossica e impedisce che la realtà entri dalla porta dei sensi nella sua innocenza primordiale.
Recuperare il corpo suppone anche imparare a respirare. Nell'ispirazione e nell'espirazione si dà il ritmo primordiale dell'esistere: accogliere e donare. Respiriamo male perché non sappiamo ricevere né dare. Il corpo, invece, sa da tempi remoti che in questo movimento c'è la vita e lo fa per noi, nonostante noi. Nell'incorporarci coscientemente alla respirazione, si produce un silenzio spontaneo, perché sentiamo che stiamo ritornando a casa e che ci incorporiamo senza volontarismi al movimento che governa l'esistere delle creature: accogliere e donarsi.
Il ritorno al corpo fa parte di un ritorno più ampio: l'appartenenza alla Terra. Allarmati dalla minaccia ecologica, abbiamo cominciato ad ascoltare i suoi gemiti ed abbiamo ricordato che è madre, matrice primordiale della vita. Però, perché sia un'esperienza religiosa, questo ascoltare la natura non può essere una mera strategia per continuare a spogliarla senza che lo percepisca, ma deve sorgere il desiderio - e la necessità - di imparare un nuovo modo di vivere. Di fronte al mandato dominatore e patriarcale della Genesi: "Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra" (Gn, 1,28), iniziamo a scoprire altre voci che provengono da altre tradizioni e che ci ricordano che siamo parte di essa. Nella nostra tradizione, avendo accentuato la personificazione di Dio, siamo caduti in un riduzionismo antropocentrico, dimenticando che il divino possiede altri aspetti oltre quello umano. In questo ritorno alla terra si produce una humilizzazione: tornando ad essere humus noi diventiamo più umili e meno pretenziosi, come accade quando ritorniamo al nostro corpo. L'esperienza religiosa che ci unisce alla natura ci porta ad una fratellanza primordiale con altri esseri e creature con le quali dividiamo l'esistenza. Impariamo dalla terra ad accoglierli così conie lei accoglie noi. La stessa nozione scientifica di ecosistema risponde all'incorporazione di un punto di vista più unificato, più integrale, dove ogni azione ha una ripercussione sul tutto. Di nuovo, è il nostro ego che pretende di sottrarsi a questo Tutto o che pretende di dominarlo. L'esperienza religiosa, invece, torna a collocarci nel nostro luogo, e ci restituisce la capacità di gratitudine e comunione, contro la spinta al dominio che ci trasforma in esseri esigenti e superbi.
1.3. La sacralità della polis
Aperte le porte della percezione, non solo la natura si converte in spazio sacro, ma anche le città che abbiamo costruito. Svuotati i templi, la sacralità si è diffusa per le strade, e anche negli angoli delle mura antiche, dove tribù di giovani nomadi esprimono, con tamburi africani e didgeridoo australiani, ineffabili aneliti di Infinito, portando con se suoni dei più disparati angoli della Terra. In questo miscuglio e in questa confusione si genera qualcosa di nuovo che ancora non conosciamo né riconosciamo. Però è assai probabile che abbia a che vedere con ciò che ha detto il Nazareno mentre attraversava la Samaria: "Ma è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità" (Gv 4,23). Così nelle recenti manifestazioni di massa per la pace in tante città della terra abbiamo scoperto nuove liturgie urbane della cultura secolarizzata. Perché né il sacro né il divino dell'esistere, e dell'esistente, possono essere rinchiusi in un tempio. La Modernità è esattamente la ribellione di fronte al sequestro del sacro da parte dell'establishment e da parte di una determinata interpretazione della religione.
La cosiddetta "secolorizzazione dell'Occidente" non è nulla di più che un'alternativa di fronte alle strette di un determinato "rilegare". Come lamentava Merlau Ponty, "si definisce ateo qualsiasi pensiero che spiazza o definisce in modo diverso il sacro". La scienza, la tecnica, le arti... sono luoghi nove si manifestano e si vivono sacralità alternative, Un'esperienza religiosa che non le integri amputa il Reale, e, rilegando meno, è meno religiosa e anche meno sacra, nella misura in cui, come già abbiamo indicato, il sacro è "quello che conferisce realtà".
2. Apertura all'altro: l'esperienza interreligiosa
L'esperienza religiosa porta sia all'unificazione che all'apertura all'altro.Questa apertura si converte in rispetto, accoglienza e venerazione per altri modi di percepire la Realtà Ultima.In questo senso, ogni esperienza interreligiosa è, innanzitutto, intra-religiosa, perché l'unico modo di comprendere un'altra tradizione è togliersi i sandali davanti ad essa con la consapevolezza di trovarsi di fronte a terra santa, sebbene questa santità si esprima con altre categorie che quelle proprie (è notevole come in diversi luoghi del pianeta si stia giungendo allo stesso paradigma pluralista delle religioni. Non solo in Asia, Africa, Europa, ma anche in America Latina, finora considerata "ufficialmente" cristiana. Ne è un esempio la comparsa della collana "Tiempo Axial" promossa da José Maria Vigil con i primi due numeri scritti dall'Associazione ecumenica di teologi e teologhe del Terzo Mondo e dalla Commissione Teologica per l'America Latina, Per i molti cammini di Dio).
Le religioni sono sia l'atto di rilegare che di interpretare (relegere) la Realtà cosmoteandrica. Ognuna di esse esprime a suo modo questo triplice vincolo-interpretazione del Mistero del Reale. Oggi possiamo comprendere meglio che nel passato che nessuna religione esaurisce questo Mistero. Andando incontro ad altri modi di rilegare e di rileggere ci rendiamo conto della ricchezza del dialogo interreligioso, perché ogni tradizione apporta uno specificità e un connotato particolare a questo rilegare-interpretare come il divino si manifesta e si allaccia all'umano e al cosmico.
Quando ci apriamo ad esse ci rendiamo conto che ogni tradizione religioso è polarizzata secondo un aspetto del Reale e tutte insieme danno la completezza. Così possiamo dire che le religioni indigene e, in un certo modo, anche le orientali (soprattutto l'induismo e il taoismo), ci ricordano il polo del cosmico; le religioni semitiche (giudaismo e islam), il polo della trascendenza del divino; e il cristianesimo (e anche il confucianesimo) accentua il polo dell'umano. Sebbene in ogni religione sono contenuti tutti gli elementi necessari per un rilegare completo con il Reale, noi abbiamo bisogno di tutte le altre per essere equilibrati.
Così, di fronte al pericolo di un eccessivo antropocentrismo da parte del cristianesimo, le religioni cosmiche ci ricordano che apparteniamo alla terra invece di credere che è lei ad appartenerci, e le religioni semitiche ci ricordano che la vera misura di tutte le cose procede da Dio, e non dalla prospettiva autocentrata dell'essere umano; di fronte al pericolo di un geocentrismo eteronomo delle religioni semitiche, l'incarnazione di Dio che custodisce il cristianesimo manca degli assolutismi teocratici che possono divorare l'uomo, così come le religioni cosmiche ricordano la sacralità del concreto di ogni gesto, di ogni passo, di ogni albero e di ogni pietra; di fronte al pericolo dell'assolutizzazione di un cosmocentrismo, la trascendenza del dio semitico libera dal timore i poteri della natura, e il rispetto per l'umano del cristianesimo consegna ogni persona la responsabilità della sua propria libertà.
Questo è solo un modo elementare e semplicistico di illustrare in cosa può consistere l'arricchimento dell’incontro tra le diverse tradizioni. Ad ogni modo, si tratta di condividere pienezze, non di competere tra totalità. Ossia, ogni tradizione può offrire alle altre l’aroma della sua esperienza e far conoscere i cammini che possiede per propiziare la trasfigurazione del Reale, però senza entrare in alcun modo in concorrenza con le altre, ma rallegrandosi che le altre le ricordino altre forme di pienezza.
ognuna di esse; l’islam, che come religione del Libro rivelato rimette allatrascendenza assoluta di Dio, segna il ritmo di preghiera della giornata ricordando che solo Dio è (questo assoluto di Dio è esattamente ciò che fonda l'utopia dell'uguaglianza, riflesso dell’estinzione delle classi e nel precetto dell’elemosina del dieci per cento dei propri beni): il buddismo, come religione del vuoto, mostra che la negazione dell’io non è la negazione del mondo, ma al contrario, il mezzo necessario per poter essere pienamente vivi, a partire dai frutti della meditazione, che sono la compassione (karuna)e la saggezza (prajña); l'induismo, come religione delle mille vie e delle divinità multiple, offre ricchezza di cammini per raggiungere la liberazione (moksa)che possono essere divisi in tre gruppi: quello dell'azione (karmamarga), quello della conoscenza (jnanamarga) equello della devozione (bhaktimarga);il cristianesimo, come religione del volto, mette in luce che nel cuore dell'umano si rivela il divino; le religioni indigene, come religioni che venerano la madre Terra, ci ricordano che tutte le cose hanno un'anima.
In questo modo, senza perdere lo loro identità, le diverse tradizioni possono aprirsi le une alle altre e comprendere se stesse come scintille diverse e diversi cammini dell'incandescenza del Reale. Sta arrivando il momento in cui possiamo percepire che il lascito delle diverse tradizioni non appartiene ad un determinato gruppo, ma è patrimonio dell'umanità.
3. Mistica e profetismo
Infine, e recuperando il titolo del presente articolo, la praticabilità di un'esperienza religiosa -che sarà sempre più interreligiosa - si darà nella misura in cui integra mistica e profetismo.
Se la mistica si riferisce all'ineffabilità, alla plasticità e alla libertà di sperimentare la vita come Mistero, senza che nessuna possa appropriarsene, il profetismo si riferisce alla capacità di liberare il meglio delle energie umane per collaborare alla trasformazione dell'umano. Perché l'esperienza religiosa, mentre raccoglie e unifica, dispiega; mentre mette a tacere e pacifica, dà vigore e risveglia. Questo si riflette in due aspetti: da una parte in un amore sempre più mite e disarmato che non ha bisogno di difendersi né di autogiustificorsi e, contemporaneamente, in una visione lucida e profetica, indomabile davanti alla situazione del mondo. Si tratta di quella riserva escatologico che dà allao fede quel “neti, neti”, "non è questo, non è questo" dell'induismo applicato all'utopia della fratellanza. "Non è questo" perché c'è sempre più fratellanza da raggiungere, più giustizia da ottenere, facendo in modo che l'utopia non si converta nella tentazione di una totalità raggiunta e finita. La mistica celebra le brecce do cui affiora l'Infinito, mentre il profetismo spinge le concrezioni perché queste brecce si convertano in cammini transitabili.
Le origini delle religioni contengono inscindibilmente entrambi gli elementi: l'esperienza dell'incandescenza del divino porta con sé una rivoluzione e un'utopia nel sociale. Così, Mosè, dopo l'incontro con il Roveto ardente nel Sinai, acquisisce la forza per liberare il suo popolo; le prime comunità cristiane ricevono dall'avvento pasquale l'audacia di una fratellanza che attenta alle divisioni della religione stabilita e dell'impero; Maometto ascolta voci interiori che lo spingono a fondare una nuova società basata sull'uguaglianza e la solidarietà; Buddha risveglia alla coscienza la concezione che tutti gli esseri sono degni di compassione e abolisce il sistema delle caste...
Se tali sono le origini delle attuali tradizioni religiose, l'incontro tra loro è chiamato a convertirsi in una alleanza tra tutte perché, ispirando e ispirandosi congiuntamente, apportino il meglio della nostro saggezza, esperienza e risorse per celebrare e lottare insieme per l'umano, e permettere che così si illumini il divino.
Finiamo così come avevamo cominciato: con la consapevolezza di essere in cammino. Perché ogni esperienza, secondo l'etimologia del termine tedesco er-fahrung, contiene l'idea del viaggio, dell'esodo. L'opportunità che ci viene offerta in questo tempo è che questa esperienza non la facciamo da soli ma uniti, condividendo con le diverse tradizioni quello che sappiamo sulla rotta delle stelle e su come si riconoscono le oasi quando lo sete brucia.
(da Adista, n. 2, 08.01.2005, pp. 2-5)