L'antinomia dell'unità in Vladimir Zelinskij
di Adriano Dell'Asta
Nella storia del movimento ecumenico (1) è possibile enucleare il ricorrere monotono e dolente di due atteggiamenti, come una costante che si mantiene a prescindere dai successi o dagli insuccessi, dalla maturità o dall'immaturità dei tempi e dei loro protagonisti; questi due modi d'essere sono quelli che Vladimir Zelinskij cataloga sotto il titolo di «ecumenismo selvaggio» ed «ecumenismo erudito». (2) Il primo, nello slancio generoso di un cuore indocile e impaziente, anela sì sinceramente alla fonte dell'acqua viva ove placare la sete comune, ma nel suo superficiale altruismo è contraddistinto da un sostanziale misconoscimento della controparte, un misconoscimento che porta alla conclusione un po' troppo sbrigativa e andante secondo cui fra la Chiesa d'oriente e quella d'occidente non vi sarebbero differenze. Il secondo, quasi sempre generato invece da un diverso - ma altrettanto sincero - desiderio di conoscere i fratelli dell'altra Chiesa, finisce spesso col rilevare solo le differenze, differenze così reali, studiate e discusse che la conclusione cui inevitabilmente approda è che delle due parti l'una ha ragione e l'altra ha torto. L'esito di questi due contrapposti atteggiamenti è identicamente sconsolante: nell'uno e nell'altro caso, infatti, si è ugualmente incapaci di riconoscere l'altro e di unirglisi, per il semplice fatto che nel primo caso l'altro non esiste neppure più in quanto altro (alterità impensata), mentre nel secondo l'alterità è divenuta così radicale che non può esistere più se non per essere negata (alterità impensabile). Esito sconsolante e paradossale insieme, in quanto questa incapacità di pensare o di accettare l'alterità si presenta in un tempo in cui le Chiese hanno ricominciato a chiamarsi e a concepirsi «sorelle» e sono state capaci di giungere sino alla cancellazione degli anatemi del 1054.
I vicoli ciechi in cui sembra chiuso l'ecumenismo, però, più che dipendere da un'incapacità di pensare l'alterità e le differenze esistenti in termini che rendano ragione dell'unità cui si anela e realizzino poi l'unione, dipendono piuttosto da una più radicale incapacità di pensare l'unità in termini che rendano ragione delle differenze esistenti anche in un'unione finalmente realizzata.
L'importanza di questo spostamento del cuore del problema ecumenico dal tema delle differenze a quello detl'unità, che è uno degli elementi caratterizzanti della proposta di Zelinskij e il fondamento di ogni autentico progresso ecumenico, potrà risultare ancor più comprensibile se consideriamo due questioni sulle quali si sofferma lo stesso Zelinskij: una è quella delle conversioni personali e dei cosiddetti «camuffamenti liturgici», l'altra è quella delle schematizzazioni cui spesso si ricorre per definire le due Chiese e le loro tradizioni. Quelli che in un contesto in cui il primato spetta ancora alla separazione e alle differenze non possono che apparire come ostacoli insormontabili e offese all'unità e alla verità, nel contesto di un primato dell'unità assumono un valore completamente diverso. Così, le conversioni personali, pur conservando tutti i loro limiti, cessano di essere la testimonianza di un proselitismo aggressivo (come troppo spesso rischiano ancora di essere) o di un'indifferenza nei confronti della verità (come potrebbe erroneamente sembrare quando si mettono sullo stesso piano due episodi diametralmente opposti quali, per esempio, quello di Vjaceslav Ivanov e quello di Placide Deseille) (3) e diventano piuttosto non certo un modello ma l'invito a respirare con due polmoni, concepito come «un'esigenza della nostra fede stessa» di fronte a «una mancanza d'aria» (4) che da una parte come dall'altra rischia di lasciar soffocare le ansie di milioni di uomini: da una parte perché per fedeltà al Vangelo si rischia di perderne il sale nel dolcissimo oceano del mondo, dall'altra perché nella preoccupazione che quel sale perda sapore si finisce amaramente col non essere più fedeli al Vangelo stesso. Ancora di più, in un contesto di unità, questi episodi diventano la testimonianza di una «segreta tensione» nella quale «si potrebbe percepire anche il doloroso maturarsi dell'unità» (5): una tensione, dunque, e dolorosa anche, ma che porta all'unità più che alla rottura. Allo stesso modo, la questione delle Chiese cattoliche di rito orientale, pur continuando a costituire un problema, cessa di essere un travestimento escogitato quasi solo per compiacere superficialmente dei fratelli minori, se non già per ingannarli, spogliarli e rubar loro qualcosa, e diventa, se non proprio una parziale anticipazione dell'unità ritrovata, almeno un problema come tanti altri che, appunto, non può più essere considerato un preliminare senza la cui soluzione sarebbe impossibile procedere oltre; come sottolineava recentemente un altro teologo ortodosso, Nikolaj Losskij, dopo aver accennato alla questione dei cattolici ucraini, in un contesto in cui prevale il pensiero e la preoccupazione dell'unità (nella forma, per esempio, dell'unità o dell'indivisibilità della libertà religiosa) «ciò che bisogna fare è esattamente il contrario! Se si ritrovano le vie teologiche dell'unità, allora gli ostacoli non teologici, tra i quali v'è l'uniatismo, si risolveranno da sé». (6)Nel quadro delle innumerevoli schematizzazioni con le quali si cerca di dare l'idea delle specificità delle due Chiese e delle loro tradizioni, una delle più ricorrenti è quella che sottolinea come la mentalità Orientale sia «molto più liturgica e iconografica che discorsiva, concettuale e dottrinale». (7) E’ una sottolineatura per molti versi corretta e utile, se viene letta nel senso di quella diversità di doni e carismi nella quale consiste appunto l'unità e che nell'unità viene fatta sorgere, se.viene letta, ancora, nel senso dei due polmoni coi quali dobbiamo ricominciare a respirare o in base a quell'atteggiamento di spirito per cui di fronte al problema della separazione ci si rende conto che «la domanda che dobbiamo porci non è tanto di sapere se possiamo ristabilire là piena comunione, ma ancor più se abbiamo il diritto di restare separati». (8) In un simile contesto le differenze possono essere pensate e diventare anzi una ricchezza, ma lo possono appunto in quanto sono lette all'interno della «profonda realtà della comunione esistente», (9) non come due frammenti. antitetici di una più autentica sintesi ecclesiale (rimandata al futuro o persa nel passato), ma precisamente come due carismi che realizzano concretamente l'unica Chiesa di Cristo, che si realizza appunto in maniera ogni volta irripetibile e piena, ma solo in quanto realizza ciò che la definisce come Chiesa di Cristo e cioè la fedeltà al (del) Cristo stesso prima ancora che una forma dottrinale o liturgica: è in questa comune fedeltà al Cristo che nascono i carismi e non è invece dalla sintesi dei carismi che viene generata quella fedeltà, è lo Spirito che dona i diversi carismi e non è invece l'accordo dei diversi doni che produce e crea lo Spirito. Quando questa coscienza si ottunde o diventa inefficace, è molto facile che i due modi di esprimere un identico contenuto di verità si trasformino nell'opposizione tra un occidente dogmatico e razionalista e un oriente adogmatico che, come ricorda Zelinskij, farebbe entrare in campo «una mistica vaga, pietista e soffocante», (10) un misticismo amorfo che «degenera in una pietà sentimentale». (11) Attraverso una serie di scivolamenti inizialmente quasi impercettibili, ricevono allora una significazione totalmente nuova le giuste osservazioni secondo cui, per esempio, per un verso l'oriente ha conservato intatta la tradizione del primo millennio che come tale è legittima e, per un altro verso, l'occidente con i suoi sviluppi successivi non contraddice quella tradizione ma dispiega «soltanto ciò che era già posto nel tempo della Chiesa indivisa». (12)
Nel caso dell'oriente, quando questo è ormai ridotto a un mondo adogmatico, astratto per essenza dal mondo e dagli interessi dell'umana ragionevolezza, e quando ancora si cerca di ricostruire con esso un'unità, quest'osservazione si trasforma nell'idea di una contrapposizione tra una Chiesa gerarchica chiusa nei riti del passato e nei suoi dogmi ormai vetusti e una Chiesa popolare più autenticamente ortodossa (non compromessa con i vari potenti di turno, ecc.) che sarebbe appunto adogmatica e con la quale allora si dovrebbe (e sarebbe facile) instaurare il dialogo ecumenico da parte dell'occidente dogmatico e razionale. Una simile visione ha più sostenitori di quanto si possa credere perché questa religiosità popolare, proprio per le sue caratteristiche, è indefinibile: in una versione neoslavofila avremo per esempio un popolo ortodosso di veri credenti in Cristo che si contrappongono ai seguaci dell'Anticristo, in una versione russofoba e razionalista avremo invece un popolo ortodosso che, appunto in quanto adogmatico, è tutto fuor che ortodosso: paganeggiante, gnostico, manicheo, moralista tolstojano e via dicendo. Su questa via, che si nutre di miti e di censure, (13) tutto diventa possibile fuor che l'unità della Chiesa perché, in questa contrapposizione, inaccettabile per un cristiano, tra una Chiesa popolare e una Chiesa gerarchica, ciò che va perso è proprio l'idea di Chiesa, l'idea che Cristo sia presente nella Chiesa o, meglio, come Chiesa: nel caso della Chiesa popolare abbiamo infatti una religiosità così terrena e particolare nella sua concretezza che, come si è già detto, non si capisce più di chi sia presenza, se di Cristo o di qualche suo rivale, nell'altro caso abbiamo qualcosa di così celeste e astratto che non si capisce più a chi e come possa essere presenza.
Nel caso dell'occidente, invece, quando questo è ormai ridotto per essenza a una realtà totalmente confusa col mondo e col suo razionalismo, e quando si cerca ancora una via di unità col mondo orientale, la giusta osservazione di partenza si trasforma nell'idea che per instaurare un dialogo ecumenico con questo mondo (adogmatico o fermo ai vecchi dogmi) si dovranno considerare gli sviluppi dogmatici del secondo millennio come meri sviluppi particolari della Chiesa latina. (14) Anche qui tutto diventa possibile fuor che l'unità della Chiesa perché, ancora una volta, ciò che va innanzitutto perso è la Chiesa stessa: in questa visione infatti la continuità della Chiesa scompare e si arriva, più o meno coscientemente, al paradosso di un cristianesimo senza Chiesa, di un cristianesimo che ha perso la Chiesa a un certo punto della sua storia, in un passato ormai perduto, e la ritroverà in un'opera di conciliazione tutta storica e umana solo nel futuro.
Ci pare così di aver messo sufficientemente in luce il vero punto carente dei due ecumenismi con cui polemizza Zelinskij (l'erudito e il selvaggio) e comunque di ogni discorso sull'unità che parta dalla questione delle differenze, impensate o impensabili: in queste visioni ciò che è innanzitutto deficitario è la concezione dell'unità, che finisce sempre con l'essere ridotta a un mero esito da raggiungere o con la negazione dell'alterità dell'altro o con un compromesso. Ma cercare l'unità partendo dal presupposto che essa non esiste significa condannare in partenza all'insuccesso l'ecumenismo cristiano in quanto, se si sopprime una delle caratteristiche definitorie della Chiesa che i cristiani confessano appunto «una, santa, cattolica e apostolica» - l'unità non riguarderà più propriamente la Chiesa, ormai inesistente, e potrà essere ritagliata solo su criteri extraecclesiali e puramente mondani.
La proposta di Vladimir Zelinskij parte appunto dalla negazione di questo presupposto, secondo cui la verità e l'unità non esistono, distinguendolo decisamente dalla «coscienza veramente ecumenica», quella che ha il coraggio di «testimoniare l'arduo mistero dell'unità invisibile ma esistente, che per la grazia di Dio sarà un giorno luminosa ed evidente». (15) La proposta di Zelinskij vive di una sensazione ormai coessenziale - «familiare» - al suo essere stesso: «che la Chiesa d'occidente [...] sia intimamente e misteriosamente legata alla Chiesa d'oriente»; (16) ma, ancora una volta, questa sensazione è possibile solo all'interno di una coscienza netta dell'unità come dono misteriosamente offerto, perché «se la pienezza delle vocazioni continua a mantenersi in un modo o nell'altro, in tutte le Chiese che si proclamano tali, è sempre e solo perché tutte queste vocazioni hanno un unico fondamento iniziale comune: la confessione di Pietro»; (17) per Zelinskij l'unità non è qualcosa che deve essere ancora creato ma è innanzitutto un fatto che va riscoperto «in ciò che, alla radice, non era mai andato perduto ed era sempre rimasto misteriosamente uno: in Cristo». (18) Alla luce di questa «pienezza della Chiesa indivisa, coronata della diversità delle vocazioni», (19) le stesse crisi vissute dalle due Chiese cessano di essere un argomento polemico, delle colpe o dei segni di debolezza da rinfacciarsi gli uni con gli altri e diventano piuttosto l'occasione per riconoscere insieme le ricchezze altrui e i limiti propri.Ciò è evidente per esempio nel modo in cui viene ripercorsa la tematica delle crisi a partire dal Rapporto sulla fede del cardinale Ratzinger: «Se nel libro aperto delle "crisi" che sto leggendo una pagina è sempre occidentale, l'altra, scritta in greco o in slavo antico, sarà evidentemente orientale. E se la prima mi è nota soltanto attraverso l'industria della stampa, la seconda è come stampata nella mia esperienza e nella mia anima». (20) In questo discorso, che come tutto il libro del resto è la continua ripresa di un unico tema in volute sempre più ampie e prossime al cuore del problema, la rilevazione delle crisi si specifica sempre e soltanto come un invito all'unità: così, se l'occidente è colto in crisi, si sottolinea che questa dipende dalla presenza in esso di quella compassione per la cui assenza è in crisi invece l'oriente, e viceversa la crisi dell'oriente dipende da quella distanza dal mondo per la cui assenza è in crisi invece l'occidente. Con la precisazione, ancora una volta, che ciò che si richiede qui non è allora una sintesi ma la condivisione, quella condivisione che ci mette «in comunione col mistero che ci unisce» (21)precedendo e rendendo possibili le differenze, secondo un procedimento sul quale torneremo ancora e che non è dialettico ma antinomico: non si tratta di sintetizzare due verità parziali ma di cogliere la verità dell'una nella verità dell'altra quando e in quanto entrambe vivono della stessa fedeltà all'unico Cristo.
Le crisi che ci invitano all'unità attraverso la condivisione si specificano dunque come un invito alla conversione. Nella condivisione infatti, le differenze, che cessano di essere un ostacolo, diventano il paradosso dello starec Tavrion secondo il quale la separazione «era stata provvidenziale, affinché entrambe le grandi famiglie cristiane sviluppatesi in occidente e in oriente da un' unica radice difendessero insieme l'unica e indivisibile verità proprio combattendosi e rivaleggiando l'una con l'altra». (22) In questa gara per l'incremento della verità il problema ecumenico diventa allora quello della fedeltà alla verità stessa; non attraverso il confronto meccanico delle due tradizioni o la loro relativizzazione ma attraverso la comprensione, quella comprensione in cui non si tratta di «rompere i vecchi vasi nei quali le Chiese conservano la propria fede» (23) (cioè, appunto, di relativizzare le tradizioni dopo averle confrontate), ma piuttosto di aprire questi vasi gli uni sugli altri. Per un verso ciò che conta qui è la capacità di cogliere «l'orientamento o meglio, il movente segreto» (24)della fede dell'altra Chiesa, cioè la «capacità delle varie Chiese di porsi un giorno una domanda, di chiedere cioè alla propria coscienza ecclesiale se essa è pronta o meno a riconoscere questo volto [di Cristo] in un altro riflesso, nell'immagine dell'altro»; (25) ma per un altro verso ciò che conta ancora di più è proprio ciò che rende possibile questa apertura, a prescindere dalla quale «la verità senza amore o anche senza una sorta di "curiosità", ripiegata su se stessa, non perde nulla della propria sostanza e del proprio vigore, ma viene come oscurata»: (26) ora, ciò che rende possibile questa apertura è appunto la conversione, il tornare a porre «costantemente il proprio centro di gravità nel Cristo», (27) il «fissare io sguardo nel mistero del proprio Cristo», senza conversioni o sintesi compromissorie, perché è solo «partendo da ciò, nella recuperata prossimità con la fonte», che si può diventare capaci di «condividere la Sua presenza con le altre Chiese». (28)
L'ecumenismo si trasforma qui, ed è un altro dei pregi della proposta di Zelinskij,in una questione squisitamente personale perché esso non sarà più caratterizzato soprattutto dalla ricerca dei «mezzi per la riunificazione delle Chiese» (29) ma piuttosto dalla disponibilità ad «abolire se stesso per cedere il posto alla presenza indivisa del Cristo»; (30) e questa disponibilità è quella che caratterizza appunto la vocazione eminentemente personale dei santi, di coloro che annullano le volontà proprie per lasciare spazio alla volontà di Dio e divenire somigliantissimi al Cristo, trasparenti alla sua presenza. Non è un caso allora che in questo ecumenismo trasformato in una questione della persona Zelinskij affidi un ruolo decisivo appunto a coloro che meglio di ogni altro realizzano la propria somiglianza con la Persona (31) e non è un caso che l'ecumenismo diventi non solo la scoperta del volto di Cristo «nell'immagine dell'altro» ma anche la «scoperta della santità di una Chiesa in seno alla santità dell'altra». (32)Può essere interessante a questo punto, per apprezzare e comprendere meglio questa proposta, ricollocarla all'interno di una possibile genealogia ideale che se per un verso non toglie nulla alla sua originalità per un altro verso la esalta. Come si è già visto e come vedremo ancora, infatti, Zelinskij medita la questione dell'ecumenismo a partire da una serie di esperienze decisamente eccezionali: quella della crisi della cristianità contemporanea, quella del martirio della Chiesa russa e quella del grande slancio ecumenico prima e delle sue secche poi. Ma se tutto ciò rende di per sé evidenti l'originalità e la maturità della proposta di Zelinskij, queste risalteranno ancor più clamorosamente se si considera che al momento della stesura del suo lavoro Zelinskij non conosceva affatto alcuni dei testi che citeremo fra poco; (33) ed è appunto per questo che abbiamo chiamato la nostra genealogia «possibile e ideale»: perché essa delinea più un'atmosfera che non delle influenze dirette e vuole enucleare più una radice comune dalla quale si dipartono mille frutti diversi che non un unico frutto nei vari stadi del suo sviluppo. I nomi che vengono dunque quasi spontaneamente alla penna sono quelli del triangolo d'oro della teologia russa della fine del XIX secolo e degli inizi del XX: Solov'ëv, Florenskij e Bulgakov.
Molti degli elementi qualificanti della proposta di Zelinskij sono già presenti in Solov'ëv, almeno in nuce, e anche se talvolta poterono sembrare non chiaramente esplicitati e sufficientemente sviluppati. (34) L'atteggiamento ecumenico di Solov'ëv è caratterizzato in effetti dal fatto che egli accolse come vere le posizioni di Roma sui principali punti controversi, pur restando ortodosso e scoraggiando ogni forma di conversione individuale, e respingendo inoltre ogni tentazione di indifferentismo dogmatico e ogni variante di quell'irenismo per cui la verità e l'unità della Chiesa sarebbero ancora tutte da costruire; si tratta dunque di un atteggiamento che non si spiegherebbe se non si fondasse sul presupposto secondo cui l'unità è un dono originario che va approfondito mediante la tensione alla fonte dell'unità, cioè la conversione a Cristo riconosciuto nella pienezza e nella verità della propria Chiesa, che proprio in quanto vera Chiesa - una, santa, cattolica e apostolica - sa accogliere in sé la verità e la pienezza dell'altra. Solov'ëv concepiva l'unità della Chiesa non come un'«unità negativa, solitaria e sterile, che si limita a escludere ogni pluralità», ma secondo le caratteristiche dell'unità vera «che non si oppone alla pluralità, che non l'esclude, bensì nel calmo godimento della propria superiorità, domina il suo contrario e lo sottopone alle sue leggi». «Questa unità positiva e feconda», continuava Solov'ëv, «rimanendo sempre ciò che è, al di sopra di ogni realtà limitata e multipla, contiene in sé, determina e manifesta le forze viventi, le ragioni uniformi e le varie qualità di quanto esiste». (35) Il modello visibile e sperimentale sul quale Solov'ëv tratteggiava questa unità era evidentemente la persona del Cristo nel quale la natura umana e la natura divina si erano unite senza confusione e senza separazione e nel quale in maniera esemplare si era reso possibile concepire un rapporto tra gli uomini e Dio che non implicasse né sintesi fusioniste ne separazioni definitive ma anzi, proprio grazie a questa originaria unità, potesse permettere di affermare, per esempio con san Gregorio Palamas, che così formulava la legge dell'antinomia: «Noi arriviamo ad essere partecipi della natura divina e tuttavia essa resta totalmente inaccessibile. È necessario affermare entrambe le cose contemporaneamente e conservare la loro antinomia come criterio della pietà». (36) Le posizioni ecumeniche di Solov'ëv sono comprensibili appunto solo all'interno di questa concezione antinomica dell'unità per cui l'unità non esige irenismi o negazioni, ma vive e si manifesta nella diversità che essa stessa rende possibile, essendo un dono originario di quell'altra «unità perfetta che genera e comprende tutto» e che è professata proprio all'inizio del «credo dei cristiani», quando essi dicono di credere «in unum Deum Patrem Omnipotentem...». (37) Proprio alla luce di questa unità Solov'ëv aveva potuto concludere che «noi, tanto orientali che occidentali, pur con tutte le divergenze delle nostre comunità ecclesiali, continuiamo incrollabilmente a essere membri della Chiesa unica e indivisibile del Cristo [...]. Ciascuna delle due Chiese è già la Chiesa universale nella misura in cui essa tende non alla separazione ma all'unità». (38)Tutto ciò ai tempi di Solov'ëv non poté dare frutto: il condizionamento dei retaggi negativi era ancora troppo grande; e spesso anche nei loro rappresentanti più lucidi e luminosi le Chiese erano incapaci di rendersi conto della portata di atteggiamenti come quello di Solov'ëv, che non potevano certo essere ridotti ai ripensamenti di una pecorella smarrita che ritornava all'ovile. (39) Nonostante i fraintendimenti, però, alcune intuizioni profetiche erano parte di un patrimonio comune, e una volta enunciate continuarono a fecondare le elaborazioni successive. È così possibile ritrovare alcuni di questi temi in Florenskij, quando egli indica per esempio nel ritrovamento del comune orientamento a Cristo la via che, senza far scomparire le differenze, potrebbe portare però al superamento delle divisioni. (40) Per un verso, infatti, questa rinnovata conversione porterebbe a «riconoscere che l'autentica causa della divisione che affligge il mondo cristiano», (41) come di tutte le sue crisi, consiste nel fatto che «la fede si è effettivamente svigorita in quelli che sono i suoi fondamenti spirituali più decisivi», e in questo senso porterebbe anche alla rinascita di quel sincero orientamento della coscienza verso il Cristo dal quale fiorisce «tutta la vita concreta» e nel quale si rende così «possibile e anzi necessario il riconoscimento reciproco e l'unità». (42) Ma per un altro verso, ancora, questa rinnovata conversione alla fonte dell'unità, essendo tale fonte il Cristo, porterebbe anche al superamento di ogni forma di confusione e di separazione e in questo senso, per quel che concerne la questione ecumenica, porterebbe a capire più profondamente quella verità secondo cui l'unità è un dono più originario e più ricco di tutto quello che potrebbe essere prodotto da sintesi o da compromessi umani e successivi: quella verità, per esprimerci con le parole di Florenskij, secondo cui «la vita sobornica della Chiesa universale non è la somma delle vite dei singoli uomini e neppure di quella delle singole Chiese: l'intero è maggiore della somma delle parti». (43)
Per concludere ora brevemente con il terzo autore della nostra genealogia, basti ricordare che questo tema viene chiaramente e nettamente sottolineato da Bulgakov quando egli dice esplicitamente che il movimento ecumenico «nasce dal presupposto secondo cui esiste una Chiesa una e santa, Una Sancta, ed esiste inoltre non come una cosa che è soltanto cercata, ma come la suprema e preminente realtà: non è soltanto un'idea, ma anche un fatto». (44) «La realizzazione di un'unione visibile», precisa ancora Bulgakov, «deve già ammettere l'esistenza di un'unità, anche se non ancora manifesta e riconosciuta. Non si può tendere a un'unità inesistente, non ci si può assumere un compito che non abbia già il proprio fondamento in ciò che è dato». (45)
Se possiamo interrompere qui la nostra genealogia ideale va però riprecisato ora che questi elementi e queste intuizioni sono arricchiti in Zelinskij da tutto il patrimonio che gli viene dall'esperienza storica maturatasi in questo secolo: innanzitutto v'è la riscoperta della santità, intesa qui in particolare come conferma della santità della propria Chiesa perché, come si è già detto, il discorso ecumenico parte dalla concretezza della propria esperienza di fede vissuta nella pienezza della propria Chiesa. In questo senso, se per Zelinskij è chiaro che bisogna ritornare alla comune «lingua madre» della Chiesa indivisa per «sapervi decifrare il mistero del Cristo altrui», è altrettanto chiaro che ciò sarà possibile solo «a partire da un altro mistero che ci è più familiare», (46) quello della propria Chiesa, appunto, nella quale si è colto «il mistero della presenza di Dio in mezzo agli uomini». (47) Questa presenza è stata testimoniata dalla Chiesa ortodossa russa in maniera esemplare anche là dove tutto sembrava doverla ridurre al silenzio, anzi forse soprattutto là dove questa testimonianza è tornata allora ad assumere il nome originario della testimonianza cristiana: martyria.In questa testimonianza resa all'essenziale, la Chiesa ha reimparato che per lei tutto si gioca a una profondità infinitamente superiore rispetto a quella dei suoi rapporti col mondo, siano essi rapporti di compromesso e di asservimento o di opposizione e di lotta. Quando si resta infatti su questo piano superficiale la comprensione dell'essenza della Chiesa rischia sempre di venir offuscata, ora attraverso l'adeguamento alla «Chiesa così com'è», «quando l'immagine umiliata della Chiesa terrena viene riconosciuta, con lacerazione interiore o con spocchia, come l'unica e trionfante ortodossia possibile», ora attraverso il distacco da essa, «quando cioè chi ha appena fatto ingresso nella Chiesa la rinnega subito interiormente, lasciando che essa sia per lui una semplice fonte di sensazioni estetiche e di riti consolatori». (48) La dolorosa esperienza della Chiesa russa di questo secolo ha invece mostrato che al di là di questa sterile contrapposizione v'è qualcosa d'altro che è percepibile solo «nella calma della preghiera», «nella pace di un ininterrotto rapporto con Dio», qualcosa che «ha bisogno di precisazioni rigorose, è ovvio, e si incarna nei giudizi della ragione umana, ma nello stesso tempo si distingue da tutte le sue espressioni, anche quelle più profonde e preziose». (49)
«Come avremmo potuto diventare credenti noi ortodossi», si chiede infatti con accenti accorati Zelinskij, «[...] se tenessimo alla nostra fede solo in funzione di ciò che tacciono o piuttosto di ciò che proclamano a gran voce le autorità della nostra Chiesa?». (50) Ora, questo nucleo profondo che si può cogliere solo nella preghiera è appunto «il mistero della presenza di Dio» che si offre agli uomini prima di ogni loro iniziativa, per poter essere accolto.
È dall'incontro di questo dono con la libertà degli uomini che nascono poi tutti i problemi e tutte le crisi eventuali, che possono anche essere, indubbiamente, crisi di fedeltà, ma che andranno giudicate ben diversamente da come troppo spesso si è fatto quando, per esempio, accade che «una Chiesa per un motivo o per l'altro aveva perduto il sembiante storico della sua ortodossia (pur conservandolo, però, nella sua sostanza) cominciò ad apparire agli zelatori di questo medesimo sembiante come Babilonia la meretrice». (51) Se ciò, come ricorda Zelinskij, poté avvenire in passato, e minare l'immagine di Roma, al tempo dello scisma, e dell'ortodossia russa al tempo dei vecchio-credenti e poi ancora nel nostro secolo con i suoi compromessi e le sue sottomissioni al potere ateo, ciò non può più avvenire oggi, per chi è passato attraverso le esperienze di questo secolo e dovrebbe aver capito ormai che non è alla luce dei cedimenti o delle resistenze della Chiesa di fronte al mondo che si giudica l'essenza della Chiesa stessa, ma è piuttosto alla luce di questa essenza che si giudicano sia i cedimenti sia le resistenze. Giudizio, questo, che tra l'altro è ben più esigente perché, come ricordava spesso un altro teologo russo, (52) al peccato non contrappone la virtù ma la fede dei santi che cercano il volto di Dio e giudicano non in base a una ( sua qualche immagine umana, sempre relativa, ma in base alla sua radicalità, una radicalità che bisogna saper cogliere sia nel volto kenotico di Cristo, sia in quello trasfigurato. (53)
Questa capacità di cogliere il volto di Cristo è l'altra grande esperienza storica di questo secolo, che nella questione ecumenica ha prodotto l'incontro delle due linee profetiche che spesso Zelinskij ricorda: quelle che culminarono in passato in Paolo VI e Atenagora I. È appunto nell'atmosfera di nuova apertura attestata da queste figure che si situa, per finire, la proposta di Zelinskij, in particolare quando egli ricorda che l'unità che viene qui riscoperta «non può non diventare la sorgente di un'immensa energia effusa dallo Spirito del Cristo. Là dove le parole diventano aride moltiplicandosi senza calma interiore, questa energia liberata comunicherà il segreto del silenzio. E là dove regna il silenzio, solo questa energia darà il vigore della parola, predicata "a tempo e fuori tempo". Questo Spirito riporterà a se stesse le diverse tradizioni, le riporterà alla loro autenticità. Ci riporterà la spiritualità della penitenza, perché ci si possa pentire della tentazione nascosta dell'evasione. Ci riporterà la spiritualità della pienezza (di cui parla Jean Guitton) perché ci si possa riempire ancora una volta di quell'eredità antica e ricchissima che nessuno ha abolito ma che sta per essere sperperata». (54)
È con queste parole che vorremmo concludere la nostra analisi della proposta ecumenica di Vladimir Zelinskij perché con esse, tra l'altro, viene riportata in primo piano, e con una chiarezza nuova rispetto al passato, quella che è secondo noi l'idea cardine di ogni autentico ecumenismo, quell'idea di unità antinomica che era già presente in Solov'ëv, Florenskij e Bulgakov e che Zelinskij ha appunto il merito di rinnovare e approfondire nel momento in cui ricorda che silenzio e parola, parola e mistero diventano l'uno la verità dell'altro non quando si sintetizzano e si controbilanciano ma quando ritrovano la loro identità nella «"sua parola, cioè il mistero nascosto da secoli e da generazioni, ma ora manifestato ai suoi santi" (Col 1, 25-26). L'identità della "sua parola" e del mistero, nella Chiesa, si afferma qui con una chiarezza clamorosa; la parola non solo parla del mistero, ma lo dice, lo porta, lo è, e il mistero si apre nella parola della Chiesa, si manifesta ai suoi santi.... Ed entrambi, parola-mistero, coincidono in Cristo. O meglio, sono "il Cristo in mezzo a voi", o "in voi"». (55)
In questa coincidenza riscoperta, l'ecumenismo diventa una provvidenziale occasione di conversione personale alla serietà del Cristo: opera innanzitutto di Dio, come ogni conversione, ma come tale anche opera seria di ogni singolo, senza gli eccessi degli ecumenismi troppo personali e selvaggi e senza le lentezze e l'astrazione di troppi ecumenismi eruditi; un miracolo di Dio, ma un miracolo nella storia, come diceva il patriarca Atenagora: volontà di Dio che entrerà nel tempo quando il tempo, negli uomini, si offrirà.
V'è da augurarsi che questa provvidenzialità venga assunta, perché ciò che si rischia nel caso contrario non sono nuovi ritardi o nuove false risposte ma i reali inganni (56) di un'unità per nulla cristiana. E qui il giudizio che ciascuno di noi rischia non è quello compiacente del mondo ma quello esigente dei santi, perché se la Chiesa è di Cristo, essa «non vive altro che in noi».
Note1) Ci limiteremo qui esclusivamente ai rapporti tra la Chiesa d'oriente e quella d'occidente, intendendo con ciò tralasciare completamente la questione delle Chiese della riforma.
2) Vl. K. Zelinskij, Perché il mondo creda, (da qui citato come PMC), La Casa di Matriona, Milano 1988, pp. 96ss.
3) Ibid., pp. 117-130.
4) Ibid., p. 121.
5) Ibid., p. 119.
6) N. Losskij, De l'unitatisme à l'unité: le préalable ecclésiologique, in «Service Orthodoxe de Presse» (SOP), n. 125, febbraio 1988, p. 21.7) P. N. Evdokimov, Cristo nel pensiero russo, tr. it. Città Nuova, Roma 1972, p. 35.
8) Giovanni Paolo II,30 nov. 1978.
9) Giovanni Paolo II, 29 nov. 1978.
10) PMC, p. 141.
11) Ibid., p. 142.
12) Ratzinger, Chiesa, ecumenismo e politica, tr. it. Paoline, Cinisello Balsamo 1987, p. 82.13) Per Fare un solo esempio: non ci pare possa essere definita diversamente una descrizione dell'«educazione religiosa della Russia» che, come fa A. Besancon (un autore ben altrimenti illuminante e geniale, ma qui forse troppo preoccupato di smontare dei miti contrari), liquida in poche righe tutto ciò che non è slavofilo (in particolare la rinascita filocalica, e monastica in genere, del XVIII-XIX secolo) e ciò che nello slavofilismo, non è riconducibile a una premessa dell'«ideologia». Cfr. A. Besancon, Les origines intellectuelles du léninisme, Calmann-Lévy, Paris 1977, p. 59-82.
14) Seguiamo qui le critiche opposte a questo atteggiamento dal card. Ratzinger, op. cit., pp. 82ss.
15) PMC, p. 131.
16) Ibid., p. 31, n. 1.
17) Ibid., p. 93.
18) Vl. K. Zelinskij, Convertiti alla Chiesa, (da qui citato come CC), tr. it. in «Rivista del Centro Studi Russia Cristiana», n. 2 (182), 1982, p. 31.
19) PMC, p. 92.20) Ibid., p. 67.
21) Ibid., p. 140.
22) CC, 2 (182), 1982, p. 18. In questo articolo Zelinskij non precisava il nome dello starec, ma i dati biografici coi quali lo descriveva permettono di identificarlo appunto con Tavrion. Su questa stupenda figura di monaco si veda L'eremo dello starec Tavrion, tr. it. in «Rivista del Centro Studi Russia Cristiana», n. 6 (168), 1979, pp. 22-30.23) PMC, p. 101s.24) Ibid., p. 103.
25) Ibid., p.112.26) Ibid., p. 123.
27) CC, 2 (182), 1982, p. 35.28) PMC, p. 113.
29) Ibid., p. 146.30) Ibid., p. 145.
31) Cfr. ibid., pp. 126-130.32) Ibid., p. 127.33) In particolare quelli di Florenskij e di Bulgakov; e i dolorosi motivi di questa mancata conoscenza sono tristemente noti.
34) La presenza in Solov'ëv di questa chiarezza e di questo sviluppo è un fatto che abbiamo cercato di mostrare altrove, in particolare nell'introduzione a Vl. S. So1ov'ëv, Il significato dell'amore, tr. it.La Casa di Matriona, Milano 19882, pp. 16-20 e a queste pagine ci permettiamo di rimandare.
35) Vl. S. Solov'ëv, La Russie et l'Eglise universelle, in La Sophia et les autres écrits français, L'Age d'Homme, Lausanne 1978, p. 240.
36) Gregorio Palamas, PG 150, 932.37) Vl. S. Solov'ëv, La Russie..., cit., p. 240.
38) Vl. S. Solov'ëv, Velikij spor i christianskaja politika (La grande controversia e la politica cristiana), in Sobranie Sočinenij (Opere) Bruxelles 1966-1969, IV, pp. 107 e 109.39) Così si sarebbe espresso nei confronti di Solov'ëv Leone XIII.
40) Cfr. P. A. Florenskij, Cristianesimo e cultura, tr. it. in «L'Altra Europa», n. 5 (215), 1987, p. 54.41) Ibid., p. 55.42) Ibid., p. 56.
43) Ibid., p. 57.
44) S. N. Bulgakov, «Una Sancta». I fondamenti dell'ecumenismo, tr. it. in «Rivista del Centro Studi Russia Cristiana», n. 1(175), 1981, p. 61.
45) Ibid., p. 66.
46) PMC, p. 114.47) Ibid., p. 30.
48) CC, n. 5 (179) 1981, p. 27.49) PMC, p. 48.
50) Ibid., p. 50.
51) CC, n. 1 (181), 1982, p. 37.
52) Si tratta di Evdokimov, il cui nome avremmo dovuto fare, con alcuni altri (Afanas'ev, Clément, ecc.), se avessimo proseguito la nostra genealogia ideale oltre i primi anni del secolo.53) Cfr. PMC, pp. 110-111.54) Ibid., pp. 125-126.
55) Ibid., p. 143. Sulla ricorrenza del tema parola-silenzio e sul suo valore ci permettiamo di rimandare a un nostro saggio: Una parola all'estremità del silenzio, in «Strumento internazionale per un lavoro teologico: Communio», n. 55, 1981, pp. 71-90.
56) Sono i reali inganni di cui parla Solov’ëv nel suo Racconto dell'Anticristo.