I Dossier

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

La cooperazione del giorno prima
e della riconciliazione

di Massimo Toschi




Il tempo della guerra, i cui segni crescono ben oltre il dato puramente militare, pone una domanda radicale anche alla cooperazione. Quando la guerra in Iraq degenera in guerra civile e lo scontro di civiltà rischia di diventare una delle chiavi per leggere il nostro tempo, quando la povertà come guerra arriva a cifre indicibili, non ci possiamo accontentare di una qualunque cooperazione.

Se la cifra di questo tempo è la guerra, sia quella guerreggiata, sia quella esibita delle culture, sia quella invisibile delle grandi povertà, la cifra della cooperazione deve essere la riconciliazione, il ricomporre le società, il dialogo tra i Paesi, la piena assunzione del dolore dell'altro e dei suoi diritti.

C'è un volto dell'umanitarismo compassionevole che è entrato dentro di noi. Alla fine, di fronte alla tragedia della guerra e al dramma della povertà del Sud del mondo, ogni progetto va bene, perché porta risorse e cambia qualcosa. Questa è una logica minimalista che non tiene conto della complessità e della gravità della partita nella quale tutti siamo coinvolti.

LA COOPERAZIONE COME STRUMENTO

Forse varrebbe la pena prima o poi di fare una analisi della cooperazione italiana di questi anni, non solo quella promossa dal Ministero degli esteri, ma anche di quella decentrata, dei loro criteri di scelta, dei risultati ottenuti, dei partenariati promossi, dell'efficacia e dell'efficienza dei progetti, della loro capacità di impatto nelle situazioni. Penso che almeno dal Kossovo in qua il quadro ha molte luci ma anche molte ombre. Abbiamo inseguito gli eventi e non li abbiamo anticipati. È la cooperazione del giorno dopo che non ci convince, senza nulla togliere a quanto di bello abbiamo fatto di fronte a emergenze umanitarie, legate alla guerra o a grandi calamità naturali.

Si dovrebbe capire se è stata in grado di leggere i primi segni premonitori del tempo della guerra e di costruire programmi alternativi a esso o al contrario se si sono inseguiti gli eventi tappando buchi che sono rimasti sempre aperti. E si dovrebbe anche comprendere se la cooperazione legata alla lotta contro la povertà in tante parti del mondo si è accontentata di fare qualcosa oppure è stata capace di spezzare il grande nodo che unisce la povertà alla guerra. Fino a riconoscere nella povertà una dimensione costitutiva del tempo della guerra.

Se nel tempo della guerra, facciamo la scelta della cooperazione per la riconciliazione, affermiamo che la cooperazione è uno strumento per una grande politica, che pone al primo posto la pace, la giustizia, i diritti, la democrazia . La cooperazione non è il fine ma il mezzo, lo strumento non neutrale che è alternativo alla guerra per costruire un mondo più giusto. Cooperare significa lavorare insieme, Paesi, culture, continenti diversi, ad un comune disegno di pace e di riconciliazione. Lavoriamo insieme non per disegni di guerra ma per obiettivi di pace, senza i quali la giustizia è retorica, i diritti sono ideologia, la democrazia una vuota formula. La cooperazione ha inscritto nel suo Dna questa vocazione di pace. È vero che spesso questa parola è usata in modo neutro (si parla anche di cooperazione militare), ma in realtà la preposizione -con- indica un lavorare con gli altri che è l'alternativa alla cultura del nemico, contenendo in sé la cultura dell'incontro e non dello scontro. Sta qui il costruire ponti e l'abbattere muri, la formula lapiriana che meglio esprime la nuova cultura della cooperazione.

Essa contiene una pars destruens : la cooperazione come abbattimento dei muri culturali, politici, economici, spirituali che dividono i popoli. E una pars costruens : il costruire ponti di dialogo, di giustizia, di pace e di riconciliazione. Questo è l'esatto contrario del tempo della guerra, quando si innalzano i muri e si distruggono i ponti.

IL TEMPO DELLA GUERRA

Quando si parla di tempo della guerra si vuole indicare un tempo medio, non breve, di cui la guerra e la sua cultura sono la dominante. Questo non significa mettere al centro le guerre di cui quella dell'Iraq è la principale, ma non unica. La guerra diventa la chiave che attraversa tutti i rapporti: economico, militare, culturale e spirituale. Se davvero vogliamo combattere la povertà dobbiamo combattere la guerra, che uccide non solo perché uccide, ma uccide perché drena imponenti risorse, che potrebbero essere meglio utilizzate per fronteggiare pandemie, la siccità e la fame. Non si può lottare efficacemente contro la povertà senza avviare coraggiosi impegni nel campo del disarmo .

Ma in realtà il tempo della guerra impone il riarmo. La paura che ne è come l'anima spinge in questa direzione. Basterebbe confrontare la crescita esponenziale che è avvenuta in questi quattro anni dopo la distruzione delle due Torri. La paura ha reso possibile questa nuova corsa alle armi, che dopo la caduta del muro di Berlino si era progressivamente attenuata. Si combatte la guerra per sconfiggere la paura e in realtà la guerra stessa produce paura e a questa spirale corrisponde la spinta incessante agli armamenti come elemento insostituibile di sicurezza.

È singolare notare come la guerra inaugurata dal terrore sia una guerra tipicamente asimmetrica, nel senso che chi attacca usa mezzi radicalmente diversi da chi è attaccato, ma chi risponde usa i mezzi tipicamente tradizionali e usa questa guerra asimmetrica per giustificare enormi investimenti nei mezzi tradizionali della guerra.

E come se dovesse partecipare a una guerra tradizionale. Anzi più il nemico è oscuro e più cresce la domanda di una risposta tradizionale di mezzi militari.

In questo senso il terrorismo non solo uccide con il terrore ma anche imponendo questa corsa al riarmo, con il risultato di prosciugare molte risorse che potrebbero essere meglio utilizzate nella partita della vita e della giustizia per interi continenti.

Si potrebbe dire con una formula di Colin Powell: “ La guerra al terrore è legata a doppio filo a quella alla povertà” . Questo significa non solo che prosciugando i bacini della povertà si prosciuga il consenso al terrorismo, ma che nel medio periodo la lotta al terrorismo avviene combattendo la povertà e dunque investire contro il terrore significa non aumentare gli armamenti, ma ridurre gli armamenti per costruire progetti e programmi che diano futuro, sviluppo, diritti e democrazia a milioni di persone. Questa è la versione nel tempo della guerra della frase del profeta: trasformare le lance in falci e le spade in vomeri.

COOPERARE PER LA GUERRA, COOPERARE PER LA PACE

La cooperazione internazionale, che vuole essere strumento di riconciliazione, si deve misurare con questo orizzonte culturale e politico che attraversa popoli e conflitti. Non si può rimanere catturati solo in una logica economicistica o sviluppistica, che alla fine è la nuova faccia dell'umanitarismo compassionevole, che la destra proclama. Qualche aiuto purchessia. Oppure non si può rimanere prigionieri di una logica corporativa che ci spinge ad andare là dove ci sono fondi per progetti e dunque si inseguono i progetti per avere fondi. Basti ricordare in questi anni come le stesse guerre dal Kossovo all'Afghanistan sono diventate luogo di attività imponente di Ong, non per fare la pace ma per garantirsi il futuro. Solo pochissime hanno seguito una strada diversa e più feconda. Altre, addirittura, sono state parte della politica dei governi. Ricordiamo tutti a proposito dell'Afghanistan la polemica tra Emergency e il Ministero degli esteri.

La cooperazione per la riconciliazione è il nuovo orizzonte che fa della cooperazione il grande strumento per fare la pace e il fondamento di una nuova politica internazionale. È necessario attraverso la cooperazione costruire rapporti di partenariato non solo tra istituzioni locali ma anche tra governi nazionali in un disegno comune che valorizzi i popoli e le comunità come comuni protagonisti di un processo di pace, di stabilità, di sviluppo e di democrazia.

Nel tempo della guerra la cooperazione per la riconciliazione è l'unica che ha futuro , perché è capace di incidere e di operare a livello delle società, dei governi locali e nazionali, investendo sul futuro dei Paesi, perché ne accoglie la domanda più radicale che è quella di vivere nella pace.

Questa cooperazione mette al primo posto le persone e quelle più colpite, le vittime, piuttosto che un'astratta discussione sui modelli economici e sociali. La cooperazione per la riconciliazione nasce dalla domanda quotidiana di vita e di pace delle persone e delle comunità e a essa deve rispondere, altrimenti è un'operazione che parte e ritorna in occidente, da usare forse mediaticamente, ma incapace di costruire veri ponti di pace e di giustizia.

La cooperazione per la riconciliazione punta alla realizzazione del concreto riconoscimento dei diritti delle persone, in primo luogo delle vittime, come diritto alla vita, al futuro, che è fatta di scuola, di salute, come avvio e sostegno di un processo di autogoverno delle comunità locali e nazionali, che ha come suo punto di arrivo le forme della democrazia. Anche qui senza integralismi, rispettando le storie e le culture di popoli ed etnie. Basterebbe ricordare il peso che hanno nel continente africano i poteri tradizionali come punto di equilibrio per la prevenzione e il superamento dei conflitti tra le etnie e dentro le etnie.

Nell'orizzonte di una cooperazione per la riconciliazione è necessario scegliere i progetti di cooperazione, perché non è più possibile una qualsiasi cooperazione ma quella che prevenga i conflitti e li porti a un suo superamento. Il problema non è solo la grandezza di un progetto ma il suo valore aggiunto sul piano politico, il suo peso specifico in ordine all'ispirazione, la sua capacità di coinvolgere società e istituzioni.

LA SFIDA DEL PERDONO E DELLA RICONCILIAZIONE

Il perdono è una grande parola pubblica e politica. Essa si fonda sulla verità, cioè sul pieno riconoscimento delle responsabilità di ciascuno, di ciascun gruppo, di ciascun popolo verso il dolore dell'altro che è accanto a noi, dentro e fuori la comunità a cui apparteniamo. Questo riconoscimento di responsabilità, fatto in modo trasparente, crea le condizioni per il superamento dell'ingiustizia subita, permette di superare la cultura della paura e della diffidenza che anima sempre qualunque conflitto , crea le condizioni per una conversione profonda della politica, che ha generato e alimentato la violenza.

LA GUERRA VISIBILE E QUELLA INVISIBILE

A una lettura superficiale si potrebbe dire che tra la povertà di interi continenti e la guerra non c'è nessun rapporto diretto e significativo. Sembra che la guerra abbia precise responsabilità dirette da parte di governi e gruppi che la promuovono, mentre la povertà risale a cause di medio-lungo periodo non facilmente identificabili se non in termini generico ideologici. In realtà la situazione attuale è molto diversa. Ogni giorno muoiono ventimila persone a causa della povertà e delle malattie a essa connesse. Sette volte le vittime delle due torri. In un anno muoiono circa sei milioni di persone per lo stesso motivo. Nel 2004 sono stati investiti nel commercio delle armi 1.044 milioni di dollari, con un aumento del 20% in quattro anni. Nell'ultimo G8 dell'anno scorso è stato deciso di investire cinquanta miliardi in cinque anni per combattere le pandemie in Africa, dieci miliardi l'anno. Una cifra importante ma non commensurabile rispetto a quella impegnata nel commercio delle armi.

Queste cifre mostrano che tra la guerra visibile della guerra e la guerra invisibile della povertà certamente non c'è un rapporto automatico, ma un qualche rapporto c'è, nel momento in cui si investono enormi capitali nel mercato delle armi e si danno cifre poco più che simboliche per combattere la povertà. O per meglio dire si promettono cifre poco più che simboliche. Come sempre è accaduto, solamente una parte dei fondi promessi arriva concretamente a destinazione. Se poi si guarda agli impegni dei Paesi rispetto allo 0,70% del Pil stabilito dall'Onu e da tutti accettato, si rimane sgomenti con il nostro Paese all'ultimo posto della graduatoria con lo 0,11- 0,12%. Non si tratta solamente di violare gli standard Onu o di non rispettare delle statistiche: si tratta di percorrere la linea di una politica che uccide perché lascia andare alla deriva intere generazioni di Paesi e di continenti.

VITTIME E CARNEFICIL'esempio del Sudafrica mostra che l'esperienza della Commissione verità e riconciliazione ha innestato un percorso virtuoso, che ha evitato al Paese la guerra civile e il collasso sociale e ha promosso un nuovo tipo di convivenza. Il Sudafrica è diventato punto di riferimento dei Paesi attraversati da conflitti in tutta l'Africa. Un gruppo di intellettuali israeliani ha posto la medesima questione al governo israeliano, chiedendo un pieno e unilaterale riconoscimento delle sue responsabilità nel dolore e nella sofferenza del popolo palestinese. Questo aprirebbe spazi inediti e originali al processo di pace, perché sarebbe un contributo irrinunciabile al superamento della cultura della negazione dell'altro e della sua dignità.Il perdono rinvia sempre alle vittime, che hanno bisogno di perdonare, e ai carnefici, che hanno bisogno di essere perdonati. Questo tipo di giustizia riconciliativa cambia i rapporti all'interno dei popoli e tra i popoli e avvia processi di ricomposizione sociale e culturale del tutto imprevedibili. Quando la politica è violenta non basta il cambiamento della politica, è necessaria la conversione della politica. Cambiare politica non significa cambiare solamente i contenuti di superficie, ma lo stesso modo di pensare e di agire politicamente. La conversione della politica tocca il profondo delle scelte, gli abiti culturali attraverso cui leggere la realtà.Quando si dice che l'Europa investe di più su una mucca francese che su un bambino del Burkina Faso, si denuncia una grave stortura e si domanda un cambiamento, affermando innanzi tutto la violenza di una politica che uccide. Ma mettere al centro il bambino del Burkina significa rovesciare la politica, investire su uno sviluppo che abbia la misura del futuro di quel bambino, su una sanità che ne garantisca la vita contro tutte le pandemie, su istituzioni che producano una politica che metta al primo posto i suoi diritti al cibo, alla scuola, alla salute e alla pace, altrimenti non c'è futuro per lui. Questa è la conversione della politica e la politica come conversione da un passato che ha privilegiato gli interessi economici europei rispetto alla vita delle persone africane, in primo luogo i bambini. Questo crea le premesse per la riconciliazione tra gli Stati, tra i popoli e tra i continenti. È la vera alternativa alla guerra e al suo tempo. È possibile su queste basi costruire un nuovo partenariato euroafricano. La cooperazione è lo strumento di questa grande politica, che accetta la sfida del perdono per costruire riconciliazione. (da Missione oggi)

Mercoledì, 20 Febbraio 2008 00:04

Guerra e mutamento (Rosalinda Gaudiano)

Guerra e mutamento

di Rosalinda Gaudiano


Il conflitto è un elemento costitutivo della dinamica sociale.

Quando esso costituisce operazione di scambio e di negoziazione e s'impone in positivo nei rapporti fra le persone e i gruppi, i mutamenti che ne derivano non sono causati da comportamenti violenti e sanguinari.

Il conflitto che invece da spazio a forme di violenza incontrollate, che sfociano in veri e propri atti di guerra o rappresaglia, è da attribuire ad un sentimento di deumanizzazione nei confronti dell'altro.

L'atto violento, sanguinario avviene, da parte di chi lo compie, in riferimento ad uno schema mentale che definisce la propria identità estendendo i fattori biologici fino a confonderli con quelli culturali [1]. Non vi è spazio per considerazioni d'appartenenza, non solo alla stessa cultura, ma anche alla stessa specie.

Processi umani caratterizzati da momenti di forte aggressività sanguinaria, non sono affatto frutto di tendenze naturali dell'uomo [2], essi scaturiscono solo da tendenze culturali che considerano la guerra l'unica soluzione a qualsiasi tipo di controversie.

Usare la guerra come strumento di "regolazione" di rapporti di potere è un'abitudine istituzionalizzata da parte di quegli Stati il cui popolo affonda le proprie radici in modelli culturali che giudicano l'aggressività bellica come forma di egemonia, supremazia verso chi si considera inferiore, non appartenente cioè alla stessa specie.

Purtroppo oggi assistiamo sempre più alla nascita di nuovi conflitti bellici che affliggono più parti del globo.

Ma ciò che è veramente preoccupante è l'autorizzazione alla violenza da parte di un organismo come l'O.N.U. nato per compiere ed agevolare azioni di Pace.

All'interno dello statuto dell'O.N.U., cap. 7, articolo 51, è menzionata la seguente dichiarazione: "Nessuna disposizione del presente statuto pregiudica il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un membro delle Nazioni Unite, fintantoché il Consiglio di sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la Pace e la sicurezza internazionale. Le misure prese da membri nell'esercizio di questo diritto di autotutela sono immediatamente portate a conoscenza del Consiglio di Sicurezza e non pregiudicano in alcun modo il potere e il compito spettanti, secondo il presente Statuto, al Consiglio di Sicurezza, di intraprendere in qualsiasi momento quella azione che esso ritenga necessaria per mantenere e ristabilire la Pace e la sicurezza internazionale".

L'aggressione da parte degli U.S.A. alla periferia di Khartoum, dove è stata colpita e distrutta una fabbrica farmaceutica sospettata di produrre armi chimiche, è l'esempio di come uno Stato-Nazione usi la "violenza" in risposta ad un'eventuale violenza subita.

Forse nei prossimi giorni assisteremo ad un raid punitivo da parte delle forze Nato nel Kosovo.

Nonostante la Russia e la Cina abbiano obiettato all'ONU sull'uso della forza per risolvere la crisi nel Kosovo, gli Stati Uniti ribadiscono che l'intervento armato è previsto per metà ottobre. Il progettato attacco USA, conseguenza del rapporto di Annan che condanna le atrocità di Milosevic, le uccisioni a capriccio e tutti i possibili eccessi delle forze di sicurezza serba, servirebbe a scongiurare una gravissima catastrofe umanitaria.

Mi domando: possibile che l'O.N.U., organismo nato per garantire e costruire la Pace, legittimi interventi con la forza? In ogni conflitto le azioni più importanti non sono, forse, bloccare qualsiasi spargimento di sangue per comprendere le ragioni vere del conflitto siano esse di natura economica, di religione, o etniche?

Personalmente penso che la violenza, come azione umana, si è sempre dimostrata un fallimento. Tutti coloro che costituiscono forze di Pace devono convenire che ogni azione violenta genera momenti di disordine non governabile, dove il problema diventa proprio quella violenza che avrebbe dovuto esserne la soluzione.

Pace, da significato negativo che comunemente ha nell'accezione culturale: assenza di guerra, acquista significato positivo quando facciamo riferimento ad una politica costitutiva di modelli culturali riferiti a quei valori esclusivi al servizio dell'umanità [3].

Chi sostiene che politica e guerra fanno parte dello stesso continuum, commette un grande errore. E se questo modo di governare non sarà "rivisto", il nostro futuro come quello degli abitanti dell'isola di Pasqua [4], potrebbe appartenere agli uomini con le mani sporche di sangue [5].


Note

[1] Fabietti, Remotti, Dizionario di Antropologia Culturale, Zanichelli.

[2] Fromm E., Anatomia della distruttività umana, Mondadori.

[3] Altan, Manuale di Antropologia culturale, Bompiani.

[4] Gli abitanti dell'isola di Pasqua, isolati nello spazio e nel tempo, se fossero stati capaci di articolare l'idea, avrebbero dovuto pensare che il mutamento delle circostanze esigeva una rivoluzione culturale.
La guerra non portò alcuna utilità alla gente di quell'isola della Polinesia. Quando in quel posto del Pacifico si adottò quel tipo di politica che predilesse soluzioni distruttive e incontrollabili, si rivelò essere la fine prima della politica, poi della cultura, ed infine della vita stessa. J. Keegan, La grande Storia della Guerra, Mondadori.

[5] Keegan J., La grande storia della Guerra, Mondadori.

Pubblicazioni Centro Studi per la Pace
Sito Internet - www.studiperlapace.it
Martedì, 19 Febbraio 2008 23:46

La vera Torah

La vera Torah




Rabbi Shimon insegna: Guai all’uomo che pretende affermare che la Torah è venuta a donarci soltanto delle cronache e delle parole destinate al popolo. Se fosse così, infatti, anche nel nostro tempo, saremmo in grado di fabbricare una Torah con parole di questo tipo. Saremmo persino capaci di farne di più valide. Se si trattasse di puri racconti, anche nelle cronache che vanno in giro, vi sono termini più scelti…

Quando la Torah è discesa in questo mondo, questo mondo non sarebbe stato capace di sopportarla se non si fosse rivestita degli abiti di questo mondo. Perciò il racconto della Torah è il suo vestito. Chi pensa che il vestito è davvero la Torah e non un’altra cosa, il suo spirito sia scacciato via e non abbia parte nel mondo futuro. Per questo Davide esclamava: “Apri i miei occhi e io contempli le meraviglie della Torah” (Ps 119,18), cioè quel che sta sotto al vestito.

Vieni e vedi: c’è un vestito che è manifesto per tutti, e gli sciocchi, quando vedono un uomo con un abito che sembra loro bello, non riflettono più di tanto. Ma il valore del vestito sta nel corpo e il valore del corpo sta in quello dell’anima.

Zohar II, 152 a

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Lo Zohar.

L’opera maggiore della Cabbala, considerata come il terzo pilastro del giudaismo dopo la Bibbia e il Talmud, il Sefer ha-Zohar, o Libro dello Splendore, cominciò a circolare in Castiglia nel 1293. Presentato sotto la forma di una discussione fra Shimon bar Yohai, un rabbino del II secolo che ne sarebbe l’autore, e i suoi discepoli, lo Zohar fu in seguito attribuito a Mosheh de León (1240-1305)

(da Le monde des religions 18, p.63)
Congar e la chiesa itinerante

di Giovanni Tangorra

C’è il rischio che la chiesa si ripieghi su se stessa soffermandosi nella contemplazione del suo mistero anziché protendersi verso gli altri. Occorre riscoprire il soggetto e farlo entrare nella chiesa, personalizzando la fede. Altro rischio da evitare è il fariseismo. Perché le situazioni sfavorevoli sono maggiormente vantaggiose per la chiesa.

(...)

Una chiesa di uomini

Dopo gli anni dedicati ad analizzare l'identità della chiesa, Congar sente l'esigenza di esaminare il contatto fra questa identità e le principali realtà che costituiscono la dimensione dell'uomo: la persona, il tempo, il mondo. Lo stesso termine «itinerario» fa uscire da una prospettiva in cui la chiesa rischia di ripiegarsi su se stessa, soffermandosi nella contemplazione del suo mistero e afferma che è invece necessario che si riscopra protesa verso gli altri. In poche parole, occorre abbandonare la tentazione del narcisismo ecclesiale perché c'è una strada da percorrere, uomini da incontrare, un tempo da subire e un mondo da abbracciare.

Questo è il segno autentico che esigono i tempi, così come l’autore francese afferma in questa citazione: «Il riconoscimento della situazione reale vuole che la chiesa non esista solamente in se stessa, ma in un certo modo al di fuori di se stessa, al di là dei suoi quadri sacrali, nelle strutture stesse del mondo». (1)

Il passaggio da operare è quindi quello da una chiesa statica a una dinamica, da una chiesa introversa, ferma nella difesa del suo apparato a un'altra che decide di impegnare se stessa lungo l’itinerario degli uomini.

Mentre fino alla rivoluzione francese la società viveva ovattata in uno schema istituzionale che concedeva ben poco alla persona e dove l'autorità pensava a tutto, successivamente c’è stata un'autentica presa di coscienza da parte del soggetto che ha riscoperto il suo spazio personale. Si è così entrati in uno schema che privilegia la dignità dell'uomo a partire dall'uomo stesso, quindi con la sua capacità di essere vero responsabile degli atti che costruiscono la sua esistenza e non strumento o preteso fine di preconcette ideologie.

Di fronte a questo movimento la chiesa ha assunto diverse posizioni che vanno dalla condanna esplicita all'attesa di tempi migliori. Secondo Congar non è possibile mettersi a guardare, occorre accogliere queste nuove idee che devono addirittura diventare motivo di riespressione del cristianesimo. La soluzione proposta non è quindi quella della condanna o della chiusura in se stessi rinforzando le proprie difese, ma quella dell'accettazione.

Nasce proprio qui l’intima esigenza riformista dell’autore, dalla considerazione, cioè, di un mondo diventato adulto che egli caratterizza in questi termini: «passaggio da un mondo oggettivo, a un mondo soggettivo, da un mondo dell’ordine, della gerarchia e della tradizione ad un mondo della coscienza personale». (2)

Il tema, che occupa molte pagine delle opere congariane, si riduce a una sola conclusione: occorre riscoprire il soggetto e farlo entrare nella chiesa. È come un leit-motif di tipo programmatico: nel messaggio cristiano sono importanti le persone e dunque la chiesa è una realtà che deve essere fatta dagli uomini, negli uomini per cui non bisogna schermirsi di fronte al principio personale, perché «sempre la fede personalizza». (3)

Questa personalizzazione va operata a due livelli: nella fede e nella considerazione della chiesa stessa.

Personalizzare la fede

Il primo passo e quello di una coerente autocritica, che deve portare a una revisione dello stesso concetto di «chiesa».

Troppo spesso questo è stato inteso più nel senso dell'apparato che in quello degli uomini. «Abbiamo elaborato - scrive Congar - una teologia. e talvolta pure praticato una pastorale. del sacramentum, dei mezzi di grazia quali esistono in se stessi allo stato di istituzioni, di istanze amministrative, di formule. di riti: li abbiamo messi troppo poco in relazione con un soggetto religioso di cui possono essere e sono effettivamente la cosa (res) e soprattutto con un soggetto religioso collettivo, con una comunità». (4)

L'autocritica riceve nuovi argomenti dalla considerazione del reale. Riferendosi ad alcune indagini, Congar mette in evidenza, in un suo studio, che se un protestante e un cattolico abbandonano entrambi la pratica religiosa, l'abbandono si fa più radicale nel cattolico e questo perché, mentre il cattolicesimo pratica una fede ancorata all'istituzione, il protestante, per l'assenza di strutture, è obbligato a fare atti religiosi personali e quindi ha una maggior possibilità di restare in una dimensione di fede, nonostante l'eventuale abbandono della pratica. Il cattolico, invece, abbandonata la struttura, sembra che abbandoni anche ogni movimento interiore.

rimedio non è quindi quello di rafforzare la dimensione istituzionale della fede, ma quello di sottoporla a un’attenta verifica, soprattutto nelle sue conseguenze più negative, come l'oggettivismo, il legalismo e il giuridismo. Tutte si riducono a una matrice comune: confusione dei mezzi col fine e materializzazione del rapporto religioso. L'oggettivismo infatti scambia la grazia coi suoi strumenti, il legalismo sostituisce l’amore con la legge e il giuridismo confonde la validità canonica con la dimensione di Dio. che Dio, in quanto soggetto primo, crea soggetti, rispettati nella loro coscienza e libertà.

La sua volontà di dialogo con la cultura contemporanea porta quindi Congar a condividere l'odierno disagio istituzionale e, soprattutto per ciò che riguarda il mondo della fede, lo giudica positivamente, sostenendo che il futuro della chiesa dipende proprio dall'accoglienza o meno di questo principio, ossia da «una personalizzazione molto più grande delle convinzioni e dei comportamenti». (5)

Personalizzare la chiesa

Tre concetti congariani aiutano a comprendere questo tema e a chiarire meglio le idee finora esposte. Essi sono legati ad altrettanti termini specifici, che approfondirò singolarmente: qualcuno / interiore /reale.

1. Il primo si oppone a «qualcosa», un termine che in Congar esprime il rischio di una cosificazione della grazia, con un'accentuazione esagerata del «mezzo» e delle regole per attuarlo. L'autore si serve della dialettica qualcosa/qualcuno per indicare che tutto ciò che ha a che fare con la vita della chiesa non è solo gesto di «qualcosa», ma è atto di «qualcuno», sentito e ricercato in modo personale, con sincerità e autenticità. Si tratta di operare un passaggio dalla cosa in sé, alla cosa in qualcuno, dal primato delle cose a quello delle persone.

Molte sono le applicazioni di questo principio, non solo al livello di ritualismo religioso, ma anche nelle discussioni dottrinali dove si è spesso più preoccupati dell’esattezza dell’enunciato che del suo contenuto di verità.

2. «Interiore»per Congar è un termine che esprime l'indole del progetto divino. Questo si sviluppa attraverso un movimento di interiorizzazione per cui procede dall’esteriorità delle figure e dei riferimenti all’interiorità del cuore umano. È la dinamica della presenza divina che dalle pietre delle stele e dei templi, dalle tavole della legge, avanza per interiorità fino a diventare una presenza dello Spirito all’interno del cuore stesso del discepolo. (6) Il cammino non si fermerà che in cielo, sinonimo di interiorità assoluta. (7)

Se questo progetto prosegue dalle forme verso il cuore, dalle pietre verso l’interiorità, non bisogna allora avere paura del principio personale, ma favorirlo in tutti i modi.

3. «Reale» sta invece per vero e nel nostro caso indica una cosa che è vera perché diventata atto soggettivato. Sotto questo aspetto un rapporto religioso si dice «reale» nella misura in cui è gesto che parte da un soggetto. Congar si spiega ricorrendo al concetto scolastico della res. Per gli scolastici la res è ciò che di fronte al sacramentum (il mezzo) e alla res et sacramentum (l’effetto), costituisce il sacrificio spirituale dell’uomo e quindi produce l’effetto di grazia. (8) Unendo queste tre dimensioni si deve allora sostenere che il sacramento non è completo finché non raggiunge un grado di interiorità, finché, in sostanza, non è il gesto di «qualcuno».

Non sono però solo gli atti a beneficiare della visione personalista introdotta all’interno della fede. È il mistero della chiesa che deve diventare «reale» nel soggetto umano. «La chiesa stessa che è come un grande sacramento – scrive l’autore – deve avere il suo compimento e la sua verità nell’uomo stesso. Essere reale, potremmo dire, è affermare la sua realtà, raggiungere la sua verità». (9) Dunque la chiesa non è reale o vera finché non raggiunge la sua res nel cuore dell’uomo, finché non diventa vita stessa della persona. La chiesa deve essere gesto di qualcuno e non qualcosa; deve vivere nell’uomo e non nelle cose, siano esse riti, verità, leggi, gerarchie.

La denuncia implicita è quindi contro una specie di materialismo ecclesiologico: la chiesa raggiunge la sua integrità non solo nell'applicazione oggettiva dei suoi contenuti e delle sue regole, bensì diventando contemporaneamente una realtà generata nelle coscienze, nei cuori dagli uomini, rinnovandosi come atto esistenzializzato.

Da queste poche note si comprende come Congar abbia quasi preparato, con molto anticipo, le problematiche principali che hanno coinvolto la chiesa europea degli anni settanta-ottanta, a noi note col titolo di Evangelizzazione e sacramenti, nonché un tema ecclesiologico di grande attualità, strettamente collegato allo dimensione antropologica: quello della chiesa come «noi».

Il fatto che questi argomenti fanno parte del passato non vuol dire che sono superati, anzi credo che oggi stiano ridiventando di profonda attualità, in un periodo in cui il cosiddetto ritorno religioso rischia di confondersi con un tentativo di restaurazione, e quindi con un'isolata conferma dell'elemento istituzionale, oppure con una sorta di atteggiamenti magico-sacrali che al fondo costituiscono proprio il massimo livello dell'umiliazione della persona.

La tentazione ecclesiale

Per Congar intraprendere un cammino contrario rispetto a quanto esposto finora equivale a cadere nella prima delle due grandi tentazioni ecclesiali: quella del fariseismo. (10)

Questo coincide con la tentazione di sostituire il fine ai mezzi lasciando prevalere la forma sullo spirito. I farisei. almeno quelli dei vangeli, avevano per fine la legge e non l'uomo, piegando la sua dignità al dettato scritto. La chiesa cade in questa tentazione tutte le volte che lascia prevalere l'elemento istituzionale-organizzativo su quella personale-spontaneo, tutte le volte che la struttura soffoca i carismi e l'unità elimina la diversità. «Il pericolo insomma – scrive il teologo francese – è che ciò che è principio e fine non venga ricoperto, offuscato e alla fine rimpiazzato da ciò che doveva restare mezzo». (15) L'orientamento farisaico umilia l'uomo in quanto misura la sua fede non tanto dalla sincerità dei gesti, quanto dall'aderenza delle cose. Il rapporto religioso perde così la sua purezza e il volto di Dio diventa estraneo e irraggiungibile perché gli viene sostituita un’idea e un’immagine di tipo autoritario. Il vangelo autentico è invece grande antagonista del fariseismo, basta pensare al ricorrente e lapidario principio del «sabato per l’uomo e non l’uomo per il sabato» (Mc 2,27).

Congar non è il tipo di contrasti e quindi non li crea lì dove per principio non esistono. Così la dialettica spirito/forma non è vista come un conflitto ineluttabile, per cui la strada più giusta da seguire deve essere la complementarietà dei principi.

Tuttavia, se si deve scegliere, Congar non ha dubbi, al punto che egli augura alla chiesa di trovarsi sempre in una situazione sfavorevole anziché di successo rispetto alle istituzioni civili, perché le considerazioni ufficiali favoriscono la chiusura, l’arroccamento, il conformismo, e il cristianesimo diventa un dato biografico, più che una scelta. (12)

Il messaggio conclusivo è molto semplice: gli uomini non si utilizzano, si servono. La chiesa non deve allora scambiarsi per un partito che cerca consensi, ma si ritroverà ogni volta che si perderà.

Note

1) «Structures essentielles pour l’Eglise de demain», in Concilium, suppl.to 60/1970, p. 153 (tr. it. «Strutture essenziali per la chiesa di domani», in Il Regno, ott. 1970, pp. 517-519.

2) Vraie e fausse Réforme dans l’Eglise, Cerf, Paris 19692, p. 36 ; cf. soprattutto le pp. 49-52 : «Religion et institution», in Théologie d’aujourd’hui et de demain, Cerf, Paris 1967, pp. 81-97 ; «Renouvellement de l’Esprit et réforme de l’institution», in Concilium, 73 (1972), pp. 37-45.

3) Questo motivo percorre tutte le pagine del libro sulla Riforma, ancora oggi uno dei saggi più discussi di Congar, quello che gli valse addirittura l’accusa di sospetto modernismo, cf. Vraie e fausse Réforme dans l’Eglise, o. c. pp. 127-131; anche Sainte Eglise, Cerf, Paris 1963, pp. 43-68, 89-97.

4) Jalons pour une théologie du laicat, Cerf, Paris 1953, p. 81.

5) «L’Avenir de l’Eglise», in L’Avenir, atti della settimana degli intellettuali cattolici, Cerf, Paris 1964, p. 212.

6) Su questo tempo soprattutto Le mystère du temple (tr. it. Il mistero del tempio, Borla, Torino 1963).

7) Cf. «Le ciel, buisson ardent du monde», in Vie spirituelle, 618 (gennaio 1976), pp. 69-79.

8) Cf. «Pour une liturgie et une prédication réelle» in La maison Dieu, 16 (1948), pp. 75-87 ; ripreso in Sacerdoce et Laïcat devant leur tâches d’évangélisation et de civilisation, Cerf, Paris 1962, pp. 161-173.

9) Ivi, p. 165.

10) Cf. Vraie e fausse Réforme dans l’Eglise, o. c. pp. 143-157.

11) Ivi, p. 145.

12) Sempre attento alle parole, in un altro studio Congar propone un’interessante verifica dell’azione pastorale e alle missioni, applicando queste idee alla distinzione fra discepolato e proselitismo. La prima è un’azione motivata dal bene dell’uomo visto come soggetto, il proselitismo è, invece un rivolgersi agli uomini come strumenti per il trionfo della propria organizzazione: cf. «Réflexions sur prosélytisme et évangélisation» in Rythme du Mond, 2 (1946), pp. 58-68, ripreso in Sacerdoce et Laïcat devant leur tâches d’évangélisation et de civilisation o. c. pp. 51-64.

Spazio sacro. Tempo mistico. L'arte e l'architettura come ponti fra origine e destino per dire l'«oltre».

Martedì, 19 Febbraio 2008 01:15

Per entrare nel mondo biblico

Per entrare nel mondo biblico



I volumi proposti ubbidiscono ad una duplice attenzione: offrire semplici strumenti di lavoro che aiutino il lettore ad entrare correttamente ed attivamente nel mondo biblico; proporre, quindi, qualche esemplificazione di come si legge un testo biblico. La complessità degli studi biblici e la necessità di strumenti concretamente fruibili, personalmente e comunitariamente, orientano la nostra scelta su testi che, un lettore medio, può utilmente utilizzare per sé e a vantaggio di altri.

STEPHEN TRAVIS, Primi approcci all’Antico Testamento(Coll. Piccole Guide Elle Di Ci/Seconda serie), Elle Di Ci, Leumann (To) 1995, pp. 64.

Il volume è un ideale punto di partenza per chi voglia iniziare un primo viaggio nel mondo dell’ Antico Testamento. Dall’iniziale domanda (Cosa possiamo trovare nell’Antico Testamento?), l’Autore propone un breve ma stimolante itinerario: come orientarsi, la storia di Dio e del suo popolo, le fondamenta, Dio nella storia, il portavoce di Dio, poesia e sapienza, l’Antico Testamento alla prova, come leggere l’Antico Testamento. Il volume è destinato a chiunque voglia disporre di una guida facile, puntuale e aggiornata, alle narrazioni, ai personaggi e alla storia veterotestamentaria.

STEPHEN TRAVIS, Primi approcci al Nuovo Testamento(Coll. Piccole Guide Elle Di Ci/Seconda serie), Elle Di Ci, Leumann (To) 1995, pp. 64.

Con la stessa prospettiva e metodologia del precedente volume, l’Autore propone al lettore di iniziare il suo viaggio all’interno del Nuovo Testamento a partire dal vangelo di Luca. Si sofferma quindi sulla questione sinottica, sugli Atti degli Apostoli, sulle lettere di Paolo, sul libro dell'Apocalisse. Due brevi capitoletti sottolineano l'attualità del messaggio del Nuovo Testamento. Valido strumento per chi vuole iniziare una prima lettura del Nuovo Testamento.

Gérard Rossé, Come leggere i vangeli. È storia vera?, Città Nuova, Roma 1995,. pp. 64.

Spesso – afferma l’Autore – sottolineiamo talmente la dimensione attualizzante dei testi dei vangeli da dimenticare la necessità di una comprensione più «scientifica» del vangelo, indispensabile per acquistare una giusta intelligenza delle parole di Gesù, del senso del suo messaggio e del suo comportamento originali. Alla luce di questa fondamentale attenzione, l’Autore, dopo aver delineato brevemente chi sono i quattro evangelisti, offre alcune preziose chiavi di accesso ai vangeli.

Innanzitutto, si sofferma sul modo di narrare degli evangelisti; quindi, richiama l’attenzione sulla necessità di avere presente il contesto di ogni brano; poi, si sofferma sulle tre tappe che hanno condotto alla formazione dei vangeli e sugli elementi che sono entrati in gioco; si sofferma ancora sul rapporto testi-storia nelle narrazioni evangeliche; offre, infine, una pista di lettura del vangelo di Giovanni. Uno strumento di lavoro utilissimo personalmente e per lavorare in gruppo.

AA.Vv., Leggere la Bibbia con i ragazzi. Nella scuola di religione e nella catechesi, Elle Di Ci, Leumann (To) 1995, pp. 342.

È una originale introduzione alla Bibbia. Nel volume, infatti, noi troviamo: notizie riguardanti l’autore; annotazioni rapide e precise che spiegano il significato del titolo e del contenuto; un breve schema e una lista di personaggi principali che aiutano a vedere, in sintesi, il contenuto dei singoli libri; tavole cronologiche che indicano la sequenza degli avvenimenti unitamente a cartine e mappe che lo collocano nel loro contesto geografico; agili «riassunti» di ogni libro biblico che hanno la funzione di evidenziare la collocazione delle varie sezioni che lo compongono; richiami alle scoperte archeologiche che aiutano a comprendere usanze e tradizioni ai tempi biblici; numerose e utilissime illustrazioni che «visualizzano» gli eventi storici e danno vivacità ad ogni pagina; un abbondante ed esauriente «vocabolarietto» che aiuta a comprendere parole un po' desuete, concetti religiosi non sempre facili, usi e costumi che sono lontani dalla cultura e dalla tradizione di oggi.

Utile tanto sul versante catechistico quanto su quello scolastico. Una vera miniera di informazioni e possibilità di lavoro.

Vincenzo Giorgio – Rinaldo PaGANELLI, Il catechista incontra la Bibbia(Coli. Educatori e catechisti), EDB, Bologna 1995, pp. 288.

«Agli occhi di molti – affermano gli Autori – la Bibbia continua ad essere un mondo lontano, un "libro difficile”. Inoltre, troppo a lungo e troppo sovente, ancor oggi, Bibbia e catechesi sono state e sono separate nella teoria e nella pratica, tendendo a calcare vie diverse quando, invece, dovrebbero percorrere un medesimo tragitto».

Per questo gli Autori descrivono nei diversi capitoli, il rapporto tra Bibbia e catechesi, individua linee di teologia biblica e pastorale, propone metodologie adeguate affinché la Bibbia sia sempre fonte di catechesi. Nel volume sono presentate brevi sintesi di ermeneutica, narratologia, esegesi; ad esse sono affiancate proposte di esercizi per entrare nella costruzione del testo e per utilizzarlo adeguatamente nella catechesi.

Conferenza dei Religiosi del Brasile, Leggere la Bibbia: una parola di vita(Coll. «La tua parola è vita», 1), Ed. La Piccola Editrice, Roma 1994, pp. 112.

La collana biblica «La tua parola è vita» si apre con questo primo volume. In esso si percorre il cammino della spiritualità biblica della Tradizione ecclesiale in cui occupa un posto centrale la Lectio Divina. Questa ha avuto la sua origine all’interno dell’esperienza monacale ma può essere oggi riattualizzata e diventare forma di vita di ogni credente.

Il volume affronta, inizialmente, il tema «la lettura della Bibbia sorgente di preghiera» (Considerazioni generali sulla Lectio Divina; I quattro gradi della Lectio Divina; Come fare la Lectio Divina? Il metodo). Poi, delinea tracce e sussidi per i gruppi biblici. Quindi propone cinque itinerari esemplificativi fondati sulla tematica dell’Esodo riletta in diversi testi biblici. Vengono proposte, complessivamente, cinque tracce di lavoro veramente significative. L’ Appendice monografica («La visione globale della Bibbia: rileggere il passato alla luce del presente») offre un prezioso contributo per una visione globale della Bibbia in cui i vari avvenimenti ricevono una corretta spiegazione ed un’adeguata interpretazione.

Conferenza dei Religiosi del Brasile, La formazione del popolo di Dio(Coll. «La tua parola è vita», 2), Ed. La Piccola Editrice, Roma 1995, pp. 192.

Questo secondo volume si colloca nella stessa prospettiva del precedente e insiste su di una prospettiva: quella comunitaria. Esso propone, pertanto, un itinerario che guida il popolo a diventare popolo di Dio. Con questa attenzione di fondo, sono accostati il libro del Genesi, dell'Esodo, del Deuteronomio, di Giosuè, dei Giudici. Ogni capitolo premette una breve introduzione, la storia della formazione del libro, alcune chiavi di lettura. Un’Appendice, infine, offre un significativo itinerario per comprendere e vivere correttamente il rapporto tra Bibbia e formazione cristiana.

Nel suo insieme, il volume offre al lettore sedici tracce di lavoro per entrare nel mondo di questi libri biblici e da essi lasciarsi interpellare. Una lettura che – attraverso la comprensione dei testi – si apre alla preghiera per una rinnovata comprensione dell’oggi.

Conferenza dei Religiosi del Brasile, La lettura profetica della storia(Coll. «La tua parola è vita», 3), Ed. La Piccola Editrice, Roma 1995, pp. 246.

Il terzo volume affronta una tappa ulteriore: la testimonianza profetica. Dopo una breve introduzione sui libri profetici, sull’identità dei profeti e la loro funzione nel popolo di Dio, il volume propone cinque blocchi di lavoro. Nel primo blocco (La profezia nei libri storici. Da Samuele a Elia) sono offerte sei proposte di lavoro; nel secondo (da Elia all’ Esilio), cinque proposte di itinerari; nel terzo (I profeti durante l’Esilio) il lettore dispone di altre cinque tracce di lavoro per comprendere tematiche e figure di profeti; nel quarto (La profezia dopo l’Esilio) abbiamo tre tracce di lavoro sul terzo Isaia, su Aggeo, su Zaccaria e Gioele.

Nell’ultimo blocco (la profezia alle soglie del Nuovo Testamento) quattro tracce: il profeta Daniele, la profetessa Anna, il profeta Giovanni Battista, il profeta Gesù. Due allegati («Storiografia degli ultimi secoli dell'Antico Testamento» e «Linea del tempo») concludono il volume. I tre volumi, apparsi finora in lingua italiana, sono una affascinante iniziazione alla Bibbia sullo schema della Lectio Divina. Sono, anche, un pressante invito al singolo credente a riscoprire una categoria spesso tanto proclamata quanto poco attuata: quella di «popolo di Dio».

Franco Mosconi, «Oggi si è adempiuta questa scrittura»(Coll. Quaderni di Camaldoli, 4), EDB, Bologna 1995, pp. 152.

I testi proposti nel volume sono esempi di lettura sapienziale e attualizzante dei Vangeli e non solo dei Vangeli. Sono una vera Lectio Divina, un meditare davanti a Dio, una meditazione fatta con familiarità orante, nella profonda convinzione che per la Bibbia il credente è propriamente l'uomo che si apre all'ascolto, che accoglie la Parola di Dio e risponde. Ascolto, comprensione, interiorizzazione, risposta-preghiera: questo l’itinerario seguito. Il volume propone un’educazione all’ascolto del testo; un ascolto che richiede pazienza e perseveranza: dare spazio e tempo alla Parola di Dio, lasciandola vivere e lavorare dentro di noi.

In questa prospettiva, l'Autore si sofferma su: la trilogia lucana (battesimo, genealogia, tentazione di Gesù); Gesù compimento delle profezie (Lc 4,14-30), «Costituì Dodici» (Mc 3,.13-19); Tu sei il Cristo (Mt 16,13-28); Il mistero di Maria (Gu 2,1-12: 19,25-27); I di-scepoli di Emmaus (Lc 24,13-35); L’esperienza cristiana di S. Paolo (At 22,3-16; Fil 3,3-16); Capisaldi della vita cristiana in Paolo (Fil 3,4-14: Cor; Eb; Gai); Il cieco di Gerico (Mc 10,46-52); Le parabole della misericordia (Le 15,1-31).

(da Parole di Vita, 3, 1996)

La terza apparizione di Gesù (Gv 21,1-14)

di Gabriella Grossi

Il racconto si apre con una frase che definisce il contenuto del racconto: si tratta di una manifestazione di Gesù (ephanérosen); si precisa che è successiva ad altre («di nuovo»), è diretta ai discepoli e avviene sul mare di Tiberiade. Ci accorgiamo, però, che già dalle prime battute il racconto suscita molti interrogativi. Si dice che Gesù si manifesta di nuovo, rispetto alle apparizioni narrate nel c. 20? Queste però non sono definite come tali. Si afferma che egli si manifestò dopo queste cose (meta tauta). Quali? È un modo per legare il capitolo a ciò che precede? Si ha l’impressione che, con questo racconto, il narratore voglia riunire i fili importanti che sono stati intercettati lungo il grande racconto del Vangelo.

Nella sua posizione di onnisciente, il narratore non solo racchiude la trama del racconto che segue sotto l’azione del manifestarsi, ma ne dà anche la modalità: «Si manifestò così». Alla fine del racconto viene annotato con più accuratezza che essa è la terza (triton ephaneróthe).

La menzione del lago di Tiberiade richiama al lettore la moltiplicazione dei pani e all’approssimarsi della festa di Pasqua (6,1-15): un richiamo che viene focalizzato ancora meglio alla fine del racconto (21,13 = 6,11).

La manifestazione riguarda l’incontro di Gesù con i discepoli, la cui modalità viene rivelata per prima dal discepolo amato. È lui infatti che, dopo la pesca, riconosce Gesù come il Signore e lo rivela a Simon Pietro (21,7); pure gli altri arriveranno alla stessa conclusione, anche se non in modo così esplicito (21,12). Essa raggiunge il culmine con i gesti di Gesù che evocano l’eucaristia (21,13). L’occasione di un tale riconoscimento è una pesca fallimentare di un gruppo di discepoli, presentato all’inizio.

Possiamo allora dividere il racconto in due sequenze:

a) presentazione dei protagonisti e azione fallimentare (21,2-3)

b) manifestazione di Gesù risorto fallimentare (21,2-3);

- attraverso la pesca prodigiosa (vv. 4-8)

- attraverso il pasto in comune (vv. 9-13)

Presentazione dei protagonisti e azione fallimentare (21,2-3)

Il primo personaggio che forma il gruppo dei discepoli che si trova insieme è Simon Pietro e ciò è indice del ruolo preminente che giocherà nell’intero racconto (cf. anche la seconda parte, 21,15-23). Dopo il rinnegamento (18,25-27), Pietro era riapparso nella corsa verso il sepolcro, trovato vuoto da Maria di Magdala, insieme al discepolo che Gesù amava (20,1-10), dove, però, si dice solo che arrivò dopo l’altro discepolo e entrò nel sepolcro e vide i teli e il sudario (20,6-7). In realtà il lettore aspetta che si dica qualcosa di lui, visto il ruolo che assumerà nella Chiesa, com’è attestato da tutti i racconti del Nuovo Testamento.

Accanto a lui sono indicati Tommaso il Gemello e Natanaele di Cana di Galilea. Sembra che il narratore, con la menzione di questi due discepoli, voglia raccordarsi all’inizio del vangelo, ma anche alla fine. Tommaso, infatti, è il protagonista del racconto dell’apparizione nel Cenacolo otto giorni dopo la risurrezione, dove egli confessa Gesù risorto come suo Signore e suo Dio (cf. 20,28). È una professione di fede che, per sua densità, è da porre sullo stesso piano del prologo dove il narratore ci fa contemplare il Verbo fatto carne, come colui che era rivolto verso il Padre, che era Dio lui stesso (1,1), ma essa richiama anche la confessione di fede di Natanaele: «Rabbi tu sei il figlio di Dio, tu sei il re d’Israele» (1,49).

Di Natanaele si specifica, a differenza della sua prima comparsa nel Vangelo (1,45-51), il suo paese d’origine, Cana. Ora il lettore sa che proprio in questa cittadina egli dà inizio ai segni e manifesta (phaneróo) LA SUA GLORIA (2,11). A Cana, con il cambiamento dell’acqua in vino, Gesù anticipa la sua ora (cf. 2,4), cioè la rivelazione piena del mistero della sua persona di Messia e Figlio di Dio che si compirà con l’innalzamento del Figlio dell’uomo, ossia con la sua morte, risurrezione e dono dello Spirito (19,28-30). Cana è presentata, di nuovo, dal narratore come il luogo dove Gesù fece il secondo segno (4,54), che pose l’accento sul passaggio dalla morte alla vita del figlio del funzionario regio (4,49-50).

Segue l’indicazione di due coppie di altri discepoli: i figli di Zebedeo, menzionati per la prima volta nel Vangelo, e due altri dei discepoli di Gesù. Questi ultimi richiamano ancora la scena iniziale del racconto:

Il giorno dopo Giovanni stava ancora là con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: «Ecco l’Agnello di Dio!» (1,35).

Il numero dei discepoli che si trovano insieme è così di sette. L’essere insieme e il numero che si ricava dalla somma dei discepoli menzionati, ha certamente, per il narratore, un valore simbolico. Si tratta dell’immagine della comunità post-pasquale che vive tra le due venute del figlio dell’uomo (21,22), chiamata di nuovo a confermare la sua vocazione di discepola dietro al suo Signore e Dio.

Il racconto, infatti, più che essere la testimonianza del ritorno dei discepoli al loro mestiere (in questo caso solo di Simon Pietro, e non secondo la testificazione del quarto Vangelo), vuol essere la conferma della loro vocazione. Se la missione del figlio dell’uomo si compie con il suo innalzamento, anche la vocazione dei suoi discepoli trova compimento in questa pagina. La cosa riguarda soprattutto Pietro che verrà confermato dal Risorto dopo lo smarrimento dovuto al peccato.

Inoltre, si può affermare che se Cristo vive, anche la sequela dei suoi continua e, proprio grazie alle loro azioni, il Risorto si renderà predente nella sua Chiesa. In questo il racconto di Giovanni è affine alla finale di Marco (16,1-8) dove risuona l’annuncio dell’angelo alle donne di portare la bella notizia della risurrezione di Gesù ai suoi fratelli e che egli li avrebbe preceduti in Galilea (Mc 16,8). Per il secondo evangelista, dalla Galilea parte la comunità post-pasquale per ripercorrere il cammino di Gesù dell’annuncio del regno, ma ormai con gli occhi illuminati dalla Pasqua.

Simon Pietro si distingue per l’iniziativa che prende: «Vado a pescare». Gli altri lo seguono, ma in quella notte non prendono nulla.

Manifestazione di Gesù, risorto dai morti (21,4-13)

La pesca, mai evocata sinora nel racconto di Giovanni, ha una valenza simbolica. Con essa il narratore vuole alludere all’attività apostolica che ora è consegnata alla comunità: «Vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto» (15,16). Essa esce per andare a lavorare nel campo del mondo (cf. 4,35), simboleggiato dal mare, «realtà cosmica minacciosa». Ma il loro lavoro non dà alcun frutto.

La notte si rivela sterile (cf. 6,16; 13,30), poiché solo la presenza di Gesù-luce permette di compiere le sue opere: quelle di aprire gli occhi ai ciechi, cioè di illuminare gli uomini sul progetto di Dio (cf. 9,6). Senza Gesù la comunità sperimenta la sua impotenza e la sua sterilità, perché senza di lui non può far nulla. (cf. 15,5)

La pesca prodigiosa

Sul far del mattino Gesù sta (éste) sulla riva. È la presenza del Risorto, come quella al Cenacolo (éste) in mezzo ai suoi discepoli (20,19.26). Gesù si rende presente alla sua comunità che sperimenta la notte nella pretesa di andare da sola a compiere l’opera del Padre, ma essi non sanno (ou mentoi édeisan) che è Gesù. È la stessa ignoranza riscontrata in Maria di Magdala che non riconosce il Risorto che le parla (20,14 ouk édei). Anche qui la dinamica è la stessa, giacché c’è un elemento che porterà a riconoscere il Risorto: lì il sentirsi chiamare per nome (20,16), qui il prodigio della pesca.

L’iniziativa è di Gesù, come nel racconto di Maria di Magdala (20,15). Egli si rivolge ai suoi discepoli con un appellativo affettuoso, «figlioli» (paidìa); il rimando alla similitudine della donna che è nella gioia quando ha partorito un bambino (paidìon), è chiaro (cf. 16,21). Essi sono nati dalla risurrezione e non sono lasciati orfani, perché Gesù è tornato a loro (cf. 14,18).

La sua richiesta rimanda a quella fatta alla samaritana («Dammi da bere»: 4,7), ma egli chiede per donare; infatti anche qui sarà lui a offrire l’alimento (21,9.13). Lo chiede per sé? La missione è qualcosa di vitale per la Chiesa e si può paragonare al cibo di cui si nutriva Gesù:

Mio cibo è che io faccio la volontà di colui che mi ha mandato e compia la sua opera (4,34).

La domanda rende consapevole la comunità del suo fallimento e della sua incapacità di unire la sua opera a quella di Gesù (prosphágion = in aggiunta al pane . La loro risposta secca («no!») è il segno della delusione al venire meno del loro programma.

La presenza di Gesù è l’inizio di un cambiamento della situazione. Infatti l’interesse della condizione attuale dei discepoli da parte di Gesù non è per lasciare le cose come stanno, cioè la comunità nella sua delusione e tristezza, ma per imprimervi una svolta radicale (cf. 5,5). Occorre però l’obbedienza da parte dei suoi. L’invito-comando è legato a una promessa. La parola di Gesù si rivela efficace e l’obbedienza ad essa è condizione perché la promessa possa compiersi.

Il frutto apostolico è un segno della sua presenza, ma chi la rivela è il discepolo che Gesù amava. Egli lega l’effetto della parola di Gesù al suo essere (éste) sulla riva e ciò lo porta a confessare: «È il Signore!». La sua confessione dice due cose al lettore: egli fa parte del numero dei discepoli che sono a pesca; egli si rivolge a Pietro per rivelargli il Signore. Nella comunità continua la presenza e la funzione di colui che è il testimone per eccellenza della vicenda di Gesù. È lui, grazie all’esperienza dell’essere amato, che per primo riconosce il Signore e lo comunica a Simon Pietro. Come la parola di Gesù ha prodotto un effetto, così pure la confessione del discepolo prediletto fa reagire Pietro che ascolta la rivelazione. Egli si cinge la sopravveste e si getta in mare. Colui a cui il Signore darà la cura del suo greggio (21,15ss) è prima di tutto quelli che si sottomette alla sua signoria.

Il cingersi la sopravveste (diazónnymi), perché era nudo, potrebbe richiamare il cingersi di Gesù dell’asciugamano, prima di lavare i piedi ai discepoli (13,4). Pietro assume la sua realtà di discepoli, come Gesù aveva assunto la natura di servo (cf. Fil 2,6ss.), e sfida la morte – si getta in mare – per andare incontro a colui che riconosce come suo Signore attraverso la testimonianza del discepolo amato.

Il narratore, però, non segue Simon Pietro fino all’incontro con il Signore, anzi esso sembra volutamente rimandato, ma torna indietro dagli altri discepoli che con il loro gesto di trascinare la rete colma di pesci partecipano all’evento che manifesta il Signore.

Il pasto comune

Appena approdati a terra, il loro sguardo, messo in risalto dal narratore, è attirato dalla brace e dal cibo preparato: pesce posto sul fuoco e pane. Sono altri segni di manifestazione, come quelli dati il mattino di Pasqua, la tomba vuota alla Maddalena e i teli e il sudario ai due che corsero. Pesce sul fuoco e pane rimandato in modo discreto al gesto supremo del suo amore, reso presente nei segni eucaristici. A questo cibo già preparato Gesù chiede che si unisca del pesce appena pescato, simbolo dei discepoli che come Gesù si donano. C’è un intrecciarsi del pesce frutto del lavoro e quello preparato.

Non ha senso mangiare con Gesù se non si contribuisce a prepararlo, ma ciò che si porta non si ha senza di lui.

La richiesta fatta da Gesù trova pronto di nuovo Pietro che sale e trae fino a terra la rete colma di 153 grossi pesci.

Non si specifica dove sale Pietro. Non si può immaginare sulla barca, perché per questo gesto il narratore aveva già usato il verbo em-báino e soprattutto perché, stando su una barca, non si può tirare a riva una rete piena. Qui il verbo ana-báino (andare-su) indica piuttosto il risalire di Pietro dall’acqua. In fondo il lettore lo ha lasciato lì. Il suo rimontare dal mare potrebbe indicare il cambiamento dopo il rinnegamento (è ciò che sarà messo in evidenza nella seconda parte del capitolo). È lui comunque che tira (helkyo) la rete a terra. Anche questa volta non ci viene detto nulla circa il compimento del comando di Gesù; ciò che viene sottolineato invece è il gesto di Pietro che trae la rete a terra, il numero dei pesci pescati, la loro qualità e la situazione della rete, che nonostante la grande quantità di pesci, non si lacerò.

Il numero costituisce ancora un rebus nella spiegazione del testo. Dall’insieme esso potrebbe indicare la quantità e l’universalità della missione della Chiesa; la rete invece è il simbolo della sua unità. La diversità e l’universalità non è a scapito della sua unità che rimane come qualcosa che non dipende dalla diversità; nonostante i pesci siano molti e grandi, la rete non si spezza (eschìsthe). La sua integrità rimanda a quella della tunica inconsutile che non fu spezzata dai soldati (mè schìsomen), ma tirata a sorte (cf. 19,23-24). L’unità della Chiesa non si spezza, perché essa è il frutto del dono di Gesù, anche se oggi appare, nella sua visibilità, lacerata.

La presenza di Gesù culmina con l’eucaristia. Gesù invita tutti a mangiare. Egli non è il padrone intransigente che chiede conto del lavoro svolto, ma è colui che accoglie i discepoli come amici alla sua mensa (cf. 15,14-15). Ora sanno che è Gesù, perciò non hanno bisogno di fare domande. La pesca, i segni del pane e del pesce e l’invito a mensa li hanno portati a riconoscere colui che prima non sapevano chi fosse (21,4). Il passaggio dall’ignoranza alla conoscenza è avvenuto grazie al prodigio della pesca e ai segni eucaristici sulla riva. La certezza non è evidenza. Il mistero rimane; la fede è una componente importante; quella fede che i discepoli hanno fin dal primo incontro (cf. 2,11) e che troviamo nella prima conclusione del vangelo:

Perché crediate… e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome (20,30-31)

Conclusione

Gesù viene, prende il pane e lo dà loro e così pure il pesce. A differenza delle apparizioni nel Cenacolo (20,19ss. 26ss.) e delle azioni della moltiplicazione dei pani e dei pesci (6,11) qui i verbi sono al presente. Si tratta del continuo venire di Gesù nella comunità. Il Risorto viene mediante l’eucaristia. Questa è espressa con i gesti che caratterizzano quelli della moltiplicazione dei pani (6,11).

Era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risorto dai morti (21,14).

Si torna all’inizio del racconto: quanto è stato narrato costituisce la terza manifestazione, cioè quella definitiva. Essa è legata ormai all’attività apostolica della comunità, in obbedienza alla parola del Risorto e ai segni del suo amore supremo per noi (cf. 15,13).

Induismo non è solo reincarnazione

di Marino Parodi


Senza pensarci tanto, si citano pagine di Tagore e di Gandhi in prediche o in incontri di preghiera. E non si fa male. Perché sotto un profilo ascetico l’induismo può correre in parallelo col cristianesimo. Perciò conoscere questa religione (tra le più antiche ancora praticata da circa 900 milioni di persone) oltre gli stereotipi dei fachiri, del karma e della reincarnazione, è un utile esercizio spirituale.

Un giovane alla ricerca della verità interpellò il saggio Yajnavalkya: «Quanti sono gli dei, o maestro?». Il saggio rispose in ossequio alla formula liturgica: «Quanti sono enumerati nella formula invocatoria a tutti gli dei, figliolo: 3.306». «Va bene», obiettò il giovane, «ma quanti sono veramente gli dei, maestro?». «Trentatrè». «Va bene, ma quanti sono veramente gli dei, maestro?». «Sei». «Va bene», incalzava il discepolo, «ma quanti sono veramente gli dei, maestro?». «Tre». «Va bene, ma quanti sono veramente gli dei, maestro», chiese ancora il discepolo. «Due». «Va bene, maestro, ma quanti sono veramente gli dei?». «Uno e mezzo». «Va bene, maestro», insisteva ancora il giovane, «ma quanti sono veramente gli dei?». «Uno solo, figliolo», rispose infine il saggio.

Questo dialogo, risalente all’VIII secolo a.C. permette a noi occidentali quantomeno di cominciare a comprendere quattro caratteristiche di fondo dell’induismo, religione dai contenuti tutt’altro che facili da afferrare e ancor più difficili da definire. Innanzitutto, una natura estremamente aperta e “pluralista”, capace quindi di accogliere in sé elementi, dottrine e credenze. In secondo luogo, il carattere - comune un po’ a tutte le religioni e filosofie dell’Estremo Oriente - “esperienziale”: l’induismo si propone come strada, come metodo, per condurre l’uomo alla liberazione e al Divino. «Io proclamo invano con le mani tese al cielo che la rettitudine porta al benessere e alla felicità. Perché non seguite la virtù?». Così si esprime Vyasa, il presunto autore del Mahabharata. In terzo luogo, il profondo senso di armonia che permea l’universo, al di là di ogni apparente contraddizione. La Verità è una sola, ma ha molti volti e viene percepita in maniera diversa da altrettanti individui diversi. In quarto luogo, il profondo anelito a quel Divino, che permea di sé l’intero universo.

Principi basilari

figura centrale dell’induismo contemporaneo e al tempo stesso della politica mondiale del secolo scorso, sosteneva che le Upanisad e tutti gli altri testi sacri indiani potrebbero riassumersi in base ai principi che seguono: Tutto ciò che si muove sulla terra è penetrato dal Signore, l’universo intero ne è espressione. 2)La felicità non consiste nell’accumulare, ma nel dare. 3)L’attaccamento ai beni terreni è male e causa di sofferenze. 4)La rinuncia in tal senso è il bene supremo. 5)Quando ci saremo finalmente “distaccati”, troveremo la gioia.

A tutto ciò vanno aggiunti due altri principi importanti, generalmente non facili da accettare per la nostra mentalità occidentale. Innanzitutto colui che cerca la Verità, quindi il senso della vita e la liberazione, è al tempo stesso soggetto e oggetto della ricerca: a ben vedere, il discorso si fa del tutto naturale nella prospettiva, propria a tutto l’Estremo Oriente, che sostanzialmente non distingue tra Dio e universo. In altre parole, manca il concetto di creazione, introdotto dalla Bibbia.

Inoltre, l’induismo insegna il distacco dall’esito, raccomanda l’azione indipendentemente dal raggiungimento del fine. «Soltanto l’azione può essere sotto il tuo controllo, ma questo non può essere esteso ai risultati. Non restare legato né ai frutti di un’azione né all’ozio», raccomanda la Bhagavadgita (800 a.C.) la quale, assieme ai Veda (1500 a.C.), costituisce una delle due grandi raccolte di testi sacri indiani.

Paradossalmente la disposizione spirituale al distacco permette alla mente, libera da tensioni, di concentrarsi a fondo sulle proprie facoltà, favorendo in definitiva il conseguimento della meta. Per dirla con Lord Nelson, in questa religione Dio si aspetta dagli umani che essi compiano il proprio dovere semplicemente perché è il loro dovere. I risvolti psicologici sono particolarmente importanti poiché la psicologia postfreudiana, sviluppatasi attraverso vie in buona misura alternative rispetto al percorso tracciato dal professore viennese, avendo riscoperto in pieno la natura insostituibile della spiritualità ai fini di uno sviluppo sano e autentico della personalità umana, ha attinto grandi risorse dal buddismo e dall’induismo, ma in particolare dal secondo.

Care Gustav Jung, Roberto Assagioli (fondatore della psicosintesi) e, in tempi più recenti, Abraham Maslow e Ken Wilber, fondatori della psicologia transpersonale, hanno trovato nella millenaria saggezza indiana preziosi strumenti di conoscenza dell’anima umana e della sua guarigione.

La psicologia non è peraltro l’unica, per quanto importante, branca della scienza a essersi accorta in tempi recenti del valore dell’induismo. Pensiamo infatti alla fisica, le scuole più avanzate della quale, di indirizzo quantistico, insegnano come alla base dell’universo vi sia non già la materia, contrariamente a quanto per secoli si credeva, bensì l’energia, il pensiero, ossia lo spirito (discorso ovviamente estremamente complesso, che certo non si può sintetizzare in poche battute, tuttavia sicuramente meritevole di un cenno in tale contesto).

Continuando in tale sforzo di semplificazione, possiamo affermare che, infatti, sempre stando alla fisica più aggiornata, la realtà è in definitiva composta da svariati livelli o dimensioni - la netta maggioranza dei quali invisibili ai nostri occhi - e di queste la materia è quella più provvisoria, più fluida, più labile. L’induismo insegna da millenni lo stesso principio.

Lo spirito e la terra

L’occasione è buona per sfatare un altro pregiudizio relativo all’induismo, e ancora una volta diffuso in Occidente, il quale vuole questa religione nemica della dimensione terrena, al punto da negarne l’esistenza. Nulla di più falso, benché anche questo, al pari di tutti i pregiudizi, contenga un frammento di verità. Profondamente convinto della natura essenzialmente spirituale dell’universo, nonché dell’esistenza di tante dimensioni, l’induismo relativizza sì la sfera corporea e materiale, per concentrarsi sull’essenziale, ossia sull’Assoluto e sul Divino.

Al di là di ogni fraintendimento e degenerazione, peraltro sempre possibili per qualunque religione, l’induismo non ha mai negato l’esistenza della dimensione terrena. “Squarciare il velo di Maya”, ossia sfatare l’illusione che vuole fare di ciò che vediamo con gli occhi e tocchiamo con le mani l’unica realtà, significa saper superare ogni apparenza per scoprire che gli eventi terreni, così come si manifestano, non sono che uno spaccato assai ridotto di un panorama infinitamente più vasto, nel quale anche ciò che più ci pare assurdo e caotico ritrova un proprio significato preciso.

L’evoluzione spirituale, che per l’indù costituisce il significato dell’esistenza, comporta innanzitutto il riconoscimento e l’accettazione della dimensione terrena, per poi scoprire che esiste una realtà molto più vasta e ricca di significato. Riconoscere la dimensione terrena significa anche prenderla sul serio per interagire con essa. Naturalmente esiste una pluralità di vocazioni - possiamo dire, esprimendoci in termini cattolici - e in questa gamma la scelta ascetica occupa un posto d’onore e di primo piano, ma non è certo l’unica possibilità.

Un esito importante della scuola spirituale indù consiste nella possibilità di “dominare” la materia e il corpo. Parecchi yogin (maestri di yoga) indiani hanno non a caso in svariate occasioni dimostrato una straordinaria resistenza a fatiche fisiche di ogni genere, al punto da risultare del tutto insensibili al dolore, riuscendo a privarsi di cibo e di sonno per giorni e giorni, spesso lavorando incessantemente, senza mai subire il minimo danno alla salute.

Il karma e la reincarnazione

Conoscere l’induismo è tutt’altro che un optional per farsi un’idea del panorama religioso contemporaneo mondiale di oggi e di ieri. E ciò non soltanto perché questa grande religione può forse considerarsi la più antica tra quelle tuttora vive e operanti nel mondo. Infatti - fattore forse addirittura più importante del precedente - elementi fondamentali della spiritualità induista, a seguito di complessi processi storici e culturali che hanno causato una profonda evoluzione della coscienza religiosa di un po’ tutto l’Occidente (pensiamo soprattutto alla colonizzazione dell’India da parte dell’Inghilterra, protrattasi sino al 1947), hanno finito per diventare patrimonio comune di milioni di europei e americani, spesso rimasti peraltro ancorati alla fede cristiana.

Pensiamo a quel principio metafisico, cardine dell’induismo, che è il karma, ovvero “azione”, secondo il quale ogni azione è portatrice di un preciso significato morale, i cui effetti possono protrarsi per una serie indefinita di nascite. Conseguenza e premessa indispensabile di tale dottrina del karma è la credenza nella reincarnazione (o, per meglio dire, serie di reincarnazioni), l’una e l’altra curiosamente assimilate in Occidente in maniera spesso acritica e superficiale, senza nemmeno essere consapevoli delle origini indiane e dando per lo più per scontato un fattore che in realtà non è: ossia la conciliabilità tra fede cristiana e credenza nella reincarnazione.

Contrariamente a quanto normalmente si ritiene in Occidente, la reincarnazione è considerata sì dalla tradizione induista il percorso normalmente seguito dalla maggioranza degli esseri umani, ma non necessariamente da tutti e meno che mai viene considerato indispensabile il passaggio dell’anima attraverso una numerosa serie di esistenze.

Seguito ancora maggiore, rispetto alle dottrine del karma e della reincarnazione, miete da vari decenni un altro punto-chiave della tradizione induista: lo yoga, termine che, con una certa approssimazione, si può tradurre con “partecipazione” (al Divino, si intende). Si tratta, come è noto, di un complesso sistema di tecniche di meditazione, preghiere e ginnastiche, finalizzato a condurre l’uomo all’incontro con Dio, il che coincide, nella visione induista, con la piena realizzazione della personalità umana.

Vasta gamma di scuole ascetiche

L’approfondimento della personalità umana costituisce d’altra parte la base dell’intera tradizione induista, secondo la quale l’analisi dell’essere umano procede secondo due direttive principali. L’una, verticale, lavora sulla dicotomia corpo/anima e materia/mente, laddove la netta superiorità dell’anima sul corpo e della mente sulla materia viene raggiunta e dimostrata attraverso una disciplina ascetica, per lo più rigorosa.

Da tale grande larghezza di vedute deriva una vasta gamma di scuole, alcune orientate verso una spiritualità assai esigente e caratterizzata da un rigido ascetismo (ad esempio l’”induismo assolutistico” del Ramana Maharshi; http://maharshi .bizland.com/bhagavan), altre orientate verso l’agire per il bene comune (“induismo altruistico”, che ha visto nella figura e nell’opera del Mahatma Gandhi appunto la testimonianza più eclatante). Queste ultime, le quali hanno assistito nell’ultimo secolo a un notevole sviluppo, sono state fortemente influenzate dalla penetrazione cristiana in India, lentamente avviata da svariati missionari secoli addietro, accelerata dalla conquista inglese e tuttora in ascesa.

La tradizione induista ha costantemente fatto ricorso alla metafora del viaggio, secondo la legge del samsara, processo cosmico di continua morte e rinascita, cui sono soggetti tutti gli esseri viventi dell’universo, per spiegare la propria concezione dell’esistenza. Tappa finale è l’incontro definitivo o, se si preferisce, il ritorno a questo, con l’Atman, il Divino.

Per principio, un indù si può identificare con chiunque si consideri tale, in considerazione del carattere estremamente aperto di questa religione - autorevoli studiosi affermano che esistono tanti induismi quanti sono gli induisti - e, di conseguenza, dell’accennata difficoltà di descriverne le caratteristiche di fondo, fatti salvi i principi generali accennati, peraltro suscettibili delle interpretazioni più disparate. In sostanza, l’induismo è costituito dall’insieme delle pratiche e credenze nelle quali si riconoscono coloro che si considerano induisti.

Trattandosi di un mondo tanto lontano - in virtù delle sue radici culturali, etniche e geografiche profonde al punto da rendere praticamente impossibile, in linea di principio, separare ciò che è indiano da ciò che è indù - quanto vicino, per le ragioni viste, si impone comunque una precisazione importante. Lo stereotipo dell’indù il quale, contorcendosi, si contempla l’ombelico con una gamba attorno al collo è assolutamente anacronistico. Gli indù, infatti, come tutti i devoti di ogni altra religione, lavorano, partecipano alle funzioni religiose - al loro pluralismo devono non solo un ricchissimo repertorio in tal senso, favorito da millenni di storia, ma anche la totale disponibilità a partecipare con passione a riti cristiani, buddisti o musulmani -, pregano alla ricerca di una vita piena e soddisfacente in questa dimensione come nell’aldilà.

L’incontro con i cristiani

L’induismo non ha padri fondatori. In tal senso assomiglia più all’ebraismo che al cristianesimo o all’islam, in quanto considera suoi fondatori una serie di profeti, a nessuno dei quali, a differenza dell’ebraismo, attribuisce un ruolo di superiorità. Le storie di saggi, o santi o guru (guide spirituali) sono assai importanti nell’induismo. Tuttavia non sempre l’induismo attribuisce agli eventi storici lo stesso valore teologico, a differenza delle religioni del Libro. Gli indù fanno infatti derivare il significato teologico dalla conversione della storia in mito.

Le verità spirituali possono rivelarsi in un punto preciso nella storia cosmica, ma di per sé sono al di là dell’ordine cosmico e della storia. Tuttavia è possibile dividere la storia dell’induismo in cinque grandi periodi. Il primo, il cui inizio viene stabilito con straordinaria precisione, venendo fatto risalire all’8 febbraio 3102, il cosiddetto “periodo prevedico”, ossia all’epoca della nascita della plurimillenaria civiltà indiana, è caratterizzato dalla nascita e dallo sviluppo di riti, culti negritos e protoaustraloidi, per lo più centrati sulle anime dei defunti.

Il “periodo vedico” (1500-300 a.C.) è caratterizzato appunto dalla nascita dei Veda, da una vivacissima mitologia nonché da una profonda evoluzione, che possiamo collocare attorno all’800 a.C. In tale epoca, segnata non a caso dalla nascita delle Upanisad, si approfondisce la riflessione sul senso della vita e delle realtà ultime, dando corpo a una filosofia religiosa tuttora centrale nella vita di ogni indù. La natura esoterica di tali dottrine, nell’elaborazione delle quali gioca un ruolo importante il ritiro dei saggi nelle foreste, viene incoraggiata dal consolidamento della figura del guru.

Il “periodo classico” (dal 300 a.C. circa al 1000 d.C.) vede la necessità, da parte dell’induismo, di darsi un’identità più chiara, sollecitato dall’avanzare del buddismo, nonché dallo sviluppo delle scuole ascetiche. Segue il “periodo medievale” (1000-1800), caratterizzato dalla grande avanzata dell’islam, dalla fioritura della tradizione letteraria e dal culto delle “vacche sacre”.

Il “periodo moderno”, che va dal 1800 al 1947, ossia alla conquista dell’indipendenza indiana, è caratterizzato da una straordinaria rinascita spirituale induista, favorita e alimentata a un tempo dalla diffusione mondiale della religione dovuta al dominio inglese, nonché dall’opera di straordinarie figure spirituali ormai largamente conosciute in Occidente: Rabindranath Tagore (1861-1941), Aurobindo Ghose (1872-1950) e il Mahatma Gandhi (1869-1948).

Il Vaticano II ha riconosciuto pienamente il profondo valore spirituale dell’induismo, diverse pratiche del quale sono state da decenni integrate con successo nei programmi di vari sacerdoti e formatori cattolici di larghe vedute. D’altra parte, esistono milioni di indiani, i quali continuano a considerarsi indù pur avendo aderito al cristianesimo.

Il rapporto Chiesa-Maria, colto prima in modo globale, va ora contemplato più attentamente nei vari momenti della avventura di fede che Maria ha vissuto. Lo sguardo deve anzi spingersi ancora più in là...

Martedì, 19 Febbraio 2008 00:20

Tertulliano (Lorenzo Dattrino)

TERTULLIANO

di Lorenzo Dattrino

 

Se si eccettua l’Octavius di Minucio Felice, la cui data è incerta, la letteratura cristiana fa la sua prima comparsa nel 197 con le opere di Tertulliano. (1)

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