I Dossier

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Quale reciproco apporto potranno dunque offrirsi una teologia e una psicologia, che non siano chiuse in se stesse, e che perciò sappiano farsi aperte e interrogative del Mistero, l'una in ascolto dell'altra, insieme in ascolto dell'Altro?

Il titolo di questa riflessione è volutamente “drammatico”: esso vorrebbe evocare sin dall'inizio la complessità del rapporto fra le parti in causa e la fenomenologia dei modelli in cui essa si esprime. “Dramatis personae” sono la teologia e la psicologia, ma lo svolgimento del “dramma” è pensato come un atto unico, dove è dei due uno solo degli attori, la teologia, che si interroga sui suoi rapporti reali o possibili con l'altro.

Dialogo con Ivonne Gebara:
donna, teologa e femminista

intervista di Hugo José Suàrez

Una delle donne che ha conosciuto nella sua storia personale la censura della Chiesa è la religiosa brasiliana Ivonne Gebara. Nel 1994, avendo scritto relativamente alla donna, all'aborto, alla teologia ed altro, è stata censurata dal Vaticano. Nel tentativo di indurla a rivedere le sue riflessioni, è stata ‘invitata' a trasferirsi in Europa per realizzare studi teologici in un'istituzione cattolica. Oggi, ormai anni dopo, l'incontriamo all'Università Cattolica di Lovanio alla vigilia della discussione della tesi per il dottorato sul tema “Il male visto a partire dalla donna", una critica alla teologia occidentale che ha organizzato il suo pensiero su una gerarchia di valori fondata sul patriarcato. Dopo una gradevole colazione sulla “Gran Rue" di Lovanio e dopo aver riscoperto una donna fantastica della quale abbiamo tanto sentito parlate, iniziamo il dialogo.

Com'e successo che sei diventata una teologa femminista?

Ho studiato a Lovanio e sono giunta a Recife, in Brasile, nel 1973. Era in piena effervescenza la Teologia della Liberazione, sicché sono tornata a studiare teologia attraverso di essa. Leggevo tutto quello che pubblicavano Gustava Gutiérrez, Leonardo Boff e altri. Ho iniziato con molto entusiasmo. Negli anni '73-'75 non pensavo di essere femminista. Avevo ascoltato qualcosa di Bettv Fridam negli Stati Uniti e allora non vi trovavo niente che mi piacesse. Ero interessata all’opzione per i poveri.

Sul finire degli anni ’70, ho cominciato a percepire che molte questioni relative alle donne non entravano nella riflessione della Teologia della Liberazione. Per esempio, il tema del corpo, della sessualità, problemi quali l'aborto, la colpevolizzazione, il lavoro all’interno delle mura domestiche, ecc., e ho cominciato ad essere più sensibile alla tematica. Mi sentivo male, ma non avevo proprio la forza e il coraggio per parlare a voce alta di tutto questo. Fino a quando nel 1980, lessi su Concilium due articoli: uno di Dorothee Sölle, un testo bellissimo sulla cultura dell'obbedienza, dove si spiega. come il nazismo sia frutto della cultura dell'obbedienza, e noi, come donne, per la nostra sottomissione e il "complesso di inferiorità", abbiamo sostenuto questa cultura; l'altro articolo, che era di una statunitense, Rosemary Radford, parlava delle immagini di Dio. Ho cominciato a leggere le femministe del Brasile, che avevano un periodico intitolato "Mulheiro". Ho cominciato pure a interessarmi alla lotta delle Madri di Piazza di Maggio. Io stessa avevo vissuto la repressione della dittatura, durante la quale una delle mie compagne era stata assassinata. Il femminismo mi ha dato alcune illuminazioni per capire in parte quello che e successo in quel tempo a molte donne.

Così il femminismo è stato per me un incontro, una coscienza, un incontro con donne del ceto popolare, un malessere, un apprendistato... E d'improvviso ho cominciato a parlare, e non so come mi sono ritrovata teologa femminista. Non posso dire che è stata una determinata donna a farmi cambiare, ma un movimento, una coscienza creata attraverso riviste, libri, articoli e la vita quotidiana in un quartiere, il vedere come vive la gente.

Come si colloca la tua riflessione rispetto alla Teologia della Liberazione?

Mi sento sulla stessa onda dell'opzione per i poveri, della maggioranza della popolazione, della questione delle contraddizioni di classe, in sintonia con tutta quest'analisi sociologica. Il taglio fondamentale dell'opzione dei poveri è sempre lo stesso; ma quello che introduco (e per questo dico che c'è differenza, non opposizione) è che, a partire dal femminismo, faccio una critica alla teologia patriarcale che non ha mai considerato l’intervento del genere (costruzione sociale di genere). Com'è possibile che continuino a non denunciare le ingiustizie che sono state commesse sulle donne? Per esempio, quante donne sono state violentate in rivoluzioni e guerre, come in Ruanda, Haiti? Perché il corpo della donna diventa arma di guerra? Perché fanno la guerra sul corpo della donna? Perché non denunciano mai queste cose? Denunciano sempre le ingiustizie sociali, ma all'interno di queste ingiustizie ci sono corpi che subiscono più ingiustizia di altri.

La Teologia della Liberazione si muoveva dunque all’interno dello schema patriarcale di pensiero?

Sì, sebbene la Teologia della Liberazione abbia avuto il coraggio di introdurre il metodo sociologico e l'analisi economica nella teologia: ha spiegato chi sono "i poveri", che escono da un’astrazione e una genericità di poveri di spirito per convertirsi in poveri nel senso concreto della parola. A questo, la Teologia della Liberazione penso abbia dato un contributo valido, ma non ha criticato lo schema teologico tradizionale, la struttura del Dio creatore, del Figlio unico che ha sofferto per noi, ecc. Allora credo che sia necessario farlo adesso, perché viviamo in una società molto sacrificale e la teologia ha una responsabilità in questo, nel come uscire da questo sacrificio che la società ci impone.

Dopo i tuoi imprevisti ritorni in Europa e la censura che ti hanno imposto, ora per il dottorato stai per discutere una tesi su “Il male visto a partire dalla donna”. Cometa sviluppato questo tema?

Per affrontare questo lavoro non prendo in considerazione per prima cosa le teorie teologiche sul male, il peccato e la sofferenza, ma i testimoni, che sono innanzitutto le donne che raccontano il loro dolore. Non fanno un discorso teorico o sistematico sul dolore, ma questo si trova mescolato alle loro vite. Allora prendo il libro di Isabel Allende, "Paula" nel quale il male è considerato come "il mio Paese all’epoca della dittatura militare". Fonte di salvezza per Isabel è scrivere, scrivere per non morire, per continuare a resistere alla sofferenza. Poi prendo una scrittrice indiana chiamata Kamala Marcandaya, che patisce il male nella vita quotidiana, nella sua lotta per trovare da mangiare, per curare il figlio malato, ecc.; questo tipo di dolore è per me il dolore proprio delle donne. A seguire, considero le testimonianze che presenta un giornalista brasiliano, Gilberto Dimestain, che ha seguito il fenomeno della prostituzione delle bambine sulle strade; come giornalista, è stato nei posti dove loro stanno, ha parlato con loro e dopo ha scritto tin libro, e io cerco di rispondere alla domanda: qual è il grande male che vivono? Inoltre parlo delle donne del "Movimento per un'abitazione dignitosa" del Brasile, di Domitila Chungara della Bolivia, di suor Juana Inés de la Cruz del Messico e di altri casi concreti. La domanda è che esperienza hanno di quello che noi chiamiamo "il male". Questo è il mio punto di partenza. Segue un capitolo sulla mia esperienza personale e, dopo, qualcosa che non è molto comune nella teologia di Lovanio: lavorare con la mediazione di genere. E quando dico genere voglio dire che uomo e donna non sono realtà biologiche, ma realtà culturali, cioè che non si dà sesso biologico senza sesso culturale, perché ci viene detto cos’è un uomo e cos'è una donna, come si devono comportare, ecc. La mia preoccupazione è individuare il discorso plurale del male e scoprire come questa pluralità è vissuta da vari gruppi di donne, e, all'interno di quello che chiamo il discorso teologico, pongo la domonda: qual è il Dio delle donne?

Nella prospettiva di genere, non esiste una nozione di femminile e di maschile? Sarebbe tutto una costruzione sociale?

Penso di sì. Chiaro, c'è il fatto biologico, ma una bambina dal momento in cui nasce entra nella costruzione sociale, il papà e la mamma cominciano a trattarla come una figlia femmina. Cioè, il fatto bruto del biologico non significa niente, o significa qualcosa, ma è un biologico già condizionato da quella cultura. Non credo che ci sia un'essenza maschile o una femminile preesistente all'uomo storico e alla donna storica che siamo; non c'è niente di preesistente, piuttosto la differenza biologica che abbiamo è al tempo stesso una differenza culturale. Ti dicono che tu, come maschio, non puoi fare determinate cose, ti guardano in un certo modo ecc. C'è una costruzione sociale della questione biologica.

Come si sviluppa l'interiorizzazione del modello gerarchico e maschile nella vita quotidiana delle donne e nell'istituzione ecclesiale?

È chiarissima la gerarchia presente nei discorsi. Quando ascolti le donne di Sao Paulo che lavorano nel "Movimento per un'abitazione dignitosa", è interessante, perché loro sentono la gerarchia, dicono: "Qualcosa c'è quando uno nasce uomo o quando nasce donna", e quando si nasce donna ti dicono: "Impara a lavare i piatti e a pulire la casa" e quando si nasce uomo gli dicono: "Vai fuori, vai a guadagnarti da vivere"; al bambino si ripete: "Tu comandi le donne". Sebbene il discorso non venga esplicitato sempre in questi termini, la cultura ti educa in modo che sono rarissime le donne del ceto popolare che non hanno la mentalità della sottomissione.

E questa realtà è ancora più forte in istituzioni come la Chiesa. Se domandi quanti sono i sacramenti, ti dicono sono sette, ma in realtà sono sette per gli uomini e sei per le donne. La disuguaglianza è presente, le responsabilità di potere e di decisione che hanno le donne all'interno della Chiesa sono quasi nulle. Qual è l'elaborazione teologica fatta dalle donne e riconosciuta dalla Chiesa? Solo quella di alcune che hanno ripetuto le stesse cose degli uomini, ma se cerchi di parlare a partire dal tuo dolore, da come ti senti donna, con le tue sofferenze, non ti ascoltano. Il dolore della donna non è normativo, il dolore dell'uomo sì. La crocifissione dell'uomo Gesù ha molto più senso del dolore di sua madre Maria. Il sangue di Gesù è redentore, mai si è parlato del sangue delle donne, che inoltre è considerato impuro. Io voglio mettere a nudo queste contraddizioni della religione.

In questo momento la Chiesa cattolica vive una stanchezza dottrinale (se non un ritorno indietro) e sono poche le prospettive di cambiamento. Credi che esistano possibilità per il sacerdozio delle donne, oppure si può pensare, per esempio, che un giorno una donna potrà essere papa?

Ora non è possibile, ma credo che il problema non è che noi, come donne si possa essere elette papa. Il problema e che questo modello gerarchico (gerarchia non solo sociale, ma anche sessuale) deve cambiare. Il punto non è che la Chiesa stabilisca che le donne siano ordinate, piuttosto che esista una concezione diversa dell'essere umano. La soluzione non è ordinare le donne, ma cominciare a cambiare relazioni, contenuti e azioni. Per esempio, in temi come l'aborto, la sessualità, i metodi anticoncezionali, in tutto quello che riguarda il corpo, la posizione della gerarchia cattolica è molto conservatrice. Nel caso della pianificazione familiare, per loro esiste il metodo naturale e quello artificiale, ma allora, in questa prospettiva, non dovrebbero accettare i pacemaker cardiaci, perché anche questi sono artificiali; se fai una separazione troppo rigida, il tema si complica. Esiste, dunque, un'idea di natura che bisogna cambiare; non è il sacerdozio delle donne che è essenziale, ma che si riconosca il loro diritto a pensare, agire, condurre, dire cose diverse da quelle degli uomini e che siano riconosciute per questo. Bisogna creare nuove relazioni nella società; questo vuol dire anche che bisogna ripensare i contenuti teologici, perché ci sono cose che non si possono più sostenere, che sono state valide in un mondo teocentrico e medievale, dove tutto era organizzato in base ad un'immagine di Dio come "padre onnipotente, creatore del cielo e della terra"; ma oggi non si ha più questa idea di Dio. I nuovi paradigmi della scienza, i movimenti ecologici, femministi, ecc. hanno fatto cambiare la mentalità, per cui oggi non si possono più dire le cose che si dicevano prima.

(da Adista, 80, 17-11-2007, pp. 8-10)

Paolo e Gesù: una stessa religione?

di Michel Quesnel

Paolo sarebbe il vero fondatore del cristianesimo? La domanda è provocatoria, ma non sciocca, e neppure nuova. Molti storici delle origini cristiane l’hanno posta da un secolo e mezzo, e continua ad esserlo da autori contemporanei.

Come tutte le parole in «esimo» il termine «cristianesimo» suggerisce un sistema, ovvero un'ideologia di cui Paolo sarebbe il padre, più di Gesù. Sulla base della testimonianza evangelica, si concorda in realtà nel riconoscere in quest’ultima un pensiero spoglio di qualsiasi ambizione sistematica, il che non è certo il caso dì Paolo, che molti considerano il più grande teologo del I secolo. Vuol dire che Gesù non era teologo? Indipendentemente da ogni questione cronologica, lo scarto che separa Gesù da Paolo è considerevole. Molte cose oppongono i due uomini. Se Paolo sì riferisce costantemente a colui che considera il suo Signore, lo fa in termini che non consentono di riconoscere spontaneamente il profeta itinerante di Galilea quale lo presentano i vangeli. Questo porta a domandarsi in quale misura egli si collega alla tradizione di cui Gesù è la fonte e se la religione dei due si può sovrapporre. Effettivamente, la filiazione che va dall'uno all’altro, se esiste, passa attraverso giri tortuosi. È bene precisare in quale misura Paolo riprenda la tradizione che deriva da Gesù, e ricostruire, per quanto possibile, l'itinerario che condusse l'apostolo a riformulare il messaggio di colui che, a suo dire, gli ha affidato la missione.

Quale immagine paolina di Gesù?

Le differenze tra la persona di Gesù rappresentata nei vangeli e il Figlio di Dio cui si riferisce Paolo nelle sue lettere saltano agli occhi. Numerosi storici e teologi del XIX secolo, appartenenti alla corrente del Protestantesimo liberale, le hanno ampiamente sottolineate: la persona di Gesù secondo Paolo è talmente divina che le rimane ben poco di umano. Alfred Loisy, simbolo del pensiero modernista nel cattolicesimo francese, scriveva nel 1914: «Il Gesù al quale Paolo si è convertito non è il predicatore del Regno di Dio». Con presupposti diversi ma conclusioni abbastanza simili sui rapporti tra Gesù e la prima generazione cristiana, Rudolf Bultmann poneva, nel suo Gesù pubblicato nel 1926, una opposizione famosa in il Cristo della fede, in altri termini detto il Risorto, divenuto oggetto della predicazione della Chiesa primitiva e il Gesù della storia, profeta e predicatore itinerante del Regno di Dio, la cui vita terrestre va interamente collocata nella sfera del giudaismo. È raro che Paolo designi Gesù col suo solo nome. Più generalmente usa per nominarlo un titolo composto: «Gesù Cristo», o «il Signore Gesù Cristo». Il nome stesso rimane spesso nella penna per lasciare spazio ai soli titoli «Cristo» e «Signore» che sono sufficienti per indicare il riferimento a Cristo nel discorso. Perché proprio di discorso si tratta in Paolo, un discorso di cui Gesù è il centro, ma costruito su concetti filosofici e teologici ispirati al mondo greco, estranei alla predicazione storica di Gesù e molto spesso assenti dai testi evangelici. È stato inoltre sottolineato da lungo tempo che le allusioni fatte da Paolo alla vita terrena di Gesù sono assai scarse. Solo il racconto della Cena (1 Cor 11,23-25) e il ricordo di alcuni comandamenti risalenti al Signore (ad esempio 1 Cor 7.10-11; 9,14) possono essere incisi in parallelo con avvenimenti o parole evangeliche precedenti la Passione. Il resto è molto generico. Si può sapere da Paolo che Gesù è «nato da donna e sottomesso alla Legge» (Gal 4,4), «disceso secondo la carne dalla stirpe di Davide» (Rm 1,3), e che tutto si concluse con la sua morte sulla croce. Ma nelle lettere paoline non si trova alcuna allusione ai miracoli, alle parabole o a tanti altri episodi della vita di Gesù. Grazie alla penna di Paolo entrano nel pensiero cristiano numerosi concetti entrati in seguito nel vocabolario teologico della Chiesa: redenzione, giustificazione, coscienza, libertà: queste parole abbondano nelle lettere paoline mentre si cercherebbero invano nei vangeli. È a partire da queste, o da altre parole simili che si è formulato il dogma cristiano. Esse sono diventate le pietre di un discorso coerente che si elaborò progressivamente nel corso dei primi secoli e che primi concili consacrarono nel corso di dibattiti spesso accesi.

Ora l'idea stessa di strutturare la fede attraverso il dogma è estranea al giudaismo che non possiede nè corpo né dottrine nè magistero, e Gesù non sembra averne avuto il progetto. Numerosi maestri ebrei ritengono che l'elaborazione in un dogma sia un tradimento al procedimento della Bibbia. Il loro insegnamento fatto di richiami all'intervento di Dio nella storia di haggada (racconto di esempi edificanti) e di halakha (riflessioni sul come osservare i precetti), appartiene ad un altro modo di procedere. Si comprende come Paolo, padre della teologia dogmatica cristiana, sia allora particolarmente malvisto nel giudaismo, mentre Gesù è spesso considerato in modo nettamente più benevolo. Vi è inoltre un punto sul quale Paolo prende grande distanza rispetto al giudaismo e nello stesso tempo rispetto a Gesù, e che rende la sua posizione particolarmente critica agli occhi degli ebrei, e cioè l'osservanza dei comandamenti della Torà. Paolo dichiara che essa non ha più ragion d'essere. Gesù, certo, aveva criticato l'interpretazione formalista della Legge fatta da alcuni maestri del suo tempo, ma non vi si è mai sottratto: Paolo,. al contrario, su questo punto è molto radicale.

Dal maestro al discepolo

Le differenze che si sono appena rilevate possono spiegarsi in diversi modi. La prima spiegazione è semplicemente cronologica. La missione terrena di Gesù si svolse negli anni 27-30 della nostra era. La più antica lettera di Paolo, che è anche lo scritto più antico di tutto il Nuovo Testamento, è generalmente datata all'anno 50. Quanto ai vangeli, il primo redatto nella sua forma canonica è probabilmente quello di Marco, che la maggior parte dei biblisti data all'incirca all’anno 70. Vent'anni separano la vita di Gesù dalla scrittura delle lettere di Paolo, e bisogna ancora attendere altri venti anni per giungere alla redazione da un vangelo conosciuto. Paolo è il primo testimone delle redazioni che risalgono a Gesù. Ma queste non sono conoscibili in forma di racconto che attraverso scritti che sono loro posteriori. Questa situazione di intreccio temporale implica che alcune originalità di pensiero che il lettore sarebbe tentato di attribuire a Paolo possono essere dovute ad altri. Paolo forse non è l'inventore dei termine «giustificazione» e «redenzione» che si trovano per la prima volta in un testo di cui egli è il firmatario. Egli stesso può averli ripresi da tradizioni anteriori, inconoscibili perché non hanno lasciato tracce scritte. Bisogna in realtà guardarsi dal confondere le parole attribuite a Gesù nei vangeli con le sue ipsissima verba. Farlo sarebbe dimenticare che gli evangelisti sono, proprio come Paolo, teologi, e che danno di Gesù un ritratto condizionato dal loro proprio progetto pedagogico, storico e teologico.

Un’altra spiegazione delle differenze rilevate tra le lettere di Paolo e i vangeli deriva dal fatto che si tratta di opere appartenenti a generi letterari diversi: i vangeli sono teologia sotto forma di racconto, mentre Paolo scrive di teologia in forma epistolare. Là dove Paolo parla di «redenzione» Marco e Matteo scrivono: «Il Figlio dell'uomo è venuto a dare la sua vita per la salvezza di molti» (Mc 10,45; Mt 20,28). I termini sono diversi, ma il concetto teologico è lo stesso. Ad ogni i forma letteraria corrisponde un tipo di lessico. Confrontare il pensiero di Paolo con quello di Gesù limitandosi ad accostare parola a parola sarebbe dunque un cattivo metodo per un duplice motivo. Il primo è che un tale procedimento potrebbe con fondere arbitrariamente le formule evangeliche con quelle di Gesù stesso. Il secondo consisterebbe nel non tenere conto della differenza di forma tra i due tipi di opera letteraria.

A leggere Paolo da vicino, ci si rende conto che egli valorizza un buon numero di tradizioni risalenti a Gesù di cui tengono conto anche gli evangelisti. Si è già citata l'ultima Cena così come i loghia sul divorzio e la mercede dei missionari. Si possono aggiungere le parole sulla seconda venuta, il puro e l'impuro, l'uso del termine Abba per rivolgersi a Dio, parecchi insegnamenti etici e sul Regno, le critiche rivolte ai capi religiosi di Gerusalemme, le parole sul primo dei comandamenti, l'accoglienza dei piccoli e dei poveri, il perdono ai peccatori...

Un itinerario originale

Gesù non aveva, o quasi, lasciato la terra ebraica, Paolo, al contrario, fu martirizzato a Roma dopo avere solcato terre e mari. Il modo di vivere condiziona il pensiero, ed è dunque normale che i due uomini non abbiano detto le stesse cose, e questo tanto più perché uno è scrittore, l'altro no. Si tratta allora di una differenza essenziale e persino, come è stato preteso, di un'infedeltà?

L’originalità del pensiero paolino rispetto a quello di Gesù può essere compresa a partire dall'itinerario dell'apostolo, dalle sue origini sino alla morte. Esso comporta numerose rotture, delle fasi, si potrebbe dire, per riprendere un termine di moda. Se non se ne tiene conto, si rischia di non comprendere la relazione tra Paolo e Gesù, e neppure il pensiero di Paolo stesso. Mentre Gesù era galileo, provincia ebraica aperta alle influenze esterne, ma facente parte del territorio ebraico, Paolo è un ebreo della diaspora, nato a Tarso in Cilicia. Che abbia fatto o no studi a Gerusalemme - la questione è controversa - il greco era la sua lingua materna, e la Bibbia di cui si è alimentata la sua fede di bambino e poi di adolescente è la Settanta. L'uomo è alla frontiera delle due culture, l'ebraica e la greca. Forse aveva letto Filone, il celebre filosofo alessandrino; è certo, in ogni caso. che aveva una formazione intellettuale di buon livello. Probabilmente si recò più volte a Gerusalemme in pellegrinaggio durante l'infanzia, ma vi sono ottime probabilità che non vi abbia mai incontrato Gesù che, da parte sua, non vi soggiornava che periodicamente. La sua prima relazione con Gesù, lo confessa nelle sue lettere, fu di perseguitarne i discepoli (Gal 1,13.23). É impossibile conoscere con certezza il motivo di questa persecuzione, ma le poche righe autobiografiche della lettera ai Galati permettono di supporre che le libertà che la giovane Chiesa si prendeva riguardo la Legge ebraica, di cui Paolo era un rigoroso zelante, non erano prive di peso (Gal 1,14).

La grande svolta della sua vita è la via di Damasco. Là egli vide il Signore Gesù (1 Cor 9,1) e, situazione del tutto eccezionale, egli fece di questa visione l'ultima manifestazione del Risorto (1 Cor 15,8). Ultimo della lista dei beneficiari delle apparizioni, egli si designa come l'ektrôma, termine greco mal reso dalla parola italiana «aborto» e che più precisantente significa «figlio non vitale di una madre morta di parto». È dunque proprio l'ultimo, molto dopo tutti gli altri, e dopo di lui non ce ne saranno più: la matrice è come spezzata. È una situazione eccezionale, egli ne è ben consapevole. Che egli abbia agli inizi trovato del sospetto da parte degli altri apostoli è del tutto normale.

predicatore della Risurrezione in Arabia Petrea dove rimase tre anni (Gal 1,17-18), poi, dopo una breve visita a Gerusalemme dove incontrò alcuni apostoli (Gal 1,18-19), ripartì spontaneamente verso nord in direzione della sua terra natale, stabilendosi principalmente ad Antiochia e a Tarso.

Nella diffusione del vangelo, Antiochia è un punto cardine. Là, secondo Luca, storicamente debole su questo punto, i missionari osarono indirizzarsi per la prima volta a Greci (non ebrei), al punto che fu necessario inventare un nome per designare questo gruppo religioso di nuovo genere: i christianoi, o «cristiani» (At 11,26). In una lista arcaica di cinque «profeti e discepoli» legati alla Chiesa di Antiochia ritrascritta dagli Atti degli Apostoli, Barnaba è nominato per primo, Paolo per ultimo (At 13,1). È ancora un responsabile di secondo rango, ma la sua prospettiva si confonde con quella della Chiesa di Antiochia nel suo insieme: la Buona Novella della Risurrezione di Gesù è talmente importante per l'insieme del mondo abitato che vale la pena che sia predicata a dei Greci. Questo non può che creare delle difficoltà di coabitazione tra cristiani ebrei, osservanti da sempre la Torà, e cristiani di origine pagana, ma è meglio affrontarle che limitare la predicazione ai soli ebrei. Arrivati a questo punto dell'evoluzione di Paolo, ci si rende conto che è stata superata una distanza considerevole rispetto al modo di agire di Gesù, che non aveva incontrato Greci e Romani che in modo occasionale, all'interno del territorio ebraici. Essa è stata superata non da un uomo, ma da un gruppo, di cui Paolo fa parte, e di cui non è il capofila. L’evoluzione avvenuta dopo la Pentecoste e, a maggior ragione, dopo Gesù, è considerevole. Non accettarla, avrebbe limitato la diffusione del vangelo al mando ebraico, contesto che una parte significativa dei missionari considerava come troppo ristretto, rispetta a ciò che rappresentava nel disegno universale di Dio.

La logica missionaria

La logica missionaria praticata ad Antiochia implicava che non ci si limitasse alla provincia romana di Siria. Bisognava estendere la diffusione nell'insieme del mondo allora conosciuto, il mondo mediterraneo. Incaricati di Antiochia, Barnaba e Paolo partirono per Cipro, patria in Barnaba, la Panfilia e la Cilicia. Il capo della missione era, nulla di più normale, Barnaba. All'inizio del primo viaggio missionario di Paolo, Barnaba è sempre nominato per primo (At 13,2.4). Si poneva nel frattempo una nuova questione, che fu all'origine di una nuova rottura: di predicare il vangelo ai Greci, tutti gli Antiocheni sembravano condividerlo. Ma come farli vivere una volta convertiti? Bisognava integrarli nella Chiesa ebrea, cosa che comportava di far loro rispettare la Torà con le sue regole alimentari e la circoncisione? Mai un Greco avrebbe accettato questo di buon grado. Si poteva ammettere che la fede in Gesù era l’unica esigenza necessaria alla salvezza e che i cristiani di origine pagana non dovevano essere sottomessi alla legge? Dibattuto ad Antiochia e a Gerusalemme, questo problema era così vivo che un vero accordo non fu trovato, malgrado il racconto accomodante che Luca fa dell'Assemblea di Gerusalemme (At 15,1-35). Ad Antiochia, Paolo si urtò così persone del seguito di Giacomo, sostenitori dell'imposizione dei comandamenti della Torà a tutti (Gal 2,12), entrò in aperto conflitto con Pietro, che aveva apparentemente avuto difficoltà a collocarsi tra due posizioni estreme (Gal 2,11-14). Egli stesso era dell'idea di andare fino in fondo alla logica missionaria che aveva colto nei primi tempi del suo soggiorno ad Antiochia: guadagnare pagani a Cristo comportava di non imporre nessuno dei precetti della Torà; che i giudeo-cristiani continuassero ad osservarli se, in coscienza, non potevano fare diversamente (Rm 14); ma la Legge non era per loro di alcuna utilità in ordine alla salvezza.

Tale è la posizione cui giunse Paolo, che la espresse con chiarezza nella lettera ai Romani dopo averne gettato le fondamenta nella lettera ai Galati. Così facendo, egli creò davvero un'opera originale e si trovò abbastanza isolato nella Chiesa, seguito soltanto da alcuni discepoli che aveva egli stesso formato. Egli aveva lasciato molto indietro la Chiesa di Antiochia. Così, quando si recò ad Antiochia per l'ultima volta (At 18,23), si comprende che non poté farvi che un soggiorno breve. La Chiesa locale preferiva in realtà non offrire l'ospitalità troppo a lungo a questo personaggio ingombrante che là dove passava seminava zizzania. Essa non gli diede più incarichi. Egli partì rapidamente per il suo terzo viaggio missionario, probabilmente con sollievo di parecchi.

Verso una predicazione universale

Per diverse ragioni tra cui non ultima la presa di Gerusalemme da parte dei Romani nel 70, col conseguente indebolimento del giudeo-cristianesimo, la storia darà ragione a Paolo. Non senza difficoltà e rotture. Il più grave danno che ne derivò fu che il cristianesimo perse in parte le sue radici ebraiche. Ma prese una dimensione universale che né il conservatorismo di Giacomo, né la posizione più moderata di Pietro avrebbero potuto assicurargli.

Così si spiegano in gran parte le differenze tra Paolo e Gesù, specialmente se si parla dell’ultimo Paolo, l'autore delle grandi epistole. In ogni modo, essi non avevano affatto la stessa religione. La religione di Gesù era incontestabilmente il giudaismo. Quella di Paolo si evolse; ebreo di origine, ebreo rimase. Ma il suo itinerario si confonde con i passi che fece il ramo cristiano del giudaismo per costituirsi progressivamente in una religione nuova ben presto chiamata cristiana. E gli ultimi cristiani che egli portò a Gesù furono dispensati dall'applicare la legge e pur considerando l'Antico Testamento come fondamento della loro fede.

Dire se una tale evoluzione è un tradimento del messaggio di Gesù o se, al contrario, essa è la via della vera fedeltà non riguarda la competenza dello storico. Esistono fedeltà allo spirito che prendono le loro distanze dalla lettera: «La lettera uccide, ma lo spirito vivifica» (2 Cor 3,6). In questo versetto c'è una chiave di volta per la comprensione sia della sua persona sia del suo pensiero.

* Institut Catholique di Parigi

(da Il mondo della Bibbia, 53)

Paolo e la creazione di un mondo nuovo

di François Vouga *




L’attualità dell’apostolo Paolo è paradossale. L’occidente cristiano non finisce mai di regolare i suoi conti con colui che tuttavia considera come suo fondatore. La lettura stessa delle sue lettere è stata utilizzata fino al fraintendimento delle vere intenzioni di Paolo. Al punto che i valori in nome dei quali talora lo si rifiuta, sono proprio quelli che egli stesso ha introdotto nel pensiero religioso, filosofico, politico e sociale dell’occidente. Paolo crea nella storia la possibilità di una predicazione universale e inventa un concetto moderno dell’io, soggetto libero e responsabile, in una società aperta, universalista e pluralista.

Nella discussione che intraprende circa le tesi di Louis Dumont sull’individuo, Jean-Pierre Vernant si allinea a Michel Foucault per proporre una distinzione operativa tra tre termini: l’individuo, che corrisponde alla valorizzazione di singole figure nel loro contesto sociale il soggetto, che caratterizza l’individuo che si esprime in prima persona e a proprio nome, e l'io, che designa la persona consapevole della propria interiorità e della propria unità. A ciascuna di queste diverse tappe corrisponde la comparsa di un nuovo genere letterario. Alla scoperta dell'individuo, il genere della biografia, a quella del soggetto, l'autobiografia, e a quella dell'io le confessioni e i diari personali. Classicamente si associa la scoperta dell'individuo alla lirica greca e quella dell'io alle Confessioni di sant'Agostino. In realtà, essa appare già in Paolo, non solo nei racconti autobiografici (Rm 7; Gal 1-2) e nelle sue riflessioni sull’apostolato (1Cor 1-4; 2 Cor 2-7 e 10-13), ma soprattutto, e fondamentalmente, nell'elaborazione e nei presupposti della sua teologia della giustizia (Rm 1-3; Gal 1-2). Questa scoperta dell’«io» come soggetto personale e come elemento costitutivo di ogni essere umano deriva da un esperienza personale, esperienza che è una rivelazione di Dio. Dio si è rivelato a Paolo come un Dio altro e questa rivelazione fa nascere una nuova identità dell'essere umano (Gal 2,10). Il riconoscimento di un altro come di un «io», e quindi come di un «tu», si pone come fondamento per una nuova forma di società, sconosciuta al giudaismo come al mondo greco-romano, caratterizzata contemporaneamente dal suo universalismo e dal suo pluralismo. La novità di questa società non consiste, ovviamente, nè nell'universalismo, che domina il mondo ellenistico e romano, nè nel pluralismo, che è un'acquisizione tanto per l’antichità greca quanto per il giudaismo, ma nell'associazione dei due. Una nuova comprensione della persona umana, risultato di una singolare rivelazione di Dio, fonda una nuova società, universalista e pluralista.

Conservatore o progressista?

Se si rimprovera sempre a Paolo il suo conservatorismo, è soprattutto per quello che è creduto il suo atteggiamento verso le donne nelle comunità. Si dimentica allora che la famosa ingiunzione che ordina alle donne di tacere nelle assemblee (1 Cor 14,33b-36) è stata aggiunta in occasione dell'edizione delle lettere di Paolo per preparare l'insegnamento di 1 Tm 2,8, e che questa aggiunta non ha altra motivazione che di correggere le consegne che lo stesso Paolo dà in ICor 11,2-16. L'apostolo è convinto che le donne abbiano, nelle celebrazioni cristiane, gli stessi diritti e le stesse libertà degli uomini - convinzione progressista se raffrontata alla maggioranza delle chiese del XX secolo. Egli ordina loro, per questioni di pudore, di non partecipare alla liturgia a capo scoperto.

Se si rimprovera parimenti all'apostolo dì essere autoritario, è da una parte per il fatto che egli dà se stesso come esempio, e dall'altra per la determinazione con la quale organizza le sue comunità. Ma le chiese di nuova fondazione non hanno altro punto di riferimento di fede cercata e vissuta che quella del loro fondatore, e soltanto una grande capacità di discernimento teologico permette di preservarle dal conformismo, cioè dall'adeguarsi al mondo antico circostante. Il rimprovero fatto a Paolo di essere settario è dovuto in gran parte all'intransigenza che egli dimostra verso qualche suo collega. È il caso in particolare della lettera ai Galati e della seconda ai Corinzi, in cui egli rimprovera loro di annunciare un vangelo diverso da quello di Dio che lui stesso ha predicato. Ma qual era la posta del dibattito? Poiché alcuni cercavano di restaurare l'antico ordine e le linee di divisione abolite dal vangelo, lo scenario rappresentato nella lettera ai Galati come pure nella seconda lettera ai Corinzi oppone la società aperta ai suoi nemici totalitari.

La scoperta dell'io e di una società aperta

Questi rimproveri di conservatorismo, di autoritarismo e di settarismo attirano paradossalmente l’attenzione su ciò che costituisce la forza e la novità dell'apostolo. Un avvenimento imprevedibile intervenuto nella sua vita induce Paolo non solo a rinunciare di colpo a tutto ciò che costituiva, sino a quel momento, la sua convinzione fondamentale, ma anche a sviluppare una visione di Dio e della persona, diverse da quelle del giudaismo e dell'ellenismo, e a metterle in pratica nelle comunità che egli ha creato. Per Paolo, la giustizia di Dio consiste nel riconoscere ogni persona per se stessa, indipendentemente dalle sue qualità e dalle sue appartenenze, e a suscitare in essa la consapevolezza di esistere come soggetto. Nella storia dell'occidente, ancor prima di sant'Agostino, Paolo inventa il concetto moderno dell'io, riflettendo su se stesso come individuo e soggetto responsabile della propria storia personale. Non si conosce alcun movimento missionario, nella storia della Chiesa antica, che abbia messo al lavoro così tanti collaboratori di così diversi orizzonti come la missione paolina. Paolo non lavora mai solo, ma sempre in collaborazione con partner autonomi. Collaboratori regolari, come Timoteo, associati occasionali, che hanno i loro propri progetti missionari, come Apollo (1 Cor 16,12), Prisca o Aquila. Altri ancora gli sono indirizzati o lo raggiungono per un tempo limitato o per attività particolari (come Tito, incaricato della colletta, 2 Cor 7,5-9,15).

Paolo è proprio l'inventore di quella che Karl Popper ha chiamato la «società aperta». La sua visione di Dio e della persona lo induce a fondare comunità nelle quali non ci sono più né giudeo nè greco, nè schiavo né libero, né maschio nè femmina (Gal 3,28). La vita politica e intellettuale greca forgia la sua identità prendendo le distanze dalla barbarie, mentre il giudaismo è fondato sulla certezza dell'elezione e di un'Alleanza che lo separano dai pagani. Dire che non c'è più né ebreo né greco, significa dichiarare finite le diverse forme di aggregazione di cui si servono i gruppi sociali per sottolineare la loro identità. Dire che non c’è più schiavo nè libero, significa denunciare il residuo di segregazione su cui si fonda l'ideologia universalista dell’impero romano. Dire che non c'è più uomo né donna, significa prendere le distanze dalle scuole filosofiche o dalle società locali, che ammettono solo membri maschi, ma significa anche porre in evidenza il pluralismo dell’universalismo paolino. Il fatto che non esista più distinzione fra uomo e donna non significa che non sussistano differenze: vi sono pure ebrei e greci, schiavi e liberi, uomini e donne, ma tutti sono riconosciuti come persone uniche. Questo universalismo pluralista si distingue dalle differenti forme, correnti, di universalismo centralista, che escludeva le persone e i movimenti non adepti del pensiero universale, sul modello del sincretismo internazionale del mondo ellenistico. L'universalismo pluralista di Paolo distingue anche forme diverse, non meno correnti, di pluralismo segregazionista fornito dalla concezione veterotestamentaria del popolo d'Israele.

Un racconto di rottura fondante e strutturante

Paolo ha affermato l'esistenza, in ogni individuo, di una persona indipendente dalle sue qualità e dalle sue appartenenze, ha inventato il concetto moderno dell' «io». La verità di cui era portatore ha dato forma, nei grandi centri urbani dell'impero romano, a comunità universaliste e pluraliste. Ma di dove gli vengono queste conoscenze? L’apostolo non ha ricevuto né appreso nulla dagli uomini (Gal 1,10-12), risponde dapprima Paolo. Primia affermazione: egli non deve niente a nessuno. In particolare, egli non deve nulla alla tradizione degli apostoli e dei testimoni di Gesù, i discepoli di Galilea non hanno nulla da insegnargli e, se egli si reca a Gerusalemme dopo due anni di attività missionaria in Arabia (Ga 1,17), è soltanto per conoscere Pietro (Gal 1,18). Se egli non deve nulla ai discepoli di Galilea, non si attende neppure da loro alcuna legittimazione. Il suo evangelo non ne ha bisogno, è il vangelo di Dio. È da Dio che egli trae la sua autorità, e la verità che egli deve portare agli uomini è una rivelazione di Dio (Gal 1,10-12.l5-17). Un individuo si pone come soggetto in prima persona di fronte alla tradizione ebraica e di fronte al mondo greco. La sua vocazione, elemento fondante, è portatrice della verità del vangelo di Dio.

Ma quali sono questo avvenimento e questo incontro che sono fondamento della chiamata dell'apostolo? La lettera ai Filippesi parla di un progresso nella conoscenza e di un'acquisizione di un nuovo stato di coscienza, inaugurato dalla comprensione di Gesù (Fil 3,4-11). Secondo la lettera ai Galati, Dio ha rivelato il suo Figlio all'apostolo (Gal 1,12-16). In I Cor 9,l e 15,8, Paolo riferisce di aver visto il Risorto e che il Risorto gli si è manifestato. Il contesto autobiografico della lettera ai Galati (Gal 1,13-2,21) descrive con maggiori particolari le ripercussioni di questo evento: il persecutore della Chiesa diventa apostolo dei pagani, perché nessuno è giustificato dalle opere della Legge (Gal 1,13-14.16-17; 2,16), e le comunità di Giudea, che non lo avevano ancora mai visto e che non lo conoscevano che di fama, rendono gloria a Dio per il successo della sua missione (Gal 1,21-23). Questo racconto ci permette di cogliere dal punto di vista teologico la frattura che dà forma alla storia personale dell’apostolo. Per Paolo il fariseo, Gesù non poteva essere che un trasgressore della Legge ed un maestro eretico, condannato alla crocifissione e maledetto da Dio. Come Paolo ha conosciuto la storia di Gesù? In due modi: da un lato, i cristiani di Siria che egli perseguita quando si prendono a loro volta delle libertà nei confronti della legge ebraica si richiamano a Gesù; dall'altra, egli conosce Gesù attraverso la propaganda farisaica di cui trova l'eco nelle proposte critiche di Luca 7,33-35. Un crapulone ed un beone che mangia con i pubblicani e i peccatori. La visione o rivelazione del Risorto pone Paolo dinanzi ad un dilemma radicale: o la Legge è veramente rivelazione di Dio, come ha avuto la certezza sino a quel momento, ed è allora giusto che Gesù sia stato condannato e maledetto, oppure il crocifisso è il Figlio di Dio - o è rivelato da Dio come suo Figlio - e allora Dio non può essere il Dio della Legge. La rivelazione di Dio e l'apparizione del Risorto non pongono semplicemente Paolo dinanzi ad un'alternativa, ma Dio prende posizione e risolve il dilemma. Egli rivela il Figlio, si manifesta Padre del Crocifisso. Tutto ciò che segue deriva da questo fondamentale incontro.

La giustizia di Dio, fondamento del rispetto della persona

«Dalle opere della Legge non sarà giustificato nessuno» (Gal 2,16). Questa formulazione paolina è stata molto offuscata dalle discussioni che ha sollevato. Dapprima nella lettera di Giacomo (Gc 2,14-26), poi nei dibattiti della Riforma e della Controriforma. Tra «la giustificazione attraverso le opere della Legge» e «la giustificazione attraverso la fede in Gesù Cristo», Paolo non contrappone fede e opere, ma Gesù Cristo e Legge. E ciò che Paolo designa con «giustificazione attraverso le opere della Legge» non è né un tentativo di autogiustificazione davanti a Dio - è evidente, per un ebreo, che solo Dio giustifica - né un tentativo di meritare la propria giustificazione attraverso qualche opera o qualsivoglia merito. «Le opere della Legge», nella discussione condotta dalla letteratura, designano la circoncisione come marchio simbolico dell’identità ebraica e dell'appartenenza al popolo eletto. «Giustificato attraverso le opere della Legge» significa di conseguenza riconosciuto e considerato da Dio. Ma «giustificato attraverso la fede in Gesù Cristo» significa riconosciuto e amato da Dio in quanto persona, indipendentemente dalle sue appartenenze e dalle sue qualità. Si ama una persona per le sue qualità, o indipendentemente dalle sue qualità? Domanderà Blaise Pascal. Tale è esattamente la domanda suscitata dall'evento capitato nella vita dell'apostolo.

La Croce, proclamazione dell'uomo senza qualità

La definizione della Croce di Paolo, come manifestazione di Dio nel doppio evento della morte e della risurrezione di Gesù, trasforma il soggetto in una creatura nuova (Gal 6,13). La Croce lo autorizza e lo invita a prendere coscienza del sé e della sua identità individuale. Essa riconosce e crea la persona indipendentemente dalle sue qualità e dalle sue appartenenze. Ora, attraverso questa trasformazione, attraverso le distinzioni che essa opera e attraverso l'essere nuovo cui la Croce dà vita, essa fa dell'essere umano un «io» libero di cercare e di ricevere il senso della sua esistenza, capace di decidere, di scegliere il proprio Dio e di scegliere se stesso, in quanto soggetto responsabile. La morte di Gesù rivela la possibilità di questa trasformazione la cui universalità non è sottoposta a condizioni: «Cristo ci ha liberato dalla maledizione della Legge divenendo per noi maledizione, perché è scritto [nella Legge]: “L'appeso è una maledizione di Dio” dichiara l'apostolo. Cristo è l'uomo nuovo e nostra liberazione. Egli è diventato, lasciandosi crocifiggere, l'uomo senza qualità per eccellenza. Uomo senza qualità che Dio ha risuscitato e rivelato come suo Figlio perché Dio non è un Dio che riconosce e ama l'essere umano per le sue qualità, le sue origini, le sue appartenenze o le sue lealtà. Se Dio, come Paolo ne ha fatto esperienza, non è il Dio della Legge, ma il Dio del Crocifisso, trasgressore della Legge, che mangiava con i pubblicani e i peccatori, allora la buona notizia della giustizia di Dio non è legata all'elezione e alla Legge, ma è destinata ad ogni persona che sia pronta ad intenderla e a metterla in pratica.

La fede come fiducia

Si comprende ora ciò che Paolo intenda con l’espressione ambigua «fede di Gesù Cristo» o «fede in Gesù Cristo». Non è certamente questione di reintrodurre attraverso l'espediente di una professione di fede cristologica un criterio di appartenenza che qualifichi la persona. Se così fosse, Cristo sarebbe proprio morto invano, e il mondo antico non sarebbe stato sostituito che da un mondo nuovo dello stesso ordine. Ciò che fa nascere la creatura nuova, è in primo luogo la giustificazione attraverso la fede «di» Gesù Cristo. Ciò che costituisce l'essere nuovo, il soggetto in prima persona, consapevole della propria identità in ragione dell'amore e dell'incondizionata riconoscenza di Dio, è la stessa confidenza che vi era in Gesù Cristo quando mangiava con i pubblicani e i peccatori, e affermava di rendere in questo modo presente il Regno di Dio. Questa fiducia fondatrice di Colui che Dio ha rivelato come suo Figlio fonda ormai la fiducia dei figli di Dio. Così, l'affermazione secondo la quale nessuno sarà giustificato. «se non dalla fede in Cristo» (Gal 2,16) non significa nient'altro che questo: il Dio di Paolo ci chiama a vivere della fiducia nella fiducia, ed questa che crea il soggetto responsabile della Promessa. Essa fonda il riconoscimento del prossimo come soggetto in prima persona e come un altro «io», cioè come un «tu». La responsabilità e la grazia di questo riconoscimento reciproco fondano la creazione di una società nuova, universalista e pluralista.

* Professore di Nuovo Testamento, Kirchlische Hochshule Bethel si Bielefeld (Germania)

(da Il mondo della Bibbia, 53)

Mercoledì, 05 Marzo 2008 00:34

La risurrezione e la vita (Giovanni Vannucci)

La risurrezione e la vita

di Giovanni Vannucci

Il punto centrale del brano di Gv 11,1-45 non è tanto il ritorno alla vita di Lazzaro morto, quanto le parole rivolte da Cristo a Marta: «Io sono la risurrezione e la vita, chi crede in me, anche se morto, vivrà». Il miracolo della rivivificazione del corpo fisico del morto è un corollario, una verifica delle parole di Cristo, nulla di più; non possiamo fondarvi la prova della natura divina del Maestro, essa può essere oggetto di fede solo in colui che ne sperimenta la risurrezione e la vita.

Cosa sono la risurrezione e la vita, cosa significa credere in Cristo, cosa vogliono dire la morte e la vita di chi in Lui crede? Prima di tentare una risposta a questi interrogativi, esaminiamo le figure dell’episodio della risurrezione di Lazzaro. Mentre Gesù era con i discepoli in una località oltre il Giordano, gli fu recata la notizia dell’infermità del suo amico Lazzaro. Egli fa questo commento: «Questa infermità non è perché Lazzaro muoia, ma perché in essa e per essa venga manifestato il mistero del potere infinito di Dio». Dopo due giorni dalla notizia, Gesù decide di recarsi da Lazzaro. I discepoli gli ricordano il pericolo che per lui e per loro c’era nel tornare nella Giudea, ove l’attendevano gli oppositori. La risposta di Gesù è simile a quella che diede ai discepoli a proposito del cieco nato: «La mia giornata non è ancora terminata, ed è necessario che io agisca; la mia luce, finché sono sulla terra, è necessario che risplenda... Lazzaro è morto. Io ne godo per voi, perché vi sarà rivelato che Dio, e io in Lui, siamo la vita». Tommaso segue Cristo dicendo: «Andiamo a morire con lui!». A Betania Gesù trova Lazzaro già da quattro giorni sepolto; Marta, la fede impulsiva e attiva, gli va incontro, e la sua fede, ancora legata alle credenze del suo popolo, afferma di credere alla risurrezione che avverrà nell’ultimo giorno, quando gli scheletri usciranno dai sepolcri e si rivestiranno di nuovo di carne. Gesù la richiama alla novità risurrezionale che Lui era venuto a portare all’uomo: «La risurrezione e la vita sono io, chi accoglie e vive questa novità anche se morto vivrà, e se è vivo non morrà». Marta si risveglia alla novità di Cristo e dice: «Credo che tu sei il Portatore del nuovo Tempo divino, che tu sei il Figlio di Dio». Marta, la fede attiva, corre a casa, dalla sorella Maria, la fede sicura e silenziosa che aspetta, e le dice: «Gesù ti ha chiamato». Maria balza in piedi e corre da Gesù, con lei si muovono i Giudei che le stavano vicino. Davanti al gruppo guidato da Maria Gesù esplode in uno scatto d’ira, vede davanti a sé una donna che crede e ama e una folla di saccenti, attaccati alle vecchie visioni religiose, che dubita e si oppone: «Non avrebbe potuto fare che Lazzaro non morisse?». Fa rimuovere la pietra dal sepolcro e grida: «Lazzaro, esci... E colui che era morto uscì». Molti dei Giudei presenti credettero, alcuni di essi, invece, andarono ad avvertire i Farisei della nuova provocazione compiuta da Gesù. Il quadro si presenta in tal maniera come la teofania di Gesù, portatore di risurrezione e di vita: Lazzaro morto ne ascolta e riconosce la voce che lo chiamava alla vita; i Giudei e i Farisei, vivi, non odono tale voce; la medesima voce che disseppellisce Lazzaro, seppellisce i Farisei, vivi, nella loro sordità.

«Io sono la risurrezione e la vita»; cos’è la risurrezione, cos’è la vita? Sono due termini che si oppongono alla morte come suo superamento, la risurrezione, o come sua negazione, la vita; oppure essi ci aiutano a una comprensione più accurata e profonda delle realtà della vita che tutti stiamo vivendo? La vita non potrebbe essere senza la morte, come la luce non è senza l’ombra, la vita è un’implacabile successione di morte e risurrezione. La pianta cresce, fiorisce, produce frutti, appassisce e muore depositando in terra il seme che riprenderà il ciclo vitale. Il fiore è insieme la morte della gemma e la risurrezione di questa in una più affascinante forma. Il ciclo della vita di ogni vivente è un’incessante successione di vita-morte-risurrezione. La vita è permanente, le forme sono periture ed effimere. A questa visione concreta ci richiama Cristo.

Nel contesto egli sottolinea l’aspetto psicologico, mentale della vita-morte-risurrezione. I Farisei sono paralizzati dalle loro vedute dogmatiche, dai loro sistemi di pensiero, ora la vita è sempre nuova, non ha né passato, né futuro, è indipendente dal tempo e dallo spazio. Gesù portava il Tempo nuovo, non poteva esser compreso da menti solidificate in sistemi di pensiero: «Io sono la risurrezione e la vita, Io sono la vita in tutte le morti, e la morte in tutte le vite». È il rinnovatore della coscienza, della volontà, del pensiero, dell’azione. Il grande disturbatore che ci tormenta e ci spinge all’ ascesa, che si nasconde nella coscienza per renderci inquieti. Pone la sua mano nel frutto che vorremmo consumare, vietandocene l’accesso. Frappone la sua carne piagata tra noi e il tormento che ci agita il sangue. Mette il peso della sua Croce tra noi e l’oro, tra noi e l’avidità e la superbia.

Senza la sua presenza stimolatrice, è questo il senso di «Io sono la risurrezione e la vita», l’umanità più non sarebbe, né sarebbe mai stata. «Io sono la risurrezione e la vita», significa che l’opera redentrice di Cristo è immanente, è continua, e consiste nel redimere, rinnovare, rendere liberi gli schiavi; nel trasformare gli incoscienti in persone coscienti, i deboli in forti, i miseri in uomini felici, i malati in creature sane. La sua via è la Croce; su di essa sale chi ha gettato la sua natura corrotta e corruttrice; di essa è degno chi, in purezza e pazienza, sopporta il destino dell’uomo, chi sa che la cenere del tempo ricopre i troni, eguaglia le piramidi alla tomba dello schiavo, il cui nome fu noto solo alla madre. La polvere del tempo non si è posata sulle croci, la loro luce ha abbreviato le tappe d’ascesa dell’uomo. Il tempo della Croce non è finito, perché non tutti sentono che Cristo è la risurrezione e la vita.



Giovanni Vannucci, «La risurrezione e la vita», 5a domenica di Quaresima, Anno A; in Risveglio della coscienza, Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; pp. 57-59.

Religioni e pace. Nello spirito di Assisi

La fede… non è mai troppa

di Giovanni Genre


DOMANDA

Quella che avete presentato non è un’eccessiva demonizzazione della religione?
Ho enfatizzato la distinzione fra religione e fede, perché oggi la religione è troppo forte e la fede troppo debole; è necessario un maggior riequilibrio ma religione e identità non sono valori da abolire.

Il cristianesimo deve mantenere distinte fede e religione. In tutti i vangeli Gesù polemizza duramente con coloro che ne mescolano i piani. Con Karl Barth, andrei oltre la distinzione arrivando a contrapporle. Nella visione, assai «protestante», di questo importante teologo del xx secolo, «l’uomo religioso» diventa il peccatore per antonomasia. «Peccato» è proprio il «tentativo religioso» di raggiungere Dio: che Gesù denunzia come illusione e «giogo», al quale la religione (di scribi e farisei) vuole sottoporre la gente del suo tempo.

Una denunzia radicale da comprendere con intelligenza. Anche nella bibbia è sempre estremamente difficile, direi impossibile, distinguere fra la rivelazione di Dio e il modo in cui gli esseri umani l’hanno ricevuta.

Come cristiani dobbiamo vigilare sulle possibili confusioni tra fede e religione, pericolosissime e foriere di tragedie: le crociate, il colonialismo perpetrato nel nome di Dio, il «Dio è con noi» riportato sulle fibbie dei cinturoni dei soldati nazisti... Bisogna mantenere una netta discontinuità fra Dio e l’uomo, affinché neppure l’autorità della chiesa si sostituisca a quella del vangelo.

La fede, invece, non è mai «troppa», poiché è la condizione di chi è afferrato da Dio; non è mai una virtù, né un privilegio di qualcuno. È piuttosto una vocazione.

Oggi si assiste a una sindrome da ripiegamento identitario pericolosissima, in gran parte veicolata dalle religioni. In nome della distinzione fra religione e fede non dobbiamo lasciarci strumentalizzare da chi vuole terrorizzare gli altri evocando lo scontro fra cristianesimo ed islam.

Io non credo sia in atto uno scontro fra civiltà. A scontrarsi sono teocrazia e fondamentalismo da una parte; tolleranza e dialogo dall’altra. La posizione integralista e quella del dialogo sono presenti in tutte le religioni, bisogna lavorare perché si diffonda e affermi la seconda.

Mi pare inaccettabile, per esempio, la convinzione di chi, in Italia, pone il discorso dei diritti e della libertà (di coscienza, di fede, di espressione) sul piano della reciprocità. Concedere questi diritti solo nella misura in cui anche gli altri stati (Arabia Saudita, Sudan...) li concederanno, significa declassare il vangelo, che è gratuito, a merce di scambio. Dobbiamo invece favorire la convivenza pacifica di culture e religioni diverse, iniziando dal nostro paese e seguendo l’esempio di Gesù nel suo incontro con la samaritana (Giovanni 4).

Un incontro vietato: giudei e samaritani non si parlavano da generazioni; il disprezzo dei giudei per i samaritani era assoluto; e la donna, avendo avuto molti mariti e compagni, aveva una pessima reputazione. Ma Gesù parla e fa parlare. Questo dovrebbero essere le chiese «cristiane»: luoghi di un dialogo possibile con chi è diverso. Chiedendole poi da bere Gesù si pone in una condizione di dipendenza dalla donna. Ci dice che ognuno di noi ha bisogno degli altri. Viviamo tutti in una situazione di interdipendenza reciproca, che troppo spesso dimentichiamo. Il dialogo, la mutua comprensione e la convivenza sono possibili solo su queste basi.

Infine, Gesù pronunzia le famose parole: «L’ora viene che né su questo monte, né a Gerusalemme, adorerete il Padre. I veri adoratori adoreranno il Padre in Spirito e verità». Non vi sono più luoghi sacri o templi, semplicemente una relazione diretta con Dio, che prescinde dalle istituzioni, dalle tradizioni, dalle norme religiose. È il superamento della religione, che porta con sé l’espressione di una fede libera e liberante.

(da MC, gennaio 2007)

Giovanni Genre, originario del Piemonte, laureato presso la Facoltà valdese di Roma, con studi in Scozia e Germania, nel 1984 è stato consacrato pastore della chiesa valdese e ha esercitato il suo ministero a Torino, in Calabria, Ivrea, Biella, Val Pellice. Eletto moderatore della Tavola nel 2000, dal settembre 2005 è pastore della chiesa valdese di Milano.

Religioni e pace. Nello spirito di Assisi

Troppa religione crea conflitti

di Giampiero Comolli

Per affrontare correttamente il tema proposto è indispensabile distinguere fra fede e religione che, pur strettamente implicate l’una all’altra, restano distinte e non sovrapponibili.

La religione rimanda a una dottrina, a un itinerario etico e ascetico da percorrere per raggiungere una meta: è un movimento dal basso verso l’alto, che ha come protagonista l’homo religiosus.

La fede implica invece l’annuncio di un evento da accogliere, un’iniziativa divina che ci precede e che suscita una risposta: è un movimento dall’alto verso il basso, di un Dio che viene.

Religione sono le opere messe in atto da un’istituzione ecclesiale. Fede è ascolto di una verità donata per grazia da Dio.

Questo significa che la religione è deputata alla gestione terrena di una verità trascendente. Come tale crea istituzioni, comportamenti, appartenenze. Dona identità individuale e collettiva: ci dice chi siamo noi, come credenti, rispetto ai non credenti o a chi crede in altro.

La fede, invece, come totale accoglimento di una Parola divina non in nostro possesso, può arrivare a cancellare la nostra identità, per farci donne e uomini nuovi, guidati dallo Spirito di Dio.

Oggi le religioni sono entrate come attori primari nel teatro di un mondo segnato dal pluralismo che, proprio in quanto incrocio di culture diverse, mette in crisi le identità acquisite. In assenza di ideologie laiche forti, oggi le religioni diventano veicoli di identità collettiva: forniscono simboli e categorie di pensiero per rappresentare se stessi, per differenziarsi dagli altri e dominarli.

Fondate sulla convinzione di detenere verità assolute, le religioni diventano fattori di identificazione culturale per grandi collettività umane; di conseguenza possono legittimare conflitti, contrapposizioni politiche e guerre.

In tutto il racconto biblico si ritrovano i guasti della religione e una sua forte critica condotta sulla base della fede (Cfr Michea 6,6-8). Nessuna religione è immune da questa deriva.

Le chiese protestanti storiche sono consapevoli dei problemi che possono derivare da un eccesso di religione. In Italia sono fautrici di una netta distinzione fra chiese e stato e critiche verso le nuove ideologie (atei devoti), che rivendicano un’identità cristiana europea e un’identità cattolica italiana come radice e fondamento di un’appartenenza collettiva in contrapposizione ad altre civiltà.

Negli Usa, al contrario, la destra religiosa (protestante ndr) costituisce un fronte politico e teologico conservatore, centrato su valori tradizionali che attribuiscono all’America cristiana un ruolo di guida nel mondo in campo etico, politico e militare.

Quanto alle chiese ortodosse, proprio per il fatto di essere autocefale (indipendenti per vita e organizzazione interna), sono storicamente divenute «etniche» e quindi deputate a preservare e difendere l’identità collettiva di un popolo. In quanto (letteralmente) «custodi della vera fede» sono anche tradizionaliste e critiche nei confronti di una netta separazione fra chiesa e stato.

In definitiva, dunque, l’intreccio fra religione e fede è inestricabile. Nelle attuali condizioni storiche non si può mirare a una fede pura che faccia a meno della religione. Ma è sempre possibile attuare una forte critica delle religioni a partire dalla fede. Non si può pretendere di essere gli unici custodi dell’unica fede vera, relegando tutti gli altri nell’errore. L’unica via che le religioni possono percorrere verso la pace è quella di un dialogo ecumenico e interreligioso, condividendo la consapevolezza che l’eccesso di religione è fonte di conflitti

(da MC, gennaio 2007)

* Giampiero Comolli, studioso dei mutamenti religiosi nel mondo contemporaneo, giornalista, saggista e scrittore, collabora con diverse testate per le quali scrive resoconti di viaggio e ha pubblicato diversi saggi, tra i quali: Buddisti d’Italia, viaggio tra i nuovi movimenti spirituali; I pellegrini dell’Assoluto, storie di fede e spiritualità raccolte tra Oriente e Occidente.

Le Chiese dell'oriente cristiano

La Chiesa Ortodossa di Polonia

di John Nellykullen



Quando Polonia divenne nuovamente un paese indipendente all’inizio della prima guerrra mondiale, quasi 4.000.000 di cristiani ortodossi erano inclusi nei suoi nuovi confini. Il maggior parte di costoro erano bielorussi ed ucraini ed erano nella parte nel parte orientale del paese, sotto la giurisdizione del patriarca di Mosca.

Subito dopo sua indipendenza, comunque, il governo di Polonia cominciò a promuovere la idea secondo cui gli ortodossi della Polonia dovessero costituire una Chiesa Ortodossa autocefala indipendente da Mosca. Questa posizione era sostenuta dal primo metropolita ortodosso di Warsavia, George Yoroshevsky, che era stato nominato da Mosca ricevendo anche un certo grado di autonomia. Però questi nel 1923 fu assassinato da un monaco russo che aveva un’opinione diametralmente opposta.

Il governo di Polonia presentò allora la richiesta al Patriarcato di Constantinopoli che dopo lunga riflessione concesse lo stato di autocefalia alla Chiesa Ortodossa di Polonia il 13 novembre del 1924. Nel 1927 Constantinopoli concesse al metropolita di Warsavia il titolo di “Beatitudine”, ma il patriarcato di Mosca considerò questo come un’interferenza nelle sue competenze e prerogative è rifiutò il riconoscimento dello stato di autocefalia alla Chiesa Ortodossa Polacca.

Durante questo periodo ci furono tensioni nella Chiesa Ortodossa di Polonia derivanti dal fatto che tutti i vescovi erano russi, mentre il 70% dei fedeli erano ucraini. Infatti furono rifiutate le richieste di avere dei vescovi ucraini e di poter celebrare la Liturgia in ucraino. Durante questo periodo c’erano cinque diocesi, due seminari con 500 studenti, una facoltà di teologia in Varsavia con 150 studenti, 1624 parrochie, 16 monasteri.

Negli anni ’30 ci furono dei conflitti tra cattolici ed ortodossi, in Polonia, il Metropolita Dionysy di Varsavia protestò dicendo che i preti ortodossi erano stati obbligati a predicare in polacco, che le chiese ortodosse erano state chiuse con la violenza e tante di esse erano state distrutte, mentre i fedeli ortodossi avevano avute pressioni perché diventassero cattolici. Il metropolita cattolico dell’Ucraina Andrew Sheptytsky confermò queste accuse ed aggiunse la sua voce alle proteste ortodosse in una lettera pastorale ai suoi fedeli.

Quando l’Unione Sovietica nel 1939 occupò la parte est della Polonia la maggior parte degli ortodossi polacchi ancora una volta si trovò in Unione Sovietica e fu reincorporata nel patriarcato di Mosca. Così la Chiesa ortodossa di Polonia si ridusse numericamente.

Nel 1948, a seguito della occupazione comunista della Polonia il metropolita ortodosso di Varsavia fu deposto a causa della sua opposizione al comunismo. Nel stesso anno, secondo la richiesta dei vescovi ortodossi di Polonia, il patriarcato di Mosca dichiarò che il riconoscimento di autocefalia dato da Costantinopoli nel 1924 era nullo e dichiarò a sua volta lo stato di autocefalia della Chiesa Ortodossa Polacca. Comunque, l’ufficio di metropolita di Varsavia rimase vacante fino al 1951, quando i vescovi ortodossi di Polonia chiesero al patriarcato di Mosca di nominare un nuovo metropolita. Mosca nominò allora come metropolita l’arcivescovo Makary Oksaniuk di Lviv in Ucraina, che presiedette alla dissoluzione della chiesa greco-cattolica Ucraina negli anni 1946-1947. Da questo periodo la Chiesa Ortodossa di Polonia continuò ad avere uno stretto rapporto con il patriarcato di Mosca.

Ci sono tre piccoli monasteri ortodossi polacchi a Jableczna, Suprasl e monte Garbarka. Il monastero Suprasl è il centro della disputa tra la chiesa ortodossa e la cattolica in Polonia. Fondato nel quindicesimo secolo, il monastero ha cambiato proprietà tra cattolici romani, ortodossi e greco-cattolici tante volte. Nel 1944 una parte del complesso era stato dato agli ortodossi come monastero, nel settembre del 1993 il Consiglio dei Ministri polacco decise di dare tutto il complesso alla chiesa ortodossa. Ma il trasferimento della proprietà fu ritardato dalla protesta dei cattolici sia di rito romano che greco. Però nel febbraio del 1996 il governo polacco riaffermò la sua decisione di dare il complesso agli ortodossi.

Negli anni recenti, la chiesa ortodossa di Polonia si è maggiormente integrata con la cultura polacca, e la lingua polacca è usato più volte nella liturgia. Quattro periodici sono pubblicati, e la Chiesa è più impegnata nelle attività caritative. Attualmente la Chiesa Ortodossa Polacca ha sei diocesi e 410 chiese di cui 250 sono parrocchie servite dai 259 preti e diaconi. Il seminario telogico ortodosso in Varsavia ha circa 80 studenti, e c’è una Facoltà Ortodossa di Teologia all'Accademia di Teologia cristiana nella stessa città, con 35 studenti.


Territorio: Polonia.

Guida: Metropolita Sawa.

Titolo: Metropolita di Varsavia e di tutta la Polonia.

Residenza: Varsavia, Polonia.

Membri: 570.000.

Un solo Dio per tutti i credenti

Terzo millennio, tempo della riconciliazione?

di Adolfo Russo

Nel corso dei secoli abbiamo assistito a una lottizzazione dell’idea di Dio. Occorre ora incontrarsi e proiettarsi in avanti, dialogando con tutti gli uomini, creature e figli dello stesso Padre. E’ necessario individuare una posizione culturale in cui ritrovarsi senza perdere il carattere insostituibile e unico della rivelazione e del dono del Figlio da parte del Padre di tutti.

Dopo il crollo delle Torri gemelle e le successive guerre in Afghanistan e Iraq, chi non ha temuto quello scontro di civiltà pronosticato per il nostro secolo da alcuni osservatori? Chi non ha paventato che anche tra le religioni stesse prevalendo un clima d’incomprensione e di ostilità, avvertito a pelle in occasione delle vignette satiriche e delle polemiche del mondo islamico per la controversa lezione di Benedetto XVI a Ratisbona il 12 settembre 2006?

L’eredità del passato

È troppo pesante per dimenticarla in fretta. Per lunghi anni le religioni si sono ignorate e spesso delegittimate a vicenda. Talvolta sono arrivate anche alle maniere forti, sì da giustificare l’impressione che in esse si celasse una radice di violenza e che non vi potesse essere tolleranza all’ombra delle istituzioni religiose. Le “guerre sante” hanno lasciato nell’immaginario collettivo una traccia incancellabile, che ancora sanguina.

Lungo i secoli abbiamo assistito a una lottizzazione dell’idea di Dio, applicando abusivamente all’ambito della fede una logica di spartizione tipica dei beni materiali. Un Dio cristiano, uno per i musulmani accanto a quello per gli ebrei. Ogni credente si è rivolto al proprio Dio, pensando fosse diverso e magari in concorrenza con quello degli altri. Un esercizio teologico pericoloso che ha prodotto rivalità e lacerazioni o che comunque è servito a mascherare conflitti di natura diversa.

Una svolta decisiva è arrivata con il concilio Vaticano Il. In diversi documenti e in particolare nella Nostra aetate si respira una nuova sensibilità. Le tre religioni monoteistiche, ebraismo, cristianesimo e islam (ma in genere tutte le grandi tradizioni religiose), sono considerate degne di rispetto e depositarie di un patrimonio ricco non solo di valori sociali e culturali, ma anche di orientamenti etici e spirituali.

Da allora si è aperta una nuova stagione. Nuovo il linguaggio, nuove le prospettive. Le altre credenze in seguito non verranno più considerate spazi di superstizione e opere diaboliche, come in passato, ma luoghi dove operano il Verbo e lo Spirito, dove è possibile fare autentiche esperienze spirituali, dove Dio si fa prossimo a ogni uomo per condurlo sulle vie della libertà e della verità.

Trovare un terreno comune

In questa luce gli altri credenti appaiono testimoni di eminenti valori, possibili interlocutori con i quali entrare in un dialogo critico e costruttivo. Non si tratta ovviamente di mettere tutto sullo stesso piano e di smarrire le proprie connotazioni spirituali, quasi che una religione valga l’altra.

Il confronto con l’altro non è mai una rinuncia alla propria identità. Questa d’altra parte non è un’acquisizione definitivamente compiuta, ma un processo che cresce e matura proprio nel dialogo. Ognuno comprende meglio sé stesso, conoscendo di più l’altro, il suo mondo, la sua mentalità.

Tuttavia ancora numerosi rimangono i problemi aperti. Come comporre in un sistema di pensiero unità e molteplicità, identità e alterità? Come declinare la verità al plurale? E inoltre, una fede rivelata può riconoscere altre rivelazioni? E a quali condizioni?

Di fronte a queste domande, il problema teologico più rilevante è rinvenire una posizione concettuale capace di cogliere il rapporto con la verità sotteso alla molteplicità costitutiva delle diverse proposte religiose. In realtà, non si tratta di cedere alle ragioni del relativismo, per cui una posizione vale l’altra. Bisogna invece guadagnare un punto di riferimento più alto, che permetta di considerare la verità come un orizzonte di senso sul quale si affacciano le diverse religioni, che - seppure da prospettive diverse - tendono alla stessa realtà.

La comunità cristiana è sollecitata a rivedere certe categorie ritenute acquisite e a mettere a punto un impianto di pensiero che, senza negare il carattere unico e insuperabile della rivelazione in Cristo, consenta di riconoscere l’autenticità di altre manifestazioni, mediante le quali Dio ha parlato e continua a parlare alla maggioranza degli uomini. In tal modo ogni credente potrà vivere della Parola che ha ricevuto, riconoscendo la fecondità di un’altra Parola e avviare un dialogo costruttivo con tutti gli uomini.

Certo, il mondo cristiano si presenta a questo appuntamento diviso da una storia di lacerazioni e incomprensioni. La ricerca di una possibile unità con gli altri credenti si scontra con una mancanza di unità al suo interno. Per quanto oggi tutte le Chiese avvertano l’urgenza di un’ampia convergenza con gli altri credenti, i loro sforzi rischiano di essere poco credibili e di restare improduttivi.

Il richiamo alla necessità di trovare tra i diversi credenti un terreno comune resta di fatto compromesso dal peso delle divisioni tra le Chiese. Queste, d’altra parte, concentrate sui loro problemi e sulle annose dispute teologiche, non sono riuscite a progredire di molto sul cammino ecumenico. A stagioni d’entusiasmo si vanno alternando momenti di stanchezza e di sfiducia. A difficoltà d’ordine teologico s’aggiungono intralci politici e sospetti umani. Forse l’impegno di confrontarsi con un traguardo più ampio potrà aiutare le varie comunità cristiane a uscire dall’impasse e superare le loro divisioni.

La prospettiva interreligiosa s’intreccia così con l’impegno ecumenico, anzi lo esige come sua premessa e forza catalizzatrice. La sollecitudine per l’umano - oggi a rischio in tanti settori della vita - rappresenta un orizzonte di senso che fa convergere tutti i credenti verso un identico obiettivo e può aiutare le comunità cristiane a convenire più unite verso questo storico appuntamento.

Tutti i credenti verso un unico obiettivo

Ad attenderli vi saranno tanti che - come ricorda la Nostra aetate - ancora si interrogano sui «reconditi enigmi della condizione umana che ieri come oggi turbano profondamente il cuore dell’uomo: la natura dell’uomo, il senso e il fine della nostra vita, il bene e il peccato, l’origine e il fine del dolore, la via per raggiungere la vera felicità, la morte, il giudizio e la sanzione dopo la morte, infine l’ultimo e ineffabile mistero che circonda la nostra esistenza, donde noi traiamo la nostra origine e verso cui tendiamo»

Ad attenderli vi saranno ancora le grandi questioni etiche e bioetiche, che in assenza di un orientamento comune dei credenti saranno decise senza di loro. Questioni decisive per il futuro delle nostre società. Ad attenderli vi saranno inoltre quelli che non hanno voce e che non possono che essere stritolati dai giochi d’interessi messi in campo dalle aristocrazie economiche che reggono le sorti del mondo. Vi sarà di sicuro il nostro pianeta, la Terra stessa, che rischia un collasso ecologico se prevarranno le stesse condotte contaminanti di oggi.

Il primo millennio della nostra storia ha visto la Chiesa sostanzialmente ancora unita nella fede. Il secondo si è caratterizzato per le note separazioni del mondo cristiano; prima tra cattolici e ortodossi, poi a metà del suo corso all’interno della cattolicità occidentale. Alla lottizzazione di Dio ha fatto pendant quella della Chiesa di Cristo. Il terzo millennio potrebbe essere il tempo della riconciliazione, dono dello Spirito a una Chiesa dimentica di sé stessa e proiettata in avanti per incontrare tutti gli uomini, creature e figli di uno stesso Padre che per tutti loro ha donato ciò che aveva di più prezioso, il suo unico Figlio Gesù. Conclude significativamente la Nòstra aetate: «Non possiamo invocare Dio Padre di tutti se ci rifiutiamo di comportarci da fratelli verso alcuni tra gli uomini che sono creati a immagine di Dio» (5).

* ordinario di teologia fondamentale presso la Facoltà teologica dell’Italia meridionale, Napoli

(da Vita pastorale, 2, 2007)


Bibliografia

Coda P., Il logos e il nulla. Trinità, religioni, mistica, Città Nuova 2003; Russo A, Dio a colori. Pensare Dio nell’orizzonte del pluralismo, San Paolo 2003; Russò A;, La verità crocifissa. Rivelazione e verità in tempi di pluralismo, San Paolo 2005; Ratzinger J., Fede, verità,tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli 2005; Crociata M. (cur.), Teologia delle religioni. La questione del metodo, Città Nuova 2006.

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