I Dossier

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Averincev: l’esperienza di costruire cultura
(prima parte)

di Vladimir Zelinskij


A Natalija Petrovna Averinceva

Nell’introdurre questa riflessione sui Sergej Averincev, penso innanzitutto alle sue poesie. Poesie che si vorrebbe chiamare «preghiere come gigli del campo», dal titolo che il monaco Kiprian Kern diede al suo libro sulla poesia liturgica, nella quale le parole, come steli di fiori, si piegano lievemente sotto il peso leggero, incorporeo, della preghiera.

Oh Dio, le parole fuggono
dalla fragile dimora dell'uomo
al nostro sentimento carnale
misteriosamente indifferenti;
staccandosi dalla mano, cominciano a vagare.
Come cani randagi ululano:
meglio è per loro ritornare a Te,
stringersi al Tuo sacrario. (1)

«Il deserto è fiorito come un giglio del campo, o Signore», si dice nell'Irmologion. (2) Quando si pensa all'ambiente, al terreno da cui è germogliato il «fenomeno Averincev», l'immagine del deserto «fiorito» come un giglio del campo si affaccia spontaneamente alla memoria. Certo, l'ululato di cani randagi è ciò che meno si percepisce nelle sue parole. Siamo piuttosto di fronte alla figura di un pentimento non retorico, perché le sue parole, staccatesi dalla mano, invece di vagare si tuffano in profondità alla ricerca di tesori nascosti nelle navi affondate e, raggiunti lì, li ripuliscono dalle alghe e dal fango... Le parole di Averincev sembrano custodire il profumo di quelle profondità, emanano la dolce antichità e il tepore degli altari sui quali si è appena estinto il fuoco dei greci che offrivano sacrifici, hanno la fragranza dei mari e degli stretti che un tempo Odisseo attraversò tornando in patria...

«Di molti uomini le città vide e conobbe la mente». (3)

La strada di Averincev, che si può seguire passando in rassegna le città che ha percorso e i luoghi che ha «visto», è sempre via del ritorno al «sacrario» attraverso la preghiera.

La chiave di Eraclito

Qualsiasi esperienza creativa può essere esaminata in diverse «chiavi», che a buon diritto prendiamo in prestito dagli autori più impensati. Da lungo tempo cerco di sciogliere l'enigma di Averincev usando la «chiave di Eraclito». Mi si è impresso nella memoria un frammento del pensatore greco, che è rimasto, come tutto in lui, oscuro e inesplicabile: «sapere molte cose non insegna ad avere intelligenza: l'avrebbe altrimenti insegnato a...» (fr. 40), e seguono i nomi degli oppositori di Eraclito: Esiodo, Pitagora e altri.

Negli anni in cui il nome di Averincev si sussurrava tra le élite delle biblioteche, tra un pubblico di pochi detti, sulle riviste letterarie, io, dissociandomi dall'atmosfera snob dei circoli esclusivi, usavo il verso di Etaclito proprio contro questo orgoglioso portatore o, come credevo, trasmettitore di nozioni inutili. Le conoscenze che Averincev aveva accumulato, allora come oggi, colpivano gli occhi invidiosi e stupefatti degli ascoltatori con il loro luccichio che a me, chissà perché, ricordava il luccichio delle monete di cui aveva fatto incetta il cavaliere avaro. (4) Neofita degli anni ’70, guardavo non senza ironia i giovani cercatori di Dio che come mosche sciamavano attorno al piatto colmo del miele vischioso dell'erudizione che si chiamava «lezione di Averincev», e ricordavo, forse fuori luogo, le parole evangeliche sul mercante che aveva venduto tutte le proprie ricchezze per quell'unica perla preziosa… In poche parole, «sapere molte cose non insegna ad avere intelligenza..», dove per me l'«intelligenza», il logos, il giglio era solo quella conoscenza interiore che sboccava nel Verbo che era in principio presso Dio e in principio presso l'uomo, e in confronto alla quale tutto il resto sembrava un ammasso di cocci.

Cos'era dunque quella conoscenza interiore che non desiderava riconoscersi in nessuna nozione esteriore? Sembrava una forza che agiva nelle cose, che si opponeva al caos delle molte istruzioni inutili sulla cultura e sul mondo, era l'essenza più intrinseca della realtà, l'«aletheia», secondo l'interpretazione di Martin Heidegger del frammento 16 di Eraclito, ossia la verità che emerge dal mistero in cui l'essere si rivela all'uomo. Questa verità non si può raggiungere con nessuna archeologia della conoscenza o dotta digressione culturale. Infatti, la cultura ci può accecare con i riflessi dell'individualità umana che si è staccata dal Verbo di Dio. Anche oggi molti la pensano così, contrapponendo la cultura non tanto alla Parola, quanto al culto, e considerandola come qualcosa di notoriamente inutile, che distoglie dall'«aletheia» della vita della Chiesa, dall'«unico necessario» della preghiera. Come se l'ampiezza e la varietà dei paesaggi culturali servissero solo ad attutire la voce dell'intelletto o del logos che parla in noi, a offuscare la luce del mistero che procede dal logos, dal Verbo, e dalla fede che di esso è partecipe.

Mi sono tanto dilungato a parlare di queste cose, proprio perché oggi non la penso più così. La mia protesta contro la freddezza delle «enciclopedie viventi» era in questo caso superficiale, e non teneva conto del «silenzio del Verbo» di Averincev, che può celarsi persino nella disciplina più prolissa e ramificata. Ma, dopo aver ascoltato una volta «la pienezza che non ha nome» (Vjačeslav Ivanov) e che sta dietro a questo silenzio, non ho più potuto separarmi dalla sua ricchezza, disseminata e nascosta nei testi di Averincev, esteriormente sovrabbondanti di reminiscenze culturali; non ho più potuto staccarmi da ciò che fin dall'inizio era colmo dell'intenso dialogo della preghiera, dialogo che cresce dallo stupore che si comunica agli ascoltatori.

Così che, se proprio dobbiamo «misurare» l'armonia con il metro dell'algebra e Averincev con il metro di Eraclito, visto che da qui siamo partiti, oggi come oggi preferirei un altro frammento, il 54, che dice: «L'armonia nascosta vale più di quella che appare».

E finalmente sono arrivato a ricostruire questa armonia nascosta mettendo insieme la moltitudine di frammenti, di isole, sulle quali è disseminata la galassia delle scienze di Averincev. Poiché «la forza materiale [anche quando si tratta della “materia" del pensiero – V. Z.] permette al significato spirituale di realizzarsi

L'arcipelago Averincev

Konstantin Sigov, nella sua postfazione alla raccolta Sofia-Logos, ha definito, con un'espressione felice, questa miscellanea come un arcipelago, «un viaggio universale della conoscenza dalla A alla Z». (6) Ma la «A» in Averincev si trova dappertutto: nei greci, dai quali aveva cominciato, negli antichi bibliofili russi, ai quali era approdato, nell'acatisto alla Madre di Dio, di cui ci ha aiutato a scoprire la saggezza, nei Padri della Chiesa, dai quali non si è mai separato, in Vladimir Solov'ëv, che è diventato suo confratello, in Anna Achmatova, Marina Cvetaeva, in Vjačeslav Ivanov e in altri poeti ed eterni compagni di viaggio, in Walter Benjamin, Rilke, Tralk, Jung, Maritain, in molti altri che sono stati suoi compagni dicammino o, piuttosto, amici... e in tantissime altre diverse esperienze.

Ma con tutto ciò Averincev non è diventato affatto un prontuario ambulante, una sorta di enciclopedia della cultura mondiale. Se esaminiamo con attenzione la traiettoria del suo pensiero, all'apparenza ridondante ma al tempo stesso vivace e lieve, sentiremo che la sua «A», la sua «archè», sta prima della nascita delle parole, si trova «alle sorgenti del verbo», come dirà in seguito.

Nata dalla contemplazione, la sua parola segue il proprio «ciclo», per rifluire poi verso la fonte da cui era partita. È proprio questa fonte, ancora tutta da scoprire, che ci attira e ci affascina. Forse perché in ognuno dei suoi compagni di viaggio Averincev cerca un complice e un confratello, depositario come lui del segreto della sapienza che si è costruita una casa, o almeno un'abitazione fragile e provvisoria, in un certo destino, in un verso particolare e nel silenzio che vi si cela. E tutta questa pienezza del silenzio-conoscenza viene affidata ad ogni lettore attento di Averincev. Qualunque testo di Averincev noi prendiamo, è sempre un capolavoro di dialogo umano ben riuscito, ben realizzato (come dice Marina Cvetaeva: «l'anima si è realizzata»). (7) Un capolavoro che, per usare una delle sue parole preferite, «evoca» persone e concetti, che a loro volta prendono vita e fioriscono nella preghiera. I «protagonisti» di queste opere ci mostrano la loro faccia illuminata, rischiarata dalla luce del cuore che cade su ognuna delle isole dell'«arcipelago Averincev». personalità) diventa fitto e ricco di contenuto, poiché la sua propria voce si fonde con la voce dell'altro senza coprirla, dandole modo di esprimersi pienamente e creando così materia sonora per la Sapienza, la cui voce è sempre polifonica.

La chiave di Mandel'štam

«Solo un russo poteva rivelare questo Occidente, più concentrato e concreto dello stesso Occidente storico», (8) scriveva Mandel'štam di Čaadaev, ma forse queste parole si possono applicare, a maggior ragione, anche ad Averincev.

Non a caso abbiamo ricordato uno dei poeti a lui più familiari, nel quale è facile trovare una moltitudine di sentieri verbali che ci possono condurre anche al fenomeno Averincev. Cercare e trovare vie come queste, spesso impensate, che portino dall'uno all'altro è uno dei suoi segreti stilistici. «Oggetti piuttosto lontani l'uno dall'altro», secondo la definizione di poesia di Lomonosov, ma collegabili tra loro, creano un effetto di compattezza, densità e concretezza storica. Proprio questa compattezza costituiva una sorta di opposizione della parola in anni in cui ci si poteva impantanare nelle parole putrefatte e mummificate come in una fetida palude. Oggi, se ci voltiamo indietro a guardate la palude di ieri (da cui tutti, chi più, chi meno, allora siamo passati), non vi troviamo le impronte di Averincev.

«Dai nemici della parola emana un impuro sentore caprino che avverto quasi fisicamente», scriveva Mandel'štam nel 1921 nel saggio La parola e la cultura. (9)Questa può essere considerata la definizione più esatta dell'epoca che di lì a poco avrebbe ucciso lo stesso poeta. Negli anni in cui il giovane Sergej Averincev aveva appena incominciato a tessere i suoi rapporti sopraffini con la parola, il sentore caprino non era più quello della morte, almeno di quella fisica, ma era così pesante, asfissiante e onnipresente da sembrare ormai a tutti da tempo la normale atmosfera umana. Quando non era rimasto più neppure un barlume di speranza che un giorno tutto questo lezzo si sarebbe dissipato, Averincev aveva trovato il modo di respirate quell'aria diversa, che, a quanto pareva, era stata spazzata via alcuni decenni prima. Aveva trovato il modo non tanto di parlare, ma semplicemente di respirare senza assorbire con i polmoni i miasmi della palude, evitando però di atteggiarsi ad acerrimo nemico del «sentire caprino» (questa resistenza eroica troppo spesso si è rivelata, ahimè, fatale proprio al profumo diverso e sublime che avremmo voluto difendere).

Dapprima in modo piuttosto intuitivo, ma poi, penso, in piena coscienza, decise di avere a che fare solo con i primi cittadini della repubblica dei pensatori e dei poeti, che sapeva scoprire in modo così infallibile. Penso che la sua stessa erudizione sia nata non dall'avidità di accumulare nozioni alla rinfusa, ma dal bisogno di amicizia, proprio di quell'amicizia che nella lingua ellenica si chiama philia: da qui la sua philo-logia, philo-sophia, che in Averincev non sono materie e discipline, ma stati di un'anima amica, che ama. «E il mare e Omero, tutto è mosso dall'amore»; (10) ricordiamo ancora una volta Mandel'štam, poiché è come se il mare di Averincev con le sue isole fosse attraversato dalla tiepida Corrente del golfo... Non su tutte le isole sono vissuti eroi che gli sono ugualmente cari, congeniali, compartecipi delle sue scoperte, tuttavia non si trova mai in lui un tono tagliente, che assieme agli errori mozzi via tutta la personalità dell'altro. Il metodo di Averincev è la finezza d'orecchio, da cui nasce anche il dialogo, un dialogo così aperto all'interlocutore, così disposto a comprenderlo, che è come se questa comprensione impedisse all'autore stesso di pronunciarsi. Spesso ci tocca andare a scovare il suo pensiero in testi che parlano d'altro, e perciò non è facile tracciare un confine tra ciò in cui c'è tutto lui, e ciò dove lui non c'è più per niente, ma ha lasciato il posto a un altro misterioso, che secondo Tjutčev «hanno accolto i beati dei come un convitato alla festa». (11)

«Lo afferra la profonda gioia dell'iterazione, una gioia che dà il capogiro», (12) secondo le parole di Mandel'štam, poiché Averincev sa e ama ritrovare se stesso in qualsiasi interlocutore. Per questo è rimasto straordinariamente libero dalla logorroica frenesia dell'ego che si è impadronita di tutti, in particolare all'inizio dell'epoca della libertà; è rimasto libero dall’estasi di lavare in pubblico i panni sporchi del proprio «io». Le sue isole si richiamano l'una con l'altra, si invitano a fuochi notturni, segnali, messaggi d’amicizia, poiché alla base risuona sempre la stessa notizia, ma ogni volta in modo diverso, in cento diverse interpretazioni, saggi e versi. «I versi», dice Mandel’štam, «vivono di un'immagine interiore, di quel sonoro calco della forma che precede la poesia scritta», (13) e noi vediamo come questa immagine interiore, maturata in Averincev, viene da lui intuita e creata poeticamente in modo instancabile nei suoi amici e interlocutori. Questa immagine interiore che egli trova dappertutto, perché vive in primo luogo dentro di lui, si chiama «Sapienza».

Sofia, Shekinah, (14) Parola

Averincev promuove sempre il suo lettore, lo introduce da pari in una cerchia scelta, sebbene non proprio ristretta, di amici fidati, e chiunque egli inviti non può fare a meno di seguirlo, anche se può capitare che non si senta del tutto a proprio agio alle sue latitudini.

Ne è un esempio il modo in cui ci invita ad andare in pellegrinaggio alla Sofia. «Personalmente mi sembra impossibile pronunciare il nome della città di Kiev», ha affermato all'inizio della lezione all'Accademia Mogiliana, quando gli è stato conferito il titolo di professore Honoris causa, «senza pensare al suo santissimo Palladio, che porta il nome di cattedrale di Santa Sofia». (15) Il costrutto «a me personalmente» sottolinea, a quanto pare, la soggettività di chi parla, che si scusa un po' con gli ascoltatori per questo «io», sbucato fuori in modo importuno. Tuttavia, in questo preambolo si sente già la dolce autorevolezza, che non deriva dal carattere (poiché sarebbe difficile trovare una persona più delicata), ma che nasce dall'atmosfera di culto, nella quale noi, seguendo i passi dell'autore, ci prepariamo a entrare. Ed ecco che l'ascoltatore o il lettore si mette già in viaggio per l'«arcipelago Averincev» salpando da un porto chiamato «santissimo Palladio» e portandosi dietro come provvista un po' di questa santità. «L'argomento di questo saggio è ristretto e al tempo stesso ampio fino ad essere inesauribile», (16) così inizia un altro, precedente saggio sulla Sofia, ed ecco che, cominciando dall'abside della chiesa di Kiev, il filo del suo pensiero-narrazione si immerge in profondità, scende verso le proprie radici, che affondano in Proclo e Platino, in Omero e nell'Edda Antica, (17) e in molte altre opere e autori. La Sapienza chiama Averincev da ogni luogo, e così sembra che il suo viaggio non debba finire mai, ma è proprio questa la peculiarità della famosa sensibilità universale dell'anima slava, di Dostoevskij o, a maggior ragione, di Puškin, che impone delle soste per rispondere a ogni richiamo. Se vogliamo fare un paragone, il metodo e la ragione occidentali ci trascinano dal punto A al punto B come a rimorchio, senza perdersi in inutili digressioni che portano lontano, senza librarsi in alto, senza tuffarsi in profondità, e, normalmente, il punto d’arrivo ci è noto fin dall'inizio. Nella navigazione di Averincev, invece, è importante la stessa cordialità della risposta, un indugiare lungo la via che talvolta sembra del tutto ingiustificato, un particolare che improvvisamente affiora alla memoria e viene portato in offerta a un altare invisibile, e magari è proprio quello a diventare il punto d'arrivo segreto. «La sapienza si è costruita una casa» (Pr9,1), ma in Averincev questa costruzione avviene sotto i nostri occhi: solo un lettore del tutto sprovveduto può non accorgersi di essere finito senza volerlo in questa casa, e per di più non dall'esterno come «osservatore culturale», ma dall'interno, come chi partecipa a un culto nel quale si sente coinvolto.

Lasciamo stare le isole sulle quali la Sapienza ha lasciato traccia di sé, e approdiamo alla Bibbia, alla Parola, poiché in fin dei conti proprio a questo continente ci conduce il nostro autore-Odisseo, Mi perdonino i lettori per la libera interpretazione, ma la Parola in questo testo di Averincev nasce dalla Shekinah, dalla presenza sacra, dalle manifestazioni di Dio nel mondo, che secondo l'interpretazione audace dell'autore si presenta come un Suo alter ego moltiplicato. E l'alter ego di Dio è proprio la Sapienza, definita nel libro di Gesù figlio di Sira «un'emanazione della potenza di Dio, un effluvio genuino della gloria dell'Onnipotente» (Sap 7,25).

La Shekinah non solo ci illumina, è presente o prende dimora in noi (come dice la preghiera allo Spirito Santo), il suo ruolo in Averincev è più attivo: la Shekinah raccoglie come un uccello sotto le ali ciò che da essa nasce, ciò che ne è illuminato. Essa «plasma» l'agire umano, nell'arte, nella costruzione della società, nella preghiera. «Raccogliendo i corpi cosmici in un universo ordinato, raccogliendo i pensieri degli uomini in un cosmos intellettuale disciplinato, la Sapienza raccoglie anche terre, città e paesi in uno Stato sacro centralizzato. Perché anche lo Stato è la sua “casa”». (18)

Mi permetto di fare un'analogia arrischiata: il «cosmos intellettuale» di Averincev nasce dall’unione dei molti corpi, frammenti e volti «culturali» in cui si è imbattuto come per caso, senza un progetto premeditato, ma che sono divenuti, solo grazie a un'intuizione nata prima dei testi, una sorta di edificio di culto, di Stato della saggezza, di reame delle scoperte, di società degli amanti della sapienza; certo, una sapienza puramente umana, che si compone in unità in un grandioso affresco. Nell'«intellettualismo sacro» della Sofia di Averincev la sacralità sembra ben nascosta dietro l'intellettualismo, ma via via che i suoi testi si moltiplicano e si arricchiscono di contenuto spirituale, possiamo constatare come essa si fa sentire sempre più apertamente. Si fa sentire direttamente come professione della vera fede sua, di Averincev.

Infatti, si può professare la propria fede anche così: raccontando delle ricchezze che la ragione, illuminata dalla fede stessa, ha accumulato. «Credere in un unico Dio», dice Averincev del metropolita Ilarion, autore del Sermone sulla legge e la grazia, - ma forse avrebbe potuto a buon diritto applicare anche a sé queste parole -, «non solo è più santo, ma anche più intelligente, ed è più intelligente proprio perché è più santo». (19) Del resto, Averincev non avrebbe mai detto di sé nulla di simile, e, vista la sua umiltà, non lo avrebbe nemmeno pensato. Eppure ha individuato sperimentalmente questa legge, e se non è stato lui a scoprirla, comunque l'ha dimostrata secondo nuove modalità, riconducendo all'intelletto tutto ciò che la santità e la contemplazione della Shekinah o della Sapienza gli avevano rivelato, e raccogliendo i tesori dell'intelletto, tutta la memoria degli incontri, delle conversazioni, dei dialoghi e dei richiami nella santità della conoscenza che aveva scoperto per la nostra epoca.

(continua)

Note

1) S. Averincev, Molitva o slovach (Preghiera per le parole), in: Idem, Stinchi duchovnye (Versi spirituali), Kiev 2002, pp. 8-9.

2) Cit. da: Archimandrita Kiprian (Kern), Kriny molitvennye (Poesie come gigli del campo, Mosca 2002, p. 13. L’Irmologion è un libro liturgico della tradizione bizantina, che contiene i testi delle parti cantate di tutti gli uffici.

3) Omero, Odissea, Torino 1981, p. 3.

4) Allusione a protagonista dell’omonima tragedia di Puškin (1830).

5) S. Averincev, Slovo-Logos (Parola-Logos), Kiev 2000, p. 234.

6) Ibidem, p. 423.

7) M. Cvetaeva, Zoloto moich volos (L’oro dei miei capelli), in: Idem, Sobranie sočinenij v semi tomach (Opere in sette volumi), Mosca 1994, vol. 2, p. 149.

8) O. Mandel’štam, Slovo i kul’tura. K stat’e e «Čaadaev» (La parola e la cultura. Per l’articolo «Čaadaev»), Mosca 1987, p. 267. Tr. it. In: S. Averincev, Dieci poeti. Ritratti e destini, La Casa di Matriona, Milano 2001, pp. 187-188 e in: O. Mandel’štam, La quarta prosa, Bari 1967, p. 109.

9) Ibidem, p. 40; tr. it. in: O. Mandel’štam, La quarta prosa, p. 40.

10) O. Mandel’štam, Betonica. Gomer. Tugie parusa (Insonnia. Omero. Vele spiegate), in: Idem, Sobranie sočinenij (Opere), New York 1955, pp. 76-77.

11) F. Tjutčev, Ciceron (Cicerone), testo russo e trad. it. in: Idem, Poesie, Milano 1993, pp. 130-131.

12) O. Mandel’štam, Slovo i kul’tura, p. 41. tr. it. in: Idem, La quarta prosa, p. 42.

13) Ibidem, p. 42; tr. it. in: La quarta prosa, p. 44.

14) Il termine Shekinah indica la divinità immanente, la presenza di Dio nel mondo.

15) S. Averincev, Slovo-Logos (Parola-Logos), Kiev 2000, p. 6.

16) S. Averincev, K ujasneniju smysla nadpisi nad konchoj central’noj apsidy Sofii Kievskoj (Per comprendere il senso dell’iscrizione sulla conca dell’abside centrale della Sofia di Kiev), in: Drevnerusskoe iskusstvo i chudožestvennaja kul’tura domongol’skoj Rossii (Arte antico-russa e cultura figurativa della Russia premongolica), Mosca 1972, p. 25.

17) L’Edda Antica, o Edda Poetica, considerata la prima opera della letteratura germanica, è attribuita al monaco cristiano Saemund che operò in terra vichinga. La sua stesura risale all’800 d. C.

18) S. Averincev, K ujasneniju smysla nadpisi nad konchoj central’noj apsidy Sofii Kievskoj, p. 42.

19) Ibidem, pp. 42-43.

Gli scambi sono sempre più possibili fra cristiani e buddisti. La conseguenza non è necessariamente una conversione, ma più spesso l'opportunità di vivificare la fede nella propria tradizione di origine.

L'intervento di Gamaliele (At 5,17-42)

di Karin Heller

Per un lettore del Nuovo Testamento la persona di Gamaliele è indissociabile da due fatti: Gamaliele è stato il maestro ebreo di San Paolo. Scrive l'apostolo: «Io sono un Giudeo, nato a Tarso di Cilicia, […] formato alla scuola di Gamaliele nelle più rigide norme della legge paterna» (At 22,3); poi Gamaliele è intervenuto nel momento della comparsa degli apostoli davanti al Sommo Sacerdote e al sinedrio, evento che ci è tramandato nel brano che commentiamo. Prima di chinarci su questo evento, cerchiamo di conoscere meglio la persona di Gamaliele.

Chi è Gamaliele?

II nostro testo presenta Gamaliele come «dottore della legge, stimato presso tutto il popolo» (At 5,34). La stima che circonda questo personaggio è confermata dalle fonti rabbiniche per le quali Gamaliele I, detto «l'Anziano», è un nassi, vale a dire, un patriarca, un membro eminente del sinedrio. (1) Gli è anche attribuito il titolo onorifico di Rabban, cioè «nostro maestro», invece del titolo di rabbi che significa «mio maestro» e designa in modo abituale i saggi del Talmud. (2) Il nonno di Gamaliele era il grande maestro Hillel, principale capo di una scuola farisaica, conosciuta per la sua interpretazione generalmente liberale della Legge, opposta alla tendenza rigorista della scuola di Shammai. (3)

Gamaliele si colloca nella linea dell'eccellente nonno: introduce disposizioni importanti quanto alla rimessa dell'atto di ripudio per assicurare una migliore protezione alla donna e rende per la donna abbandonata o separata, chiamata agounah, più elastiche le condizioni necessarie per provare la morte del marito. (4) Inoltre afferma che occorre trattare i pagani allo stesso modo degli ebrei per quanto riguarda la carità (aiuto materiale, visite ai malati, funerali, conforto nel momento del lutto). Gamaliele è riconosciuto come autorità rispetto alla Halakha, cioè i problemi relativi alla pratica rituale e alla legislazione civile e penale. Il re Agrippa I e la sua sposa, Berenice (gli stessi davanti ai quali comparirà anche Paolo), (5) lo consultano al riguardo. (6)

Non possediamo di Gamaliele commenti di testi biblici. Il Talmud gli attribuisce qualche saggio consiglio all'indirizzo dei suoi discepoli come: «Procuratevi un buon maestro per essere liberati dal dubbio; quando pagherete le imposte, fatelo con precisione». (7)

Pietro e gli apostoli a Gerusalemme

Nel libro degli Atti, l'entrata in scena di Gamaliele è preceduta da una situazione precisa, alla quale il grande maestro della Legge non è totalmente estraneo. Lui, che ha formato Paolo, conosce tutto il peso della storia del passato d'Israele; lo studio, la meditazione, il commento delle Scritture e la predicazione, attingono in continuazione a questo passato. Gamaliele, come San Paolo, è un fariseo. La loro caratteristica è la scrupolosa osservanza della Legge, la fede incrollabile in Dio che guida la storia in chiave escatologica e una viva attesa del Messia. (8) La tradizione dei Padri costituisce quindi un riferimento permanente nel loro parlare e agire. È ciò che praticano non soltanto Paolo, (9) ma anche Stefano, (10) poi Pietro stesso assieme con gli apostoli. Difatti, dal giorno della Pentecoste fino alloro arresto menzionato nel cap. 5, gli apostoli non cessano di predicare, appoggiando la loro predicazione sulle meraviglie compiute da Dio nel passato. Anzi Pietro ha già pronunciato quattro dei suoi otto discorsi contenuti nel libro degli Atti (11) e Gamaliele stesso assiste al suo quinto discorso (At 5,29-32).

In quel momento preciso della storia della giovane Chiesa, quest'ultima è già diventata una comunità numerosa, cioè si è compiuta per lei la promessa fatta da Dio ad Abramo: «nella tua discendenza saranno benedette tutte le famiglie della terra», (12) o, per dirlo, con le parole di San Paolo: «È piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione» (1 Cor 1,21). Quando ci si china sui diversi testi che presentano tale predicazione, si constata che non si tratta di una lezione scolastica sulla storia, né di un discorso di morale. Ma la predicazione o kerygma significa «predicare Gesù Cristo» o predicare «il regno di Dio». Il termine non mira a designare l'atto della predicazione, ma il suo contenuto. Lo studio dei diversi testi manifesta che questo contenuto comporta in generale sei punti: 1. l'annuncio che i tempi sono compiuti; 2. l'affermazione che il compimento si è realizzato con la morte-risurrezione di Gesù; 3. la proclamazione di Gesù glorificato, ormai alla destra di Dio, capo messianico di un popolo nuovo; 4. l'affermazione che lo Spirito Santo è il segno del compimento della promessa divina; 5. la chiamata alla conversione; 6. la dichiarazione che gli apostoli sono i testimoni di tutto ciò.

Il discorso che tiene Pietro insieme agli apostoli davanti al sommo sacerdote, al sinedrio, e a Gamaliele, non fa eccezione. Le parole di Pietro secondo cui «bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (5,29) sono la risposta al sommo sacerdote che aveva proibito agli apostoli, inutilmente, di «non insegnare più nel nome (di Gesù)». Pietro non esita a proclamare la sua dottrina addirittura di fronte a coloro che cercano di farla sparire da Gerusalemme. Ricorda ai suoi uditori, tra i quali Gamaliele e probabilmente altri eminenti dottori della Legge, che l'iniziativa degli eventi accaduti appartiene al «Dio dei nostri padri». Questa osservazione sottintende le altre meraviglie delle quali Israele fa memoria, e colloca la risurrezione di Gesù nella stessa linea. Anzi, la risurrezione di Gesù manifesta il totale indurimento del sinedrio che ha ucciso Gesù «appendendolo alla croce» (5,30); la stessa risurrezione manifesta altresì l'azione salvifica che Dio accorda sempre al popolo «dalla dura cervice» (Es 32,9). (13) Pietro, poi, proclama il Cristo, innalzato alla destra di Dio, capo e salvatore, per dare a Israele la grazia della conversione e il perdono dei peccati (5,31). Infine conclude che di tutto ciò sono testimoni loro, gli apostoli, insieme allo Spirito Santo, dato a coloro che si sottomettono a Dio, cioè che hanno fede in ciò che Dio annuncia e realizza.

La formula «noi e lo Spirito Santo» può sorprendere. Non potrebbe sembrare un'espressione di presunzione? di temerarietà spirituale? di mancanza di umiltà? Si potrebbe argomentare in questo senso, se fossimo nel quadro di una conferenza "spirituale" qualsiasi. Ma siamo precisamente nel momento della proclamazione solenne del kerygma, cioè dell'evento pasquale che concerne la persona di Gesù. In quel momento, Pietro e gli altri apostoli non tengono una lezione di teologia pasquale più o meno appassionante, ma con la loro proclamazione rischiano la propria vita a causa di Gesù. La loro testimonianza non è semplicemente un atto a favore di una persona che ha subito un danno, atto che implica sempre qualche contrarietà; non è neppure il racconto più o meno lungo di «ciò che Dio ha fatto per me». Ma la testimonianza si rivela inseparabile dal testimone, perché essa gli fa condividere la passione di Gesù.

Tutto ciò che capita nel brano che commentiamo ci ricorda infatti che non basta proclamare «Cristo è risorto» per convertire la gente; occorre vivere, condividere il mistero pasquale nella propria carne. (14) E' proprio la condizione dell’apostolo: la proclamazione del kerygma si conclude con l'imprigionamento, seguito da una liberazione operata da Dio stesso. Si riprende la proclamazione del kerygma e, di nuovo, gli apostoli sono imprigionati, chiamati a comparire davanti ai tribunali, giustiziati, minacciati di morte e liberati per la mano potente di Dio che invia il suo angelo (5,18-33). Gli eventi sono tipicamente pasquali. Rinviano a Gesù stesso, arrestato dopo un periodo di predicazione, accompagnata da guarigioni ed espulsioni degli spiriti cattivi, giudicato, messo a morte e, infine, liberato dalle catene della morte per mezzo dell'azione divina.

L'opera del testimone sta fondamentalmente nel condividere il destino di Gesù stesso. Anzi, diventa chiaro che solo lo Spirito può permettere al testimone di andare fino in fondo, sigillando la sua testimonianza con il dono della propria vita. In questo caso, la formula «noi e lo Spirito Santo» non costituisce l'espressione di un orgoglio smisurato, ma è la parola autentica della stoltezza della croce (1 Cor 1,18ss). E in questa testimonianza degli apostoli che tutta la Chiesa trova la norma definitiva della sua fede e della sua unità attraverso i secoli. Ormai ogni membro della Chiesa può affrontare la prova del perdurare nel tempo, fino alla parusia, nella forza di questa testimonianza fondatrice: ogni giorno è chiamata a proclamare la morte del Signore, a celebrare la sua risurrezione, fino alla sua venuta.

Verità dell'uomo-verità di Dio

L'acclamazione pronunciata dall'assemblea cristiana dopo la consacrazione della celebrazione eucaristica rimane spesso una formula semplicemente prescritta dalle autorità ecclesiastiche. Ora, questa formula non è da recitare in modo più o meno distratto, o con la massima devozione, ogni volta che si va a messa; piuttosto, è da mettere in pratica nella vita quotidiana. Esprime in maniera concentrata il mistero cristiano che vale per ogni fedele, laico, diacono, prete, e vescovo. Chiama tutti a un servizio autenticamente sacerdotale. E l'espressione del sacerdozio comune a tutti i battezzati, uomini e donne, e a coloro che sono ordinati in vista della celebrazione liturgica del mistero pasquale di Gesù. Consiste nel proclamare di fronte ai membri della propria famiglia, agli amici, a coloro che incontriamo spesso o che passano soltanto, ciò che è accaduto a Gesù, cioè: è stato messo in croce dagli uomini, e, per usare le parole di Paolo, «costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione, mediante la risurrezione dai morti» (Rm 1,4).

Di questo Vangelo potente, la parte che probabilmente pone più difficoltà è quella del confessare Gesù messo in croce dagli uomini. Difatti, già il sinedrio ha qualche problema ad ascoltare un tale messaggio, perché implica il riconoscimento della propria responsabilità nella morte di Gesù; questa responsabilità è espressa nella formula giudaica «del sangue che cade su un tale». (15) Dice infatti il sommo sacerdote a nome di tutta l'assemblea: «ed ecco voi avete riempito Gerusalemme della vostra dottrina e volete far ricadere su di noi il sangue di quell'uomo» (5,28). Detto in altro modo, la predicazione degli apostoli manifesta l'implicazione del sinedrio nella morte di Gesù; sono colpevoli del sangue sparso da Gesù sulla croce. La proclamazione del mistero pasquale comporta quindi sempre la rivelazione di ciò che l'uomo è in verità: un essere che vive in una situazione umanamente inestricabile con i suoi e con Dio, un essere che non può mai dichiarare di fronte a Dio: «sono innocente, sono giusto, non ho fatto nulla di male». Per dirlo in termini di teologia classica: la passione e la risurrezione di Gesù rivelano che l'uomo è peccatore, incapace di salvare se stesso, ma è tuttavia sempre chiamato ad accogliere la salvezza offerta da parte di Dio.

Questa verità dell'uomo non piace a prima vista, e non piace affatto a uomini, come i Farisei, particolarmente convinti della loro giustizia davanti a Dio e davanti agli altri. Non sorprende quindi la loro reazione, fatta di sdegno, collera, passione omicida: «all'udire queste cose essi si irritarono e volevano metterli a morte» (5,33). La situazione è quella di Gesù che rivela con la sua presenza l'uomo peccatore o lo mette di fronte a una scelta fondamentale: accogliere questa verità su se stesso per essere salvato, oppure rifiutare questa verità e rendere sempre più dura la propria posizione fino all'eliminazione fisica di colui che manifesta l'autentica verità dell'uomo.

L'argomento di Gamaliele

L'intervento di Gamaliele salva in quel momento gli apostoli da morte certa e violenta. Il capitolo seguente, infatti, si concluderà con il martirio di Stefano e non lascia nessun dubbio al riguardo. Gamaliele misura la fragilità umana di fronte a Dio che parla e agisce. L'uomo è come l'erba del campo che fiorisce, poi passa il vento, non esiste più e il suo posto non lo riconosce (cf Sal 103,15-16). I suoi progetti gli sono simili. Durano un tempo, poi crollano; Teuda fu ucciso e i suoi seguaci finirono nel nulla. Quanto a Giuda, anche lui perì e i suoi fedeli furono dispersi (5,36-37). Quanto alla parola di Dio, essa dura sempre (/s 40,8). Anzi è consigliabile all'essere umano di «non trovarsi a combattere contro Dio» (5,39).

L'opinione di Gamaliele è adottata dal sinedrio e dal sommo sacerdote. Perché? L'argomento di Gamaliele può essere inteso in due modi:

- Come nel caso di Teuda e di Giuda il Galileo, si saprà presto se Dio fa perdurare questa via. L'esempio del fallimento di questi due protagonisti presenta la durata dell'incertezza come breve.

- Un movimento come quello lanciato dalla predicazione di Pietro e degli apostoli è solido soltanto perché è opera divina. E lui che ne ha l'iniziativa, lui che lo mantiene, lui che lo fa crescere e che ne determina la durata. In quel caso è tolta la certezza che concerne «l'ora e il giorno», il rapporto tra la pazienza di Dio e la messa alla prova dell'attesa dei giusti.

L'opinione di Gamaliele è probabilmente adottata dal sommo sacerdote e dal sinedrio secondo la prima interpretazione. Soddisfa la loro impazienza, permette di chiudere rapidamente l'incidente. Evita la procedura della messa a morte e permette nondimeno di fustigare gli apostoli. L'eccesso di furore sollevato dalla rivelazione della loro ingiustizia è placato dall'applicazione della sanzione. Ma infine il problema è soltanto rinviato nel tempo. Essendo la prova della pazienza nell'aspettare il giudizio divino diventata insopportabile, si ricorre alla «giustizia», come è considerata da eminenti dottori della Legge divina, e si applica la condanna a morte.

Gamaliele è visibilmente un uomo moderato. Di più: è un uomo modera t in materia religiosa. Questa capacità di tolleranza religiosa ha la sua radice nell' esercizio quotidiano, praticato di generazione in generazione, da parte di coloro che aspettano in Israele il Dio che rivela allo stesso tempo se stesso. il fondo dei cuori umani, le loro opere personali e comunitarie. La difficoltà nell'acquisire questo tipo di tolleranza è messa in evidenza da tutti i conflitti contemporanei che hanno alla loro radice un problema religioso. Riguarda tutti: ebrei, musulmani, cristiani, fanatici religiosi di ogni sorta. Quanto alla convinzione di Gamaliele, essa esce dal cuore stesso della tradizione ebraica formata alla scuola dell' attesa apocalittica; essa insegna che occorre aspettare una rivelazione nuova, un fatto nuovo, per scoprire ciò è già stato annunciato e compiuto da Dio. Egli sa che Dio parla e agisce, ma è anche cosciente dell' incapacità umana di prendere le misure della parola e dell' opera divine.

La capacità umana risiede nell'aspettare e nello sperare che Dio riveli il significato profondo di un evento, che per il credente si chiama: Gesù Cristo.

Note

1) Dal 1948, il titolo di nassi designa il presidente dello Stato d'Israele. Il suo significato è «principe», «governatore».

2) Cf STRACK-BILLERBECK, Kommentar zum Neuen Testament aus Talmud und Midrasch, II, p. 626.

3) Al tempo di Gesù la scuola di Hillel e quella di Shammai discutevano in modo aspro sui motivi che possono condurre al ripudio della propria moglie. Vale a Gesù d'essere interrogato su questo tema (cf Mt 19,3).

4) Si tratta di una donna legata a suo marito che desidera risposarsi e non lo può sia perché il marito non le concede l'atto di ripudio, sia perché si trova nell'impossibilità di farlo a motivo di una malattia mentale o perché non esiste una prova formale del suo decesso.

5) Cf At 25,13ss.

6) Cf Dictionnaire encyclopédique du Judaisme. Éd. du Cerf, Paris 1993, p. 428.

7) Cf Aboth 1, 16. Citato in: STRACK-BILLERBECK, cit., p. 638.

8) Cf Parole di Vita n. 6/1994 interamente consacrato ai Farisei.10) Cf At 7,1-53.

11) Cf At 1,16- 22; 2,14-36; 3,12-26; 4,8-12; 5,29-32; 10,34-43; 1l,5-17; 15,7-11.

12) Cf Gn 12,3; 22,18; At 3,25.

13) È ciò che appare in modo eminente nel discorso più lungo degli Atti, cioè quello di Stefano. Da notare in particolare l'insistenza sull'indurimento dei diversi protagonisti, lungo la storia, di fronte a Dio che salva.

14) Cf al riguardo 2 Cor 4,1-15, in particolare vv. 12-15: «Sempre infatti, noi che siamo vivi, veniamo esposti alla morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù sia manifesta nella nostra carne mortale. [ ... ] Tutto infatti è per voi, perché la grazia, ancora più abbondante ad opera in un maggior numero, moltiplichi l'inno di lode alla gloria di Dio».

15) Cf STRACK-BILLERBECK, cit., I, p. 1033.(da Parole di vita, 2,1998)

L'inizio della persecuzione a Gerusalemme (At 4,1-31)

di Augusto Barbi




Questo primo momento di persecuzione, registrato nel Libro degli Atti degli Apostoli, va collocato nell'ampio affresco della vita della chiesa a Gerusalemme (cf 2,42-8,4). In tale affresco si alternano ricorrenti sommari (2,42-47; 4,32-35; 5,12-16; 5,42; 6,7-8; 8,1b-4), che presentano in forma statica la vita della chiesa, e complessi narrativi (3,1-4,31; 4,36-5,11; 5,17-41; 6,1-6; 6,9-8,la) in cui la vita della chiesa è resa in modo dinamico per episodi drammatici. Nei complessi narrativi c'è pure una significativa alternanza tra quadri che riguardano la vita interna della chiesa (4,36-5,11; 6,1-6), dove vengono risolti conflitti della nascente comunità, e quadri di azione missionaria della chiesa, dove essa entra in conflitto con l'autorità e l'ambiente giudaico e subisce persecuzione nei suoi membri più rappresentativi (3,1-4,31; 5,17-41; 6,9-8,1a). Il nostro testo fa parte del primo di questi quadri (3,1-4,31), nei quali l'attività missionaria della chiesa diventa motivo di ostilità e di persecuzione, e va perciò visto in stretta connessione con gli altri due (5,17-41; 6,9-8,la).

I tre quadri sono segnati da una comune sequenza di eventi che è significativa e che, dal punto di vista narrativo, crea nell'insieme del racconto un effetto di «ripetitività-ridondanza». Tale ridondanza è voluta per dare unità al tessuto narrativo, ma soprattutto per imprimere nella mente del lettore ciò che è centrale ed essenziale in queste storie di persecuzione. La comune sequenza di eventi, presenta:

- un annuncio in parole ed opere (3,1-26; 5,12-13; 6,8-10);
- una opposizione ed una traduzione di fronte al sinedrio (4,1.3-5; 5,17-18.27a; 6,11-15);
- un interrogatorio ed una difesa degli accusati nella forma di un discorso kerygmatico (4,7-12; 5,27b-32; 7,1-53);
- una reazione ed una sanzione da parte dell'autorità (4,13-22; 5,33-40; 7,5460);
- una continuazione ed un ampliamento dell' attività di annuncio (4,31 b; 5,42; 8,4).

La ripetitività di quella sequenza aiuta il lettore a vedere e a fissare il molteplice rapporto che si stabilisce tra annuncio missionario e persecuzione. Essa mostra infatti che l'attività missionaria, oltre che accoglienza, verifica sempre una opposizione violenta e che, di conseguenza, una chiesa missionaria deve attendersi anche di essere una chiesa perseguitata. Inoltre la sequenza evidenzia che, portati davanti ai tribunali, i discepoli, secondo la parola di Gesù (cf Lc 21,13), sono chiamati a continuare a dare la loro testimonianza. Infine, la sequenza sottolinea come nessuna opposizione umana, neppure quella più violenta che porta i testimoni all'incarcerazione e al martirio, può fermare la corsa della Parola, anzi, la persecuzione diventa sempre occasione per l'espansione della Parola. Il nostro testo va dunque visto nel contesto di queste storie di persecuzione e del ripetersi di un modello che lancia significativi messaggi al lettore.

Resta da notare infine, per una completa contestualizzazione, il legame del tutto particolare che intercorre tra i primi due quadri di persecuzione (3,14,31 e 5,17-41). Tale legame è costituito innanzi tutto dall'identità dei personaggi in conflitto: da una parte Pietro e Giovanni (4,1) o gli Apostoli (5,18) e dall'altra il sommo sacerdote e i Sadducei (4,1; 5,17) con il contorno della presenza discreta e favorevole del «popolo» (3,9.11.l2; 4,2.21; 5.20.25.26). Inoltre, a segnalare il legame è la continuità tematica determinata dalla presenza del termine «nome» (3,6.16; 4,7.10.12.17.18.30; 5,28.40.41), il cui annuncio sta al centro del conflitto, e della prevalente e significativa localizzazione nel «tempio» dell'azione evangelizzatrice degli apostoli (3,8; 5,20.21.25). (1) Questo legame, che nasconde anche una necessaria progressione tra i due quadri, ci solleciterà a non isolare il nostro testo dal suo naturale prosieguo.

Annuncio e persecuzione (vv. 1-22)

Come già abbiamo fatto notare, l'inizio della persecuzione non può essere considerato disgiuntamente dalla precedente azione di annuncio da parte di Pietro e Giovanni: è infatti la loro opera missionaria a scatenare la reazione violenta dell'autorità. L'annuncio si era realizzato in opera e parola, quasi come prosecuzione del ministero salvifico di Gesù «profeta potente in opera e parola» (Lc 24,19). L'opera potente era stata la guarigione dello storpio alla Porta Bella del tempio (3,1-11) compiuta da Pietro «nel nome di Gesù Cristo il Nazareno» (3,6). Essa era divenuta una indiretta proclamazione di Gesù come «Signore», il «nome» salvifico che Gesù aveva acquisito con la sua risurrezione ed esaltazione (cf 2,36). Tale proclamazione indiretta aveva trovato esplicitazione nel successivo discorso di Pietro (3,12-26), dove, a fondamento della guarigione dello storpio, erano annunciate l'esaltazione di Gesù ad opera di Dio (3,13) e la potenza del suo «nome» (3,16).

Proprio a questo annuncio in segno e parola, che si era concluso con un insistito appello a conversione rivolto al «popolo» d'Israele (3,17-26), fa seguito, in stretta connessione, (2) la reazione degli uditori. Mentre però dopo il discorso di Pentecoste era stata segnalata soltanto la positiva accoglienza dell'annuncio (cf 2,41), qui la reazione favorevole è posta in secondo piano (cf 4,4) ed è fatta subito risaltare con insistenza la reazione violenta: ciò lascia già presagire una svolta negativa negli eventi. L'azione missionaria comincia a provocare persecuzione.

A prendere l'iniziativa repressiva nei confronti di Pietro e Giovanni, che avevano preso la parola nel tempio, sono innanzi tutto i «sacerdoti», ai quali soltanto competeva di istruire il popolo nel tempio. Ad essi si unisce il «capitano del tempio» al quale spettava il compito di controllare l'ordine nell'area del tempio. Infine si associano anche i «sadducei», i quali non credono alla risurrezione dei morti (cf Lc 20,27-40; At 23,6-8), dal momento che il cuore della predicazione degli apostoli era la risurrezione di Gesù (cf 4,1b). Il motivo del loro intervento (cf 4,2) è per il momento pienamente comprensibile: Pietro e Giovanni, insegnando al popolo nel tempio, turbano l'ordine pubblico e la dottrina della risurrezione, che essi annunciano, appare eterodossa. L'arresto e la detenzione degli apostoli sono la spinta perché essi giustifichino pubblicamente la modalità e il contenuto del loro insegnamento.

Il loro interrogativo avviene davanti al Sinedrio, suprema autorità religiosa giudaica, solennemente radunato il giorno dopo (4,5-6). (3) L'attenzione si fissa sul miracolo del paralitico che l'autorità è reticente a riconoscere come tale, e menziona con un generico «questo». Ciò che si vuole sapere dagli apostoli è «in quale potenza» o «in quale nome» l'hanno compiuto (4,17). Al lettore la domanda risulta retorica e suscita ironia nei confronti dell'autorità, perché egli conosce già dal discorso di Pietro (cf 3,12.16) la risposta a questi quesiti. L'interrogatorio davanti al tribunale diventa però per Pietro l'occasione per dare «testimonianza» (cf Lc 21,13) al nome di Gesù. La sua difesa-testimonianza, fatta con spirito profetico, (4) comincia con il mettere in risalto l'assurdità della situazione: gli apostoli sono sotto interrogatorio per aver compiuto un «beneficio» a favore di un infermo. Pietro poi riformula la domanda del sinedrio in modo significativo: «in chi questi è (stato) salvato». In tale espressione giunge al suo culmine un processo interpretativo del miracolo del paralitico che già era iniziato in precedenza: il fatto di «camminare» (cf 3,7-8) era stato riletto come restituzione della «integrità fisica» (cf 3,16) e successivamente come «azione benefica» (cf 4,9), che rimandava indirettamente a Gesù benefattore (cf 10,38 contrapposto a Lc 12,25), ed ora è interpretato come segno della salvezza escatologica. (5) La guarigione ha assunto dunque un valore simbolico particolarmente pregnante, e Pietro può ora proclamare solennemente a tutto Israele che tale guarigione è avvenuta per la potenza del «nome» di Gesù Cristo il nazareno (cf 3,6), che Dio ha risuscitato, in contrapposizione all' azione del sinedrio che ne aveva decretato la crocifissione. E tutto ciò come adempimento del piano divino preannunciato dalla parola profetica del Sal 118,22 (LXX). In forza della risurrezione ad opera di Dio, Gesù ha acquisito il «nome» di «Signore», ed ora Pietro può concludere che proprio in Gesù Signore è offerta a tutti quella salvezza escatologica, di cui il miracolo del paralitico è segno evidente (4,10-12). Il discorso di Pietro ha capovolto la situazione: gli accusatori sono stati posti in stato di accusa, e l'oggetto del processo è diventato motivo credibile della proclamazione della salvezza di Gesù.

La reazione dei sinedriti al discorso di Pietro è duplice. Da un parte, c'è la loro «meraviglia» determinata dall'incapacità di conciliare e spiegare la libertà e saggezza (in greco parresia) degli apostoli a fronte della loro mancanza di formazione scritturistica e di preparazione retorica. Il lettore sa già che questa sorprendente parresia è frutto dell'azione dello Spirito, ma i sinedriti possono solo limitarsi al riconoscimento del loro passato legame con Gesù (4,13). D'altra parte, c'è l'impossibilità da parte dei sinedriti di «controbattere» la parola degli apostoli, data la presenza accanto a questi del paralitico guarito, la cui sanazione essi né possono negare né riescono a spiegare, mentre Pietro l'ha ricondotta apertamente all'azione potente del nome di Gesù (4,14). In questa capacità del sinedrio a controbattere, si realizza la promessa di Gesù ai discepoli per il tempo della persecuzione: «io vi darò lingua e sapienza a cui tutti i vostri avversari non potranno resistere né controbattere» (Lc 21,15).

L'imbarazzo, in cui i sinedriti sono venuti a trovarsi, si riflette nella consultazione che essi tengono a porte chiuse, dopo aver estromesso gli apostoli (4,15). La domanda, che essi si pongono, «che cosa facciamo a questi uomini?» dà espressione a questo imbarazzo. Essi devono, infatti, constatare che la guarigione del paralitico, da loro ora significativamente indicata come «segno noto», è divenuta, per la predicazione degli apostoli, di pubblico dominio a Gerusalemme, ed essi sono nell'impossibilità di negare questo segno (4,16). Ma la constatazione del «segno» non li rende disponibili all'azione divina che in esso si manifesta. La loro unica preoccupazione, che rivela ora la rigidità e la malafede, diventa quella di impedire assolutamente la diffusione ulteriore della predicazione nel nome di Gesù, che dal segno prende avvio e nel segno trova potente conferma. L'unico strumento che essi adottano è quello della minaccia (cf 4,17) senza alcuna argomentazione, uno strumento che è sintomo della loro reale impotenza. L'autorità stessa che essi investono nel comunicare agli apostoli il divieto di annunciare nel nome di Gesù (4,18), rivelandosi in contrasto con il disegno di Dio, viene a privarsi di quel fondamento divino da cui ogni potere religioso pretende legittimazione. Di fronte alla potenza della Parola e alla sua capacità di diffusione, non rimane altro dunque che l'inconsistente violenza della minaccia e la pressione di una autorità che va esautorandosi. L'impotenza di queste misure per fermare la Parola sarà constatata con rabbia dal sinedrio stesso nel secondo momento della persecuzione: «Vi avevamo ordinato con forza di non insegnare in questo nome ed ecco voi avete riempito Gerusalemme della vostra dottrina» (5,28). Il motivo profondo di tale impotenza sarà reso chiaro in seguito da Gamaliele: se quest’opera «è da Dio non potrete distruggerli» (cf 5,39).

Reazione di Pietro e Giovanni all'imposizione del sinedrio (4,19) è nella forma di una domanda che sottende già una loro presa di posizione chiara. In essa gli apostoli sollecitano da parte del sinedrio stesso un giudizio che sia basato non sul criterio dei bassi calcoli umani, che hanno portato al divieto dell’annuncio, ma sul criterio della fedeltà a Dio: «se è giusto di fronte a Dio». L'alternativa su cui giudicare è l'obbedienza all'ordine del sinedrio piuttosto che a Dio. Tale alternativa evidenzia già che il divieto del sinedrio è in contrasto con la volontà divina, e che l'autorità che lo sostiene non ha più potere su chi intende essere fedele a Dio. I sinedriti sono dunque invitati a farsi giudici di se stessi e a riconoscere il carattere iniquo della loro imposizione, mentre gli apostoli lasciano intendere di schierarsi dalla parte di Dio, opponendosi al divieto del sinedrio. Tale opposizione, che appare come una obiezione all' autorità in nome della fedeltà a Dio, risalterà ancora più chiara quando nel secondo momento di persecuzione, rimproverati per aver disatteso l'ordine del sinedrio, gli apostoli dichiareranno solennemente: «bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (5,29).

Pietro e Giovanni motivano per il momento il loro implicito rifiuto all'imposizione dell'autorità con l'espressione «noi non possiamo infatti non annunciare quello che abbiamo visto e udito» (4,20). La formulazione sembra innanzi tutto evidenziare la fedeltà degli apostoli ad un dato constatato che non può perciò essere taciuto e negato, in contrapposizione ad una infedeltà e disonestà del sinedrio che, pur non potendo «negare» (cf 4,16) il dato-segno del paralitico guarito, decidono di impedirne la divulgazione (cf 4,17). Ma questa motivazione fornita dagli apostoli rivela soprattutto la loro fedeltà al compito affidato ad essi da Dio. «Ciò che hanno visto e udito» costituisce infatti il requisito per il loro ministero di testimoni (cf Lc 1,2; At 1,21-22) e, illuminato nella sua valenza storico-salvifica attraverso le Scritture, forma anche il contenuto della loro testimonianza (cf Lc 24,44-48). Per questo compito di testimonianza essi sono stati mandati dal Risorto (cf Lc 24,48; At 1,8), abilitati dallo Spirito (cf Lc 24,49; At 1,8), prescelti da Dio stesso (cf 10,41). In ultima istanza, dunque, la loro impossibilità ad ottemperare il divieto di predicare si radica nell'esigenza di fedeltà al Dio della storia della salvezza. Questa motivazione si illuminerà ulteriormente nel secondo momento di persecuzione, quando Pietro e gli apostoli giustificheranno la necessità di obbedire a Dio con un breve discorso (cf 5,29-32), teso a mostrare l'operare storico-salvifico di questo Dio, del quale essi, unitamente allo Spirito, sono chiamati a dare testimonianza.

La fine dell'azione giudiziaria (4,21), con il rilascio di Pietro e Giovanni, sottolinea ancora una volta l'impotenza del sinedrio che, incapace di sostenere il confronto sul terreno della verità storico-salvifica, non può far altro che ricorrere nuovamente alla minaccia verbale. Il rilascio degli apostoli avviene sulla base di un duplice motivo. Il primo, di carattere oggettivo, è l'impossibilità da parte del sinedrio di trovare qualcosa che giustifichi un intervento punitivo. L'altro, di natura soggettiva, è la paura del «popolo» che riconosce nella guarigione del paralitico l'azione divina. Il sinedrio appare così non solo impossibilitato a porre in atto il proprio potere coercitivo, ma anche distaccato rispetto a quel popolo su cui dovrebbe esercitare la propria autorità. (6)

Preghiera della comunità e coraggio dell'annuncio (vv. 23-31)

Il rilascio di Pietro e Giovanni rende possibile il loro ritorno alla comunità cristiana da cui si erano distaccati in 3,1. Alla comunità radunata «riferiscono quanto i sommi sacerdoti e gli anziani hanno detto» (4,23), e cioè riportano il comando del sinedrio «di non parlare e di non insegnare assolutamente nel nome di Gesù» (4,18). La comunità dunque è messa al corrente del clima di persecuzione che tende a impedire la diffusione dell'annuncio.

La risposta della comunità è la preghiera, elevata a Dio con quella «unanimità» (4,24a) che la caratterizza anche altrove nella frequentazione del tempio (cf 2,46; 5,12) e nell'atto di pregare (cf 1,14), e che rivela la fraternità come condizione necessaria per rivolgersi a Dio Padre. La preghiera, (7) poi, è chiaramente scandita in due momenti, i cui inizi sono segnalati da due invocazioni: «Sovrano» (4,24b) e «Signore» (v. 29).

Il primo momento (vv. 24b-28), pur esprimendosi nella forma dialogica del «tu», invoca Dio come «Sovrano», un appellativo utilizzato nell' AT (LXX) per indicare la piena signoria di Dio sulla creazione (cf ad es. Gdt 9,12; Gb 5,8; Sap 6,7). (8) Questa predicazione della signoria divina viene poi specificata da due proposizioni participiali: la prima (v. 24b) sottolinea l'azione dinamica creatrice di Dio (cf 14,15 ed anche 17,24) e quindi la sua guida della storia universale; la seconda (v. 25a), problematica dal punto di vista testuale e con torta dal punto di vista sintattico, presenta, nella sostanza, l'azione di Dio che, per mezzo dello Spirito, ha suscitato la parola profetica di Davide attuatasi in Cristo, e quindi mostra Dio come colui che guida al compimento la storia della salvezza. Nella sua preghiera, dunque, la comunità evoca innanzi tutto e invoca Dio, signore della storia dei popoli e guida sicura della storia particolare di salvezza.

La predicazione del Dio «che ha parlato» per mezzo del suo servo Davide serve ad introdurre la citazione del Sa/ 2,1-2 (vv. 25b-26). Nel loro significato storico questi versetti del «salmo regale» evocano una situazione di interregno, precedente all' intronizzazione del re, come possibile tempo di rivolte e di sommosse che, in modo enfatico e generico, vengono presentate come di dimensioni universali. Queste manovre hanno come obiettivo JHWH e il suo re «Unto». Con un procedimento di attualizzazione, che ci è noto già dai pesher di Qumran, questi versetti vengono poi riletti in chiave cristologica (v. 27). Il punto di contatto che fa scattare l'attualizzazione cristologica è senza dubbio il termine «Unto» che viene agganciato all'unzione di Gesù da parte di Dio. Certamente a guidare il processo di attualizzazione è l'evento della passione di Gesù, così che «le nazioni e i popoli» del salmo diventano «i gentili e i popoli d'Israele» e «i re e i capi» sono intravisti in «Erode e Pilato», mentre la loro cospirazione si realizza contro «Gesù» che Dio ha unto. Attraverso questo procedimento si attua un interessante circolo ermeneutico: l'evento della passione di Gesù permette di rileggere il salmo come una prefigurazione profetica, e la profezia dà all'evento della passione la sua dimensione profonda di compimento storico-salvifico. Questo singolare circolo ermeneutico ha la funzione, all'interno della preghiera, di mostrare come quel Dio che guida la storia della salvezza ha portato a compimento il suo disegno salvifico proprio attraverso quelle azioni umane violente, realizzate si nella passione di Gesù, che tendevano a vanificarlo e che, apparentemente nella persecuzione contro l'Unto di Dio, sembravano vittoriose (v. 28). (9) Una sottile ironia, dettata dalla visione di un compimento salvifico che si è realizzato proprio là dove esso sembrava essere vittoriosamente contrastato dalla violenza umana, pervade questo tratto di preghiera.

Da questa rilettura la comunità trae ora, nel secondo momento della preghiera (vv. 29-30), le sue conclusioni per la propria situazione, e formula conseguentemente le proprie richieste. Se Dio ha realizzato il suo piano di salvezza in Cristo nonostante e attraverso l'opposizione violenta dei potenti, Egli continuerà ad agire così anche nel tempo della chiesa e dentro gli eventi di persecuzione che la stanno minacciando. Il modo di agire di Dio nell'evento salvifico di Cristo, divenuto paradigma per la situazione difficile della chiesa perseguitata, dà fiducia e serenità. Essa si limita a chiedere che Dio «guardi alle loro minacce» (v. 29a), letteralmente a quelle mosse da Pilato ed Erode contro Cristo, ma contenutisticamente a quelle rivolte a lei dall'autorità del sinedrio. In tal modo la chiesa perseguitata assume la coscienza di essere la comunità del messia sofferente che condivide con lui quel destino di contrasto e di rifiuto nel quale Dio compie il suo disegno di salvezza. Di conseguenza, la successiva richiesta non è quella di essere liberata dalla persecuzione e neppure quella di ottenere la vendetta di Dio sui suoi oppositori. Essa si limita a supplicare che Dio le doni di poter continuare il suo compito nella storia della salvezza, che è quello di «annunciare» la Parola con coraggio in mezzo alle difficoltà: un annuncio accompagnato e confermato dalla potenza dei «segni e prodigi» che Dio compie per mezzo del nome di Gesù (vv. 29b-30), come è già avvenuto nella guarigione del paralitico (cf 3,1-11).

Mentre la comunità sta pregando, avviene lo «scuotimento» del luogo dove essa si trova (v. 31a). È un segno di carattere teofanico che verosimilmente, come in 16,25, segnala l'esaudimento della preghiera da parte di Dio. Successivamente i credenti «sono ripieni di Spirito Santo» (v. 31b). L'espressione è uguale a quella dell'evento di Pentecoste (cf 2,4), ma qui il dono dello Spirito è in vista dell'esaudimento della richiesta fatta dalla comunità di poter annunciare con coraggio la Parola. Di fatto la conclusione (v. 31b) presenta la comunità in una azione protratta e continuativa di annuncio, caratterizzata dal coraggio e dalla franchezza necessarie nella situazione di persecuzione e rese possibili dalla potenza dello Spirito. (10)

Osservazioni conclusive

Questo primo racconto di persecuzione si chiude su una tensione che rimanda ad un ulteriore sviluppo narrativo. La tensione è creata dal fatto che le minacce verbali e l'ordine del sinedrio di non annunciare, non solo hanno incontrato l'obiezione degli apostoli, ma sono state disattese dalla comunità cristiana, rafforzata dalla preghiera e dal conseguente dono dello Spirito. Lo scontro tra l'autorità e la nascente comunità cristiana è destinato quindi a continuare e a intensificarsi (cf 5,17-41), ma già in questo primo momento si sono profilate tematiche di notevole interesse per la comprensione della teologia lucana.

Innanzi tutto è risultato evidente come l'annuncio cristiano e l'azione missionaria della chiesa sono destinati a creare divisione nel popolo d'Israele: alcuni accolgono la Parola, altri la osteggiano e perseguitano gli annunciatori. La spaccatura d'Israele e la persecuzione da parte di chi rifiuta l'annuncio diventeranno motivi ricorrenti nell'azione missionaria di Paolo durante i suoi viaggi.

La traduzione davanti ai tribunali diventa per gli annunciatori occasione per dare testimonianza a Cristo. Accadrà anche a Paolo durante la sua fase processuale: le sue apologie (cf 24,10-21 e specialmente 26,2-23), più che difese personali sono occasioni di annuncio.

Le resistenza e l'obiezione all'autorità in nome della fedeltà a Dio sarà un motivo che troverà ulteriore sviluppo nel secondo momento della persecuzione gerosolimitana (cf 5,17-41) e manifesta come nessuna opposizione umana, anche violenta, è capace di arrestare la corsa del vangelo.

La preghiera della comunità ha rivelato come essa possa rileggere la continuità del disegno divino tra tempo della profezia, testimoniato dalle Scritture, e tempo del compimento negli eventi di Cristo e nella vita della chiesa. Questo tema della continuità storico-salvifica è il motivo conduttore di tutta l'opera lucana.

Il legame tra preghiera e dono dello Spirito, già annunciato nel vangelo (cf Lc 11,13), trova realizzazione nel tempo della chiesa: l'evento della Pentecoste (cf 1,14 e 2,1-4), come pure il dono dello Spirito alla comunità in preghiera (4,23-31), ne sono la conferma.

Infine lo stretto rapporto tra persecuzione e diffusione della Parola, che ha segnato la chiusura del nostro testo (cf 4,31), troverà continua eco nel Libro degli Atti. Sarà così alla conclusione del secondo momento di persecuzione (cf 5,42). Sarà ancor più evidente a conclusione del martirio di Stefano, dove i dispersi in seguito a questa persecuzione diffonderanno in Giudea, Samaria e fino in Fenicia, a Cipro e ad Antiochia l'annuncio cristiano (cf 8,1.4; 11,1920). Infine la persecuzione come motivo per portare la predicazione del vangelo in altre città sarà tema ricorrente nei viaggi di Paolo. La corsa del vangelo si rivelerà così inarrestabile, nonostante e attraverso le persecuzioni.

(da Parole di vita, 2,1998)

Note

1) E' da notare che tutti questi elementi non sono più presenti nel terzo quadro di persecuzione (6,9-8,la).

2) Cf «mentre essi annunciavano al popolo» in 4,1.

3) Sulla composizione e le prerogative del Sinedrio, cf A. ADINOLFI, «Obbedire a Dio piuttosto che agli uomini. La comunità cristiana e il sinedrio in Atti 4,1-31; 5,17-32», RivBibIt 27 (1979) part. pp. 72-79. Nel testo vengono esplicitamente menzionati i sommi sacerdoti: Anna, che rimase in carica dal 6 al 15 d.C., ma che esercitò grande influsso perché 5 suoi figli ed un nipote furono sommi sacerdoti; Caifa, genero di Anna, che fu sommo sacerdote dal 18 al 36 d.C.; Giovanni ed Alessandro di cui non abbiamo notizie storiche.

4) L'espressione «pieno di Spirito Santo» (4,8) è frequente nell'opera lucana per segnalare il parlare profetico (cf ad es. Lc 1,41.67; At 2,4; 4,31; 13,9).

5) Cf al riguardo l'interessante studio di G. MARCONI, «La storia come ermeneutica: interpretazione del confronto tra At 3,1-11 e 4,8.12», in: G. MARCONI e G. O'COLLINS (a cura di), Luca-Atti. L'interpretazione a servizio della Scrittura, Assisi 1991, pp. 243-263.

6) Per queste note sulla persecuzione abbiamo fatto riferimento ad un nostro precedente articolo: «Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (At 5,29) nel contesto della persecuzione gerosolimitana», in: G. MARROCU (a cura di), L'obbedienza e la disubbidienza nella Bibbia, L'Aquila 1996, part. pp. 97-103.

7) Questa preghiera sembra avere somiglianze strutturali e formali con la preghiera di Ezechia in Is 37,16-20 (cf 2 Re 19,16-19) che, secondo alcuni studiosi, le avrebbe fatto da modello. La differenza di contenuto però è notevole.

8) Esso è utilizzato anche nella preghiera di Simeone (cf Lc 2,29).

9) Sull'interpretazione cristologica del salmo, cf J. DUPONT, «L'interpretazione dei salmi negli Atti degli Apostoli», in: ID., Studi sugli Atti degli Apostoli, Roma 1975, part. pp. 506-509.

10) Cf per queste note sulla preghiera della comunità 1. DUPONT, «La preghiera degli apostoli perseguitati (Atti 4,23-31»), in: ID., Studi, cit., pp. 891-894; A. BARBI, «La preghiera della comunità perseguitata (At 4,23-31)» Parola Spirito e Vita 25 (1992) pp. 101-115.

Non è tipico soltanto del popolo d’Israele avere un racconto leggendario delle proprie origini, che è più l’espressione dell’unità instaurata dal tempo delle sue origini che non una spiegazione delle origini stesse. Il problema del rapporto tra teologia e storia non è risolto da queste brevi osservazioni. La fede dell’Antico Testamento si fonda sugli atti di Jahweh nella storia; questo è un principio indiscutibile...

La teologia delle religioni
vista dall’America Latina

di José Comblin

Fin dall'inizio è necessario dire che non si intende qui offrire una teologia a partire dall'America Latina come se fosse un punto di vista particolare, uno tra i tanti, come se fossero tutti equivalenti e accettabili. Quello che è accaduto nella teologia latinoamericana negli ultimi decenni non è un fenomeno locale. Non è nata una teologia particolare, una teologia circostanziale, locale, parziale. Così la vedono in Europa e in questo si sbagliano totalmente. Gli europei credono di situarsi in un punto di vista universale, credono di rappresentare l'universalità e di poter giudicare le teologie di tutti gli altri come se si trattasse dì teologie particolari che non riguardano la teologia universale.

È la teologia del Primo Mondo ad essere una teologia circostanziale, locale, parziale, particolare, perché è una teologia della cristianità occidentale. Non ha ancora rotto il legame con la cristianità, così come le Chiese storiche della cristianità: non hanno assimilato - e soprattutto non hanno portato avanti - il Vaticano II (...).

Che è successo in America Latina? Esattamente il contrario: si è portata avanti la teologia del Vaticano II in una forma radicale e si è abbandonato lo schema della cristianità. Si è preso sul serio quello che diceva il Vaticano II, cercando il popolo di Dio in mezzo ai poveri, cosa che le Chiese del Primo Mondo non si sono azzardate a fare e che la burocrazia romana è riuscita ad impedire difendendo la sua politica di alleanza con i poteri nella società occidentale, erede della cristianità. (...)

Naturalmente, all'interno della cristianità, vi sono state moltitudini di cristiani poveri che hanno compreso il Vangelo e lo hanno vissuto: erano il popolo di Dio, ma tra loro e la struttura di cristianità c'era un abisso quasi senza comunicazione. Il popolo pensava una cosa, e il sistema un'altra.

(...) In America Latina è avvenuta all'interno dello stesso clero e all'interno della teologia la riscoperta dei poveri e il vero senso della buona novella, del Vangelo che si rivolge ai poveri e non semplicemente agli esseri umani come se fossero tutti uguali. Quello che troviamo nella Bibbia è, precisamente, che non sono uguali, che nella storia vi sono ricchi e poveri, dominatori e dominati, sfruttatori e sfruttati, oppressoti e oppressi, e che il Vangelo ha senso nella denuncia di questa situazione, affermata fino alla morte dai profeti di tutti i tempi.

La teologia latinoamericana (...) ha riscoperto l'essenziale del cristianesimo, il suo messaggio centrale. Come ha potuto farlo? Perché ha rotto con la cristianità, ha rotto con il sistema coloniale, ha rotto con il sistema ecclesiastico. (...)

Si è scoperto che la Chiesa vera è la Chiesa dei poveri, quella che non è riconosciuta né accettata dal sistema. Cardinali, vescovi, sacerdoti, religiosi, leader laici hanno rotto con il sistema e per questo hanno conosciuto la vera Chiesa. Con i poveri hanno scoperto che la vera unità è escatologica, si situa alla fine, ma che in questo momento siamo in una storia di lotta, la lotta dei poveri per la loro liberazione, che è ciò che Gesù annunciò al suo popolo opponendosi a tutte le autorità di Israele, clero, dottori, anziani capi delle grandi famiglie. Hanno scoperto che il messaggio di Gesù è la speranza di una liberazione totale.

Situandosi in mezzo ai poveri, hanno capito che questa liberazione non si riferisce solo alla vita futura, che non si condensa in una cristianità idealizzata, ma che è presente nella lotta costante e perseverante dei poveri illuminati dalla promessa divina della loro piena liberazione. Questo non vuol dire che gli altri siano esclusi. Gesù offre loro un mezzo di salvezza: abbandonare la ricchezza e unirsi al popolo dei poveri.

Questo è il punto di vista che ci permette di giudicare e di apprezzare il significato del dialogo interreligioso.

1. Chi sta dialogando?

1.1. Chi dialoga con chi?

La questione è: se quelli che dialogano a nome del cristianesimo sono membri della struttura di cristianità - clero, religiosi - conviene dubitare molto. Non rappresentano il cristianesimo. Sarebbero sempre preoccupati di uscire dall'ortodossia. Quello che presenteranno come cristianesimo sarà l'ortodossia, cioè il sistema istituzionale della cristianità. (...)

Questo sistema è quello che si è presentato come cristianesimo per 16 secoli a tutti gli altri popoli. (...). Ancora oggi la maggior parte dei membri del sistema sono impregnati di esso e non riescono neppure a capire di essere dentro un sistema. Credono che quanto dicono è il cristianesimo perché è quanto hanno appreso nella loro teologia ed è quanto pratica il sistema.

Un dialogo in cui gli interlocutori che si dicono cristiani sono piuttosto rappresentanti di un sistema è molto sospetto. E possiamo presumere che per le altre religioni succeda qualcosa di simile. (...).

In questa fase della storia, la situazione è peggiore. C'è un cattolicesimo ufficiale che è sempre più burocratico. Il XX secolo ha assistito al sorgere della burocrazia vaticana che si è resa indipendente e manipola il papa, attribuendosi i poteri di Pietro. (...) Essa produce documenti senza fine per giustificare la sua esistenza. Ma la sua ragione d'essere, come quella di tutte le burocrazie, è aumentare il suo potere e per questo difficilmente può lasciar trasparire qualcosa di cristiano in mezzo a tutta questa immensa produzione di carta stampata. (...)

Il dialogo tra burocrazie darà una ragione d'essere alle burocrazie, ma non porterà a nulla. (...).

Un dialogo vero è un dialogo tra i popoli quando questi cominciano a convivere, confrontando le proprie religioni e influenzandosi reciprocamente. Con ciò si corromperà il cristianesimo? Non è probabile, perché le eresie le hanno sempre create i chierici e non i laici. La soluzione è imprevedibile, ma non c'è dialogo se si vuole sapere in anticipo dove si arriverà. Ogni dialogo è rischio, perché mette in discussione, squilibra tutte le parti e le obbliga a riformulare il proprio modo di vivere e di pensare.

1.2. La finalità del dialogo

C'è un sospetto. Nel mondo attuale tutte le religioni soffrono l'impatto del secolarismo della civiltà occidentale, scientifica e tecnologica. Tutte si sentono minacciate. Sentono di essere sempre più respinte dalla vita pubblica nelle varie nazioni. Il sospetto è il seguente: i rappresentanti delle grandi istituzioni potrebbero pensare, in quanto religioni, ad una lega di difesa dei propri interessi specifici. Una sorta di sindacato mondiale delle religioni.

(...). Il dialogo potrebbe essere lo strumento di un'alleanza mondiale dei fondamentalismi per promuovere l'importanza politica, sociale e culturale della religione. (...)

Una religione non è capace di correggersi da sola. Ha bisogno di ricevere la critica e la provocazione di altre persone ubicate fuori. Cioè, di altre religioni. Per questo alcuni dicevano che le eresie sono necessarie perché permettono di cercare la verità liberandosi da formule convenzionali e fisse. Per il cristianesimo questo lavoro è particolarmente necessario perché c'è un abisso tra il comportamento storico delle Chiese e il Vangelo di Gesù Cristo. Il dialogo permetterà di correggere tutta la corruzione di una religione, perché il confronto con le altre rivelerà le proprie deficienze. (...).

1.3. Cos'è la religione?

(...) Il cristianesimo vero è nell'azione dei cristiani che seguono l'azione di Gesù. Tutto il resto è simbolo, che aiuta o impedisce la ricerca della verità, secondo i casi. La verità della religione è ciò che va oltre la religione: la ricerca di Gesù Cristo, di Dio, non per mezzo di simboli e atti simbolici, ma nella realtà della vita. Che vantaggio ci sarebbe nel confrontare sistemi di simboli? Sarebbe impedire proprio l'essenziale, la ricerca comune della verità che è al di là di tutto ciò.

(...) Tutti insieme sono chiamati ad aiutarsi ad andare al di là dei propri limiti, delle proprie rigidità, delle proprie idolatrie, perché l'idolatria è considerare la religione come fine a se stessa. E fare della religione il fine e non il mezzo che deve cedere il passo a quello che è al di là.

2. L'oggetto del dialogo

2.1. Il discernimento delle religioni

La religione può essere la migliore o la peggiore delle cose. Tutto dipende dall'uso che se ne fa. In America, questa opposizione si è manifestata in forma tragica. La religione ha giustificato, provocato, incentivato la distruzione delle culture dei popoli indigeni e degli schiavi africani. Ha legittimato e consolidato la conquista, lo sterminio e la quasi schiavitù dei popoli indigeni. Ha giustificato l'importazione di milioni di schiavi dall'Africa e tutto il sistema di schiavitù che durò secoli. Tutto con la benedizione della religione ufficiale, dei suoi ministri e rappresentanti. Tutte le religioni sono accusate di orrori simili per quanto forse non di tale estensione. (...). D'altro lato la religione è indispensabile per dare senso alla vita. Senza religione la vita umana non ha direzione, non ha linea, è una successione di fatti senza significato.(...).

2.2. Il dramma dei monoteismi

Nel mondo attuale, la maggiore crisi religiosa riguarda i monoteismi. Quelli che sussistono sono il cristianesimo, l'islamismo e il giudaismo. Sono in crisi. Nel cristianesimo molti si sono allontanati dalla pratica tradizionale e si dimenticano dei dogmi tradizionali. (...)..

Nel giudaismo la crisi è immensa e la grande maggioranza non è praticante, neppure mantiene la fede nelle proprie credenze. Molti la mantengono in quanto ebrei, ma più per motivi culturali e politici che religiosi. L'islam si difende da un trauma tremendo attraverso il cammino del fondamentalismo. Questo entrerà in crisi inevitabilmente perché il contatto con la nuova cultura occidentale è inevitabile ed è essa che provoca la crisi. (...)

A questo punto dobbiamo riflettere sul cristianesimo. Questo è un monoteismo speciale. (...) Per prima cosa, il Dio unico non ha come attributo principale il potere, ma una combinazione di compassione, indignazione e volontà di agire. Questo si rafforza nella figura di Gesù che, lungi dall'apparire come un dio potente, è un dio debole, impotente, ridotto ai limiti di un essere umano, dominato, sfruttato, escluso.

In secondo luogo, dopo la morte di Gesù, la figura di Dio che balza in primo piano è lo Spirito, che è una forza immanente. Il Dio cristiano è al tempo stesso trascendente e immanente ma sempre debole, senza potere di imposizione e coercizione.

In terzo luogo, Gesù si pone alla guida della lotta dei poveri e dei dominati. Il Dio cristiano non è un Dio cosmico che rappresenta l'immobilità dell'universo, ma un Dio che entra nella storia non per giustificare il potere, ma per contraddirlo. È un monoteismo che si solleva contro la società stabilita, contro i potenti, smentendo la menzogna del monoteismo politico.

(...) Nel cristianesimo di Gesù, la povertà non e semplicemente un problema "sociale" o "politico", risolvibile con strumenti umani razionali, scientifici, tecnologici. Si è sempre sottolineato nella teologia della liberazione che la fame dell'altro non è un problema tecnico, ma un problema religioso, perché li si incontra Dio. Per questo il capitolo 25 di Matteo ha tanta importanza. Questo capitolo presenta il giudizio finale di Dio, la sua ultima parola, la forma con cui il vero Dio si interessa della religione, quello che intende per religione.

Per questo, l'attenzione ai poveri non è un'appendice, un corollario, un aspetto della compassione umana o della solidarietà. Non è un aspetto della giustizia. La dominazione, lo sfruttamento o l'esclusione dei poveri sono il dramma della creazione. Il Dio vero è coinvolto nella liberazione dei poveri e non è coinvolto nella religione. Dio detesta i templi, i sacerdoti e i sacrifici. La vera religione è l'amore attivo per i poveri oppressi perché si liberino dall'oppressione. La vera religione – se c’è bisogno di usare una parola tanto ambigua - è la lotta dei poveri per la loro liberazione. (...).

La questione è: chi parlerà in nome del Dio cristiano nel dialogo? L'interlocutore cristiano parlerà del Dio di Gesù o del Dio degli imperatori romani, inclusi tutti i loro eredi? Chi andrà a dialogare con gli indios e i neri di America? Chi parlerà loro del cristianesimo? Dalla risposta dipende la natura del dialogo: poiché il cristianesimo di cui si parlerà potrà essere lo stesso monoteismo dei conquistatori o il messaggio di Gesù Cristo.

2.3. La grande crisi attuale della religione

Crisi non vuole dire decadenza, né pericolo, ma cambiamento, trasformazione radicale. Non c'è pericolo per la religione, che ha il futuro garantito oggi come lo aveva nel passato. Non c'è decadenza della religione, ma solo decadenza di determinati tipi di religione e di determinate istituzioni religiose.(...)

Il potere nella società non è scomparso, è più forte che mai. Si è concentrato, ma in istituzioni anonime e per questo ha poca visibilità. (...).

Oggi gli oppressori non sono persone, padroni della terra, presidenti, partiti politici... L'oppressore è il sistema completo, che costituisce una forza che domina il mondo intero. (...).

Il sistema può migliorare lo stato di fame che c'è in America Latina, ma non può restituire la dignità all'immensa maggioranza di una popolazione che sa di essere una pedina in mano a forze anonime. Questo è il posto dei cristiani, ma costa, perché molti volevano una vittoria più immediata. Tutti volevano un cambiamento rapido, ma l'esame del mondo mostra che è inutile sperare l'impossibi-le. Sarà una lotta lunga in cui le comunità cristiane dovranno presentare al mondo un'altra maniera di vivere, finché alla fine il sistema non riconoscerà di aver fallito.

Allora, con chi andiamo a dialogare? Con tutti coloro che non accettano il sistema e sono decisi a lottare contro di esso, non solo con parole e simboli, ma con la loro vita, con la loro maniera di vivere, come isole in mezzo a un mondo che non comprende perché un essere umano non possa essere felice come semplice consumatore. (...). Con le altre religioni si dialoga se accettano di entrare nella lotta contro questo sistema. In caso contrario, non vale la pena dialogare e mancano argomenti di conversazione.

Siamo molto coscienti che la storia è molto più ampia dell'area di estensione del cristianesimo, ma tutti siamo chiamati ad entrare nella stessa storia. Dio non chiede se una persona è cristiana o musulmana o induista o confuciana... tutto questo non gli interessa. Dio vuol sapere chi è coinvolto nella nascita e nella crescita del suo popolo dei poveri. (...)

Alla teologia delle religioni possiamo proporre due temi di base.

Il primo è il tema della storia. In generale le religioni non si interessano della storia. Nella Bibbia l'importante è la storia, il cammino reale, materiale, storico seguito e creato dall'umanità chiamata da Yahvé alla libertà. Questa storia coinvolge tutti gli uomini e le donne di tutte le religioni. Tutti sono chiamati a porre le proprie forze al servizio di questa immensa marcia dell'umanità verso la sua liberazione da quel peccato immenso che è la dominazione dell'essere umano sull'essere umano.

In secondo luogo, c'è il tema dell'idolatria che è anch'esso basilare nella Bibbia. L'idolatria non sono le religioni, ma l'uso della religione al servizio del potere, della ricchezza, della dominazione. (...). Gesù arriva a definire esattamente l'idolatria quando la identifica con la sottomissione al denaro.

Nella visione cristiana c'è un dualismo profondo, per quanto non definitivo: alla fine si realizzerà l'unità, ma solo alla fine. Nella storia c'è una lotta permanente tra il vero Dio e gli idoli, tra il falso e il vero. Gesù dirà: tra il Padre e il denaro.

Per questo, la parola "Dio" non ci sembra molto conveniente e, oggi, porta a molta contusione. Questa parola è culturale e non primordiale. Nella Bibbia Dio non ha nome, neppure il nome Dio. Dio è colui che non ha nome perché è al di sopra di tutte le culture e rappresenta l'universale. (...) È la libertà pura che chiama alla libertà.

Dal momento in cui esiste questa storia unica che è lotta unica, tutte le religioni sono interpellate perché tutte sono dentro la lotta, tutte attraversare dalla dualità: tutte partecipano del bene e del male e tutte sono chiamate a liberarsi. (...).

Per questo, insieme al dialogo con le religioni, è essenziale mantenere il dialogo con gli atei, perché questo dialogo ci aiuterà e aiuterà tutte le religioni a preservarsi dall'idolatria. In realtà, dobbiamo mantenere le porte aperte al dialogo con gli atei. I primi cristiani furono condannati come atei. Il dialogo con gli atei è importante per noi tanto come il dialogo con le religioni. Bisogna mantenere l'equilibrio tra i due, perché la verità e nel mezzo, o piuttosto a un livello superiore dove non si nota più la differenza tra religione e ateismo.

(da Adista, n. 46, 18.06.2005, pp. 7-10)
Venerdì, 04 Aprile 2008 21:45

Anania e Saffira (At 5,1-11) (Renzo Infante)

Anania e Saffira (At 5,1-11)

di Renzo Infante


Il racconto della punizione di Anania e Saffira è stato da sempre considerato uno dei più difficili del NT e in qualche modo fuori luogo, in un'opera, come quella lucana, da cui emerge un Gesù sempre pieno di misericordia e pronto al perdono. Prima di considerarlo, merita attenzione il contesto nel quale è in­serito.

Importanza del contesto

Diversi segnali nel testo indicano che il brano di At 5,1-11 non può essere iso­lato dal contesto più ampio in cui è inserito. La particella greca dé, in 5,1, che generalmente equivale ad una congiunzione, qui ha valore avversativo e con­trappone ciò che segue a quanto è stato in precedenza narrato. Nel sommario di 4,32-35, infatti, si presenta la profonda unità che caratterizza la Chiesa nascente i cui membri tutto dividono e mettono in comune; esempio ne è la ge­nerosità di Barnaba raccontata nei vv. 36-37. In contrasto si pone la pericope della frode di Anania e di sua moglie Saffira (5,1-11), che segue subito dopo.

L'espressione «vendere, portare l'importo e deporlo ai piedi degli apostoli» ripetuta tre volte - al termine del sommario (4,34-35), nell'esempio di Bar­naba (4,37) e all'inizio del secondo esempio (5,1-2) - dà origine ad una stret­ta correlazione tra i brani.

L'episodio di Anania e Saffira, inoltre, trova un certo seguito nell'altro som­mario sulla vita della comunità (5,12-16), nel quale si sottolinea lo stare in­sieme basato, non tanto sulla condivisione dei beni, quanto sul «timore» per i numerosi miracoli e prodigi compiuti dagli Apostoli. In questo sommario, il terzo, emerge la figura di Pietro con il suo potere taumaturgico. La constata­zione letteraria che sia il sommario sia il nostro brano hanno in comune il ri­chiamo al «timore» e al ruolo di Pietro, permette di creare un ponte tra i due passi. Quindi, l'esatto significato della pericope emergerà meglio se conside­rata come parte integrante di un'unità narrativa piuttosto compatta che inizia in 4,32 e termina in 5,16.

Infine, alla luce del costante parallelismo lucano tra le vicende di Gesù (Van­gelo) e quelle della Chiesa (Atti), l'episodio di Anania e Saffira fa da riscon­tro alla storia di Giuda, anch'egli divenuto strumento di Satana (Lc 22,3), re­so consapevole da Gesù stesso della sua colpa (Lc 22,21-22), e finito tragica­mente (At 1,18). (1)

Struttura e commento

In 5,l-2a vengono presentati Anania e Saffira come autori di un'azione in net­to contrasto con quanto appena narrato in 4,32-37. Il protagonista principale è però Pietro che appare nelle vesti di rappresentante e portavoce degli apo­stoli, ai cui piedi i credenti ponevano il ricavato dei beni venduti. La vicenda dei due coniugi protagonisti si sviluppa in momenti successivi: insieme nella complicità del loro misfatto (5,1-2a), si ritroveranno insieme solo nella tomba (5,10). Lo smascheramento e la punizione si svolgono in due scene indipen­denti, ma costruite in maniera parallela: quella di Anania nei vv. 5,2b-6e quella di Saffira in 5,7-10. Il v. 11, in cui si sottolinea l'eco profonda suscitata dalla notizia della sorte dei due coniugi, funge da conclusione.

a loro completa e totale disposizione, in quanto legittimi pro­prietari. Il verbo enosphisato («tenere per sé una parte») ha l'accezione peg­giorativa di «trattenere con frode», «sottrarre», «frodare». Quindi la loro col­pa consiste «nel presentare come totale ed incondizionata un'offerta che è in­vece solo parziale ed interessata». (2) L'espressione «deporre ai piedi degli apo­stoli» equivale a mettere i propri beni o se stessi a disposizione degli aposto­li e dell'intera comunità (cf Lc 8,35). La frode di Anania e Saffira è perciò da considerarsi come un attentato che rischia di spaccare la comunione e l'unità della chiesa «che era "un cuore solo ed un'anima sola" (4,32) e di screditar­ne la "testimonianza" (4,33)». (3)

Nei vv. 3-4 prende la parola Pietro che svolge il ruolo che noi oggi, nel nostro linguaggio giuridico, chiamiamo di «pubblico ministero». Egli è l'antagonista di Anania, ne smaschera la frode ed impedisce che questo attentato alla co­munione ecclesiale abbia effetti devastanti. Segue a raffica una serie di do­mande retoriche che non abbisognano di risposta: Pietro, come Gesù, legge nei cuori e ne svela i più reconditi segreti (cf Mc 2,8; Lc 6,8; 7,39; 22,2ls).

L'azione di Anania viene ricondotta alla radice di ogni malvagità, a Satana che si è impossessato del suo cuore. Invece di far posto allo Spirito, Anania ha aperto il suo intimo a Satana, al padre di ogni menzogna e di ogni sorta di inganno, ed ha mentito allo Spirito Santo (cf Gv 8,44). L'inganno e la frode sono direttamente contro lo Spirito che in Atti è considerato il fondamento dell'unità della chiesa raccolta attorno agli Apostoli (2,14-48; 4,31). Nello scontro in atto tra Pietro ed Anania si confrontano, in realtà, lo Spirito e Sa­tana. Mentre il cuore indiviso era il centro della comunità di coloro che veni­vano alla fede (4,32), Anania ha fatto sempre più spazio nel suo intimo a Sa­tana (5,3.4), padre del sospetto e della divisione.

Anania riteneva di imbrogliare solo gli uomini e invece mentiva a Dio stesso. Questa è l'unica affermazione dopo tante domande retoriche. Ne viene subi­to la condanna, non pronunciata direttamente, ma implicita nella affermazio­ne della menzogna a Dio. Anania è dunque il solo responsabile della sua tri­ste sorte, come ricorda la tradizione sapienziale: «Una lingua bugiarda odia la verità, una bocca adulatrice produce rovina» (Prv 26,28). Chi interviene ad eseguire la sentenza è solo Dio.

Il «timore grande» è la tipica conclusione lucana dei racconti di miracolo e di altri brani in cui si narra di un'epifania divina o angelica. Esso sorge quando un evento ultraterreno irrompe all'improvviso e misteriosamente nel mondo degli uomini, ponendoli a diretto contatto con il fascinoso e tremendo miste­ro di Dio (cf Lc 1,12.65; 2,9; 5,26; 7,16; At 2,43; 5,5.11; 19,17).

Dopo la tragica conclusione del destino di Anania, fanno la loro comparsa i più giovani dell'assemblea di fronte alla quale si è svolto l'accaduto, i quali intervengono a sgomberare la scena dal cadavere di Anania e prepararla per l'episodio successivo (v. 6).

I vv. 7-10 descrivono, in perfetto parallelismo, la sorte di Saffira, che non vie­ne menzionata col nome proprio, ma con l'appellativo di moglie che vive e muore all'ombra del marito, con il quale rimane complice fino in fondo. Saf­fira in accordo con Anania nel «tentare lo Spirito del Signore», subisce la sua stessa sorte e si ricongiunge a lui nella tomba. È interessante la duplice men­zione del «cadere ai piedi» nel v.10 (cf anche «i piedi» del v. 9), che richiama il «deporre ai piedi» l'importo di 4,35.37; 5,2. Il cadere di Saffira ai piedi di Pietro sembra ristabilire l'autorità degli Apostoli, che i due coniugi avevano tentato di misconoscere e ridicolizzare con la loro frode meschina. (4)

Il v. 11, in parte parallelo al v. 5b, funge da conclusione di tutto l'episodio. Il «grande timore», circoscritto in 5,5b alla sola assemblea, coinvolge adesso tutti coloro che vengono a conoscere l'accaduto. È la prima volta che in Atti l'assemblea dei credenti viene denominata ekklésia, nome che diverrà abitua­le nel seguito dell'opera per indicare l'essere insieme dei credenti (21 ricor­renze). La Chiesa è qui l'assemblea formata dagli spettatori attenti e silenzio­si del giudizio di Dio su Anania e Saffira.

Un po' di luce dal genere letterario

La punizione dei due coniugi ha per noi qualcosa di ripugnante e di estraneo allo spirito di Gesù, soprattutto perché non lascia spazio alcuno alla possibi­lità di pentimento in vista del perdono. Tutto sembra finalizzato a mettere in risalto il potere sovrano dell'apostolo Pietro nel giudicare ed infliggere anche una punizione mortale. Ad attenuare questa ripugnanza non serve molto nean­che rammentare quanto Gesù dice sul peccato contro lo Spirito (Lc 12,10) o a riguardo dei peccatori impenitenti (Lc 13,3.5). (5)

Per quanto strano l'episodio possa apparire, esso non è unico nel libro di At­ti (cf 13,4-12; 19,13-17, due brani sostanzialmente identici al nostro), né tan­tomeno nella letteratura biblica ed extrabiblica, dove possiamo trovare un am­pio repertorio. (6)

Questi racconti si possono inquadrare in un sotto gruppo del genere letterario delle narrazioni di miracolo, denominato comunemente come «miracoli di punizione» o «giudizio di Dio». (7) Sono brani che si compongono dei seguenti elementi narrativi: trasgressione, intervento verbale da parte dell'offeso o di un suo rappresentante, punizione del trasgressore, appello, mitigazione della pena. Nel nostro brano mancano i due ultimi elementi. Il nucleo di questi te­sti è costituito dal «superamento immediato e decisivo di un pericoloso attentato ai valori riconosciuti della comunità culturale e cultuale a cui il testo ap­partiene». (8)

Frequentemente questo genere letterario ha come suo Sitz-im-Leben (contesto sociale che dà origine ad una specifica forma espressiva) il sorgere e lo svi­lupparsi di nuovi culti o movimenti religiosi ed ha come scopo la polemica e la lotta all'ateismo, l'empietà o lo scetticismo. La colpa viene avvertita come un fattore che disturba ed infrange l'ordine costituito, disgrega le strutture e le certezze su cui è fondata la vita stessa della comunità. La punizione dura, ap­parentemente sproporzionata e perfino ingiusta, serve a ristabilire l'ordine violato, riaffermando i valori su cui si basa la vita della comunità.

Il nostro testo sottolinea, da un lato la trasgressione che ha qualcosa di radi­cale, perché tocca l'essenza del bene e del male, dall'altro lato l'estrema fa­cilità con cui l'ostacolo e l'attentato vengono superati ed annientati. Se l'at­tentato ha qualcosa di satanico, il suo superamento ha qualcosa di divino.

Un ruolo rilevante è ricoperto dall'intervento verbale dell'offeso o del suo rappresentante umano, che di solito assume una forma processuale, con la convocazione e l'interrogatorio dei colpevoli teso a far luce sulla trasgres­sione e sui moventi. Il nostro testo appartiene con certezza a questo genere, perché in esso viene presentato uno scontro frontale tra oppositori di Dio e Dio stesso.

Significato di At 5,1-11 nel contesto dell'opera

Ci si interroga, infine, sul senso di questo episodio all'interno del piano nar­rativo dell'opera lucana, teso a descrivere l'attuarsi inarrestabile del progetto salvifico di Dio che affonda le sue radici nella storia d'Israele ed ha il suo centro nell'evento Cristo, proclamato dagli Apostoli a tutte le genti.

Nella prima parte del Libro degli Atti (1,12-8,4) l'attenzione è puntata alter­nativamente sui rapporti esterni e su quelli interni alla primitiva comunità. I rapporti esterni sono caratterizzati costantemente dalla persecuzione, quelli interni invece sono connotati dai conflitti. (9) «At 5,1-11 è parte integrante di que­sta strategia compositiva: attraverso Pietro, Dio compie "segni e prodigi" (4,20.23; 5,12.15) per bloccare le tendenze disgreganti e perseverare l'unità della comunità/Israele credente (4,24.32 e 5,11.12) assicurando il "timore" di tutti (5,5.11.13) e la crescita costante dei credenti». (10)

Dietro la frode di Anania e Saffira è in azione Satana che è l'oppositore per eccellenza del piano salvifico di Dio. La sconfitta senza possibilità di rivinci­ta di Satana e dei sui agenti umani indica che non ci si può opporre al piano di Dio che agisce mediante lo Spirito nella storia degli uomini (cf l'espres­sione di Gamaliele in 5,38-39).

La vita della comunità, al di là delle idealizzazioni, è segnata dal pericolo di particolarismi e di egoismi. La storia di Anania e Saffira è uno splendido esempio di come Dio vigili affinché la comunità resti unita e non si scoraggi di fronte all'esperienza quotidiana di infedeltà e di tensione al proprio interno. Pietro assume in questo racconto il ruolo «antipatico» di ministro del giudizio divino e, grazie al prestigio di cui gode, è il sicuro punto di riferimento per la comunità minacciata dagli attacchi interni ed esterni.

Note

1) Cf G. STÀHLIN, Gli Atti degli Apostoli, Paideia, Brescia 1973, p. 155.
2) L. Tosco, Pietro e Paolo ministri del giudizio di Dio, EDB, Bologna 1989, p. 23.

3) J R. PESCH, Atti degli Apostoli, Cittadella, Assisi 1992, p. 255.

4) Cf L. Tosco, Pietro e Paolo, cit., p. 37.

5) Cf G. STÀHLIN, Gli Atti, cit., p. 159.

6) Cf Gn 19; Lv 10,1-5; Nm 11,1-3; 12,1-16; 14,1-12; 16,1-35; 21,4-9; Gs 7,1-8,29; 2 Sam 6,3-10; l Re 12,33-13,34; 2 Re 1,2-17; 2,23-24; Dn 13,52-59; ERODOTO, Hist. II, 111.

7) Cf L. Tosco, Pietro e Paolo, cit., p. 112.

8) Cf L. Tosco, Pietro e Paolo, cit., p. 119.

9) Cf G. BETORI, Perseguitati a causa del Nome, Roma 1981, pp. 20-50. IO L. Tosco, Pietro e Paolo, cit., p. 208.

10) Cf L. Tosco, Pietro e Paolo, cit., p. 208.

(da Parole di vita, 2, 1998)
Il discorso di Stefano
e la sua morte (At 7)

di Carlo Ghidelli


È risaputo che gli Atti degli Apostoli Luca li ha arricchiti di numerosi di­scorsi, tutti abbastanza lunghi e variamente articolati: essi costituiscono una sezione assai importante del libro, anche dal punto di vista quantitati­vo; non è lecito ignorarli se si vuole cogliere il disegno teologico generale di Luca.

La funzione dei discorsi nel libro degli Atti è nota a tutti: con essi Luca ci of­fre una interpretazione teologica di un evento storico particolare: la discesa dello Spirito, la guarigione dello storpio, la conversione di Cornelio e della sua famiglia, la conversione di Paolo, il Concilio di Gerusalemme, ecc.

Tra i discorsi cui abbiamo accennato ce n'è uno, quello di Stefano appunto, che si caratterizza in un modo del tutto singolare: anzitutto perché è il più lungo di tutti, e poi anche perché è tutto infarcito di citazioni veterotestamen­tarie. Ma le caratteristiche di questo discorso sono ben altre e vale la pena esplicitarle. In esso Stefano ripercorre le tappe principali della storia della salvezza (da Abramo a Giuseppe, da Mosè a Giosuè, da Davide e Salomone Gesù) e ne offre una rilettura teologica; d'altro canto, Stefano intesse una ve­ra e propria autodifesa, in riferimento ad alcune accuse relative alla Legge al Tempio (cf 6,11-14) per il quale subirà il martirio.

Per cogliere in pienezza il messaggio del discorso di Stefano, è assai utile considerare prima alcune notizie relative al personaggio e alla sua presenza nella Chiesa di Gerusalemme (cap. 6) e poi il modo col quale Luca riferisce della morte di lui (cf 7,54-60). Sono due sezioni narrative che fanno da corni­ce letteraria al discorso stesso; nello stesso tempo ci offrono il contesto stori­co dentro il quale il discorso è nato e vuole essere compreso.

La figura di Stefano è una delle più significative del Nuovo Testamento e lo è - lo dobbiamo dire esplicitamente - per il suo riferimento a Cristo Gesù. Come Gesù si è definito il «servo» per eccellenza (cf Lc 22,27), così Stefa­no è il primo dei sette aiutanti degli apostoli, addetti appunto al servizio (cf At 6,3). Come Gesù fu pieno di Spirito Santo (cf Lc 4,1.14; 10,21) per l'eser­cizio della sua missione, così Stefano è detto pieno di fede e di Spirito San­to (cf At 6,5) in funzione di ciò che va dicendo e testimoniando con la sua morte. Come Gesù è stato il martire per eccellenza (cf Lc 22,39-46), sulla scia dei martiri dell'Antico Testamento (cf 2 Mac 7,1-41), così Stefano coro­na la sua esistenza terrena con il martirio (cf At 7,51-54) e sarà chiamato il protomartire.

Stefano, uno dei «sette»

Come si diceva, le notizie storiche riferite da Luca nel capitolo 6 degli Atti so­no assai illuminanti per l'interpretazione del discorso di Stefano.

Anzitutto per i tratti della personalità di Stefano che Luca mette a fuoco con tutta chiarezza. Di lui, come degli altri sei, si dice che «era pieno di Spirito Santo e di sapienza» (6,3). Solo di lui si aggiunge che «era pieno di fede e di Spirito Santo» (6,5): nello stesso è posto in cima alla lista dei sette. Fede, Sa­pienza e Spirito Santo sono gli agenti divini che operavano in Stefano; sono altrettanti doni che Stefano ha ricevuto da Dio, nella luce e nella grazia del mistero pasquale; sono forse una chiave di lettura del discorso stesso.

Esso infatti è una lettura teologico-sapienziale della storia di Israele in fun­zione epifanica: la storia infatti, quando è interpretata con la lampada della fe­de, diventa epifania di Dio e delle sue intenzioni salvifiche. È la fede, solo la fede, che aiuta a riconoscere negli anfratti della storia una linea retta, conti­nua, ascendente, sulla quale si scagliarono gli interventi salvifici di Dio. È la fede che permette di intravedere la Sapienza di Dio anche nelle gesta, spesso insipienti, degli uomini. È la fede che educa all'ascolto della Parola di Dio che si nasconde sotto l'involucro delle parole umane. È la fede che ci dona il sesto senso per percepire la presenza dello Spirito Santo nei meandri della storia umana che, di primo acchito, sembrerebbe caratterizzata solo dalla pre­senza del peccato e del male.

Il capitolo 6 degli Atti ci informa anche sui motivi per i quali Stefano è stato dapprima arrestato e poi lapidato. Sostanzialmente sono due, ribaditi con in­sistenza: «Noi lo abbiamo sentito bestemmiare contro Mosè e contro Dio […]. Costui continua a parlare contro questo luogo santo, il tempio, e contro la Legge» (6,11.13). Ma, al di là di Stefano, i suoi accusatori mirano a colpire ancora una volta Gesù. Infatti proseguono con queste parole: «Lo abbiamo sen­tito dire che quel Gesù, il Nazareno, distruggerà questo luogo e cambierà le tradizioni che ci ha dato Mosè» (6,14).

Nulla di più sacro della Legge, nulla di più venerando del Tempio: per Mo­sè, per Gesù e per Stefano. Ma a condizione che ambedue, la Legge e il Tempio, siano considerati, non in se stessi, isolati e quasi ipostatizzati, ma dentro il progetto di Dio, nella sequenza dei tempi (dall'Antico al Nuovo Testamento) e dei modi (dal tipo all'antitipo), secondo i ritmi di una rivela­zione progressiva, che sottende una istanza pedagogica. Chi non entra in questa logica finisce col precludere a se stesso ogni possibilità di compren­sione di ciò che, per mezzo della Legge e del Tempio, Dio voleva rivelare; fi­nisce col fermare il corso dei tempi e non riesce più a riconoscere «il tempo» (kairós) di Dio, il giorno della salvezza; finisce col materializzare e cosifica­re istituzioni che, secondo la mente, hanno la funzione di annunciare e pre­parare (e di rimandare a) realtà e persone future, il cui avvento realizza in pienezza il significato di quelle.

Questa dinamica va tenuta presente quando si considera il rapporto tra l'An­tico e il Nuovo Testamento, quando nella luce della nuova alleanza si vuole ricuperare il senso (nella duplice accezione di significato e di orientamento) dell'antica. L'errore degli accusatori di Stefano consiste proprio in questo. Del resto Stefano non inventa nulla di nuovo, ma si manifesta come un fedele discepolo di Gesù che i Vangeli presentano appunto come maestro anche sotto questo profilo. Si veda, per limitarci all'opera lucana, Lc 16,16, un tesi fondamentale per questa problematica. (2)

Infine, il capitolo 6 degli Atti ci sollecita a stabilire un confronto tipologico tra Stefano e Mosè. Infatti di Stefano, si dice che i presenti «puntarono gli occhi ­su di lui e videro il suo volto raggiante come quello di un angelo» (6,15), cer­tamente per la gloria di Dio che rifletteva sul suo volto (cf 7,55s), proprio co­me Mosè che discendendo dal monte Sinai aveva il volto splendente (cf Es 34,29-35 e 2 Cor 3,7-18). Questo rapporto tipologico (il tipo è Mosè, l'antiti­po è Stefano) si rivela perciò come il metodo esegetico fondamentale per in­terpretare non solo il discorso di Stefano, ma tutta la sua storia. La sua perso­na, prima ancora che le sue parole, richiede di essere valutata al di là della sua consistenza storico-esistenziale per relazionarla ad una realtà superiore (un mistero) a fronte della quale Stefano si pone come segno, come simbolo e come rimando.

La dinamica del discorso

Alla luce delle osservazioni fatte è possibile definire il genere letterario de discorso di Stefano? Ci sono elementi sufficientemente chiari per caratteriz­zarlo in modo inequivocabile? La risposta a questi interrogativi la vogliamo chiedere solo al testo, così come Luca l'ha scritto e tramandato.

A prima vista, considerando l'incipit, del discorso, sembrerebbe che quella Stefano sia una espressione piana e lineare delle principali vicende storiche Israele, per se stesse interessanti e significative: «fratelli e padri, ascoltatemi!» (7,2). I due vocativi non lasciano trasparire alcuna vis polemica. Ma le cose non stanno proprio così. Per sapere se c'è un filo rosso all'interno di queste memorie, un filo che le collega fra di loro e le orienta verso uno sbocco fina­le, occorre analizzare attentamente il discorso che Stefano avrebbe proclama­to pochi istanti prima di subire il martirio. Dico «avrebbe proclamato», non per negare il fatto storico, ma per alludere al genere letterario adottato da Lu­ca e che non è lecito passare sotto silenzio. È un genere ben noto alla lettera­tura antica, sia profana che sacra. Per quanto attiene la Bibbia basti ricordar il discorso di Mosè prima della sua morte (cf Dt 33,1-34,12) o i cosiddetti ­discorsi di addio di Gesù (cf Gv 13-17) e il discorso di commiato di Paolo agli anziani di Efeso (cf At 20,17-38).

Particolarmente illuminante e istruttivo risulta il discorso della madre dei set­te fratelli Maccabei con il quale ella esorta i suoi figli ad affrontare con fede e con coraggio la prova del martirio (cf 2 Mac 7,20-29). Una vera e propria madre-coraggio, la cui fede si traduce in lucida chiaroveggenza e si comuni­ca ai figli in termini di coraggiosa testimonianza. È questo il dettaglio degno di essere sottolineato: l'accusa di Stefano risulta particolarmente pungente ed efficace per questa luce che si sprigiona non tanto dalle sue parole, quanto dalla parola di Dio scritta, da lui riletta e interpretata. In questa luce la requi­sitoria contro Israele che ha sempre resistito allo Spirito (che parlava attra­verso Mosè e per mezzo dei profeti, cf 7,52) e contro coloro che accusano e stanno per condannare a morte Stefano e oppongono resistenza allo Spirito Santo (che parla attraverso Gesù e per mezzo di colui che stanno uccidendo), non è propriamente la requisitoria di Stefano, quanto quella di Dio. Questo discorso si pone in perfetta sintonia con quelli di molti profeti (cf Ez 33,23-­34,16; Os 2,4-15; Am 2,6-3,2): Stefano parla sorretto da un autentico spirito profetico.

Tornando all'analisi del discorso di Stefano, possiamo fare i seguenti rilievi di critica letteraria. Anzitutto: l'arco di storia considerato va dalla vocazione di Abramo (Gn 12,1ss) alla missione di Salomone (1 Re 6,1-14). Ciò che risulta evidente fin dall'inizio è che Stefano va considerando alcuni momenti crucia­li della storia del popolo eletto. Elenchiamoli:

a) Il Dio della gloria chiama Abramo e gli ordina di andare verso la terra, ma non gli dà alcuna proprietà in quel paese; gli promette di darlo in possesso al­la sua discendenza dopo di lui, ma questa sarà pellegrina in terra straniera (7,2-7).

b) Anche Giuseppe, figlio prediletto di Giacobbe, per gelosia è venduto dai fratelli e va schiavo in Egitto, terra-granaio ma pur sempre terra straniera, do­ve si reca lo stesso Giacobbe (7,8-16).

c) L'Egitto costituisce ancora un teatro della vicenda di Mosè (7,17-29) e non è più solo paese straniero, ma anche terra di persecuzione e di afflizione. 

d) Mosè dà inizio alla sua missione liberatrice: egli porta la salvezza (v. 25), è capo e liberatore (v. 35), opera segni e prodigi (v. 36), è posto tra Dio e gli uomini (v. 38) ma essi non compresero (v. 25), gli contestano ogni superiorità (v. 27); Mosè è costretto a fuggire in un'altra terra straniera, a Madian (v. 29).

e) Finalmente inizia la missione liberatrice di Mosè (7,30-43) con la teofania del roveto ardente e l'investitura da parte di JHWH (v. 34), e si delinea la frui­zione della terra promessa al termine dei quarant'anni passati nel deserto (v. 36), ma «i nostri padri - continua Stefano - non vollero dargli ascolto, lo respinsero e si volsero in cuor loro verso l'Egitto» (v. 39). La terra rimane promessa: il popolo eletto preferisce l'Egitto con le sue idolatrie.

f) Posto di fronte alla scelta idolatrica di Israele JHWH «si ritrasse da loro e li abbandonò al culto dell'esercito del cielo» (v. 42), ed ecco che per loro, se­condo la parola del profeta Amos, si delinea la deportazione al di là di Babi­lonia (v. 43): l'avventura del popolo eletto - per una terra tutta sua, nella qua­le scorre latte e miele - continua in terre straniere, luogo di solitudine e di af­flizione.

g) Dopo l'amara esperienza dell'Egitto e la prospettiva della Babilonia, ecco il periodo storico del deserto: nella sua continua itineranza Israele si costrui­sce «la tenda della testimonianza» come segno della presenza di JHWH che protegge e difende il suo popolo (v. 44). Ma non poterono stabilirla in un luo­go: «se la portarono con sé nella conquista dei popoli», cioè di battaglia in battaglia, ancora lontani dalla pace (shalom), frutto della piena comunione con il Signore.

h) Tutto questo fino ai tempi di Davide e di Salomone: il primo «domandò di poter trovare una dimora per il Dio di Giacobbe», mentre il secondo «gli edi­ficò una casa» (vv. 45-47). Ma - aggiunge subito Stefano - «l'Altissimo non abita in costruzioni fatte da mani d'uomo» (v. 48) e a conferma della sua af­fermazione riporta la profezia di Is 66,1-2.

Abbiamo messo a fuoco ben otto momenti cruciali della storia di Israele, tut­ti caratterizzati dalla stessa problematica: Israele è scelto come popolo per una terra, la terra promessa; egli è il felice destinatario di questa te scelta dal suo Dio; ne è il titolare, potremmo dire. Ma la sua storia si snoda terre straniere: è un destino ben strano, quello di Israele, ma induce a pensare per comprendere, a riflettere per accettare il disegno divino soggiacente Parimenti Israele ha sempre desiderato un luogo, una città nella quale elevare una casa per JHWH: sintomatica, a questo proposito, la variante di 7,7 dove citando Gn 15,13-14 al posto di «mi adoreranno su questa montagna», Stefano dice «in questo luogo», cioè Gerusalemme e il tempio. Ma, come abbiamo già rilevato, alla fine Stefano affermerà solennemente che Dio «non abita in costruzioni fatte da mano d'uomo» (7,48).

Rileviamo ora altro dato letterario. Il fatto che la parte centrale del discorso Stefano - che è anche la sezione più articolata - sia dedicata alla figura e al­la missione di Mosè fa nascere un sospetto, che vale la pena di coltivare. Il sospetto consiste in questo: Stefano non ha forse privilegiato questo periodo della storia di Israele proprio per la sua estrema drammaticità, che è contras­segnata dalla schiavitù dell'Egitto, dalla persecuzione del Faraone e dall'ido­latria? Certo vi si inseriscono anche la grande liberazione, l'epopea dell'eso­do e il dono della rivelazione, ma il dramma rimane in tutto il suo spessore. Innegabilmente vi è un dramma nel grande dramma: ed è l'ostinazione di Israele a non comprendere, la resistenza di Israele alla vera conversione a Dio, il rifiuto di Israele all'ascolto della parola di Mosè, quindi, all' acco­glienza della parola di Dio.

A ben considerare, si evidenzia un duplice contrasto nel corso della vicenda di Mosè: da un lato, la vocazione e la missione di Mosè e il primo «ma»: «m essi non compresero» (v. 25); dall'altro l'inizio dell'azione liberatrice di Mo­sè e il secondo «ma»: «Ma i nostri padri non vollero dargli ascolto, lo respin­sero ... » (v. 39).

Alla fine emerge un altro grande contrasto, di segno opposto: sono i padri Davide e Salomone a realizzare il progetto di dare una casa a JHWH, «ma l'Altissimo - dichiara Stefano con pari fermezza e chiarezza - non abita in costruzioni fatte da mani d'uomo» (v. 48). Su questi grandi contrasti, che rag­giungono il loro climax nell'ultimo, sta ancorata la requisitoria di Stefano, la quale pertanto desume tutta la sua validità e la sua forza da una rilettura teologico-sapienziale dell'Antico Testamento.

Con le ultime battute del discorso (7,51.53), se mai ce ne fosse bisogno, l'in­tenzione di Stefano si manifesta ancor più chiaramente. Egli denuncia nei suoi avversari una duplice malattia spirituale: la sclerocardia e la otoporosi. Infatti essi hanno il cuore insensibile e gli orecchi sordi. (3) Fuori metafora, gli accusatori di Stefano, in perfetta linea con i loro padri, stanno opponendo re­sistenza allo Spirito Santo per l'ennesima volta. Essi non resistono a Stefano, ma allo Spirito Santo: sta qui il loro vero dramma, tanto più grave quanto meno essi se ne avvedono.

«Come i vostri padri, così anche voi»: in questa espressione, così brachilogi­ca ed icastica, c'è tutta la vis polemica del discorso di Stefano; in essa co­gliamo pure l'epilogo drastico e inappellabile della sua rilettura biblica. Ste­fano, in altri termini, ci invita a considerare come nella Bibbia alla historia salutis si intrecci sempre anche una historia peccati. Egli ci offre una sicura chiave ermeneutica di tutto ciò che nella Bibbia sta scritto per la nostra istruzione (cf Rm 15,4), per ammonimento nostro (cf 1 Cor 10,11), essendo stata ispirata «per insegnare convincere, correggere e formare alla giustizia» (2 Tm 3,16). Stefano ci offre un metodo serio e applicato per mettere in atto una lec­tio divina che non si limiti ad essere un esercizio accademico o una ricerca astratta, ma che porti decisamente all'actio, cioè al discernimento fattivo e al­la conversione.

È già questa una pista di ricerca per l'attualizzazione del messaggio che si sprigiona dal discorso di Stefano: non basta infatti l'avere ricevuto la legge, sia pure per mano degli angeli (v. 53); occorre osservarla. (4)

A questo punto è più che evidente il genere letterario del discorso di Stefa­no: si tratta di una diatriba serrata e costringente, nella quale Stefano impe­gna non il suo ingegno personale o la sua capacità strategica. Si tratta di una requisitoria puntuale e motivata, nella quale Stefano esprime non un parere personale o una motivazione razionale, ma l'insegnamento costante e pe­rennemente valido della parola profetica. Si tratta, a ben considerare, di una lunga e amara lamentazione, nella quale Stefano dà sfogo non ad una sua valutazione, ma all'amarezza di Dio. Si tratta dunque di un caloroso e vi­goroso appello - anche se realisticamente non si può pensare che Stefano avrebbe potuto sfuggire al loro proposito omicida -, nel quale Stefano non esprime una sua previsione sullo sviluppo della vicenda, ma l'invito di Dio stesso.

Una morte pasquale

Nella morte di una persona si manifesta sempre la sua verità, come spesso l'esistenza terrena ne cela il valore profondo. Se questo è vero di noi, lo è an­che - e a maggiore ragione - di Stefano. Non solo la morte di lui, come di ogni martire, è il suo vero dies natalis, ma sulla scia di Gesù - che per Luca è il martire per eccellenza (cf Lc 22,39-46) - è anche il suo dies paschalis. Ecco gli elementi che caratterizzano la morte di Stefano:

- «Fissando gli occhi al cielo, vide la gloria di Dio e Gesù alla sua destra» (v. 55s): vedere la gloria non è altro che entrare in comunione definitiva con Dio. Ciò significa che il morire per Stefano coincide con il suo entrare nella vita che non ha termine. Il martire raggiunge la meta tanto desiderata. Vedere Gesù, il Figlio dell'uomo, che sta alla destra di Dio non è solo una professione di fede nella divinità di Gesù di Nazaret, ma è anche espressione di speranza che già si realizza nell'incontro con il Salvatore. Il martirio acco­muna i due - Gesù e Stefano - nella condivisione della gloria di Dio. Il Padre.

- «Signore Gesù, accogli il mio spirito» (v. 59): come Gesù morì in un gesto di totale abbandono al Padre (cf Lc 23,46), così Stefano muore affidandosi to­talmente a Gesù il Signore. In questa descrizione lucana della morte di Stefa­no possiamo rilevare non solo una chiara volontà di presentare il primo mar­tirio come imitazione della morte di Gesù, ma anche quella di caratterizzare il martirio come il momento dell'incontro definitivo tra il discepolo e il Mae­stro, tra il servo e il Signore, tra il salvato e il Salvatore. Qui fa capolino la di­mensione mistica del martirio.

- «Signore, non imputare loro questo peccato» (v. 60): come Gesù morendo ha invocato perdono dal Padre per i suoi persecutori (cf Lc 23,34), così Stefano muore chiedendo a Gesù, il Signore, di non considerare il peccato che i suoi avversari stanno per commettere. Ancora una volta, Luca non intende solo ribadire il fatto che la morte di Stefano si realizza sul modello della mor­te di Gesù, ma vuole esprimere anche il fatto della partecipazione del primo martire all'opera redentrice del Salvatore. Il perdono è la via ordinaria per es­sere riammessi alla condivisione del dono che è la salvezza: chi muore per­donando dimostra di essere martire in pienezza e con questa preghiera mani­festa di essere in piena sintonia - sarebbe meglio dire sim-patia - con il suo Signore.

Una morte come quella che abbiamo or ora considerato costituisce, forse, il miglior commento al discorso di Stefano che abbiamo precedentemente ana­lizzato.

Alcuni rilievi conclusivi

Ci sono alcune perle, in questo discorso lungo e apparentemente anodino, che vorrei cogliere e proporre alla comune attenzione: serviranno ad apprezzare l'arte - ad un tempo narrativa e discorsiva - di Luca e quindi a valorizzare l'opera.

a) Anzitutto il chiaro nesso tra diaconia e martyria, tra servizio e martirio: non c'è dubbio che Luca ha valuto affidare alla comunità cristiana primitiva un chiaro messaggio e lo ha fatto presentando Stefano come il modello di questa armoniosa sintesi. Chi si mette alla scuola del Vangelo e vuole perse­verare in essa, sa che non è possibile separare martirio e servizio: ogni mini­stero, se è concepito nel suo profondo dinamismo pasquale come espressione del sacrificio gradito a Dio, è, a suo modo, martirio quotidiano, trasmette una testimonianza forte ed efficace. Chi è fedele a questa spiritualità diaconale viene sempre più assimilato a Cristo Gesù, il servo per eccellenza (cf Lc 22,27) e il martire per antonomasia (cf Ap 1,5) e comprende di essere chia­mato non ad essere servito, ma a servire (cf Mt 20,28), non a sistemarsi nella Chiesa, ma ad essere inviato.

b) In secondo luogo il rapporto tra istituzione ed avvenimento, un rapporto che illumina anche la nostra storia. È ricorrente infatti la tentazione di fissare in un certo tempo e in un certo luogo un messaggio di liberazione che di sua natura supera ogni epoca ed ogni territorio. È assai diffuso il pericolo di vo­ler privatizzare un dono che di sua natura è di destinazione universale. Stefa­no si sente investito di questo compito: dilatare gli spazi della carità rompen­do i vincoli del particolarismo; agire gli orizzonti della vera fede superando le chiusure di una mentalità nazionalistica; rilanciare i tempi di Dio facendo esplodere quelli degli uomini. Ogni volta che fissiamo una istituzione sia pure religiosa, sottraendola al di­namismo della storia della salvezza e piegando la alle nostre miopie persona­li - Dio non voglia alle nostre logiche di occupazione e di estromissione - noi ci opponiamo al metodo pedagogico divino, noi mortifichiamo l'avvenimen­to e lo condizioniamo alle nostre strategie umane, noi pretendiamo di ferma­re la storia e finiamo col resistere allo Spirito di Dio, che è sorgente e dono di libertà, pagata a prezzo di sangue.

c) Viene poi la relazione tra evangelizzazione e polemica: il discorso di Ste­fano sta a dimostrare che c'è modo e modo di fare polemica, di entrare in po­lemica con qualcuno. C'è infatti una polemica - non solo verbale - che tende all'autodifesa e questa, ancorché legittima, non ha alcuna funzione sociale, non serve alla crescita della comunità. C'è anche una polemica - non solo in­dividuale - che tende all'affermazione di un principio o al recupero dell'ono­re e questa, pur essa legittima e doverosa, non sempre ha una ricaduta eccle­siale. Ma c'è anche una polemica che tende alla difesa della verità e come ta­le supera ogni orizzonte egoistico, e si pone - costi quello che costi - a servi­zio, degli altri, perché a tutti sia possibile vedere e giudicare, fino a discerne­re il vero dal falso, il bene dal male. Se è necessario - cioè se, come nel ca­so di Stefano, le circostanze lo impongono - la polemica si rivolge diretta­mente agli interlocutori allo scopo non di umiliare o di separare, ma solo per risvegliare la coscienza di fronte alla novità di Cristo e quindi per sollecitare alla conversione. Allora la polemica si trasforma in testimonianza la quale sulla scia di Cristo, il testimone fedele (Ap 1,5), può implicare un vero e proprio martirio, fino al­la effusione del sangue. (5)

d) Infine torna conto riflettere sul rapporto tra Stefano e Saulo (cf At 8,1-4; 22,4; 26,9-11): non c'è alcun dubbio che la conversione di Saulo (At 9,lss) sta in relazione con il martirio di Stefano, dato che egli stesso - quando sta per difendersi di fronte ai tribunali pagani - fa esplicito riferimento alla furia con la quale egli perseguitava la Chiesa e suoi rappresentanti. Si inaugura così una catena di testimoni di Cristo, nella luce della Pasqua e della pentecoste: veramente il sangue dei martiri diventa seme di cristiani. La Chiesa nasce an­che in grazia del sangue dei testimoni di Cristo: il sangue di Stefano, insieme a quello di Cristo (cf Lc 22,44), provoca la conversione di Saulo che si perfe­zionerà essa pure con la grazia del martirio (cf At 20,22): «Alzati e mettiti in piedi - gli disse il Signore nel momento della sua conversione -; io ti sono apparso per costituirti ministro e testimone (martyr) di quelle cose che hai vi­sto di me e di quelle per cui ti apparirò» (At 26,15).

Note

1) Stefano la qualificherà come «parole di vita» al v. 38.
2) «Secondo Luca - si legge nel commento della TOB -, a differenza di At 11,12, Giovanni il Battista appartiene ancora all'AT. È un tempo ormai finito».

3) Ricordiamo, en passant, che anche Gesù aveva rivolto ai suoi avversari l'accusa della scle­rocardia e ai suoi discepoli quella della cardioporosi (cf Mt 19,8 e Mc 6,52; 8,17).

4) Proprio come - secondo l'insistenza tipicamente lucana - aveva affermato Gesù: «II seme caduto sulla terra buona sono coloro che, dopo aver ascoltato la parola con cuore buono e perfet­to, lo custodiscono e producono frutto con la loro perseveranza» (Lc 8,15). E subito dopo, di rincalzo: «Mia madre e i miei fratelli sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica» (Lc 8,21; cf anche 11,28).
5) In questa luce, At 20,28 può essere tradotto così: «Lo Spirito Santo vi ha costituito come ve­scovi per essere pastori della Chiesa di Dio, che egli si è acquistato con il sangue del suo fi­glio».

(da Parole di vita, 2, 1998)



Spiritualità ecumenica

Dimensione permanente per i discepoli di Gesù

di Mario Polastro




Il testo fondamentale che motiva l’attività ecumenica è la preghiera d’addio di Gesù quando, alla vigilia della sua passione, chiede al Padre che i suoi discepoli siano una cosa sola. La ”spiritualità ecumenica” non consiste nel nostro darci da fare o nell’aggiungere “‘azioni spirituali” ad altre di diversa natura, ma nel rispondere al comando del Cristo.

“Una spiritualità cristiana biblica è essenzialmente una comunione di vita con Gesù Cristo crocifisso, risorto e presente con il suo Spirito nelle Chiese e nelle comunità ecclesiali. Egli vuole che noi facciamo tutto il possibile per superare le divisioni tra i cristiani e ritrovare l’unità visibile nella fede, nei sacramenti e nei ministeri ecclesiali. La principale motivazione per l’attività ecumenica non risiede nel nostro discernimento umano, per quanto rilevante, ma unicamente nella volontà di Gesù Cristo il quale, alla vigilia della sua passione ha pregato per i suoi discepoli, affichè essi fossero una cosa sola. La motivazione di una spiritualità ecumenica deve dunque essere “cristologica” e non soltanto “filantropica”. Il testo fondamentale. di una spiritualità ecumenica deve essere la preghiera d’addio di. Gesù, [...] l’inesauribile testo di Giovanni 17» (Il regno-documenti, 21(2003), p. 661).

Mi scuso per la lunghezza della citazione, ma è fondamentale per impostare in modo corretto il discorso sulla “spiritualità ecumenica”.

Antidoto all’attivismo

Perché “spiritualità ecumenica” e non “ecumenismo spirituale’”? Unitatis redintegratio 8 parla di «ecumenismo spirituale» nel contesto del capitolo Il, “Esercizio dell’ecumenismo”. Stando alle affermazioni così come suonano, sembra quasi che si tratti di “azioni spirituali” le quali si aggiungono ad altre di diversa natura (ecumenismo teologico, ecumenismo della carità, ecumenismo del dialogo, ecc.).

In realtà sono tutti d’accordo, a partire da Paul Couturier, dal concilio Vaticano Il e oltre, che la “spiritualità ecumenica” non consiste nell’aggiungere qualcosa a ciò che si fa già, ma nel dare a “quello che siamo e che facciamo” la dimensione dell’anelito all’unità, in risposta alla preghiera e al comando di Gesù. Ecco allora l’importanza della citazione iniziale; è del vescovo di Basilea (Svizzera) Kurt Koch, il quale ha tenuto un’importante relazione sulla “Spiritualità ecumenica” nell’assemblea plenaria del Pontificio consiglio per l’unità dei cristiani, presieduto dal cardinale Walter Kasper (2003). Lo stesso Kasper, parlando dell’”Ecumenismo in un prossimo futuro”, indica tre compiti fondamentali:

• approfondire il tema del battesimo e della fede battesimale;

• far crescere l’ecumenismo con documenti e azioni, ma anche e soprattutto attraverso una “rete ecumenica” di amicizie;

• coltivare la “spiritualità ecumenica” come antidoto al solo “attivismo”... . nella consapevolezza che l’unità è dono dello Spirito, che può solo essere invocato nella preghiera; la conversione personale; la lettura e la meditazione comune delle Scritture, la rete di comunità oranti sparse nel mondo... sono semi da gettare nel solco fumante della storia.

C’è un aspetto della “spiritualità ecumenica” al quale si bada troppo poco: nell’avvicinamento, nell’incontro e nel confronto con “l’altro”, la diversità può diventare “ricchezza”, ma qualche volta può anche diventare “sofferenza”, in quanto sono chiamato a cambiare, a purificarmi, a compiere quella continua “trasformazione di me”, che richiede sacrificio, ma che comporta anche tanta gioia. E’ quella che viene detta «ermeneutica dell’apprendimento e della sofferenza» (Kurt Koch).

Certo, l’ecumenismo nella Chiesa cattolica romana (come d’altronde nelle altre Chiese) ha ormai una lunga storia... di esperienze, di riflessione, di dialogo. E questo vale anche e soprattutto per la “spiritualità ecumenica”, che si presenta come frutto maturo proveniente dai tempi di padre Paul Couturier (morto nel marzo 1953). Il dibattito conciliare ha fatto la sua parte, ma soprattutto “il vissuto ecumenico” ha aperto le vele al vento dello Spirito.

Verso la comunione piena

Sono parroco da molti anni, e per la mia comunità parrocchiale l’ecumenismo non è un’appendice dell’attività pastorale, ma è una dimensione permanente del nostro essere “discepoli di Gesù”. Per cui il pastore valdese, che viene a predicare la liturgia penitenziale e che chiede con grande fede di poter ricevere la comunione eucaristica, non stupisce ma edifica, non ingenera confusione ma ci aiuta a pregustare la gioia della “comunione piena”, che sta al centro... o al vertice della “spiritualità ecumenica”. Anche le coppie interconfessionali, con cui lavoro da 40 anni circa, sono una fucina di” spiritualità ecumenica”. Sempre più hanno preso coscienza del loro essere “chiesa domestica”, “unite nel battesimo e nel matrimonio”, “nutrite quotidianamente dalla preghiera e dall’amore sponsale”: ma, ahimé, divise (secondo la Chiesa) alla mensa del Signore.

Alcune coppie non possono più attendere e, spinte dalla “grave necessità spirituale”, fanno la comunione insieme senza peraltro staccarsi dalle rispettive Chiese, ma andando “oltre” le discipline ecclesiastiche. E lo Spirito attraverso i piccoli incoraggia a proseguire il cammino. E’ festa. Chiara fa la prima comunione. Papà è cattolico, mamma è protestante. Tutti si avviano alla mensa e la mamma rimane nei banchi. Chiara va, prende il pane di Gesù, che è il suo corpo e il suo sangue, lo rompe... metà lo prende lei e metà lo dà alla mamma. Stupore e commozione. Se non è spiritualità ecumenica questa, cos’altro possiamo invocare dal Signore?!

Ti rendo grazie, o Padre, perché tu riveli le cose grandi ai piccoli (cf Mt 11,25) come Chiara.


* Presbitero di Pinerolo (To)


(da Vita Pastorale, dicembre 2005)


BIBLIOGRAFIA

Couturier P., Ecumenismo spirituale (a cura di M. Villain), Ed. Paoline 1965, pp. 370; Pattaro G., Corso di teologia dell’ecumenismo, Queriniana 1985, Brescia, pp. 436; Cullman O., L’unità attraverso la diversità, Queriniana 1987, Brescia, pp. 138; Sartori L., L’unità delta Chiesa. Un dibattito e un progetto, Queriniana 1989, Brescia, pp. 230; Pontificio consiglio per l’unità dei cristiani, La spiritualità ecumenica. Contributi di W. Kasper e di K. Koch: Il regno-documenti, 21(2003), pp. 653-664.

Mercoledì, 26 Marzo 2008 23:46

Il sacramento della riconciliazione

Per intendere rettamente questo sacramento, detto anche sacramento della penitenza, occorre una valutazione secondo la fede di ciò che chiamiamo peccato. Esso è l’evadere consapevolmente e liberamente la vincolante volontà di Dio, è il no superbo ed egocentrico al Creatore e ai suoi ordini. Esso significa aprire una separazione tra il Creatore e la creatura.

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