Atti 10-11: l'apertura di Pietro ai pagani
di Don Filippo Morlacchi
La questione di Cornelio
In questa sezione, con il viaggio di Pietro in Giudea e a Cesarea, Luca svolta pagina: i pagani non solo vengono tollerati (come l’eunuco etiope battezzato da Filippo), ma entrano a pieno titolo nella Chiesa. È un episodi fra i più lunghi ed importanti di tutto il libro. Si apre con la presentazione dell’attività taumaturgica di Pietro (due miracoli stile "fioretti"), due episodi che presentano in filigrana l’immagine delle guarigioni operate da Gesù e la sua potenza all’opera i Pietro. Seguono narrazioni ripetute (espediente letterario per sottolineare l’importanza di ciò che viene descritto) delle visioni di Cornelio e di Pietro, la discesa dello Spirito sui pagani e la conclusione a Gerusalemme, in cui Pietro spiega come e perché Dio ha voluto aprire la via della salvezza anche ai pagani.
Nel racconto di At 10,1 – 11,18 si nota una tensione tra due problemi connessi, ma distinti: (1) la commensalità con i pagani (è lecito infrangere i tabù alimentari di purità?); (2) l’ingresso dei pagani nella comunità cristiana (è legittimo annunciare Gesù, il "Messia" a coloro che non aspettano nessun messia e non credono in Jhwh, unico vero Dio?). "Luca risolve questi due problemi sul piano teologico raccontando l’episodio di Cornelio [che] ha dato l’avvio ufficiale o il benestare per la missione al mondo dei pagani" (R. Fabris, Atti, 329s).
Atti 10-11: l'apertura di Pietro ai pagani
di Don Filippo Morlacchi
La figura di Pietro
La Scuola di Tubinga ha voluto leggere Atti come il tentativo di armonizzare le due anime del cristianesimo primitivo, e cioè l’universalismo di Paolo e la fedeltà rigorosa alla Legge mosaica di Pietro. In realtà Pietro risulta una figura molto più moderata e "liberale" di come venga normalmente dipinta.
Atti 6-9: il problema degli Ellenisti
di Don Filippo Morlacchi
La conversione di Saulo
Si può presupporla intorno al 33/34 d.C. La sua conversione portò all’"assenso incondizionato alla missione tra i pagani" (Hengel, op. cit., p.114s). Ma non si deve ritenere che la sua conversione sia stata un tradimento della sua fedeltà ebraica. Fu accolto e introdotto alla fede dalla comunità di Damasco. Fu costretto a fuggirne perché si attirò le antipatie dello sceicco nabateo, forse anche a causa dei giudei del luogo, delusi dalla sua trasformazione da fariseo in credente in Gesù. Su lui torneremo tra due incontri.
Atti 6-9: il problema degli Ellenisti
di Don Filippo Morlacchi
L’attività di Filippo, esempio di missione ellenista
Filippo va dai Samaritani (8,5) e poi verso la città pagana di Gaza (8,26). Va contro il detto di Gesù: "questi dodici Gesù li inviò dopo averli così istruiti: "Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani" (Mt 10,5). Il ministro etiope era invece probabilmente un timorato di Dio (eunuco = non poteva diventare proselito in senso pieno: Dt 23,2); ma forse era ebreo, perché leggeva Isaia? È l’inizio della missione ai pagani. Si tratta di un racconto parallelo (contrapposto?) a quello della conversione di Cornelio (cap. 10), solo che qui l’autore dell’apertura ai pagani è l’ellenista Filippo, lì il gerosolimitano Pietro.
Atti 6-9: il problema degli Ellenisti
di Don Filippo Morlacchi
La persecuzione degli ellenisti (At 8,1)
Si sviluppò una persecuzione nei confronti dei cristiani (non è necessario dire giudeo-cristiani, perché ancora non esistevano cristiani che non fossero anche giudei) ellenisti da parte dei giudei grecofoni (At 6,9).
Atti 6-9: il problema degli Ellenisti
di Don Filippo Morlacchi
Perché il Vangelo ha presa tra i giudeo-cristiani di cultura greca?
Finora abbiamo parlato di "giudeo-cristianesimo" in generale; ma occorre distinguere due gruppi di fondo all’interno dei giudei che hanno creduto a Gesù: quelli palestinesi (di cultura giudaica) e quelli "ellenizzati" (di cultura piuttosto greca, ma sempre giudei).
Atti 2-4: la prima predicazione di Pietro
di Don Filippo Morlacchi
I grandi discorsi di Pietro
Leggendo i discorsi di Pietro in At si può risalire alla formula "originaria" del kèrygma. Altre formule antichissime sono quelle lettere paoline (ad es. 1Cor 15,1-5) che sono sicuramente precedenti a Paolo. Luca mette sulla bocca di Pietro delle parole volutamente arcaicizzanti, con abbondanti e voluti semitismi per cercare di rendere anche letterariamente il tenore dei discorsi petrini. Si tratta di discorsi composti da Luca in conformità ai modelli di predicazione della fine del I secolo in ambiente ellenistico; ma non mancano alcuni elementi precedenti, alcune formule molto antiche: At 2,22-24; 32-33.36; 3,13-15; 4,10-12; 5,30-32.
Si trovano infatti idee non comuni al resto della teologia di Luca: ad es. il concetto che Cristo divenne Salvatore con la sua Risurrezione ed esaltazione alla destra del Padre (non lo fu dal concepimento/nascita, come si direbbe da Lc 1-2): vedi At 2,36. È un’idea teologicamente antiquata quando Luca scrive, ma riporta questo pensiero.
Elementi base del kèrygma primitivo sono:
I testimoni sono coloro che non tanto testimoniano la risurrezione (sembra quasi un fatto sperimentabile), quanto piuttosto sono garanti del fatto che il Kyrios risorto è proprio quel Gesù che avevano conosciuto prima della pasqua.
I tre discorsi di Pietro sono:
Ili discorso di pentecoste è tripartito.
Si rimarca pesantemente la colpevolezza degli ebrei (v. 23); ma non per accusarli, bensì per invitarli al pentimento e al riconoscimento di Gesù come Messia e Signore. L’essenziale è che tutto ciò che è avvenuto, è stato guidato dalla mano di Dio, e anche la morte di Gesù inserita nel piano della prescienza provvidente di Dio (cfr la storia di Giuseppe in Egitto: Gen 45,7-8).
Il discorso al tempio è parallelo al primo:
Atti 2-4: la prima predicazione di Pietro
di Don Filippo Morlacchi
Come leggere la storia degli Atti
Secondo C.M. Martini, la storiografia degli Atti non procede secondo un modello "lineare" (un processo graduale e quasi inarrestabile, quasi un "crescendo" continuo, un progresso senza soluzione di continuità), ma secondo un modello "critico" (da krìsis, giudizio). "Si tratta delle difficoltà, sofferenze, tentazioni che perennemente la Chiesa deve affrontare. Questo modello, che chiamiamo critico, non si evolve attraverso premesse e conseguenze, secondo una linea di sempre maggiore efficienza, ma si svolge attraverso il ritmo della costruzione e della dispersione, della morte e della rinascita".
Un metodo di questo genere riconosce e coordina i fatti storici secondo una linea logica non puramente orizzontalistica, ma secondo una logica che potremmo chiamare pasquale, che è poi la logica secondo cui è leggibile e accettabile la storia di Cristo e la storia della salvezza in genere (C. Ghidellli).
La prima parte presenta uno sviluppo lineare, nonostante qualche persecuzione contro gli apostoli; poi, a partire dal capitolo 6 inizia la crisi, con il martirio di Stefano. Ma da quello che potrebbe sembrare l'inizio della catastrofe emerge invece una straordinaria ripresa della vitalità della Chiesa. Proprio in questo momento Filippo riprende la predicazione del Vangelo (cap. 8). Altri in Antiochia evangelizzano e fondano una comunità (cap. 11). Intanto, per opera di Pietro, Cornelio e la sua famiglia si convertono: lo Spirito del Signore risorto è vivo ed operante più che mai (capp. 9-10).
Ma ecco di nuovo una crisi, la quale sfocia nella celebrazione del primo concilio, quello di Gerusalemme. Ci sono sì delle conversioni, ma a quali condizioni è possibile ammettere i pagani nella comunità nascente? Non è forse necessario che assumano in pieno la fede mosaica con tutte le sue prescrizioni? Questa problematica, che a noi potrebbe sembrare oziosa, ha portato la Chiesa primitiva sull'orlo della divisione interna. Paolo aveva ravvisato la soluzione: Cristo ci ha liberato, non c'è circoncisione che tenga. È quanto ha capito anche attraverso l'esperienza accumulata durante il suo primo viaggio missionario (capp. 13-14), ma era difficile, per non dire impossibile, farlo comprendere ai cristiani venuti dal giudaismo. Per questo Paolo e Barnaba devono salire a Gerusalemme per un confronto aperto con i fratelli nella fede (Atti 15,1ss), in particolare con Giacomo, rappresentante dei giudeo-cristiani (15,13-22) e per ascoltare la lettura del decreto finale (15,23-29).
Per fortuna, o meglio per intervento dello Spirito Santo (Atti 15,28), la questione viene risolta con buona pace di tutti. Non ci sono vinti o vincitori, ma la verità del Vangelo viene nettamente affermata, la libertà con cui Cristo ci ha liberato viene difesa in modo altrettanto netto, e la carità viene raccomandata a tutti al di sopra di tutto. Ricuperata l'unità essenziale, con l'affermazione di ciò che nella Chiesa è fondamentale e non può essere assolutamente sottoposto alle bizze personali, Paolo, con alcuni compagni di lavoro apostolico, può ripartire per i suoi viaggi missionari (capp. 15-28), che contribuiscono in modo decisivo alla diffusione della Parola di Dio e alla dilatazione della Chiesa.
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Ecclesiologia degli Atti e giudeo-cristianesimo
di Don Filippo Morlacchi
Rilettura giudeo-cristiana del NT
I giudeocristiani, ossia i giudei credenti anche in Gesù messia, erano il nocciolo duro di tutta la Chiesa, e solo dopo furono sopraffatti dai gentilo-cristiani. Al tempo della scrittura di At forse già stavano diventando "minoranza" ("the mighty minority": J. Jervell 1980). Tutto il NT è prodotto non di chiese dei Gentili, sganciate ormai dalla matrice giudaica, ma di Chiese "della Circoncisione" composte di giudeocristiani, o – almeno – di chiese "miste" nelle quali la "potente minoranza" giudeocristiana ha dato l’impronta fondamentale. Difficile dire come e quando questa potente minoranza si stata eliminata o si sia eclissata; certamente era però il gruppo più importante della Chiesa tra il 70 e il 135 d.C. (cioè tra la distruzione del tempio ad opera di Tito e la definitiva sconfitta della guerra giudaica con la riduzione di Gerusalemme alla colonia di Aelia Capitolina), e questi sono gli anni in cui sono stati redatti gli scritti del NT.
Se fino alla metà del secolo lo studio comparativo del Cristianesimo si faceva a partire dalle religioni pagane e dall’ellenismo, con L. Goppelt nel 1954 si iniziò a vedere il giudeocristianesimo non come una dottrina eretica e marginale del cristianesimo, ma come la sua matrice originaria. Dopo di lui J. Daniélou ha studiato a fondo il fenomeno, e gli archeologi francescani della Custodi di Terra Santa (B. Bagatti, V. Corbo, E. Testa) hanno fornito le prove di queste ipotesi, risalendo alla stato pre-costantiniano dell’architettura (ossia prima del Cristianesimo come religione ufficiale dell’impero [Editto di Costantino, 313 d.C.] e dell’uso massiccio di categorie filosofiche mutuale dalla filosofia greca per esprimere i dogmi di fede [Concilio di Nicea, 325 d.C.]). È la c.d. Ipotesi giudeo-cristiana: le comunità giudeo-crisitiane non furono piccole sette devianti, ma la matrice della Chiesa che ha redatto l’intero NT. Se questo è vero, un ebreo non si "converte" ad un’altra religione quando diventa cristiano, ma si "con-verte", si ri-volge al suo Signore, riconosciuto come proprio Messia, Gesù. Il Cristianesimo, rispetto al giudaismo, non è un’altra religione, ma – in una continuità trasfigurata – la pienezza compita del Giudaismo nella persona di Gesù, Figlio di Davide e Figlio di Dio.
Ecclesiologia degli Atti e giudeo-cristianesimo
di Don Filippo Morlacchi
Ecclesiologia di Atti (cfr F. Rossi de Gasperis, Cominciando da Gerusalemme)
Per comprendere At bisogna partire dal fatto che ne è protagonista non una "chiesa" generica, ma la Chiesa di Gerusalemme, madre di tutte le chiese. È la Chiesa dei "santi" (Atti 9,13.41; 20,32; 26,10.18: la traduzione spesso non è fedele); dei "fratelli" (ad es. 1,15-16), dei "discepoli" (ad es. At 9,1.10), dei "credenti" (ad es. At 2,44), dei cosiddetti "natzorei" (At 24,5), del gruppo che si definiva "la via" (Atti 9,2; 19,9.23; 22,4; 24,14.22: spesso è tradotto con "la dottrina"). I "santi" sono consapevoli di essere proprio quell’Israele a cui Jhwh ha fatto le sue promesse, non "un altro"" o "un nuovo" Israele, ma lo stesso, l’unico che essi conoscono. L’evento di Gesù segnava per loro l’ultimo e totalmente compiuto rinnovamento dell’alleanza, il culmine di quell’"alleanza nuova" e di quei giorni che erano stati annunziati dai profeti.
La Chiesa non è un "nuovo" Israele (cfr la "teologia della sostituzione" e la teologia di Matteo secondo W. Trilling, Das wahre Israel): esiste un unico Israele "spaccato in due" da quella spada che è Gesù (la spada che trapassa l’anima di Maria, madre della Chiesa, "Figlia di Sion" simbolo di Israele: Lc 2,25-38). Tale frattura è dovuta al carattere inaspettato del messianismo di Gesù, tanto che i vecchi capi (= il sinedrio) non lo hanno capito né accolto. I Dodici non sono l’inizio di un nuovo popolo, ma sono giudei che diventano capi di Israele, mentre i vecchi capi che hanno rifiutato Gesù (solo loro, non tutto Israele!) vengono ripudiati: la spaccatura avviene all’interno di Israele. L’evangelo di Gesù Messia, per At, è la buona notizia della salvezza destinata, in primissimo luogo, alla casa d’Israele. Tanto che agli occhi dei pagani la questione della controversia tra giudei e giudeocristiani appare una faccenda interna alla religione dei giudei (vedi At 25,18-20). La novità consiste nel fatto che questa salvezza si estende oltre i confini del popolo eletto, come era stato profetizzato.
La Visita di Dio: Lc dà un valore teologico al verbo "visitare" (episkèptomai) e al termine "visita" (episkopè): significa che Dio viene a "visitare il suo popolo" (Lc 1,68) portandogli la salvezza. Gesù stesso è l’episkopè di Dio quando compie il suo viaggio a Gerusalemme. La colpa di Gerusalemme è che "non ha riconosciuto il tempo in cui è stata visitata" (cfr Lc 19,44). Se Gesù è la Visita di Dio ad Israele, la Chiesa è la Visita di Dio alle genti: cfr At 15,14, tradotto "fin da principio Dio ha voluto scegliere tra i pagani un popolo per consacrarlo al suo nome": ma letteralmente sarebbe: "Dio ha visitato le genti per prendersi un popolo per il suo nome".
La figura di Paolo: emerge da At come un perfetto israelita, fariseo zelante anche dopo la sua "conversione" (Atti 16,3: circoncisione; 18,18: nazireato; 21,17-22,5: discorso a Gerusalemme!; 22,17: preghiera al tempio; 23,1-9: davanti al sinedrio; 24,5-21: autodifesa; 25,7-12: davanti a Festo; 26,1-11.22-23.30-32: davanti ad Agrippa; 28,17-23: con i giudei di Roma). In realtà l’"apostolo delle genti" (Rm 11,13) fu, prima di tutto, l’evangelista di Israele e dei giudei della Diaspora. Paolo – come Gesù – evangelizza cominciando sempre dalla sinagoga; nessun passaggio ai pagani è per lui così definitivo da impedirgli di ricominciare, nella città seguente, dalla comunità Israelitica. Questo ritratto di Paolo non è diverso da quello che si evince dalle lettere, se si considera l’evoluzione del suo pensiero, in particolare dopo il concilio di Gerusalemme (48 d.C.): Rm 9-11 è sicuramente più equilibrato nel giudizio su Israele di 1Ts 2,14-16, o Fil 3,2-21, o Gal: si passa dall’animosità dell’apostolo contro chi ostacola il suo ministero all’ipotesi che il suo annuncio sia stato un ostacolo all’accoglienza del vangelo da parte dei suoi fratelli. Il problema pastorale si trasforma in questione teologica: l’indurimento di tutto Israele (Rm 11,26) come mistero di Dio. Dunque: nessun conflitto tra fonti di prima mano e storiografia lucana.