Rischio, trasgressione, sfida, gioco pericoloso, sembrano essere diventate le parole chiave per descrivere alcuni comportamenti degli adolescenti. L’adolescenza è un momento in cui il ragazzo desidera "rischiare". Ogni volta che si supera un’esperienza potenzialmente pericolosa, ci si sente potenti, accettati, infallibili.
Uno dei problemi emergenti che sembra caratterizzare il mondo dei giovani è quello della diffusione di comportamenti ‘pericolosi’ per se e per gli altri che fanno pensare a una vera e propria "cultura del rischio" che si manifesta nell’uso o abuso di alcool, spinelli, ecc.
Il tema è: tagliare il cordone ombelicale, acquisire quella necessaria autonomia per camminare da soli · Riguarda principalmente il rapporto tra genitori e figli, ma non solo: anche il rapporto tra coppie “mature” e coppie giovani, tre maestro e allievo e – perché no?- tra Gerarchia e “fedeli”. · Il cammino psicologico, personale e familiare, per giungere a questa consapevolezza ·Per dare libero spazio alla vocazione di ciascuno.
Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo… · Allora Maria disse:- Eccomi sono la serva del Signore. Avvenga di me quello che hai detto… (Luca, 1,26-38).
La salvezza del mondo è dipesa da uno scambio tra Dio e una giovane donna. Il brano di Luca ce ne fa sentire l’eco, sempre sconvolgente. Un dialogo in cui Dio ha preso l’iniziativa. È in suo nome che l’angelo Gabriele parla alla Vergine Maria.
L’emozione che la paternità porta con sé è sempre grande. Ma il genitore saggio comprende che non tocca a lui
tracciare la strada a colui al quale ha dato la vita, pena trovarselo nemico, malgrado tutto.
Un mio giovane collaboratore è preciso, attento, scrupoloso. È moderno, ma nello stesso tempo buon cattolico, osservante, politicamente corretto, molto innamorato della moglie. L'altra settimana è diventato padre per la prima volta. Per due giorni
non lo si è visto, ma tutti sapevamo perché. Quando è venuto in ufficio tutti gli hanno subito chiesto notizie della bambina. Ma lui voleva parlare d'altro.
"È stato bellissimo", raccontava. "Assistere al parto è stata davvero una cosa bellissima, emozionante, fantastica". I colleghi più anziani, due o tre volte padri, lo guardavano stupiti. Uno che è già più volte nonno disse: "Ai miei tempi non ci facevano assistere al parto. Aspettavamo fuori, fin quando non arrivava un'infermiera con quel bambolotto in braccio. Potevamo solo guardarlo, accarezzarlo con un dito".
Adesso assistere al parto è oggi cosa normale, magari davvero bellissima. Di sicuro rende più partecipi, fin
dall’inizio, di che cosa significa mettere al mondo un bambino: il dolore fisico, la gioia del primo vagito, la stanchezza di quel corpo di donna che ha ancora una volta donato amore, ma in modo diverso. A un
essere nuovo, che d'ora in poi...
Ecco, "d'ora in poi" è il primo pensiero che viene in mente dopo l'ubriacatura di gioia, dopo l'emozione, dopo l'attimo di
orgoglio (sono padre). D'ora in poi tutto, ma proprio tutto, sarà diverso. Che tu lo voglia, o non lo voglia, illudendo te stesso. Che tu lo sappia o che non te ne renda conto, nel tuo egoismo natura e di uomo giovane, al quale fino a ieri nessuno poteva imporre qualcosa non essendo in grado di chiedere niente, esattamente come quel grumo di carne rosea. Che tu ci pensi o no, sarà probabilmente quel grumo di carne rosea che un giorno ti chiuderà gli occhi, dopo che a lui (e ai
suoi fratelli, se gliene darai) tu avrai dedicato la tua vita.
Tante cose la banalità del vivere fa dire e scrivere, nella società della fitness, sui neopapà. Siccome la legge consente oggi anche ai padri assenze dal lavoro per la cura dei neonati, siccome l'eguaglianza dei sessi ha reso normali per entrambi operazioni un tempo riservate alle sole donne (preparare e reggere il biberon durante la poppata, cambiare i
pannolini, lavare quel corpicino, tenerlo in braccio quando piange la notte), i giornali specializzati si diffondono in consigli, come se non bastassero pediatri e mamme, e suocere, e zie e amici che ci sono già
passati.
In realtà niente è più facile che imparare rapidamente e praticare con sufficiente abilità quegli incarichi di genitore. Un po' più difficile è accettare altrettanto rapidamente che la propria vita è cambiata, si è capovolta, le antiche abitudini sono sconvolte. Se prima si andava a ballare ogni sabato sera, adesso non si può più; per questo inverno lasciamo gli sci in cantina; non si va al mare a luglio, fa troppo caldo; le Maldive possono aspettare; e fumare in casa, stop; e la tv all'improvviso ci si accorge che fa troppo rumore; e in macchina la prudenza non è mai troppa; forse bisognerà cambiarla, non è comoda, dove mettere il passeggino?
Ma la cosa più difficile sarà entrare in sintonia con quel bambino, e questo vuol dire capirlo fin da quando, a sei mesi, le smorfie indecifrabili del suo viso si rivelano sorrisi, riesce a star seduto nel lettino, e poi un giorno ti tende le braccia e ti dice in quel modo che ti riconosce, sei suo padre, ha fiducia in te come ne ha nella mamma. Solo a quel punto cominci a pensare a lui come a una persona altra, non un tuo clone.
In quel romanzo che è forse il più bello di tutto il Novecento, I Buddenbrook, Thomas Mann (che lo scrisse a vent'anni, e per quanto abbia scritto poi, non ha mai più raggiunto quell'altezza vertiginosa) descrive in una scena il rapporto nuovo che si instaura poco per volta, ma insidiosamente, fra un padre - il senatore Thomas Buddenbrook - e il suo bambino ormai cresciuto, il quale rivela man mano doti e tendenze naturali della madre e ben poco, o nulla, del padre. "In cuor suo Thomas Buddenbrook non era contento del carattere e delle tendenze del piccolo Johann. Egli aveva sposato Gerda Arnoldsen, a dispetto dei filistei che scuotevano il capo e si scandalizzavano di tutto, perché si sentiva abbastanza forte e libero da poter manifestare un gusto più fine del comune senza far danno alla sua rispettabilità borghese. Ma il figlio, l'erede tanto a lungo invocato, che pure portava nel fisico tante caratteristiche della famiglia paterna, doveva proprio appartenere completamente alla madre? (...) Finora, la musica di Gerda (...) aveva costituito per Thomas un fascino di più da aggiungere alla sua personalità singolare; ma ora, vedendo che la passione per la musica, a lui incomprensibile, s'impadroniva già, così presto e così profondamente, anche di suo figlio, cominciò a considerarla come una forza ostile che s'ergeva tra lui e il ragazzo, di cui sperava di fare un vero Buddenbrook, un uomo forte e pratico, con un gagliardo istinto di potere e di conquista. E nello stato contabile in cui si trovava gli parve che quella forza ostile minacciasse di far di lui un estraneo alla propria casa". Ecco, il pericolo che i neopapà non vedono, nella gioia della nuova vita che stringono fra le braccia, ma di cui bisogna caritatevolmente avvertirli: il pericolo di trasferire sé stessi e i propri sogni nei figli, di volerli come loro, di tracciargli la strada che dovranno percorrere. È così che tante volte i figli diventano nemici dei padri, senza che lo vogliano, né gli uni né gli altri.
Beppe Del Colle
Da "Famiglia Oggi" 3/2003
LA CRESCITA PERSONALE A RAGGIERA
Il dilagante individualismo, che
caratterizza la nostra società, è una minaccia per una sana vita
familiare, che sfocia nel disgregarsi della coppia, nella rinuncia a
procreare, nel rifiuto della convivenza; insomma, una progettualità di
coppia ridotta al minimo. L’individualismo è anche narcisismo, la
dedizione al culto di sé, specialmente nei trentenni e quarantenni.
Queste persone, quando decidono di mettere al mondo un figlio, lo
vedono come il rispecchiarsi del proprio io, e quindi perfetto o quasi.
I figli sono quindi concepiti come oggetto proprio, fino al caso in cui
diventano oggetto di ricatto nei confronti del coniuge: anche i figli
di conseguenza, diventano individualisti e affetti da protagonismo.
ANDARE OLTRE LA CASISTICA
Cosa s’intende in realtà per
individualismo? Nella definizione del dizionario Zingarelli è descritto
come "dottrina che riconosce all’individualità un valore autonomo
irriducibile all’ordine naturale, politico e morale di cui fa parte;
tendenza a considerare prevalenti diritti, i fini, le iniziative e le
azioni dell’individuo su quelli collettivi e dello stato; egoismo,
eccessiva o esclusiva considerazione di Sé". L’individualismo non è
solo un atteggiamento negativo, ma è l’elemento portante della visione
del mondo, dei rapporti sociali che è costitutiva della modernità e
dell’idea di liberismo.
Quest’accostamento fra individualismo e liberalismo
implica competitività, concorrenza, aggressività e conflittualità ma
anche conoscenza del limite e delle regole del gioco.
L’individualismo è accompagnato anche
dall’affermazione di sé: è negativo quando è simbolo di una personalità
basata sulle apparenze, portando al fallimento dell’individuo, ma nel
caso in cui l’autoaffermazione è una crescita personale a raggiera e su
più piani, con una reale autonomia, che non è isolamento ma capacità di
vivere, progettare e operare insieme agli altri, l’individualismo è
senz’altro positivo.
TRE DIMENSIONI DETERMINANTI
Tutto ruota intorno al proprio io e
alla propria individualità, ma, paradossalmente, la piena realizzazione
di sé c’è solo quando ci si rapporta con gli altri. Sul piano
dell’autorealizzazione la famiglia, quindi, ha un ruolo fondamentale
perché è il luogo in cui la fiducia nell’altro raggiunge il massimo
livello; la famiglia contribuisce in maniera decisiva a mostrare le
nostre potenzialità lungo tre dimensioni:
La famiglia moderna si deve basare sulle
responsabilità individuali dei componenti, su scelte che non derivino
da conformismo sociale né da convenienze economiche ma dall’intento di
dare piena espressione al patrimonio di umanità che è nell’individuo.
Gregorio Piaia,
ordinario di storia della filosofia, univ. di Padova
Riduzione e adattamento a cura di Simona Internullo
(parte 4/4)
E torno ad aprire gli occhi su questi nostri giorni turbolenti, ricchi, come mai nel passato, di logica e di nature passionali. Penso ai trenta anni che servirono a preparare la grande Rivoluzione e ai duemila anni che sono seguiti, durante i quali non si è saputo trovare il momento per dire basta ai compromessi. Adesso, in coda al corteo dei tre Crocefissi, vedo un quarto patibolo: è l'albero dal quale ha penzolato il corpo di Giuda, l'uomo che ha macchiato la storia con il più orrendo dei crimini, colui che per vergogna ha rifiutato i doni più grandi che potevano essere fatti all'uomo, la vita e il perdono, ma che con il suo sacrificio e il suo pentimento, sincero e senza sconti, ha fatto germogliare su quel legno intriso di disonore dei fiori viola come il colore della passione.
Come non pensare al patibolo dal quale l'uomo onnipotente di oggi non sa liberarsi? Il tanto decantato progresso lo ha inchiodato alla logica dei consumi, dei profitti ad ogni costo, del calcolo che deve precedere ogni gesto, compresi quelli di buona volontà.
È l'accidia - questo peccato che nella nostra immaginazione di giovani scolari del catechismo non trovava mai una collocazione né un'immagine adeguata - il peccato che sta sempre in agguato. I poveri del terzo mondo, i malati di aids, le vittime delle faide, i figli dei disoccupati, i bambini venduti… sembrano mali che non devono toccarci solo perché stanno dietro la porta di casa. Anche nel contrasto fallace tra ordine e giustizia, finiamo per schierarci sempre da quella parte che fa di noi dei paladini ottusi e irriducibili. E la nostra rivoluzione viene rinviata.
Ma il miracolo dell'occasione propizia per ogni uomo è una garanzia e si presenta sempre. C'è chi l'attende sotto forma di lotteria nazionale e chi riesce a realizzare quel dono completo di sé che ha la capacità di consolidare ogni persona nella propria pretesa dignità o, forse meglio, in un pizzico di sana vanità. E i recessi più nascosti, dal confessionale al talamo degli sposi, possono trasformarsi in una palestra nella quale le schermaglie sanno durare anche sino all'alba, ma finiscono per decretare la vittoria sulla passività di chi si ostina a voler fare il salto di qualità che c'è nel desiderarsi. Ci possiamo staccare dal patibolo solo se permettiamo che la tenerezza occupi abusivamente la nostra intera esistenza. E dove mille onde finiscono il loro lungo viaggio, la riconciliazione o, finalmente, la rivoluzione della buona volontà potrebbero essere la sfida all'ansia dell'uomo.
Giovanni Scalera - Psicologo - Siena
Da "Famiglia Domani" 1/99
(parte 3/4)
Ci insegnano, fin dalla più tenera età, che la nostra esistenza è un continuo arricchirsi di esperienza, che gli incontri e le novità sono occasioni preziose per la nostra crescita e per la nostra maturità, che ogni nostro gesto è prezioso e non deve essere guidato dal caso. Tutto vero. Come è vero che al momento della nascita inizia lento e inarrestabile il nostro cammino verso quel traguardo comune, la cui immagine terrorizzante, nel contesto che ci ha formato e in cui viviamo, può solo essere esorcizzata, evitando anche di nominarla. Perfino i trattati di anatomia si rivolgono alla morte chiamandola exitus.
Tanta paura di un momento che attende tutti, ha una giustificazione? Se nella iconografia della nostra cultura occidentale la morte fosse una bambina, l'accoglieremmo a festa nelle nostre case; sarebbe un'ospite da intrattenere nel giardino tra i fiori e gli animali domestici e, una sera, a piedi scalzi, verrebbe al nostro capezzale a chiuderci gli occhi nelle sue fragili mani. Noi, invece, abbiamo una morte medievale che veste a lutto le chiese e la musica delle fanfare, o una morte barocca che fa camminare al buio i fantasmi tristi di uno scheletro donchisciottesco, agitando una ridicola, anacronistica falce.
Non è il caso di leggere questo evento in chiave antropologica; le implicazioni che da sempre costituiscono il momento critico del conflitto tra la vita e la morte sono state fatte proprie da tutte le leggi del nostro sapere. Forse sarebbe utile riflettere che ogni giorno si muore, che ogni giorno una parte di noi se ne va, e, quasi sempre, per lasciare il posto a vita nuova.
Ma se tutto questo è vero per il nostro corpo, cosa accade, in realtà, nello spirito? Qui le cose sono diverse. Non è più la natura a fare il suo corso: è chiamata in causa la volontà con i suoi traguardi rivoluzionari. Se è vero che vi sono dei verdetti silenziosi che il nostro corpo pronuncia su se stesso e di cui, prima di tutti, prendiamo inconsciamente atto, l'attaccamento che ognuno porta alla propria identità è tale da rendere difficile ogni modifica e ogni spostamento. Ognuno crede di orientarsi bene nei meandri della propria personalità, ma quando si tratta di chiudere la porta ad un vizio o ad un difetto per dare vita ad un qualunque cambiamento, entrano in ballo resistenze fortissime che ci ancorano a vecchie, comode abitudini e ogni tentativo di rinnovarsi viene percepito come un gesto faticosissimo per il quale appare sprecato ogni dispendio di energie. Quasi sempre assistiamo al degrado delle nostre storie; avvertiamo anche l'urgenza di prendere in mano le redini e dare una svolta, ma una sorda paura può impossessarsi di noi, fino a far apparire, alla fine di una storia, i racconti e le confidenze evanescenti come un sogno. Qualche volta la stessa difficoltà del convivere quotidiano, e contro la quale non si sa trovare il coraggio di rompere, a furia di rimproveri e disaccordi, arriva a renderci i piatti insipidi e le bevande amare. Ma noi resistiamo anche contro gli eventi più eclatanti e quando nella nostra esperienza trovano posto giorni che non meriterebbero di essere vissuti, giustifichiamo la teoria secondo la quale l'oblio nasconde sempre un segreto.
Leggi la quarta ed ultima parte
Giovanni Scalera - Psicologo - Siena
Da "Famiglia Domani" 1/99
(parte 2/4)
La nostra caratteristica più evidente, in quanto esseri umani, è quella di provare e partecipare i sentimenti. Siamo tutti orgogliosi delle cose buone e delle prove di sensibilità che sappiamo dare; lo siamo ancor più, se l'immagine che gli altri mostrano di percepire e rinviarci dopo averla gradita, arricchisce la nostra vanità di mistificazioni contrabbandate per bontà. Sono gli scherzi - o brutti effetti? - dell'orgoglio che, in dosi contenute, ci aiuta a superare le prove e a sperimentare la tenacia, ma che, una volta superata la soglia della moderazione, rischia di farsi, tutto attorno, terra bruciata. Quello stesso orgoglio, che nei momenti di forza sa mascherare i sentimenti senza impedirci di provarli, ma che in altri passaggi della vita ci isola da tutto e da tutti, costringendoci a pianti silenziosi e indigenti di ogni sollievo fino a renderci mendicanti di sogni e di ricordi. È in questa fase che si hanno le grandi trasformazioni della vita.
C'è chi crede nei sogni e chi negli incubi. C'è chi, di fronte a violenze, soprusi e insuccessi fa sue le deludenti scuse o la tragica rassegnazione sentenziando "è la vita...", e chi guarda le storie del proprio passato non per il fascino dell'aneddoto, ma in quanto residui di esperienze da non ripetere. È il momento in cui si potrebbe scoprire di essere condannati alla solitudine perché l'attimo tanto rumoroso del successo è passato e tutti coloro ai quali eravamo orgogliosi di partecipare la nostra avventura ora stanno da un'altra parte. E non si può neppure trascorrere la vita a imbastire atti di accusa contro l'ingratitudine degli altri: siamo tutti molto individualisti nel pensare e condividiamo poche convinzioni, salvo la tendenza a coltivare pregiudizi.
Ci resta una possibilità, forse l'ultima: guardarsi dentro per cercare un bandolo di questa intricata matassa, un punto nuovo dal quale si possa rompere la spirale della mediocrità e ripartire con convinzione ringiovanita. Impossibile, in questi casi, non andare con il pensiero alle coppie sofferenti. Di fronte alle storie che rischiano di finire, raramente si mettono in discussione i nostri comportamenti. Eppure, quante volte quello che si proietta sull'altro potrebbe far parte, nel desiderio come nel rifiuto, del proprio immaginario? A fronte delle crisi più esasperate ci si aggrappa orgogliosamente ad un brandello di immagine con lo stesso bisogno che si ha davanti ad una fotografia o ad un ritratto, di sottolineare sempre che, nella realtà, si è migliori. E poiché ci sono gesti e parole che, in sintonia con il cambiar di colore alle guance, significano ben altro che la vergogna e assai più del desiderio, la solitudine di chi si ostina a non fare il salto di qualità, conduce inevitabilmente a due scoperte macabre: la prima è che l'abitudine e il cinismo fanno fare alle mani dei gesti tanto freddi e respingenti da assomigliare più ai brancolamenti degli ubriachi che alle carezze di un innamorato; la seconda è la caduta nell'anonimato che si verifica quando una persona viene indicata e definita per aneddoti perché la sua vita può passare di bocca in bocca al pari di una raccolta di facezie.
Giovanni Scalera - Psicologo - Siena
Da "Famiglia Domani" 1/99
Tutti abbiamo - o abbiamo avuto - la voglia di cambiare: affermazione di idee nuove, rottura con la monotonia, desiderio di emergere, crisi dell’immagine che abbiamo di noi. Eppure questo desiderio si scontra con resistenze fortissime che ci ancorano a vecchie, radicate abitudini, e denunciano la fatica di prendere in mano responsabilmente la nostra vita di ogni giorno. Un patibolo da cui ci possiamo staccare solo permettendo che la tenerezza occupi la nostra intera esistenza favorendo la rivoluzione della buona volontà.