Formazione Religiosa

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Non è il fatto che l’uomo ascenda a Dio che è importante, bensì quello che Dio discenda nell’uomo. Se l’uomo ascende a Dio, vedi tutti i genii religiosi di prima e dopo Cristo, Dio diventa simile all’uomo...

di Antonio Gentili 

Viviano un’era contrassegnata dalla mobilitazione spirituale, che riequilibra una visione catastrofica del nostro tempo.

«Il cristianesimo ridotto a pura azione umanitaria nei vari campi dell’assistenza, della solidarietà, del filantropismo, della cultura; il messaggio evangelico identificato nell’impegno al dialogo tra i popoli e le religioni, nella ricerca del benessere e del progresso, nell’esortazione a rispettare la natura: la Chiesa del Dio vivente, colonna e fondamento della verità (cfr. 1Tm 3,15), scambiata per un’organizzazione benefica, estetica, socializzatrice: questa è l’insidia mortale che oggi va profilandosi per la famiglia dei redenti dal sangue di Cristo». In questo senso l’ex arcivescovo di Bologna, il cardinale Giacomo Biffi, ha parlato, anni or sono, dell’“ammonimento profetico” di Solov’ev, consegnato alle pagine del suo Breve racconto dell’Anticristo e lo ha visto attualizzato «nel pacifismo, nell’ecologismo e nell’ecumenismo di bassa lega, che fermentano non poca “cultura” contemporanea».

di Lisa Cremaschi

La speranza cristiana non è ingenua. Il credente è un uomo lucido, che discerne il potere del male del dolore, e della morte.

L’uomo è un essere di desiderio, anela a una pienezza di vita; tuttavia, nonostante sia orientato verso il futuro, è continuamente frustrato nelle sue speranze dall’esperienza del limite, della finitezza, della morte. Per la fede cristiana il desiderio dell’uomo viene colmato soltanto da Dio. Nell’elaborazione della dottrina della Chiesa la speranza è una delle tre virtù teologali (insieme alla fede e alla carità). Il Nuovo Testamento non soltanto inizia ricordando l’attesa del Messia, ma termina con le parole «Vieni, Signore Gesù! Maranà tha!». Qualunque sia la situazione che stiamo vivendo, possiamo sperare.

Eucarestia e comunità monastica
di p. Sebastiano Paciolla, o. cist.


Ci possono essere vari motivi per visitare un monastero che vive secondo la Regola di San Benedetto Abate (= RB) e diversi modi per farlo. Il monastero può essere infatti una tappa o la destinazione finale del pellegrinaggio ad un luogo di fede, può essere la sosta in un percorso turistico, un luogo scelto per un ritiro o la meta di una vacanza alternativa, può suscitare interesse per i tesori di arte che racchiude, per la storia di cui è carico, per la tradizione del canto gregoriano o la solennità della liturgia. In ogni caso entrare in contatto con la realtà del monastero è sempre un’esperienza di comunione e di condivisione, almeno parziale, con la vita della comunità di consacrati che in esso dimora.

La maternità universale della Vergine.
 
Garanzia di speranza e di salvezza

di Sante Bianchi













Una riflessione mariana alla luce degli insegnamenti di S. Bernardo di Chiaravalle.

Bernardo è «l’eletto di Dio, la perla, lo specchio e il modello della fede, la colonna della Chiesa, il vaso prezioso, la bocca d’oro che inebriò il mondo intero col vino della sua dolcezza».

Così si esprime S. Tommaso nel sermone LIV per la festa di S. Bernardo. E davvero Bernardo resta un gigante nella storia della Chiesa, che sintetizzando il passato ci ha lasciato una calda esposizione della verità che serva a disporre l’anima alla preghiera e alla contemplazione

TEOLOGIA E SPIRITUALITÀ

Anche se per la sua dottrina teologico mistica attinge ripetutamente ai Padri (preferisce Gregorio di Nissa, Origene, Ambrogio, Agostino e Gregorio Magno), non è un semplice ripetitore, anzi è sempre personale e vivo

Fonti della sua dottrina rimangono la Scrittura e la Tradizione interpretate dal Magistero della Chiesa e rivissute in una analisi della propria esperienza monastica.

Nel pensiero di Bernardo occupa un posto privilegiato Maria. In realtà Bernardo ha scritto poco su Maria. Ricordiamo le opere più importanti: Le Laudi della Vergine, detti discorsi «super missus est»; la famosa lettera 174 ai canonici di Lione; il discorso per la festa della Natività della Beata Vergine Maria detto «de Aquaeductu ». In tutto abbiamo 4 omelie, 16 sermoni, 1 lettera, 18 tra estratti e frammenti.

Resta comunque il fatto che per l’affetto, la pietà, l’efficacia con cui Bernardo ha parlato della Madonna, per la densità della dottrina, la precisione delle formule e per la novità delle conclusioni con cui si è dimostrato come il dottore più completo in materia nel Medio Evo, divenne l’iniziatore di un vasto movimento di devozione e di profondi studi sulla Madre di Dio, tanto da essere chiamato Cantore di Maria.

Lo stesso Pourrat lo conferma: «La devozione di Bernardo verso la Madre di Dio era proverbiale nel Medio Evo» (La spiritualité chrétienne, t. Il, n. 5, Paris 1921, p. 77), e il Bartmann lo ribadisce: «Bernardo è il più ardente dei devoti di Maria nel Medio Evo» (Précis de Théologie dogmatique, t. I, Multhouse 1935, p. 482).

La concezione mariana di S. Bernardo non può essere certo compresa se non nel disegno completo della sua teologia della Salvezza di cui premettiamo una sintesi.

Dio infinita carità, crea per amore l’uomo e per amore lo riscatta. Prove di questo amore sono l’Incarnazione e la Redenzione. L’uomo peccatore si salverà dal peccato soltanto con l’adesione libera, ferma e totale, all’amore di Dio, mediante un processo di purificazione e di elevazione nel quale sua forza portante sarà lo stesso amore di Dio (grazia efficace) e suo aiuto la mediazione di Maria.

Maria per Bernardo, come del resto per tutti i padri, fu «scelta fin da principio, conosciuta dall’Altissimo che la preparò per sé; custodita dagli angeli, previamente annunziata ai Patriarchi, promessa dai Profeti» (Hom. Il Super Missus Est, n. 4). Nel realizzare il suo piano di Salvezza quindi, Dio volle seguire lo stesso ordine di cose, farlo nello stesso modo in cui il primo uomo Adamo era caduto per opera di una donna, ingannata dal serpente. Ci sarebbe stata allora un’altra Donna che avrebbe vinto il demonio con l’aiuto di un altro Uomo che fosse al tempo stesso Dio: il Verbo Incarnato.

MEDIAZIONE NECESSARIA NELL’ECONOMIA DELLA SALVEZZA

La missione alla quale Maria era stata predestinata, era di dare agli uomini l’Uomo-Dio per nostra salvezza. E’ una maternità universale, ci dice Bernardo, che le permette di stringere al seno il Creatore e le creature, Cristo e i cristiani, il Redentore e i redenti.

«Il Creatore degli uomini dovendo per farsi uomo nascere da una donna, dovette scegliere come madre o meglio prepararsi fra tutte, quella che già sapeva dovergli convenire, e che già conosceva gli sarebbe piaciuta, perciò volle che fosse vergine.., e volle anche. che fosse umile» (Hom. Il Super Missus Est, n. 2).

L’Incarnazione è evidentemente dovuta alla sola munificenza della Grazia divina che porterà Maria ad essere esaltata sopra tutti i cori degli angeli (Cfr. Sermone LXXXVIII). Maria diventa cosi la più perfetta realizzazione dell’Israele di Dio, è il modello e il simbolo di tutto il popolo eletto e riscattato, è l’esempio compiuto della santificazione verso la quale tendevano l’Antica e la Nuova Alleanza e che si realizza nella Chiesa.

Dal compito principale che Maria ha nell’Economia della Salvezza scaturisce necessariamente anche quello della sua «mediazione», e «come Eva aveva cooperato con Adamo alla nostra disgrazia, così Maria, seconda Eva, doveva cooperare con il Redentore alla nostra riabilitazione» (Serm. fra l’ottava dell’Assunzione nn. 1-2).

La sua “mediazione” fu prima di tutto la primissima intercessione della sua preghiera prima dell’Annunciazione; intercessione già materna, perché Maria meglio di Debora, meritava di essere chiamata «madre del popolo di Dio» (Gdc. 5,7). Infatti la mediazione che Israele aveva esercitato dopo Abramo in favore del mondo peccatore (On 18,17-23), raggiunse in Lei la sua più alta efficacia. Poi ci fu il compito di collegamento che Lei esercitò nell’incarnazione (mediazione ontologica e mediazione morale). Indubbiamente, ci dice Bernardo, «Cristo da solo sarebbe stato sufficiente, dal momento che anche ora, tutto ciò che noi possediamo nell’ordine della salvezza ci viene da Lui. Ma era bene per noi che l’uomo non rimanesse solo. Era sommamente conveniente che i due sessi prendessero parte alla nostra Redenzione, come avevano preso parte alla nostra rovina» (Serm. per la Dom. fra l’Ottava dell’Assunzione, n. 1). Dal suo «fiat» con l’introduzione del Verbo nel mondo, fino all’offerta della Vittima, Maria coopera col suo Figlio alla salvezza dell’uomo con libera fede e obbedienza, e se viene invocata quale madre degli uomini, è perché ha cooperato con la sua carità alla nascita dei fedeli nella Chiesa, i quali di quel capo sono le membra.

Oltre che lodare Maria con temi biblici, Bernardo loda Maria utilizzando anche il vocabolario feudale del suo tempo: è «regina», «avvocata», «mediatrice », «riconcilia», «rappresenta», «raccomanda» gli uomini a suo Figlio; presso il Giudice, è «madre di misericordia», tratta la «causa» della nostra salvezza, interviene nel «processo» che ci oppone a Dio. Maria è posta perciò nel mezzo tra Dio e noi come per facilitare i nostri rapporti con Dio; prendendoci per mano ci riunisce a Cristo, ci conduce a Lui, ed è questo il motivo per il quale noi possiamo avere in Lei una confidenza illimitata; tutti i nostri bisogni li presenta a suo Figlio, poi ci trasmette tutti i soccorsi che Egli ci manda. «Tale è la volontà di Colui il quale ha voluto che tutto noi avessimo, per mezzo di Maria. Questa, dico, è la volontà di Lui, ma per noi» (In Nat. E. V. M. n. 7).

SORGENTE DELLA GRAZIA

Il Signore dunque si è servito di Maria come di un « acquedotto» attraverso il quale fa giungere a noi le sue grazie, « non perché era impotente, senza un tale acquedotto, ma perché volle provvederci di un veicolo» (Serm. In Nat.B.M.V.n. 18).

L’acquedotto è necessario affinché l’acqua della grazia, dalla fonte (che è Cristo) arrivi fino a noi: «La Fonte doveva arrivare fino a noi... Quella vena celeste discende mediante l’acquedotto... E’ pieno l’acquedotto, affinché gli altri ricevano da questa pienezza, non però la stessa pienezza».

La carità, le verginità e l’umiltà, sono le tre virtù che principalmente hanno elevato Maria fino a farle raggiungere la sorgente che è Dio, la inclinano anche fino a farle raggiungere gli uomini, ai quali comunica la grazia dell’adozione, l’acqua attinta a quella sorgente.

MODELLO E PRIMIZIA DELLA NOSTRA GLORIFICAZIONE

Per mezzo della carità che è intensità di desiderio, fervore di devozione e purezza di preghiera, Maria è elevata a Dio che la colma di Grazie, e la stessa carità che è anche misericordia la spinge verso gli uomini per sovvenire con la sua pienezza alle necessità della miseria umana. Maria è così la via regale attraverso la quale Dio viene all’uomo e l’uomo può più facilmente raggiungere Dio, praticando col suo esempio le virtù che Ella ci ha insegnato: purezza e umiltà. Se l’uomo avesse timore di rivolgersi direttamente a Dio e al Verbo per le sue richieste, può con fiducia rivolgersi a Maria che le presenta al Figlio. Se la maestà di Dio ci abbaglia, se la gloria infinita di Gesù Cristo ci dà l’impressione che è troppo lontano da noi, Maria ci dà fiducia.

E’ Lei quindi la « scala dei peccatori, la mia fiducia, la ragione di ogni mia speranza. Perché, o fratelli, desideriamo altre cose? Cerchiamo la grazia e cerchiamola per mezzo di Maria, perché Ella trova ciò che cerca e non può restare delusa. Cerchiamo la grazia, quella presso Dio, non la grazia illusoria presso gli uomini» (In Nativ. B M V. nn 7-8)

Corollario della maternità di Maria sia verso il Creatore che verso le creature; nonché della mediazione universale fra il Creatore e le creature, ci ricorda Bernardo, è la Regalità universale di Maria. Dato che le vie del Redentore e le vie della “corredentrice” sono parallele, l’Assunzione di Maria per Bernardo fa riscontro all’Ascensione di Gesù, ed è come il modello e la primizia della nostra glorificazione. La regalità di Maria, soggiunge il «dottore mellifluo», non fa di Lei una principessa lontana. Il suo compimento sopraterreno non distrugge in Lei l’umiltà, la povertà, che sono la materia stessa della sua gloria.

Maria anche in cielo è l’icona escatologica della Chiesa. La glorificazione finale di Maria è una delle « grandi cose» con le quali Dio fa segno alla sua Chiesa. È un pegno di ciò che tutta la comunità dei credenti è chiamata a divenire: «Nemmeno noi abbiamo qui una residenza permanente, ma aspiriamo a quella alla quale è arrivata oggi Maria benedetta» (Serm. nell’Assunzione della E. M. V., n. 1).

La madre di Gesù glorificata in cielo, in anima e corpo, è immagine della Chiesa che avrà il suo compimento nell’età futura. Così sulla terra brilla innanzi al peregrinante popolo di Dio quale segno di sicura speranza e consolazione, fino a quando non verrà il «Giorno del Signore».

«La nostra Regina ci ha preceduto» ci ricorda Bernardo, «ci ha preceduto ed è stata ricevuta così festosamente, che con fiducia i servi possono seguire la loro Signora dicendo: “Portaci con te”, correremo dietro l’odore dei tuoi profumi (Ct, l,3).La nostra umanità pellegrina ha mandato innanzi la sua Avvocata, che, essendo madre del Giudice e madre di Misericordia, potrà trattare con devozione ed afficacia la causa della nostra salvezza» (Serm. I sulla Assunzione della B. V. M., n. 1).

Da questa breve riflessione sulla dottrina mariana di S. Bernardo, possiamo con certezza ribadire che egli fu e rimane l’ispiratore di chi dopo di lui vuole meditare sul «mistero di Maria». Lo stesso Papa Giovanni rilevò: «Egli ha detto le parole più soavi e più belle in onore di Maria», e Fénélon ci porta a dire, riferendoci al pensiero di Bernardo:

«Dolci e teneri scritti, nulla riuscirà ad oscurarvi, e la successione dei secoli ben lungi dall’offuscarvi, trarrà da voi la sua luce: voi vivrete per sempre, e Bernardo vivrà in voi».

Il Canto Gregoriano nella liturgia cattolica

P. Ildebrando Di Fulvio O. Cist.

Mi è stata chiesta l'esperienza sul Canto Gregoriano, quanto sia importante per la nostra vita spirituale e comunitaria, quanto esso ci aiuti nella preghiera, come in concreto lo usiamo oggi nella liturgia, sia nelle celebrazioni coi monaci sia con i laici. Divido il lavoro il tre momenti: Nobiltà del Gregoriano, canto liturgico per eccellenza; Struttura e composizione interna del Canto Gregoriano; Uso oggi nella liturgia.

Claude Geffré è unteologo francese, docente emerito di teologia fondamentale dell'Institute Catholique di Parigi.

Perché una teologia pluralista in Asia
di Tissa Balasuriya








(...) Cristologia esclusivista

La teologia tradizionale cristiana su Gesù Cristo può essere chiamata cristologia esclusivista, poiché limita la salvezza ai cristiani, considerandola possibile soltanto per mezzo di Gesù Cristo, il necessario, unico e universale salvatore di tutta l'umanità. Una teologia esclusivista normalmente afferma che le altre religioni, per quanto possano presentare alcuni elementi di verità, non mostrano “la verità", né mostrano una verità capace di condurre alla salvezza i propri seguaci.

Per varie ragioni, questa cristologia esclusivista non è una teologia accettabile per la grande popolazione asiatica, che presenta molti e riconosciuti profeti e santi, una lunga tradizione storica, Scritture sacre e una cultura religiosa sulla stessa linea degli insegnamenti di Gesù, come pure il messaggio ispiratore e il servizio di santi missionari cristiani (. . .). In ogni caso, per il momento, solo il 3-4% degli asiatici ha accettato il cristianesimo.

1 - Il cristianesimo è debitore di una antropologia religiosa discriminatoria, combinata con una soteriologia (insegnamento sulla salvezza) esclusivista. (...)

2 - L'interpretazione della vita, del messaggio e della morte di Gesù, mediante la quale è stata data soddisfazione a Dio Padre per i peccati dell'umanità, devia l'attenzione dal messaggio di Gesù di amore e giustizia in una società ingiusta che lo ha condannato a morire in croce. Questa cristologia interpreta generalmente la salvezza per mezzo di Gesù come quella di un Dio-Uomo che paga il prezzo per l'ira di Dio-Padre. Questo sembrerebbe contraddire il tema centrale del “Dio è amore" e dell'“ama Dio e il prossimo come criterio di salvezza” attribuito a Gesù dai vangeli (...).

3 - Dopo la vita e la morte di Gesù, solo una piccola percentuale di asiatici è appartenuta alla chiesa. Gli asiatici avevano religioni molto sviluppate, molto prima dell'arrivo del cristianesimo con le sue formulazioni teologiche esclusiviste (...). Una teologia che discrimina negativamente la maggior parte degli esseri umani del mondo non può venire da un Dio trascendente, che le religioni asiatiche, nel loro migliore e più ispirato pensiero, contemplano come un Dio di bontà e di giustizia per tutti. Questo è un criterio ad extra della credibilità di questo modello cristologico esclusivista. Il modello implicherebbe l'esclusione della grande maggioranza dell'umanità mondiale - prima e anche dopo Cristo - dalla grazia salvifica che, si diceva, viene solo da Cristo.

4 - La visione o il mito in base a cui Dio o una “Realtà trascendente ultima" avrebbe condannato tutti gli esseri umani ad essere peccatori per secoli prima della nascita di Cristo è impensabile nel nostro contesto spirituale religioso asiatico (...). Tanto l'induismo come il buddismo non sono capaci di concepire un inferno eterno disegnato da Dio per la maggior parte dell'umanità. Il castigo eterno per qualunque essere umano è impensabile e non è né umano né divino.

5 - Se l'insegnamento e la pratica esclusivisti della Chiesa hanno ispirato un immenso esempio di bontà attraverso le sue missioni in tutto il mondo, allo stesso tempo hanno giustificato le peggiori spoliazioni di terra e di ricchezze, registrate per quattro secoli a partire dal 1492. Ciò è in relazione con il maggiore genocidio conosciuto, fin dove arrivano i registri della storia. Intere civiltà sono state sterminate dai cristiani nel Nord e nel Sud dell'America. Allo stesso modo è stata giustificata la schiavitù fino al XVIII secolo.

6 - L'ingiusto sistema mondiale è stato costruito principalmente dai cristiani, con gli europei che hanno preso possesso di gran parte della terra abitabile del mondo. (...) Questo disordine mondiale è perpetuato dall'incubo della legalità internazionale, dalla forza delle armi, dal dominio della manipolazione finanziaria e culturale, soprattutto da gente che si definisce cristiana.

7 - La Chiesa non ha mai richiesto ai cristiani una compensazione per lo sfruttamento dei popoli che hanno colonizzato (...). I cristiani santi per la loro carità non sono stati campioni di giustizia mondiale e sociale, come si vede nell'enciclica Deus Caritas est di benedetto XVI.

8 - La cristologia esclusivista ha avuto un impatto negativo su quanti gestiscono il potere nella Chiesa. Le loro interpretazioni hanno condotto ad atteggiamenti di profonda arroganza e intolleranza delle potenti Chiese cristiane. Sono state utilizzate per legittimare l'inquisizione, le invasioni coloniali, il multisecolare colonialismo. I papi hanno incoraggiato i capi di Stato europei a invadere, conquistare e convertire al cristianesimo tutta la gente di altri Continenti perché si salvasse l'anima.

L'incongruenza tra il cuore del messaggio cristiano di un Dio amore e le esperienze vissute dai popoli oppressi sotto i dominatori cristiani durante mille anni di schiavitù, crociate, intolleranza nei confronti degli altri, invasioni coloniali e guerre implica un'interpretazione gravemente errata degli insegnamenti di Gesù di Nazareth (...). La cristologia tradizionale esclusivista non può venir riconosciuta come una teologia che abbia a che vedere realmente con Gesù Cristo, per il danno causato alla maggior parte dell’umanità per 1.500 anni. (...)

Cristologia inclusivista

(...) Alcuni teologi hanno tentato di trovare un cammino per la salvezza della maggior parte dell'umanità, che nella prospettiva esclusivista sembra essere condannata. Hanno creduto di intravedere una specie di porta di servizio perché i non cristiani possano entrare nel cielo cristiano: dicono che le persone non cristiane che conducono vite improntate al bene sono “cristiani anonimi". (...) Ma ad altre religioni sembra che questa forma di teologia riservi loro una specie di trattamento di seconda classe, una concessione cristiana (...).

Le teologie esclusivista e inclusivista pretendono che Dio sia parziale e stia dalla parte dei cristiani, ridimensionando il potenziale di rivelazione e salvezza delle altre religioni. La teoria esclusivista e anche quella inclusivista provengono da una distorsione del messaggio centrale di Gesù, facendo dipendere la salvezza dal rito sacramentale del battesimo e dall'appartenenza alla Chiesa. Questo è un ostacolo per una corretta e fedele comprensione del discepolato di Gesù, che intende la vita secondo i valori dell'amore, della verità, della giustizia, della condivisione, del perdono e della pace che Gesù ha mostrato e messo in pratica fino alla sua morte.

Di fronte a tali considerazioni, le chiese cristiane devono cercare di capire come e perché hanno potuto sbagliare per tanti secoli su temi fondamentali come quelli della condizione umana, della natura divina e del destino ultimo degli esseri umani (...). Si può dire che con li dogma del peccato originale non c'è possibilità per la teologia cristiana di elaborate un'interpretazione che non offenda gli “altri” che sono fuori dalla Chiesa, le altre religioni. Tale teologia poteva risultare accettabile solo all'interno di comunità e culture stabilite dai cristiani, giacché pone a loro disposizione un cammino magico di salvezza attraverso il battesimo dei bambini.

Solo una comprensione pluralista delle rivelazioni può essere accettabile per l'umanità in un mondo nel quale la maggior parte degli esseri umani non è cristiana. Questa può essere la base di un dialogo interreligioso e di una convivenza pacifica globale.

Verso una Teologia pluralista nella sfida della realtà asiatica

(...) In Asia il problema intellettuale pratico è cercate di conciliare gli apparenti opposti per analizzare la realtà. Se l'approccio razionale dell'Occidente si orienta più verso una epistemologia di "o questo o quello", dell'aut aut , si dice che l'Oriente sia più incline al questo e quello, all'et et . Così, il cristianesimo occidentale è arrivato a definizioni esclusiviste dogmatiche mediante la condanna, l'affossamento o la scomunica degli avversati (anatema), mentre le religioni e le culture asiatiche tendono a lasciare più spazio all'altro, al diverso, al dissidente, specialmente per quanto concerne la speculazione sulla Realtà Ultima (Dio) (...). In generale, l'ambiente percepito è di tolleranza e accettazione dell'altro, come hanno insegnato Lao Tse, il Budda, le Upanishad, Gitanjah o Rabindranath Tagore. Forse il Mahatma Gandhi è stato il miglior seguace pratico e teorico della nonviolenza di Gesù nella sua vita politica pubblica, più di qualunque altro santo cristiano, teologo o leader della Chiesa.

Una prospettiva pluralista delle religioni

Una cristologia pluralista deve porsi all'interno di una prospettiva pluralista del religioso. Alcune considerazioni:

Tutte le religioni del mondo hanno un corpo di buoni insegnamenti e di pratiche per una vita morale. Se non fosse così gli esseri umani non le avrebbero seguite per millenni. Le religioni si interrogano sul mistero della vita e sul suo significato ultimo. Tutte possono essere aperte al mistero, ma nessuna ha il monopolio su di esso, perché il mistero è infinito.

Nessuna religione può avere la pienezza della verità sulla Realtà Ultima Assoluta, perché ciò è al di là della capacità umana. Nessuna religione ha il monopolio della conoscenza di Dio, della Realtà Ultima o della salvezza umana e della vita dopo la morte. Tutte le religioni devono essere disposte ad apprendere dalle altre, ad apprendere anche dalla società laica e persino dall'evoluzione del mondo e dal suo progresso.

Le religioni devono accettare che vi siano modi diversi di "descrivere" la Realtà Ultima. Ogni religione può essere fedele alle proprie interpretazioni del divino senza rivendicare il controllo del divino. Allo stesso modo, rispetto all'origine o alla vita dopo la morte, nessuna religione può rivendicare una conoscenza assoluta di quello che è avvenuto prima o di quello che avverrà dopo la morte di una persona. Le religioni possono avere presentazioni diverse della propria comprensione del divino, espresse in una diversità di linguaggi, forme d'arte, contesto culturale, riti di culto, organizzazione comunitaria e sistema educativo. Più in là e più in qua di tutto questo, possono unirsi in un servizio genuino e disinteressato alla comunità umana. Qui si trovano il messaggio e la mistica più profondi della maggior parte delle religioni.

Le religioni possono pensarsi complementari per il bene comune spirituale di tutti, invece di considerarsi in competizione le une con le altre. Le religioni mondiali hanno un insieme di valori centrali rispetto a cui possono essere d'accordo e cooperare per la vita sociale pratica.

Le religioni sono i movimenti sociali mondiali più antichi e diffusi del mondo. Ricevono l’adesione leale di masse di popolazione e sono radicate in gruppi locali, comunità nazionali e reti mondiali. Insieme possono contribuire a sviluppare un ordine mondiale di condivisione, giustizia e pace. Possono promuovere i diritti umani a diversi livelli e lottare insieme per l'uguaglianza tra i popoli, per il rispetto verso ogni persona senza distinzione di sesso, età, classe sociale o casta, o a favore del commercio equo, della pace mondiale, del controllo delle armi, del disarmo nucleare, della cura per il pianeta Terra. Insieme possono essere i maggiori benefattori dell'umanità.

1. Tutte le religioni sono di fatto condizionate nei loro pensieri, espressioni e azioni dall'ordine sociale dominante e dalla loro eredità culturale. Tutte le religioni hanno bisogno di autocritica, autocorrezione e pentimento per i propri errori, per esempio quello di aver favorito la superiorità maschile e l'indifferenza per la giustizia di genere. Tutte le religioni meritano rispetto e accettazione per il bene che ispirano e realizzano.

2. Il compito più importante delle religioni dovrebbe essere quello di contribuire al miglioramento spirituale dei propri membri e della società in generale. Dovrebbero essere meno preoccupate dai problemi esteriori, come i riti del culto, la costruzione dei templi e delle chiese, l'organizzazione legale della comunità, la rivalità interreligiosa in termini di potere e di quantità di membri e anche dalle formulazioni filosofiche delle teorie e dei dogmi.

Le campane del tempio e delle chiese sono diverse, possono suonare a ore diverse e chiamare i fedeli a diversi servizi condotti da diversi sacerdoti. Ma il tono, la musica sono gli stessi; la canzone liberatrice del Divino ci ricorda a tutti la stessa verità eterna: che tutti siamo figli e figlie di Dio...

"Quello che manca in questo momento storico è passare dalla religione alla spiritualità... Mantenendo l'identità delle nostre religioni, dobbiamo andare al cuore del messaggio centrale di ognuna di esse e calare i temi dell'amore, della verità, della giustizia, dell'uguaglianza nelle circostanze reali della nostra vita. Questo può spianare il cammino verso una condizione di solidarietà spirituale. Potrebbe offrirci la chiave per aprire le porte delle nostre rispettive prigioni. La dipende da noi uscire e forgiare una nuova solidarietà spirituale che tocchi e trasformi la nostra società e fissi l'agenda per un mondo nuovo e di speranza" (Swami Agnivesh).

Verso una cristologia pluralista

(...) a) Dovremmo cercare di presentare il cuore del messaggio di Gesù di Nazareth a partire dalle sue parole e dalle sue azioni, principalmente quelle che proclamano che Dio è amore e che ciò a cui siamo chiamati è ad amare Dio e ad amare il prossimo come noi stessi. Possiamo cercare di articolare i valori che Egli proclamò, vivendo e morendo per essi (…).

b) Il cammino che Gesù mostra per la salvezza umana e universale (Mt 25,34-46). “Avevo fame e mi avete dato da mangiare". Tutti gli esseri umani possono seguire questo cammino, dentro o fuori della (Chiesa. Gesù non ha alcun monopolio sul cammino per la salvezza umana. Prima che Gesù nascesse già era operante la salvezza umana. Gesù ha mostrato un cammino, ma non lo ha iniziato ne lo ha aperto all'umanità.

c) Gesù non dovrebbe essere presentato come l'unico e universale salvatore di tutta l'umanità per la caduta dell'umanità nel peccato originale. Egli presenta un unico cammino di salvezza che è aperto a tutti gli esseri umani di tutti i tempi e che può essere anche mostrato dai leader di altre religioni, forse con parole diverse. Questo cammino di amore per tutti porterebbe il Regno di Dio sulla terra, e porterebbe anche la salvezza a tutti, con o senza filiazione religiosa.

d) Quello che è importante per i discepoli è seguire gli insegnamenti di Gesù sulla vita morale pratica, più che cercare di definirlo intellettualmente secondo le categorie della filosofia greca, come sostanza, persona e natura (…).

Gesù ha bisogno di essere liberato dalla cattività che soffre sotto la cristologia tradizionale esclusivista (...). Egli mostra un cammino verso una maggiore comprensione pluralista tra comunità di diverse religioni, per entrate in un dialogo di vita e azione per un'umanità diversa, libera dall'oppressione.

Vi sono molti figli e figlie di Dio nella stessa missione di Gesù, che cercano di spianare un cammino di amore e di servizio per tutti, al di là dell'egoismo personale o di gruppo. Riconoscere queste molte persone non sminuisce in nulla la filiazione divina di Gesù; è, semplicemente, un modo diverso di pensare alla comunione dei santi. Lasciamo che una cristologia pluralista purifichi la teologia e la vita cristiana e le renda più chiaramente simili a Gesù e a Cristo. Lasciamo che Gesù sia Gesù, il messaggero dell'amore di Dio, il liberatore dell'oppresso e il compagno nella costruzione di una Nuova Umanità. Lasciamo che Dio sia Dio, un Dio che ama e si preoccupa di tutti al di là di tutte le barriere costruite dagli esseri umani.




(da Adista , n. 86, 02.12.2006, pp. 8-10)

Il corpo del cristiano tempio dello Spirito(1 Cor 6,12-20)

di Michele Ciccarelli








In questo passo Paolo proclama quella libertà cristiana che Cristo ci ha ottenuto: una libertà che non è indiscriminata né senza orientamenti e non conduce di nuovo ad alcuna schiavitù. Con queste premesse l' Apostolo affronta la problematica della dissolutezza morale diffusa nella città di Corinto. La comunità cristiana, che egli stesso ha fondato, deve fare i conti con una società multietnica e multireligiosa, complessa e corrotta dal punto di vista morale: di fronte a queste sfide Paolo non si scoraggia, ma con decisione e chiarezza verbale tratta le diverse questioni che essa presenta.

Il fulcro teologico e la chiave di lettura del suo discorso è la risurrezione di Cristo. In quanto associato a Cristo risorto, il cristiano viene abilitato a una comunione particolare con il suo Signore, mediante la quale viene informata ogni sua azione. A partire dalla risurrezione, Paolo elabora una teologia del corpo che costituisce la novità provocatoria per la società di Corinto e del mondo pagano in generale, e impegna, in modo esigente, la comunità cristiana ivi residente.

Il rapporto corpo-Signore (vv.12-14)

Dopo le premesse espresse al v. 12, nei vv. 13-14 Paolo affronta lo stretto rapporto tra corpo e Signore. Paolo, in effetti, con frasi brevi e pregnanti, aggredisce, per così dire, in modo diretto e violento, la problematica dei disordini sessuali praticati a Corinto. Dalla veemenza del linguaggio dovremmo forse dedurre che la comunità cristiana di Corinto fosse già incorsa in tali pratiche.

AI v. 12 il termine panta ( «tutto» ) introduce la legge di libertà tanto cara a Paolo e viene ripetuto altre due volte nello stesso versetto. La legge della libertà è lo statuto del cristiano liberato da Cristo con il suo sacrificio. Non c'è, quindi, nessuna schiavitù. «Tutto mi è lecito» viene ripetuto due volte e ogni volta viene accompagnata da una frase avversativa introdotta da «ma». La prima volta si precisa che «non tutto mi giova»; la seconda si dice che «non sarò dominato da niente». Paolo mette in campo il criterio di utilità, ben noto all'etica stoica, che, di fatto, limita la facoltà di azione del cristiano. In seguito, a proposito delle carni, Paolo utilizzerà lo stesso criterio per il bene di chi è ancora debole nella fede (cf. 1 Cor 8, 9-13). Il secondo criterio è un po' più sottile: la libertà non deve generare schiavitù. Sembrerebbe, infatti, che una completa libertà por- ti a una schiavitù. Paolo si prepara a spiegare la caratteristica di questa schiavitù, ma per fare questo ha bisogno di un'altra categoria: quella di «corpo».

Il v. 13 presenta il rapporto tra cibi e ventre, un rapporto stretto (i cibi per il ventre e il ventre per i cibi), tanto che subiranno l'identica sorte: la distruzione da parte di Dio. In questo rapporto non viene evidenziato alcun apprezzamento morale e la distruzione non è certamente vista come una punizione, ma, piuttosto, come un esito predeterminato a motivo della caducità dei due elementi. Nella seconda parte del versetto Paolo pone il termine «corpo» in antitesi agli elementi sopra indicati. Il fatto suscita un po' di perplessità, considerando che il ventre è una parte del corpo. Ma forse questo è un dettaglio trascurabile rispetto alla valenza che Paolo vuole dare al termine «corpo». Egli intende «corpo» in quanto organismo vivente e, per di più, come vedremo in seguito, è santuario dello Spirito. Viene, quindi, distinto il corpo come organismo vivente e il corpo come insieme di organi. In questa visione, Paolo non ha difficoltà a considerare il ventre come destinato alla distruzione, mentre dice che il corpo è per il Signore.

A differenza del rapporto naturale che c'è tra il ventre e i cibi, Paolo nega

qualsiasi rapporto tra il corpo e la porneia. Per porneia è da intendersi qui l'unione sessuale considerata illegittima dalla tradizione ebraica e, almeno in parte, condannata anche dalla società greco-romana. Il riferimento alla pornê (prostituta) ai vv. 15-16 farebbe intendere che Paolo si concentra sull'unione con la prostituta, tenendo presente, soprattutto, la diffusione della prostituzione sacra, già così duramente condannata dalla Bibbia. Il termine porneia ha, comunque, un significato più ampio ed è generalmente tradotto con il termine «impudicizia» e sta a indicare un disordine sessuale. Infatti, se prescindiamo dal libro dell' Apocalisse, dove il termine porneia ha il significato di «apostasia dalla fede», gli altri testi del Nuovo Testamento si riferiscono sempre a un disordine sessuale.

È da ricordare che le immoralità sessuali nell' Antico Testamento riguardavano oltre l' adulterio, anche l' incesto per diversi gradi di parentela, l'omosessualità, l'unione con animali e il vedere le nudità di colo.: ro che sono legati con particolari vincoli di parentela (Lv 20,9-21).

Paolo si ricollega a questa tradizione biblica e arricchisce le sue argomentazioni con la riflessione sul kerigma cristiano che vede il corpo dei cristiani, e quindi l'esercizio della sessualità ad esso legata, in stretta relazione con il corpo di Cristo risuscitato.

Nella 1 Cor Paolo tratta l'argomento della sessualità umana soprattutto ai cc. 5-7. In 1 Cor 5,1-5.9-11 egli affronta un problema di convivenza con la propria matrigna, dunque di incesto, situazione condannata, tra l'altro, dagli stessi greci. Paolo non solo dice che questo è duramente condannato (v. 5: «questo individuo sia abbandonato a satana»), ma fa riferimento anche a un'altra lettera precedentemente scritta ai corinzi, e a noi non pervenuta, dove dice già che essi non devono «mescolarsi con gli impudichi» (vv. 9-11), per quanto questi si trovassero all'interno della comunità dei fratelli e che bisognava persino sottrarsi alla comunione di mensa con loro (v. 11). Il fatto che il problema dell'impudicizia era già stato trattato in un altro scritto a noi sconosciuto, ci spinge a pensare che la problematica era tutt' altro che marginale nella società di Corinto e che Paolo attribuiva un'importanza notevole alla sua soluzione. In 1 Cor 7,1-6, poi, egli parla del matrimonio cristiano visto come remedium concupiscentiae, vale adire come mezzo per non cadere nei lacci dell' «impudicizia», tracciando le linee della morale matrimoniale.

In 1 Cor 6,9, dopo aver detto che alcune categorie di persone - vi compaiono anche impudichi (pornoi), adulteri, effeminati e sodomiti - non erediteranno il regno di Dio, ai vv. 12-20 Paolo dà le motivazioni teologiche per la condanna di tali abusi sessuali. Anche in 2 Cor 12,20-21, Paolo, dettata una lista di peccati di diverso genere, ritorna sul tema dell'impudicizia, segno che le avvertenze fatte in 1 Cor non erano state del tutto seguite, e che la situazione era veramente grave.

In 1 Cor 6,12-20, allora, Paolo sviluppa le ragioni di questa vocazione del corpo alla santità, evidenziando un rapporto stretto con il Signore. Dicendo, infatti, al v. 13b che «il corpo non è per l'impudicizia, ma per il Signore e il Signore è per il corpo», egli si contrappone a ogni spiritualismo che discredita il corpo. È qui uno dei cardini della teologia paolina. Non si può essere uniti al Signore se non lo si è anche con la dimensione corporale. La particella «per» (espressa in greco con il dativo del termine di riferimento), non proietta la vita del cristiano in un tempo da venire o in una dimensione ancora da acquisire, ma la contempla nel presente nella sua imprescindibile unità con il Signore. Le espressioni prive di predicato verbale risultano ancora più perentorie e i termini in questione più saldati tra loro. Infatti, viene espressa la negazione del rapporto «corpo-impudicizia», affermando, per due volte l'unità del corpo con il Signore ( «corpo-Signore» e «Signore-corpo» ).

L'unità corpo-Signore sembra una premessa indispensabile affinché «Dio che ha risuscitato il Signore, risusciterà anche noi con la sua potenza» (6,14). Ma la risurrezione futura del cristiano non è l'unica ragione per la quale il corpo non deve abbandonarsi all'impudicizia. In realtà, ciò che segue fa capire bene che la situazione del corpo obbedisce a uno statuto di comunione già presente tra la persona del cristiano e la persona del Signore Gesù.

I corpi dei cristiani sono la «la memoria di Cristo» (vv. 15-18)

Questa comunione è espressa mediante la metafora delle membra e del corpo. Si passa così dalla realtà del corpo fisico del cristiano alla realtà «sacramentale» del corpo di Cristo, cioè la Chiesa. Paolo afferma in 1 Cor 6,15: «Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo». Cronologicamente è la prima volta che Paolo ne parla nelle sue lettere.

Le membra sono viste come suscettibili di essere utilizzate per il peccato o per Dio. In Rm 6,13.19, infatti, Paolo dice che le membra del corpo non devono servire al peccato, ma alla «giustizia per la santificazione» (v. 19). Anche in Col 3,5 il termine «membra» è unito all'aggettivo «terrene» e dice che devono essere fatte morire, elencando, poi, una serie di peccati: «fornicazione, impurità, libidine, desideri sfrenati e l' avidità di guadagno, che è poi idolatria» !

Se i corpi costituiscono le membra di Cristo, allora tutti i corpi dei cristiani formano il corpo di Cristo, che non può entrare in contatto con il corpo di una meretrice: «Prenderò dunque le membra di Cristo e ne farò membra di meretrice? Non sia mai!» (v. 15). L'unione con la prostituta da parte di coloro che sono già membra di Cristo compromette il rapporto di intima unione delle stesse membra con il corpo di Cristo. Come si può vedere, Paolo fa capire che un rapporto sessuale implica un livello di comunione e di unità profondo. I cristiani, quindi, non possono rinunciare a essere membra di Cristo per diventare membra di una prostituta. Il messaggio è chiaro e forte. Ma Paolo sviluppa ulteriormente il suo pensiero. Al v. 15 aveva incominciato ad argomentare mediante domande retoriche: «Non sapete...», «Prenderò dunque le membra...». Come risposta a queste due domande c'era stato un secco: «Non sia mai!». All'inizio del v. 16 e del v. 19 egli pone un' altra domanda retorica alla quale dà delle risposte più articolate. Al v. 16a continuando il discorso precedente dice: «O non sapete che chi si unisce a una meretrice forma un corpo solo». Paolo, a questo punto, pensa di rafforzare il suo pensiero con una citazione da Gn 2.

L' autore biblico, ragionando sulle parole di Adamo che, dopo la creazione della donna, afferma: «Questa volta è osso delle mie ossa e carne della mia carne! Costei si chiamerà donna perchè dall'uomo fu tratta» (Gn 2,23), aggiunge come commento: «Per questo l'uomo abbandona suo padre e sua madre e si unisce alla sua donna e i due saranno una sola carne» (Gn 2,24). Paolo al v. 16b cita il testo di Genesi solo nell'ultima parte: «I due saranno una sola carne», interpretandolo nel senso di unione sessuale. L'espressione «una sola carne» e «un solo corpo» è interscambiabile; ma Paolo parla di un «solo corpo» con la meretrice perchè, con la menzione delle «membra», è questa l'immagine sottesa che emerge più naturale.

Si deve rilevare, a questo punto, che nel ragionamento di Paolo c'è uno slittamento di contesto: dal contesto di un'unione sessuale già di per se illegittima come l'unione con una prostituta, si passa a parlare dell'unione sessuale dell'uomo e della donna così come previsto dal piano di Dio stesso. Per un momento Paolo abbandona il punto di vista morale e si concentra sull'unione sessuale in quanto tale e sul suo profondo significato relazionale.

Proprio perchè l'unione sessuale è così intima e profonda, e tende a fare dei due «una sola carne» o «un solo corpo», essa non può avvenire con una prostituta, rischiando di trasformare, come prima si era detto, le membra di cristo in membra di prostituta. In seguito, in 1 Cor 7, Paolo tratterà del matrimonio cristiano, che non è messo in contrapposizione all'unione con Cristo; ma, al contrario, l'attività sessuale all'interno del matrimonio è vista come un modo per evitare proprio il pericolo di porneia.

Dopo aver parlato dell'unione dei cristiani con il Signore in quanto sue membra, adesso Paolo sottrae questa unione a una visione materialistica, non per privarla di realismo, ma per riconoscerle uno statuto più alto: quello spirituale. Al v. 17, infatti, Paolo dice: «Ma chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito».

È degno di nota che non compaia nel nostro testo l'espressione «corpo di Cristo», anche se, indubbiamente, se ne sottintende il concetto. Forse Paolo evita il termine proprio perchè vuole sottolineare questo livello di unità particolare: l'unità in un solo spirito.

Al v. 18, infine, dopo un'esortazione a «fuggire l'impudicizia» aggiunge: «Qualsiasi peccato l'uomo commetta, sta fuori del corpo; ma chi commette impudicizia pecca contro il proprio corpo!». Sembra che Paolo ammetta come peccato contro il proprio corpo solo il peccato di impudicizia o di immoralità sessuale. Forse è per ragioni oratorie che egli si concentra solo su questo tipo di peccato o forse perchè riconosce al corpo, proprio a partire dal testo della Genesi che egli cita, quella speciale capacità di creare comunione profonda, fondendo due persone in un unico essere.

Il corpo, infatti, non è inteso come un involucro dell'anima; viceversa, l'uomo stesso è compreso nella sua inscindibile unità psicofisica e spirituale; e in tale unità egli entra in un'intima relazione con il Signore. Potremmo affermare, allora, che l'immoralità sessuale è considerata come un peccato contro il proprio corpo in quanto tende a distruggere l'unità psicofisica della persona. Il corpo, infatti, nelle sue relazioni non può non coinvolgere anche la psiche e la dimensione spirituale. La libertà di azione dell'uomo, in definitiva, non deve mai portare alla dissociazione tra vita fisica evita psico-spirituale.

Il corpo dei cristiani è tempio dello Spirito (vv. 19-20)

Ai vv. 19-20, una frase interrogativa e un'altra affermativa sono accostate tra loro in modo chiastico:

A Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo presente in voi,

B che avete da Dio, e che non appartenete a voi stessi?

B’ Infatti, siete stati comprati con un prezzo.

A’ Glorificate quindi Dio nel vostro corpo

Come si può vedere, gli elementi interni (B e B’) parlano dei cristiani che non appartengono a loro stessi, perchè comprati con il prezzo della redenzione di Cristo. Gli elementi esterni della struttura (A e A'), invece, si riferiscono all' importanza del corpo, inteso come tempio dello Spirito Santo e strumento di glorificazione di Dio.

Già in 1 Cor 3, Paolo aveva parlato dei cristiani come «tempio di Dio»: «Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi ?» ( 1 Cor 3,16). Il testo di 1 Cor 6,19, allora, sviluppa questo concetto di sacralità del corpo. Il corpo è sacro e intoccabile perchè è il tempio di Dio e chi lo danneggia o lo distrugge, si attirerà da Dio stesso la distruzione (cf. 1 Cor 3,17: «Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui, perchè santo è proprio il tempio di Dio che siete voi» ). Questa affermazione del c. 3 getta una luce per la comprensione del nostro testo: il corpo del cristiano è il tempio di Dio e partecipa della sua santità. Di conseguenza, se viene meno la santità con pratiche sessuali immorali è come se si distruggesse lo stesso tempio.

È forse in questa prospettiva che Paolo parla di peccato contro il proprio corpo. Facciamo notare, a riguardo, che la versione della Traduzione Interconfessionale in lingua corrente, scostandosi da una traduzione letterale, interpreta il nostro testo forse proprio alla luce di 1 Cor 3,17, traducendo in questo modo: «Chi si dà all'immoralità distrugge fondamentalmente se stesso». L'ultimo versetto serve, infine, a Paolo per esortare i suoi cristiani a glorificare Dio con il proprio corpo. Il motivo di questa glorificazione è I' opera redentrice di Cristo espressa in termini di acquisto. Cristo possiede il cristiano. All' interno di questo possesso bisogna intendere la libertà cristiana. Una libertà che porta fuori da questo dominio di Cristo è una libertà che non porta al bene integrale della persona e, spesso, porta alla schiavitù.

È I' esercizio di una libertà senza criteri che si trasforma in dominio, blocca la potenzialità umana di fare il bene e porta l'uomo a far perdere il bene di quella comunione di amore che egli ha con il Signore.

Conclusioni

Il grido finale di glorificare Dio con il proprio corpo è basato su quel debito di riconoscenza che il cristiano sente di avere verso colui che ha immolato il suo corpo per amore e, con la sua risurrezione, ha dato la possibilità di essere sue membra mediante la comunione in lui di un solo spirito (cf. 1 Cor 6,15-16).

Vediamo che già dai primi scritti paolini, all'inizio degli anni 50, Paolo delinea chiaramente il fulcro della sua riflessione teologica: comunione intima e imprescindibile di Cristo con il

cristiano in virtù del ruolo fondamentale giocato dalla risurrezione dei corpi.

È proprio la risurrezione di Cristo nel suo corpo e la futura risurrezione dei corpi dei cristiani che offre a Paolo l' occasione di una riflessione profonda sul senso del vivere nel corpo.

Il corpo che è possesso di Dio e nel quale abita il suo Spirito come in un tempio richiede rispetto al fine di salvaguardare la sua funzione relazionale improntata alla santità. Conservare, infatti, questa santità, ottenuta dall' opera di Cristo (cf. 1 Cor 6,11), serve a rimanere in quella fondamentale unione con il Signore risorto.

(da Parole di vita , 2, 2002 )

«Chi si vanta si vanti nel Signore»

 (2Cor 10,12-11,6)
di Giuseppe De Virgilio




Nell'introdurci all'analisi della pericope riguardante la difesa di Paolo al cospetto della comunità corinzia, evochiamo il contesto dell' apologia paolina e l' articolazione del testo nella parte finale della lettera canonica (cf. 2Cor 10-13). Paolo è chiamato a rispondere all'accusa di debolezza mossagli dai suoi avversari, i quali hanno sfidato manifestamente la sua autorità apostolica e hanno tentato di delegittimare con sottili insinuazioni il suo operato, sostenendo che «le lettere sono dure e forti, ma la sua presenza fisica è debole e la sua parola dimessa» (2Cor 10,10). I cc. 10-13 costituiscono, quindi, una «seconda difesa dell'apostolo», che già in 2Cor 2,14-7,4 aveva dovuto assumere una posizione severa a motivo di un grave insulto ricevuto da un rappresentante della Chiesa corinzia (2Cor 2,6), la cui vicenda ha avuto esito salutare per l'intera comunità (2Cor 7,8-13). Dopo aver segnalato per quanto possibile il profilo degli avversari dell' apostolo così come emerge dal dialogo epistolare, fermeremo la nostra attenzione sulla risposta paolina di fronte all' accusa di ambizione (10,12-18) e sul successivo tema del «vanto apostolico» (11,1-6).

Gli avversari di Paolo in 2Cor 10-13

Le problematiche e le argomentazioni contenute in 2Cor rivelano I' evoluzione di un conflitto che ha come oggetto la persona di Paolo e la credibilità del suo ministero. Infatti il fronte degli oppositori, abbozzato in 2Cor 1-9, viene riportato in piena luce nei cc. 10-13, dai quali si evincono con maggiore chiarezza le opinioni sostenute dagli avversari dell'apostolo e le ragioni del confronto.

Chi sono gli avversari e quali accuse muovono nei riguardi dell'apostolo? Si tratta di un rilevante gruppo di predicatori giunti a Corinto da altre comunità (2Cor 11,4-5) con «lettere di raccomandazione» (2Cor 3,1), forti della buona accoglienza riservata alloro messaggio (2Cor 11,4.20). Questi tali, nella pretesa di sostituirsi alla predicazione paolina, legittimavano variamente il proprio ministero in contrapposizione a Paolo e all'immagine debole che veniva fatta passare in sua assenza. P. W. Barnett riassume il quadro delle pretese antipaoline di questi «falsi fratelli»: «Nel loro viaggio missionario a Corinto essi sono giunti percorrendo una distanza maggiore, Paolo una minore (2Cor 10,13- 14), hanno "lettere di raccomandazione" (da Gerusalemme?), Paolo non ne ha alcuna (2Cor 3,1-3); sono all'altezza del proprio compito, figure trionfanti, Paolo è inadeguato, una figura meschina che avanza vacillando di sconfitta in sconfitta (2Cor 2,14-3,5; 4,1.16) [...] sono uomini dai poteri divini ("fuori di senno": 2Cor 5,13), "rapiti [...] fuori del corpo [...] in paradiso" dove essi hanno "visioni" e odono "rivelazioni" di ciò che è "indicibile" (2Cor 12,1-5), mentre Paolo vive "nella carne", è un ministro senza poteri e debole (2Cor 10,3-6; 12,1-10; cf. 2Cor 5,12-13). Con ogni probabilità, essi compivano "i segni del vero apostolo" (2Cor 12,12), mentre, sostenevano, Paolo non li compiva. Essi sono versati nell' arte del parlare (2Cor 11,5-6) e nella sapienza, mentre egli nel parlare è "un profano" e in generale un "pazzo" (2Cor 11,5). In tutto inferiore (cf. 2Cor 11,5), mentre essi sono superiori, "migliori" (hyper: 2Cor 11,23)».

Questa situazione conflittuale fotografa i termini del confronto a distanza tra l'apostolo e i suoi oppositori. Ricevute le notizie sull'aggravamento della situazione, a tal punto da sembrare che i giudaizzanti avessero il sopravvento, Paolo ne fu profondamente contrariato ed elaborò una decisa risposta in sua difesa, movendo inevitabilmente a sua volta forti accuse e rimproveri contro i «falsi apostoli».

Possiamo individuare in 1Cor 10-13 una successione di argomentazioni articolata in quattro principali motivi:

1) la risposta all'accusa di debolezza (10,1-11);

2) la risposta all'accusa di ambizione (10,12-18);

3) il tema del «vanto apostolico» (11,1-12,18);

4) le apprensioni e le inquietudini dell'apostolo in vista di una prossima visita (12,19-13,10; i vv. 11-13 costituiscono la conclusione epistolare).

Pur avendo presente il quadro complessivo dell'apologia, la nostra analisi si limita alla pericope 10,12-11,6 e focalizza due motivi paolini che emergono dal testo: la risposta all'accusa di ambizione (10,12-18) e il tema del «vanto apostolico» (11,1-6).

La risposta all’accusa di ambizione (10,12-18)

Per contestualizzare e comprendere i vv. 12-18, consideriamo brevemente il messaggio della pericope precedente (vv. 1-11) che riguarda la presentazione dell' apostolo e la credibilità del proprio ministero a Corinto.

La credibilità del ministero paolino (vv. 1-11)

Nei vv. 1-11 Paolo sollecita i credenti a ristabilire un giusto ed equilibrato clima di fiducia e di verità, fondato su motivazioni spirituali e mosso da spirito di fede e obbedienza a Cristo. Egli si appella al giudizio di tutta la comunità e la invita a una attento discernimento di fronte alle critiche di debolezza che gli erano state mosse; così facendo prende le distanze dall' autocompiacimento di coloro che a Corinto pretendevano essere forti e di avere in loro stessi «la persuasione di appartenere a Cristo» (v. 7). Il vero vanto di Paolo non sta nell' esaltazione delle sue qualità, bensì nel dono elargitogli dal Signore di esercitare l'autorità per l' edificazione degli stessi corinzi. Sono proprio loro che devono aprire gli occhi e non lasciarsi ingannare! Infine, con tono deciso, egli rivendica la legittimità del proprio ministero e conferma la sua linea di comportamento ferma e coerente, sia a parole che per lettera (v. 11).

Il criterio dell'autentico apostolato (vv. 12-18)

Nei vv. 12-18 il confronto con gli avversari si tematizza sull'accusa di ambizione: viene contestato a Paolo il suo «diritto» di apostolo sulla comunità. La domanda che si coglie tra le righe del testo è la seguente: sulla base di quale «misura normativa» (kànon) si esercita il ministero apostolico a Corinto? Chi può rivendicare la legittimità (la delimitazione geografica?) dell'apostolato paolino e arrogarsi il diritto/dovere di darne un giudizio? Paolo espone la sua difesa mettendo a confronto il comportamento arrogante dei suoi accusatori così diverso dallo stile pastorale della sua condotta, ispirata alla regola datagli dal Signore. La sferzante ironia sviluppata nella risposta paolina, permette di cogliere la consistenza degli atteggiamenti pretestuosi e arroganti dei suoi avversari: appellandosi alle loro presunte capacità carismatiche, essi ritenevano Paolo un predicatore privo di qualsiasi credenziale, non potendo egli vantare per se alcuno statuto canonico o normativo di apostolo. Il brano apologetico segue verosimilmente un procedimento letterario di tipo chiastico; il tono generale è vorticoso, emotivo, insieme dimostrativo e accusatorio, tipico del temperamento dell' Apostolo.

La mappa concettuale può essere così espressa:

A Non osiamo paragonarci a coloro che si raccomandano e pretendono di essere «misura» di se stessi...


B
Noi non ci vanteremo oltre misura, ma secondo l’ «unità di misura» che Dio ci ha assegnato...

A’ Non chi si raccomanda da sé è approvato ma colui che il Signore raccomanda...


B’
Abbiamo la speranza della crescita della vostra considerazione secondo la nostra «misura», senza vantarci...

Osserviamo le corrispondenze letterarie e tematiche del testo.

In A (v. 12) viene presentata la posizione degli oppositori, i quali pretendono di essere «norma a se stessi», rifiutando con il loro atteggiamento arrogante e autoreferenziale, di commisurarsi alla norma divina. In questa linea va compreso l' accenno alle «lettere si raccomandazione» usate dai suoi avversari a Corinto, per le quali già precedentemente egli ha avuto parole di riprovazione (cf. 2Cor 3,1; 5,12 cf. At 18,27).

In corrispondenza chiastica si pone A' (v. 18), che riprendendo il tema del raccomandarsi (synistêsin) in risposta agli oppositori, afferma che è il Signore (ho kyrios) l'unico protagonista e garante di ogni apostolato. Al centro della struttura si trovano dialetticamente B (vv. 13-15a) e B' (vv. 15b-17).

In B Paolo incalza i falsi apostoli tacciandoli di presunzione. La descrizione è pungente e sarcastica: essi ostentano sicurezza, reputano di essere «misura a se stessi» e si vantano «oltre misura», con atteggiamenti di arrogante sazietà e presunta perfezione. A questa posizione Paolo contrappone il suo stile missionario (si noti in v. 13 l'uso enfatico di «noi» che mira a coinvolgere l'intera comunità dei credenti) basato sull'azione divina manifesta nella sua attività evangelizzatrice: egli ha fondato la Chiesa che è a Corinto secondo «l'unità di misura» che Dio gli ha assegnato come «norma». Per tale ragione i Corinzi possono riconoscere che il diritto apostolico di Paolo è ben motivato e in virtù dell' efficacia della predicazione evangelica, la sua pretesa missionaria non risulta intrusiva, ne il suo vanto pretestuoso. Corinto è, dunque, il suo legittimo campo di lavoro, mentre i suoi oppositori pretendono di appropriarsi delle «fatiche altrui» e vantarsi di un opera apostolica che non appartiene loro (cf. Rm IS,20s).

Al gioco di contrasti e di ironie elaborato nei vv. 13-1Sa si contrappongono in B’ i contenuti autentici e le attese della missione assegnata da Dio a Paolo secondo la sua «misura». Egli auspica anzitutto per i credenti di Corinto il pieno riconoscimento della legittimità della predicazione evangelica svolta da lui nella città achea, ma nel contempo egli desidera estendere la sua attività missionaria molto più in là della Grecia, verso quei territori occidentali (Italia, Spagna?) non ancora raggiunti dal vangelo. Nel brano si segnalano tre affermazioni che fanno emergere la grandezza e la passione apostolica di Paolo: egli non intende paragonarsi a coloro che si raccomandano da se stessi, i quali mancano di comprensione, ma ha scelto di vivere lo stile apostolico sul modello voluto da Dio; inoltre, non vuole vantarsi delle fatiche di altri evangelizzatori, ne vuole appropriarsi di meriti altrui (è chiaro l'intento polemico contro gli avversari); egli, infine, desidera presentarsi ai corinzi in tutta umiltà e sincerità per far crescere la loro fede e la loro considerazione, in vista dell'annuncio del vangelo alle regioni più lontane. In definitiva, da queste rapide battute emerge tutto l' animo pastorale di Paolo, la sua preoccupazione ecclesiale e soprattutto la lungimiranza della prospettiva missionaria.

Il vanto di essere e di vivere come apostolo (11,1-6)

Uno dei motivi centrali dalla pagina paolina è quello del «vantarsi». Nella sua difesa egli ha ironizzato sul vanto dei giudaizzanti (10,12.15.16) facendo culminare la requisitoria al v. 17 con la citazione di Ger 9,22-23. A differenza dei suoi oppositori che ostentano vanagloria, l'apostolo sostiene che l'unico vanto possibile consiste nel gloriarsi nel Signore. Avendo come sfondo questo motivo, Paolo assume ora un tono sorprendentemente ironico e «drammatico». Egli si presenta come attore in una scena, «vantando se stesso» e impersonando il ruolo del «folle», quasi rapito da uno «sdegno divino» che lo spinge a «mettersi la maschera» per smascherare i suoi avversari. Del singolare discorso di 2Cor 11,1-12,18 intendiamo mettere a fuoco solo il primo movimento che è circoscritto nei vv. 1-6, i quali si articolano in tre piccole unità (vv. 1-2; vv. 3-4; vv. 5-6), introdotte rispettivamente da tre verbi (sopportare, temere, ritenere).

«Sopportate un po' di pazzia»! (vv. 1-2)

L'esordio del «discorso del folle» è costituito dall'invito rivolto ai corinzi a sopportare un poco della sua pazzia. Infatti, è vera pazzia vantarsi di se stessi! Tuttavia poiché la comunità è disposta a tollerare (e ad approvare) i vanti dei falsi apostoli che hanno riscosso tanto successo, anche Paolo sceglie di parlare loro da «insensato» per mostrare il vero volto di simili dissimulatori. Se egli è costretto a scendere su questo terreno, è per impedire che i corinzi si lascino traviare dai giudaizzanti. Al v. 2 segue un'efficace metafora con cui l' apostolo presenta il proprio ministero e introduce l' idea della comunità come «sposa di Cristo». Per la missione ricevuta da Dio Paolo assume il ruolo dell' «amico dello sposo» (paraninfo), il quale, come è consuetudine tradizione matrimoniale giudaica, viene incaricato di vigilare sulla fedeltà della «sposa» e di condurla pura e casta al giorno delle nozze (così per il Battista: cf. Gv 3,29-30). Qui non per un rapporto di possesso, ma di autentico servizio, egli si mostra «geloso» della sua comunità, in quanto essa appartiene a Dio e il suo compito apostolico non potrà considerarsi concluso fino al giorno in cui si realizzerà l' «unione sponsale» . Nella linea teologica veterotestamentaria l'immagine impiegata presuppone anche l'idea escatologica delle nozze messianiche, conferendo all'applicazione paolina la prospettiva del compimento futuro in attesa della parusia. L'efficacia della metafora impiegata ci fa capire quanto Paolo amasse la sua Chiesa da lui fondata e, nello stesso tempo, quale fosse lo stile pastorale del suo ministero a Corinto: servire la comunità non come luogo di auto affermazione della propria persona o dei propri interessi, bensì mettendo al centro delle sue preoccupazioni e del suo lavoro il bene dei cristiani e l'integrità de loro cammino verso Dio.

Un cristianesimo in crisi (vv. 3-4).

Tuttavia l' apostolo teme che la Chiesa di Corinto rompa la sua relazione sponsale con Dio. L'espressione del timore posta enfaticamente all'inizio del v. 3, rivela il pericolo dell'infedeltà dovuto alI' opera di seduzione (phtharê: essere corrotto) da parte dei predicatori eretici. Il contesto polemico spinge l' apostolo a collegare l' opera dei falsi apostoli con quella del serpente che sedusse Eva (cf. Gn 3), inducendola a peccare contro la semplicità e la purezza, secondo una reinterpretazione rabbinica. Paolo vuole dire che è in atto a Corinto un processo di seduzione diabolica (cf. 11,14-15) che sta conducendo i cristiani fuori dal progetto di Dio. Tuttavia, ciò che sembra incredibile è il fatto che la comunità, succube del «primo venuto» (v. 4), è pronta ad accettare la predicazione di un «altro Gesù», a ricevere un «altro spirito» e ad accogliere un «vangelo diverso» da quello di cui fu lui stesso proclamatore. Le sue parole ammonitrici sono fin troppo eloquenti: la crisi di Corinto investe la natura stessa del cristianesimo. In questa vicenda non è in discussione solo l' apostolato paolino, bensì la realtà stessa della Chiesa e del suo futuro in quelle regioni. La preoccupazione pastorale di Paolo trasuda da questi versetti: egli richiede ai corinzi un supplemento di corresponsabilità al fine di evitare la dispersione e il fallimento; per questo è ora disposto a fare tutto il possibile per ridare autorevolezza all'annuncio evangelico che quei cristiani stavano perdendo irreparabilmente.

Il vanto dell'apostolato (vv. 5-6)

Ripartire dall'autorità del suo apostolato, riscoprire la paternità del suo ministero, dare fiducia, sicurezza e speranza a quanti si erano lasciati convincere dai giudaizzanti: ecco l'obiettivo primario che Paolo si pone in questo ulteriore passaggio. Dopo aver descritto lo stato in cui versa la Chiesa corinzia minacciata dall'eresia. nel v. 5 egli dichiara a apertamente la legittimità di essere «apostolo», non inferiore ai suoi oppositori, che definisce ironicamente «superapostoli» .Al confronto con le doti e l' operato dei predicatori eretici, Paolo riconosce di non possedere come loro l'arte dell'eloquenza, ma ribadisce che questa dote è di minore importanza rispetto alla priorità della conoscenza di Dio, che comporta l'interiorizzazione del vangelo e presuppone il dono dello Spirito (cf. 1Cor 2,1-5). Di questa «conoscenza», intesa come esperienza profonda del mistero della rivelazione di Dio, l' apostolo ha dato ampiamente prova a tutti e in ogni occasione, come è testimoniato dalla missione apostolica svolta a Corinto. «In breve, non la retorica, bensì la nuda predicazione del crocifisso qualifica la missione di un vero apostolo».

Conclusione

Le linee che emergono dalla rapida lettura proposta tratteggiano la figura dell' apostolato paolino in tre prospettive, che risultano di straordinaria attualità per l'oggi della Chiesa. Una prima prospettiva è data natura stessa del suo ministero pastorale. Annunciare il vangelo in un «mondo che cambia» come quello di Corinto, implica un persistente atteggiamento di ascolto e di interpretazione delle vere domande che emergono dalla vita quotidiana e dalle sue sfide. Una seconda prospettiva è rappresentata dalla dimensione «agonica» dell'apostolato. Corinto diviene un esempio della «lotta per il vangelo» (cf. Rm 15,30-32), che vede Paolo protagonista di uno scontro giocato non solo sul piano della credibilità personale, ma su quello della dimensione ecclesiale: questa crisi ha conseguenze vitali per la diffusione del vangelo in tutte le Chiese. Una ultima prospettiva concerne la spiritualità missionaria dell'apostolo. Nella foga apologetica Paolo mai dimentica il riferimento alla «misura» data da Dio. Criterio decisivo di ogni ministero è Dio stesso, la sua misteriosa presenza, di cui l'apostolo ha fatto esperienza diretta nel corso della sua vita (cf. 2Cor 12,2-4). Non la retorica, ne il consenso delle masse egli ha bramato, ma solo Dio! Comprendiamo quanto affermerà subito dopo: quella «debolezza» in Cristo decantata da Paolo, diventa prezioso seme che feconda la Chiesa, unico motivo di vanto che «dalla polvere» umana si" eleva verso Dio.

(da Parole di vita, 6, 2002)

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