Vita nello Spirito

Lunedì, 20 Ottobre 2008 23:55

Come San Benedetto, nel capitolo VII della sua Regola, concepisce l’uomo e lo forma - 1 parte (Dom Denis Huerre )

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Visione e formazione dell'uomo
nel capitolo VII della Regola di S. Benedetto

 

Come San Benedetto,
nel capitolo VII della sua Regola,
concepisce l’uomo e lo forma

 

Riflessioni di Dom Denis Huerre abbate emerito Pierre-qui-vivre e preside emerito della Congregazione Benedettina Sublacense




 

(prima parte)

 

Per me la Regola di San Benedetto è un libro modernissimo. Quando si fa un’edizione della RB con una scelta delle pagine più spirituali o più attuali, per me è un po’ uno scandalo, perché questo testo costituisce una unità e tutto è importante, per comprendere la mentalità e lo spirito di San Benedetto. Con le scoperte che faccio ancora, di anno in anno, amo la Regola sempre di più.

 

Mi interessa molto riflettere e studiare su: ”l’Uomo nella RB”. Da alcuni anni ho cominciato un lavoro che mi era stato consigliato da P. Congar: facendo un paragone tra la concezione dell’uomo nel tempo di San Benedetto e l’uomo di oggi, mettere a fuoco come sia possibile oggi, riconoscersi in una regola scritta ormai tanti secoli fa. Sarebbe importante anche fare un lavoro sul “desiderio” nella vita e nella vocazione monastica; è una questione difficile, lavorata spesso dai filosofi ma non so quanto da noi cristiani e da noi monaci.

 

Cerco poveramente di precisare il desiderio, e il desiderio dell’uomo, nella Regola. E’ chiaro che per San Benedetto la vita monastica consiste nel cercare Dio. Il desiderio è tutto per noi. Senza desiderio non c’è vita monastica, non c’è vita umana. Ho cercato di riflettere e di lavorare su questo punto, parlando anche con monache e con monaci;e vi parlerò senza pretese, come un ricercatore.

 

Io penso che nella Regola di San Benedetto noi abbiamo un libro perfettamente cattolico, nel senso antico del termine. Intendo dire che questo libro ha saputo presentare una vita cristiana, una vita monastica senza i pericoli abituali, pericoli identici ieri come oggi.

 

I - Nella Regola non si trova nessuna traccia di millenarismo. Millenarismo: è una parola che dice tante cose. All’inizio della vita cristiana, a causa dell’atmosfera apocalittica, a causa del mistero del male e della contraddizione tra lo stato e la Chiesa nascente, ci fu spesso il desiderio intenso di un’epoca di pace, di giustizia da realizzare finalmente sulla terra. Questo desiderio è normale.

 

Il problema più delicato a cui dare una spiegazione per noi, per i nostri fratelli, soprattutto ai più giovani, ai novizi, è il problema del male, del peccato. In genere, si dice il problema del male, ma noi cristiani diciamo”il problema del peccato”: è la stessa cosa. Da dove viene il nostro peccato? E’ la cosa più difficile a cui dare una spiegazione, e per noi, la cosa più difficile da vivere, come dice la S. Scrittura. Siamo santi, pur essendo ancora peccatori: la questione è questa.

 

Subito dopo la risurrezione è nata perciò la speranza di una vita senza peccato. E’ una cosa interessante, perché si verifica oggi ancora. Per esempio, consideriamo lo stato attuale di Israele. Quando sette anni fa, dopo essere stato in Germania, sono andato in Israele e ci sono rimasto cinque settimane, ho constatato la grande crisi che attraversava allora. Perché questo stato che aveva una costituzione nuova, non ”ebraica” nel senso della religione rivelata, ma impregnata comunque di mentalità biblica, non sapeva spiegarsi il perché del suo trovarsi di fronte agli stessi problemi dei nostri paesi dell’Europa centrale: la droga, la violenza ecc. Era un grande scandalo per loro: in quanto ebrei non sapevano accettare la povertà della condizione umana.

 

Anche per noi cristiani è un grande mistero. Ed è per questo che subito dopo la morte di Cristo, molti hanno pensato alla realizzazione del loro desiderio di una vita cristiana come se fossero già risuscitati, nella gloria, forse. Ma ciò non è possibile. Come fare allora? La concezione del millenarismo (come di un’epoca di mille anni di giustizia e di pace sulla terra) è divenuta frequentissima, nei Padri. Anche S. Ireneo ha avuto un po’ di simpatia per questa maniera di pensare, come quasi tutti i pensatori antichi, del resto. S. Agostino ha dato la risposta che ancora si dà a questa questione (cfr. Apoc. 20), e che è divenuta abituale. No, non è possibile che sulla terra ci sia un’epoca storica di mille anni di pace, prima del cielo…. . La storia che viviamo e il tempo della Chiesa, tempo che non ha delimitazioni.

 

Eppure il desiderio di un tempo di “mille anni di pace” è sempre ritornato nella Chiesa ed era frequentissimo, ancora nel Medioevo. Oggi ancora è una maniera frequentissima di pensare, nei nostri fratelli cristiani chiamati ”integristi”, che conservano il desiderio di una chiesa “purissima”. Ma questo non è possibile.

 

Abbiamo quindi nella Regola un libro magnifico, in cui si espone una visione totalmente chiara sulla condizione umana. San Benedetto non lascia nessuna illusione su questo punto. Non c’è sulla terra la possibilità di una vita “perfetta”. Analogamente. è diffusa tra i monaci la teologia della vita “vita angelica”. Nemmeno di questa troviamo traccia nella Regola. Non so se conoscete P. BOUYER, Le sens de la vie monastique: egli ha molto sviluppato questo punto, riprendendo una concezione diffusa anche in Oriente: i monaci hanno preso il posto degli angeli decaduti e sono divenuti come gli angeli, sulla terra. Sarebbe cioè la concezione della “bios aggeliké”, cioè della vita perfetta realizzata da sé sulla terra.

 

Non è questa la concezione di San Benedetto. Per questo la Regola è un libro interessante, anche a questo proposito. Vi propongo una formula, che è come il riassunto della Rb. : ”per noi, la vita monastica consiste nell’andare a piedi dalla casa di Dio che è il monastero alla casa che è Dio”. E’ quasi un gioco di parole, ma facile da capire. Andare dalla casa di Dio che è il monastero, alla casa che è Dio. Dio come “casa”, come “luogo” nostro. E camminare. La vita monastica consiste per noi uomini nell’andare-a piedi-dal monte santo di Dio e non essere una Gerusalemme celeste sulla terra. (Sia detto così, semplicemente, ma senza sfumature, rapidissimo).

 

II - Per me non c’è traccia, nella Regola, di gnosticismo. Anche questa è una tentazione permanente, per noi monaci.

 

Gli gnostici pensavano che Dio avesse scelto fra gli uomini alcuni per la conoscenza perfetta di Dio ed altri, poveri, che avrebbero vissuto senza conoscere Dio. Da una parte i puri, i perfetti, e dall’altra i “poveri”, non nel senso evangelico, ma come “poveri uomini”. Si tratta anche qui di un’eresia. Lo gnosticismo è un’evasione dalla condizione umana. San Benedetto non ha mai usato la parola “perfetti” per definire i monaci;è una parola che non si trova mai nella RB.

 

Dom Adalbert De Vogué, che è monaco del mio monastero, ci tiene moltissimo alla definizione - recente ma antica - del monachesimo come “vita perfetta”. Si tratta per lui di una definizione, non di una chiamata o di un desiderio.

 

Ma io non sono a mio agio con questa definizione e non mi sembra sia quella di San Benedetto. Certo, quando la gente comune pensa ai monaci, pensa ad essi come a uno stato di “vita perfetta “. E non è vero.

 

Non si trova traccia di gnosticismo in San Benedetto, cioè dell’eresia secondo la quale la conoscenza di Dio è di natura intellettuale ed è riservata a una minoranza. Non c’è traccia in lui di disprezzo per la carne, per la condizione umana, per la vita sulla terra. Si tratta semplicemente della nostra vita. Non c’è in lui nessuna evasione fuori dal corpo, ma incorporazione al corpo comunitario, che è la Chiesa. Ancora un gioco di parole, che tuttavia è importante, per noi cristiani. Non essere fuori dal corpo, ma essere incorporati alla Chiesa che è il Corpo di Cristo. In tutti questi casi il corpo umano ha un senso, non si tratta soltanto di un termine di paragone. E’ veramente un luogo, nella nostra vita.

 

Dunque, è importante non dimenticare questo aspetto, che tutti conosciamo bene: per noi cercare Dio non è uno sforzo intellettuale riservato a una minoranza.

 

III - Nella Regola non c’è nemmeno traccia di arianesimo. Questo punto è adesso ben studiato e conosciuto. La Regola è un testo pienamente cattolico, trinitario.

 

Per esempio, il cap. VII si chiude con un accenno all’opera della SS. ma Trinità nella nostra vita. Questo testo è la sommità della vita monastica, e lo vedremo. Per me è chiaro che per San Benedetto, Cristo è Dio, uomo e Dio. Ario amava profondamente Cristo, ma non avrebbe potuto dire che Cristo era Dio. L’arianesimo costituiva un grave pericolo all’epoca di San Benedetto: la chiesa ariana adorava Dio Padre ed amava Cristo, ma non poteva dire di “adorare” Cristo. Invece, la Regola di S. Benedetto presenta una Chiesa dove l’umanità adora il Cristo, come suo Signore.

 

Derivano di qui molte conseguenze per la nostra vita pratica, come vedremo.

 

IV - E’ evidente che nella Regola non si trova traccia di ateismo. Non c’è più per noi una vita profana, una vita secolarizzata, anche se noi diamo alla “terra”un senso conveniente. Chiamerei tutta la vita “con Dio”, l’umanità “con Dio”.

 

A) Lasciamo ora questi punti, che servivano soltanto come introduzione, e prendiamo “L’uomo nella Regola”

 

Per me è stata una scoperta rendermi conto che la RB, a differenza delle altre regole a lui contemporanee, ha avuto il coraggio di mettere il Decalogo. San Benedetto ha voluto espressamente ripetere ai monaci che vengono al monastero”Non uccidere” ecc…Come mai? In genere, un postulante che viene al monastero non pensa di commettere un adulterio o fare furti o altre cose del genere, ma S. Benedetto ha detto così. Perché? In questo senso per me la Regola è un documento modernissimo.

 

Le generazioni del nostro tempo hanno molto riflettuto sulle “regole”, sia per rifiutarle, sia per accettarle. Non siamo lontani dal ’68. Si è molto discusso allora sulle “regole”: non comandare, non proibire, non rifiutare…. perché l’uomo non sarebbe più libero, mentre bisogna lasciare vivere l’uomo. Era una eresia umana. Da allora si è molto riflettuto su questo. Perché?

 

Non è possibile vivere né in due, né in tre, né in cinque, in venti, in cento, né fare una città, una comunità anche solo industriale, senza una regola. Perché ciascun uomo ha un solo pensiero inconscio e: quello di farsi il centro di tutto.

 

Il Decalogo è una parola divina, perché permette agli uomini di vivere insieme, dicendo a ciascuno: ”non uccidere, non fare questo o quest’altro”. E la psicologia moderna ha ben scoperto che l’inconscio di ciascuno di noi non pensa ad altro che ad uccidere, a prendere la donna d’altri o l’uomo dell’altra, a prendere i suoi, beni a prendere la sua reputazione… prendere tutto per essere centro. Succede anche nelle nostre comunità, nei nostri noviziati: basta che ci siano due o tre novizi insieme, che comincia la gelosia. Ma il peccato della gelosia non è riservato in nessun modo soltanto ai novizi. Quando emerge nei professi, dopo tanti anni, diciamo, ”pazienza, sono vecchi”. Ma nei giovani… dopo due o tre mesi di monastero, fanno proprio come in famiglia: quando nasce un fratellino il primo è furibondo.

 

Dunque, la Regola manifesta chiaramente che l’autocentrismo è impossibile se il monaco è fedele a ciò che prescrive il Decalogo, e a tutte le sue indicazioni. Tutto nella Regola, es. il cap. IV, è in vista di permettere all’uomo di nascere di nuovo, per non essere più l’uomo “centro”, come un bimbo, che prende tutto per lui. L’autocentrismo non è la stessa cosa dell’autismo, che è una malattia grave, ma è una cosa diversa. L’autocentrismo è banale, è una cosa corrente. E l’abbiamo ancora noi vecchi e forse… con una lotta maggiore.

 

P. Adalbert De Vogue dice una cosa bellissima quando afferma che la Regola è un testo per l’educazione di un monaco, una guida spirituale;è il libro del maestro e del discepolo per l’educazione del monaco. Così il cap. IV, sempre per P. Adalbert, è stato scritto nella maniera più completa possibile per dire in che modo tutto deve contribuire alla santificazione del monaco, per vivere con Cristo, nella fede. Sempre secondo P. Adalbert, S. Benedetto non fa un richiamo troppo insistente, come Cassiano, all’amore. Cassiano come Benedetto, certo, ha messo la carità sopra di tutto, ma per Cassiano la carità “perfetta”è divenuta la vita del monaco. Benedetto non dice così. Non c’è nessuna età che abbia ancora acquistato la carità perfetta. Siamo sempre nella lotta. E questo è magnifico a dirsi ai nostri giovani, ai nostri novizi, quando si scandalizzano degli anziani. Succede ancora frequentemente che i novizi, e non solo i novizi, restino facilmente scandalizzati da noi, anziani. La vita monastica è così.

 

Quindi, il decalogo nella RB, ricchezza di prim’ordine, cosa interessantissima. Perché il giovane che bussa al monastero e sembra essere un angelo, in realtà è un diavolo, perché pensa ad uccidere. Non certo in maniera cruenta, versando sangue; ma uccide, elimina.

 

B) San Benedetto ha dato un’importanza chiara alla libertà. Ha stabilito un tempo di noviziato molto lungo, quando prima di lui il noviziato era brevissimo oppure non esisteva. Penso che per la RM sia soltanto di due mesi, mentre prima della RM l’ammissione era spesso immediata. Quando il candidato bussava alla porta, era monaco. Di lì l’importanza delle maniere un po’ brusche degli anziani incaricati dell’accoglienza. Ma una volta che la porta era aperta, il monaco era monaco per tutta la vita.

 

San Benedetto invece ha deciso di stabilire un anno di noviziato, e un anno è enorme, se lo si paragona ai due mesi della Rm o all’ammissione immediata, usuale ovunque. Ciò è per manifestare la libertà del noviziato: Una volta che la porta gli è stata aperta, nel corso della formazione, la sua libertà è messa a prova tre volte, quando gli si legge la Regola. Sono gli ”scrutini” della vita monastica: scrutare la verità e la libertà del monaco che parla (come ad esempio, gli ”scrutini privati” della visita regolare).

 

Dall’inizio della Regola San Benedetto sottolinea la libertà del monaco, quando parla del giudizio di Dio: il monaco è un uomo che sarà sottomesso al giudizio di Dio: si tratta di una grande nobiltà, perché mai un animale verrà sottomesso a giudizio Se un uomo è giudicato da Dio è perché è libero.

 

Ricordate J. P. Satre: come educazione familiare, come estrazione familiare era cristiano ma non cattolico, protestante. Dice egli stesso di aver rifiutato quel Dio che gli aveva presentato sua madre con l’immagine di un giudizio continuo: gli”occhi di Dio” fissi su di lui. La mamma, che era buona ma forse non era molto intelligente, gli diceva sempre ”Dio ti guarda”. E J. P. Satre aveva finito col dire: questo Dio non mi interessa.

 

Per San Benedetto, Dio costantemente guarda a noi dal cielo, ma con la grande differenza che esiste tra ”vegliare su qualcosa” e”sorvegliare”. Per S. Benedetto, il nostro Dio veglia su di noi, e aspetta. Non condanna, come il Dio presentato a J. P. Satre dalla sua mamma; non sorveglia, ma veglia su di noi:

 

Inoltre, quando noi parliamo del giudizio di Dio, intendiamo oggi la condanna di Dio. Ma un giudizio non è a priori per la condanna o per la dannazione. Sottometter a giudizio è sottoporre un uomo all’evidenza del bene che ha fatto. Viene soppesata la sua libertà.

 

C) Un altro modo in cui S. Benedetto manifesta la sua stima per la libertà dell’uomo è la così poca importanza in cui tiene il mondo angelico. P. Adalbert de Vogue ha ben detto tutte queste cose, e ho preso molto da lui. Anche questo disprezzo per il mondo angelico è interessante. Perché? Si tratta ancora di un elemento costante della vita cristiana, della vita umana!saper trovare un punto di contatto con gli angeli, con i demoni. Quanti si interessano ai segni dello zodiaco ecc. per saper quando gli spiriti influenzano o meno la loro anima…. o alla buona sorte! Quanti uomini politici in tanti paesi, anche in Francia, hanno consultato cose di questo genere prima delle elezioni per sapere se avevano possibilità di riuscita! Gente peraltro intelligentissima! E' curioso, quale fascino eserciti questo mondo ignoto eppure presente. Ed è anche un pericolo.

 

E quando San Paolo scriveva ai cristiani di Corinto o altrove “non perdete tempo a cercare le genealogie degli angeli o dei demoni… non saprete mai come questo mondo è organizzato…” intendeva la stessa cosa: l’unica cosa importante è sapere che Cristo ha vinto tutto, e tutto ha messo sotto i suoi piedi. Rimane un mistero. E’ normale che gli uomini, ancora adesso, siano tanto interessati da questo mondo oscuro. Ma per noi cristiani, non è la stessa cosa: Cristo ha vinto tutto. Ed è la stessa posizione di San Benedetto.

 

P. Adalbert, a suo modo, dice la stessa cosa e fa alcuni esempi. Egli rileva che il Maestro fa volentieri dei riferimenti al diavolo. Non mi ricordo più il numero esatto, ma forse parla del diavolo 20 volte. Credo che San Benedetto ne parli 2 o 3 volte: quando parla della notte (per non dare occasione al diavolo);quando il monaco ha voluto andare via. Il terzo caso dice ancora in modo più esplicito l’intenzione di San Benedetto, quando riprende il testo della RM e lo modifica. Là dove il Maestro indicava il diavolo, Benedetto scrive”il monaco si crea sempre responsabile”. E’ troppo facile dire: ”è il diavolo”. No, dice San Benedetto, è il monaco, che è sempre responsabile.

 

P. Adalbert dice - e per me è vero - che per San Benedetto la lotta spirituale è contro il mondo diabolico. E’ certo. Ma praticamente la lotta è tra la nostra libertà e il Cristo.

 

D). La questione più importante per noi è quella della obbedienza.

 

E’ certo. Ma se il monaco fa tutto quello che gli è ordinato senza amore, non vale niente. Ciò che conta è la sua libertà. Quando un maestro dei novizi o un abate hanno ben meditato questo punto, come provocare nel monaco l’amore per Cristo, dunque la libertà spirituale, c’è vera obbedienza. Ma se il maestro o l’abate fanno della comunità o del noviziato un corpo ben ordinato, forse non vale niente. Come dirlo? E’ difficilissimo.

 

Vi darò un esempio. Quando ero giovane abate, credevo un po’……nelle cose impossibili. E amavo dire ai monaci: ”la sera, dopo i Vespri, è finito il tempo per il lavoro. E’ il tempo della preghiera”. Si, è vero…. ma solo come principio. E dicevo: ”sarebbe bene che i monaci siano presenti alla Chiesa per pregare, perché il luogo della preghiera è la Chiesa”. E a poco a poco ho visto…. . la Chiesa piena di monaci. E ho avuto paura . La nostra comunità della Pierre-qui-vivre è buona, veramente buona. Un po’ numerosa, 100 monaci, una grande famiglia, ma veramente buona. Lo spirito è semplice. ”Cristo ha detto…” (l’abate è Cristo) ”andiamo in Chiesa…” E tutti sono andati in Chiesa. E’ stato un grande pericolo. Non ho più ripetuto questa cosa: era troppo grave, come di instaurare il meccanismo. L’obbedienza allora non è più obbedienza, quando diviene una specie di decalco. Se cioè la volontà dell’abate diviene la volontà dei monaci perché sono buoni. E’ vero che è buono di andare in Chiesa. Ma dov’è allora la libertà?

 

Un’obbedienza veramente umana, libera, non vuol dire che presupponga l’ascesi, una formazione, l’apprendimento iniziale di un …. meccanismo. Quando un giovane viene al monastero, gli si presenta certo l’orario, la vita della casa: e se non gli piace è liberissimo di andarsene. Un certo condizionamento è normale: ad esempio l’uniformità dell’abito, o la liturgia… Ma se attraverso la sua formazione, un monaco non diviene un uomo che fa tutto quello che fa per amore di Cristo, non è veramente un amico di Dio. Potrebbe forse diventare uno schiavo. E’ grave dire così, ma anche dei grandi uomini, come ad esempio Geoffroy Bélorgey, abate di Citeaux, dicevano che è possibile avere dei monaci…. . senza Dio. E’ terribile, ma è così. Dunque, la libertà è la nota principale della vita cristiana e quindi monastica.

 

Altri punti vitali: per il refettorio, ciascuno si aggiusterà per la sua porzione con i piatti che vengono offerti, come dice S. Benedetto, scegliendo secondo le sue possibilità tra o una cosa o un’altra. Ogni persona ha dei bisogni particolari, a semplice livello fisico, per il suo equilibrio corporale. Per questo San Benedetto dice: ”se un piatto non va bene per lui, prenda dell’altro”!Ma quando io sono entrato in noviziato, non era così: bisogna servirsi assolutamente di quello che era servito. Non è però il pensiero di San Benedetto.

 

E) Prendiamo altri esempi di cose più importanti, per dimostrare l’umanità di San Benedetto: il prezzo della terra.

 

Nel cap. VII° abbiamo la scelta di Giacobbe. E’ interessante. Quando Giacobbe ha fatto questo sogno, vuol dire che quando dormiva aveva realizzato che Dio non era lontano da lui. Dio è con Giacobbe. Ha preso una maniera semplice per dimostrare la presenza di Dio: una scala con degli angeli in movimento. Dio è con Giacobbe. Quando si è svegliato, ha preso la pietra su cui dormiva e che in un certo modo gli serviva da guanciale, ed ha fatto un gesto che corrisponde alla costruzione di una Chiesa. Ha innalzato una pietra, a mò di altare, per lasciare un segno della presenza di Dio.

 

S. Benedetto ha ripreso la stessa immagine, per affermare: ”Veramente, Dio non è lontano dai monaci”. Ma gli intermediari non sono gli angeli, ma “il corpo e l’anima dell’uomo”, cioè la vita umana. Dunque, non c’è niente di più utile per noi della vita umana, per trovare Dio. Non c’è più niente di più utile per noi, che il corpo e l’anima.

 

Questo è importantissimo. E quando un monaco dice: ”oh, morire per sempre con Dio”, e non è una cosa rara, a me non piace. Dove andare per trovare Dio. Come è lontano San Benedetto dalla maniera naturale di vedere la vita monastica, cioè vicino agli angeli, cioè di uomini che per la scienza intellettuale hanno trovato Dio…. No!La vita umana. E’ come dire che per noi ora non c’è maniera migliore di essere uniti a Dio che vivere pienamente ciò che stiamo facendo: niente è più utile, più buono , più santo per noi. Adesso siamo santi: se il nostro spirito in questo momento è totalmente presente, vivente per Dio, senza malizia, e senza pensieri estranei. Siamo già nella santità.

 

Mi sembra importante ripetere spesso queste cose ai nostri fratelli. Per San Benedetto la vita monastica non è soltanto la liturgia: anche in questo è lontano dal parlare della vita monastica come “bios aggelikè”. E’ vero che quando noi siamo nella liturgia siamo, forse, più vicini a Dio. Magari perché è il luogo migliore per rinnovare le nostre intenzioni, le nostre scelte, le nostre parole, per trovare l’assunzione delle nostre cose(e anche le formule esatte…. . per le lettere o cose così)perché siamo vuoti, e lo spirito si trova libero. In linea di principio, nella liturgia siamo più vicini a Dio, e quindi l’unione con Dio appare come ideale vissuto più pienamente nella Chiesa, nell’Ufficio. Ma per San Benedetto l’unione con Dio si vive dappertutto, a tutti i momenti. E in se non è meglio essere nel giardino, o nell’Ufficio, o nella Chiesa, o al lavoro. E’ il prezzo della terra. La scala di Giacobbe è un esempio che mi ha riempito di gioia quando ne ho capito il significato.

 

F) Continuerò fino ad arrivare al punto più alto. Prezzo ancora del lavoro, di qualunque genere sia, intellettuale oppure manuale.

 

Nella Regola tutta la vita si riassume nella parola “gloria”!. La nostra vita è tutta una dossologia. Nella Regola tre volte la vita monastica è presentata come dossologia: l’uomo celebra la gloria di Dio nell’ufficio divino(in cui Dio è presente), nell’accoglienza degli ospiti, e nel dedicarsi al lavoro manuale.

 

Le cose che vendiamo nei magazzini dei nostri monasteri: si dice”ben fatto-ben venduto”. Allora il cliente esclama: ”gloria a Dio!” . L’amore di Dio ha per Benedetto il peso che nella lingua cristiana dell’antichità aveva la”gloria di Dio”, come nella Bibbia. Adesso non abbiamo più la stessa concezione e quando parliamo di gloria ha un po’ un senso deteriore, come “vanagloria”. Ma la gloria di Dio è la presenza di Dio. Dunque quando un cliente viene nei nostri monasteri, deve poter dire a proposito dei frutti del nostro lavoro: ”gloria a Dio!”. Non dobbiamo avere dei sentimenti di falsa vergogna per il nostro commercio: no. Ben fatto, ben venduto: Dio è presente.

 

Ma non è facile. Perché la credulità della clientela è grandissima. Se ci mettiamo a vendere dell’acqua pura con una bella etichetta”Acqua benedetta dei monaci”, si venderebbe benissimo. Noi alla Pierre-qui-vivre facciamo un po’ di ceramiche e di vasellame, e il fratello incaricato delle vendite riesce a vendere tutto, anche le tegole, perché sono fatte dai monaci. E i nostri vicini che fanno della ceramica non trovano invece dei clienti, ed hanno detto a noi: ”Non è onesto. Voi monaci avete il vantaggio considerevole di essere dei monaci, e traete vantaggio dalla credulità della gente”. Potremmo infatti anche essere disonesti, mentre i nostri vicini non riescono a far tornare i loro conti.

 

E’ normale che una Casa di Dio abbia annesso un piccolo magazzino per la vendita dei propri prodotti. Talvolta siamo giudicati per questo, o ci sentiamo nel ridicolo. No. E’ normale. Siamo gente che vive sulla terra.

 

G) Un altro esempio dell’umanità di San Benedetto, che, una volta scoperta, è fonte di una grande gioia. Parliamo ora dell’apertura del cuore.

 

S. Benedetto non ha gli scrupoli del Diritto Canonico. E’ un libro molto più antico. La vita della Chiesa ha dimostrato che l’apertura del cuore(come…il commercio, di cui parlavamo poco fa)non è facile. E’ possibile che un abate o una badessa siano un po’ troppo pressanti per avere l’apertura del cuore;contro questi abusi la Chiesa si è pronunciata esplicitamente affermando che se non è un gesto libero non è bene.

 

Ma S. Benedetto non fa problema. Egli prende le questioni su un piano riuscito. E prende il caso normale in cui l’abate sia veramente abate e il monaco desideri veramente Dio. Allora, normalmente, prendendo questi due punti, cioè il caso di un abate veramente abate e di un monaco veramente uomo di Dio, uomo del desiderio, allora l’apertura del cuore si fa bene.

 

Che nobiltà per l’uomo! Aprire il proprio cuore, cioè il luogo più segreto e più imprevedibile, e liberamente. Ed è così che avviene. Voi sapete bene che i monaci e le monache ricevono tante confidenze dalla gente che viene ai loro monasteri. E noi sappiamo delle cose che mai uno sposo direbbe alla propria sposa, o viceversa. E sono dette a noi monaci, proprio perché monaci. E’ grande…è una liberazione magnifica per questi uomini e per queste donne che vengono a noi. Tra noi monaci, l’apertura del cuore è segno…. . dirò, del cielo.

 

La libertà…. Per me è impossibile pervenire all’ideale, che molti dicono desiderabile, della trasparenza. No, non credo alla trasparenza, assolutamente. Mentre sì, credo nell’apertura del cuore. Sapere il buio, la tenebra dell’altro…no, se c’è un po’ il velo, tanto meglio. E’ una questione un po’ difficile ma un ideale magnifico, dal punto di vista umano. Un uomo che apre liberamente il suo cuore ad un altro uomo: e quando è capace di fare così, si salva da se stesso. Non è più il centro: il suo centro si trova altrove. Il centro è fra i due: tra colui che parla e colui che ascolta. Lo dice bene la parola tecnica” inter-dicta”;detta tra due persone. E’ splendido: una cosa ben detta, e ben sentita, crea come un legame tra i due. Gesù è per eccellenza l’”inter-dicto”. Una spada che tocca il fondo del cuore con la Parola di Dio. L’uomo non è più allora l’uomo centro, ma l’uomo aperto, che lascia spazio alla grazia di Dio, alla parola di Dio. Dunque, l’apertura del cuore è l’esercizio più importante del noviziato e della vita monastica, della libertà. Allora l’uomo è di nuovo”nato”.

 

Voi sapete bene che quando un maestro dei novizi, quando un abate ha sentito veramente un monaco parlare della sua vita profonda, resta stupefatto, pieno di rispetto. Resta come in ginocchio in un certo modo, davanti a lui. E’ tanto grande, non è vero, un uomo che apre il suo cuore.

 

H) Altro punto: la brevità di S. Benedetto sui vizi. San Benedetto ha soppresso l’elenco che il Maestro dava sui vizi

 

E’ un segno interessante. S. Benedetto non è ingenuo e non si fa illusioni sull’uomo, lo abbiamo già visto, accennando alla presenza del Decalogo nella Regola. Ma per San Benedetto l’importante non è presentare un quadro nero sull’uomo, pieno di debolezze;ciò che importa è altrove. Gli interessa presentare l’uomo”in via, con Cristo, per entrare nella casa di Dio che è Dio stesso”.

 

S. Benedetto è così breve sull’impudicizia. Le regole a lui precedenti o contemporanee sono spesso più lunghe, e presentano dettagli che a noi risultano spiacevoli. San Benedetto dice soltanto”amare la castità”;non si fissa sulla castità, in senso moderno. E’ discreto, breve. E punta sulla carità.

 

I) Ancora, la discrezione di San Benedetto sulla morte. Dice soltanto di avere la morte costantemente davanti agli occhi, ma come mistero cristiano.

 

Non dice nulla sull’ora della morte, né per l’abate né per il monaco. Non gli fa problema: si tratta di morire, oggi, nello spirito del battesimo. E’ così facile lasciare una impressione di cattivo gusto, a questo proposito.

 

L) Mi sembra in definitiva che San Benedetto parli della vita umana in maniera positiva.

 

Il nostro P. De Vogué a questo punto non è benedettino, e lui lo sa bene. Preferisce il Maestro. Secondo P. Adalbert, S. Benedetto è un uomo che fa parte un po’ della decadenza. Una maniera di pensare alla vita umana in termini più positivi che non gli antichi. Ho parlato spesso con P. Adalbert della sua visione della vita umana: egli è persuaso che l’uomo non può che scendere, inevitabilmente. E’ un po’ affascinato dal platonismo e dal suo mondo ideale. La vita umana, per lui, è un momento che non ha piacere, dove bisogna spogliarsi della propria umanità…Tanti Padri della Chiesa pensano un po’ nello stesso modo, ma non Ireneo, che è l’uomo della Bibbia. Ma per tanti cristiani -per molti padri - ed anche per molti cristiani contemporanei sembra quasi che una concezione platonica della vita costituisca il modo di essere più vicini a Dio: così anche il nostro P. Adalbert.

 

Mi sembra che per San benedetto sia completamente diverso. Ma dove sta il nocciolo della questione? Io penso che per San Benedetto l’ideale sia veramente elementare, nel senso quasi”chimico” del termine. Ciò che è necessario per la vita. Dunque la vita monastica sarà una vita elementare. Possibile a tutti gli uomini, che fa appello alle basi della vita umana e cristiana.

 

Dunque, secondo me San Benedetto non è favorevole all’eremitismo. Lo conosce bene, sa che è una possibilità di espressione della vita monastica, ma non legifera e non sceglie per l’eremitismo. E non ne parla. P. Adalbert De Vogué, che è molto tentato dalla vita solitaria e già vive in modo solitario, pensa invece che per San Benedetto l’ideale della vita monastica sia la vita eremitica e che San Benedetto costituisca una scuola per giungere alla vita eremitica. Ma per me non è così. A me sembra che alla fine della Regola venga menzionata la vita “mistica”in senso tecnico;là Benedetto menziona alcuni libri dei Padri come guide possibili nel cammino verso Dio, ma non li cita mai, pur conoscendoli. Si discute ancora se Benedetto conoscesse il greco;ma probabilmente conosceva almeno le traduzioni delle opere di Basilio, Gregorio che erano conosciute ai suoi tempi ed avevano già dato molti frutti di vita mistica. Ma per Benedetto la vita”mistica” tecnica, non è quella che per lui ha il più gran prezzo: prende la vita cristiana cenobitica, che è la vita veramente corrispondente alla condizione umana, la più umana, perché è a immagine della Trinità.

 

M) Si ritrova qui la questione dei testi trinitari nella Regola di san Benedetto. Per me la RB è un libro trinitario, secondo lo stile dell’epoca. Non è un libro di teologia, ma un libro di “pratica monastica”.

 

Possiamo cercare i testi trinitari presenti nella RB. La nostra vita umana è diventata vita trinitaria, vita con Dio. Per me il testo che conclude il cap. VII è chiarissimo, ed è magnifico. P. Congar ha detto bene che noi non possiamo conoscere Dio se non nell’azione di salvezza che compie verso gli uomini. Cioè, l’uomo non avrebbe potuto sapere nulla di Dio se Dio stesso non l’avesse salvato, nel Cristo. Dunque, troviamo Dio nell’opera della salvezza, e nelle formule dell’economia della salvezza. Quindi le formule dell’economia della salvezza sono le formule in cui viene comunicata la Trinità. O, per dirla ancora in altri termini, la “Trinità economica”è la Trinità essenziale, come si rileva nelle sue opere, nella salvezza dell’uomo.

 

Troviamo nella liturgia, nelle lettere di S: Paolo, nel Vangelo ed altrove formule trinitarie economiche (ad esempio: ”Battezzate tutti nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”). Nella Regola abbiamo tre formule trinitarie economiche.

 

Il primo testo che citerò è dunque quello che conduce il cap. VII:

 

: ”Ascesi dunque tutti questi scalini dell’umiltà, il monaco giungerà subito a quella carità che diventa perfetta scaccia il timore: e per essa tutto ciò che prima compiva non senza trepidazione, ora comincerà ad eseguirlo senza alcuna fatica, quasi spontaneamente, in forza della consuetudine, e non già per timore dell’inferno, ma per amore di Cristo, per la stessa buona abitudine e per il gusto delle virtù: Son questi i frutti che il Signore, per l’opera dello Spirito Santo, si degnerà di manifestare nel suo operaio, quando già sia mondo dei suoi vizi e peccati”.

 

Suggerisco quindi di leggere questa formula nello spirito delle formule dogmatiche economiche. Dio, Cristo, lo Spirito. E? chiaro: abbiamo qui la salvezza umana. Dio ha avuto l’iniziativa, Dio è venuto con noi, e lo Spirito ha compiuto la purificazione.

 

La seconda formula si trova alla fine del Prologo. Anche questo testo per me è magnifico ed esplicito:

 

Con l’avanzare nelle virtù monastiche e nella fede il cuore si dilata, e la via dei divini precetti si corre nell’indicibile soavità dell’amore. Cosicché, non discostandoci mai dal magistero di Dio e aderendo alla sua dottrina nel monastero con la perseveranza fino alla morte, ci associamo con la sofferenza ai patimenti di Cristo, per meritare di essere partecipi anche del suo regno. Amen”

 

Dunque, per me è chiaro: è citato il Padre, è citato Cristo, e lo Spirito è significato nella maniera più parlante per San Benedetto”l’indicibile soavità dell’amore”. E il desiderio dell’amore che lo Spirito Santo fa muovere in noi. Il lavoro dello Spirito è di parlare in noi. San Benedetto presenta qui la figura del monaco che corre nell’indicibile soavità dell’amore: è la vita monastica, che può essere racchiusa in un'unica parola incessantemente invocata”Padre”!

 

La terza formula si trova, a mio giudizio, alla fine della Regola:

 

Chiunque pertanto tu sia che ti affretti alla patria celeste, poni in pratica con l’aiuto di Cristo questa minima Regola per principianti appena delineata;e allora a quelle più alte vette di dottrina e di virtù che abbiamosopra menzionate, potrai certo facilmente giungere con la protezione di Dio. Amen

 

Per me è chiaro che lo Spirito Santo è indicato qui nelle”più alte vette di sapienza e di virtù” E’ sempre la stessa cosa. Lo Spirito Santo è colui che rivela la Parola di Dio, colui che parla in noi e purifica il nostro cuore. La sapienza e la virtù sono l’opera dello Spirito Santo fra i cristiani. Anche qui, abbiamo la Trinità operante……

 

Per S: Benedetto, dunque, la vita è trinitaria. Che cosa vuol dire? Possiamo riferirci ad altri due passi della Regola.

 

1° - San Benedetto chiama(come i suoi predecessori) il maestro della comunità, il capo il superiore “Abba”. Come non trovare magnifico questo titolo di “Abba”, dato all’uomo!

 

Per noi, ormai, dire “Abate” è del tutto naturale, come dire “Papa”o qualsiasi altro titolo ecclesiastico. Ma se riflettiamo un po’, è incredibile, perché vuol dire attribuire a degli uomini il nome stesso di Dio. Un nome di Dio ad un uomo!E l’Abate si chiama con il nome di Dio affinché costantemente nella vita monastica il solo fatto di parlare dell’Abate coincida con il parlare di Dio.

 

Per me questo è terribile, difficilissimo. Come per i Vescovi. Un Vescovo mi disse una volta una cosa vera quando mi confidò: ”Per me è impossibile essere sempre in ”atto” di Vescovo.

 

E’ troppo difficile! ”Bisogna di tanto in tanto prendere delle distanze, sperimentare un po’ di libertà…e quel Vescovo, che è un alpinista, va a distrarsi un po’ facendo delle scalate. Perché è troppo difficile per un uomo essere sempre ”Vescovo”.

 

Così penso che per un abate o un maestro dei novizi è impossibile essere costantemente nel loro ruolo di abate o di maestro dei novizi. Deve restare un fratello, un monaco. Non è facile . Ma per San Benedetto, ormai, l’umanità si pone così. Come fare per portare, noi, un titolo come”Abate” e Maestro?

 

- La vita trinitaria è la vita del monaco, quindi, e si manifesta quando questi dice sempre”Abba”: tra lui, l’abate, il maestro scorre continuamente la vita della Trinità. Il secondo esempio è dato dalla formula della professione ”Suscipe me, Domine, secundum eloquium tuum et vivam".

 

Non so se avete letto uno studio interessante fatto recentemente su questa formula ”Suscipere” è un termine tecnico della lingua del diritto romano. Cioè, avveniva che alla nascita di un bambino, la madre lo deponeva sulla terra; il padre, come gesto di riconoscimento, lo prendeva da terra nelle sue mani, e lo innalzava, dichiarandolo suo figlio: ”suscipiebat. “ Quindi, era il gesto del riconoscimento pubblico della paternità. E quando il monaco dice a Dio ”Suscipe , Domine, secundum eloquium tuum et vivam”, vuol dire: ”prendimi nelle tue mani e sarò tuo figlio, non sarò mai orfano, e vivrò. E questo è splendido. Fare professione vuol dire divenire pubblicamente figlio di Dio. Questo è già avvenuto nel Battesimo per dire a Dio: ”Sii veramente per me un Padre, non sarò mai orfano”. Il gesto è bellissimo.

 

Questo gesto è ripreso nella liturgia, ancora adesso, quando, divenuto figlio di Dio, il monaco diviene nello stesso momento fratello per tutti i fratelli. Perché la nostra umanità è divenuta vita trinitaria. E’ fratello chi è figlio. Non si può essere fratello senza essere figlio: è la stessa cosa. Quando il monaco si inginocchia dinanzi ad un anziano e l’anziano lo rialza - suscipit - si esprime in un gesto liturgico la stessa realtà spirituale. E’ molto bello. Quando la comunità è grande, come la nostra, è un po’ lungo… Noi lo abbiamo fatto per delegazione: alcuni esprimono il gesto a nome di tutti, e dopo la celebrazione il monaco riceverà l’abbraccio di tutti. E’ vita trinitaria, la vita monastica concreta.


(continua)

Letto 2616 volte Ultima modifica il Giovedì, 24 Gennaio 2013 09:21
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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