Tutto ciò, in realtà, proviene dall’affermazione dogmatica che Gesù è la seconda persona della Trinità, incarnata nell’Umanità. Questo è il nucleo dogmatico che ha mantenuto il cristianesimo, durante i quasi due millenni della sua storia, nella coscienza chiara dell’esclusivismo, coscienza che solo 40 anni fa si è orientata verso l’inclusivismo e che ora resiste a far spazio all’accettazione di un paradigma pluralista.
Il problema nella storia
(...) Gli effetti di questo nucleo dogmatico non sono rimasti nella sfera puramente teorica o speculativa: la loro proiezione sociale e politica nel corso della storia è stata notevole, e certamente dolorosa (...). Alcune situazioni storiche chiaramente deplorevoli in ambito cristiano sono state giustificate con la copertura del dogma cristologico dell’incarnazione. Ne ricordiamo solo alcune tra le più clamorose: a) l’antisemitismo; b) lo sfruttamento ad opera del primo mondo (….); c) la subordinazione della donna; d) la superiorità stessa del cristianesimo e il suo spirito di espansione e di conquista; d) la divinizzazione dell’autorità ecclesiastica e la riduzione del corpo ecclesiale alla passività.
L’errneneutica del sospetto sulla fede cristologia
(...) L’atteggiamento più maturo è quello di accettare serenamente un giudizio storico su questi effetti negativi che di fatto si sono verificati nella nostra soria, e un riconoscimento onesto di ciò che, nella genesi dell’elaborazione della fede cristologica e, soprattutto, nella sua invocazione e utilizzazione nel corso della storia, ha potuto esserci di “ideologico”. Sappiamo bene che molti dei protagonisti di questa storia sono stati uomini e donne di buona volontà, ma ciò non ci esime dal riconoscere il fatto reale delle responsabilità umane, per quanto ricadano non su atti personali ma su strutture sociali, istituzionali o mentali (...).
Per il resto, ci appelliamo alla parola di Gesù: non può una dottrina buona produrre cattivi frutti né provenire da cattivi semi. Se si rivelano nella storia segni di pratiche sbagliate sotto la copertura legittimante di qualche giustificazione teologica, è necessario riconsiderare questa teologia e riesaminare il processo della sua elaborazione, per cogliere possibili deficienze tanto nella sua realizzazione quanto nella valutazione delle sue conclusioni.
Giudicare
Il problema non viene da Gesù
La prima cosa che constatiamo è che questo problema non viene certamente da Gesù ma dal Cristo della fede costruito dalla dogmatica cristiana. L’atteggiamento di Gesù è totalmente diverso: egli non affermò mai di sè ciò che l’istituzione che a lui si richiama ha detto di lui. La Chiesa ha vissuto praticamente tutta la sua storia credendo che fossero storiche le parole che Giovanni gli ha messo in bocca, che affermavano la sua identità con il Padre, il suo essere “la via, la verità e la vita”, ecc. Oggi siamo ormai certi che Gesù questo non lo pensò mai. Non fu mai cristocentrico, ma teocentrico e regnocentrico. Gesù non predicò mai la dogmatica cristologica, bensì un altro messaggio.
Ma il Gesù “messaggero” della Buona Novella è stato poi trasformato lui stesso in “messaggio” cristiano. Il Cristo onnipotente, Pantocrator, sostituto di Giove nel Pantheon romano, si costituì a poco a poco nel messaggio della Chiesa cristiana sopprimendo a poco a poco il messaggio sovversivo di Gesù, cosa che ha permesso alla Chiesa di assumere il ruolo di religione ufficiale dell’impero che aveva giustiziato il suo fondatore. Si è verificato quello che Diez Alegria chiama “Il grande tradimento”. Si è posto Gesù sul pinnacolo del Tempio dell’Impero per dargli benedizione e legittimazione ed esigere, per il suo carattere di unicità, l’unità religiosa di tutta l’Umanità.
La costruzione del dogma cristologico
E’ un’esperienza comune a qualunque cristiano senza una speciale formazione critica leggere i vangeli sinottici e credere che vi sia chiaramente espresso il dogma cristologico. Il fatto è che i testi si trovano già “occupati” da una determinata interpretazione (...).
Per esempio, se leggiamo attentamente e con senso critico i vangeli sinottici, i più vicini alla storia stessa di Gesù, possiamo scoprire, in primo luogo, che non ci parlano mai del “Figlio di Dio” come seconda persona della santissima Trinità: la dottrina della Trinità si sarebbe elaborata molto più tardi. Quando nei Vangeli sinottici i parla di “Figlio di Dio” non si sta parlando di “Dio Figlio” (seconda persona della Trinità) come noi spontaneamente tendiamo a intendere, ma di un concetto pretrinitario di “Figlio di Dio”, dello stesso tipo di quello applicato a tanti altri personaggi della storia. Figlio di Dio, in realtà, è un concetto, un’espressione, che non sono propri del vangelo o dell’ebraismo, ma comuni alle religioni dell’antichità. Figlio di Dio in questo senso si applicava a quelle persone che per la qualità della loro vita o delle loro opere rivestivano per la società un significato religioso speciale o specialissimo (...).
Nel Nuovo Testamento vi sono numerosi indizi che mostrano come, in molti luoghi ed epoche del processo di formazione dello stesso NT, sia prevalsa, rispetto alla relazione di Gesù con Dio, la linea “adozionista”: nella lettera ai Filippesi (2,6-11), Gesù sarebbe stato “adottato” come Figlio di Dio da parte di Dio Padre. Gesù sarebbe stato un essere umano interamente normale, “secondo la carne”, prima della resurrezione, ma “costituito Figlio di Dio con potere” dopo la resurrezione (Rm 1,4). Questo è chiaro negli strati più antichi del processo di gestazione del NT.
E’ negli strati successivi e ultimi di questo processo che sorge l’idea di una divinità di Gesù che sarebbe anteriore, preesistente alla sua esistenza umana (...). Di fatto, nella vita di Gesù, né lui né i discepoli lasciarono vedere questa prospettiva (...). La realtà fu una non facile convivenza della notevole varietà di cristologie e di ecclesiologie in tutto il tempo del NT, senza che si possa dire che vi fosse in questo tempo una dottrina comune né sulla Trinità, né sulla filiazione divina di Gesù, né su molti altri temi importanti.
Lo sviluppo spettacolare di questi aspetti si registra assai più tardi. Concretamente, nei secoli IV e V (..:). Non possiamo entrare nei dettagli di questa storia. Ci basterà ricordare gli elementi più noti e significativi relativamente al nostro tema centrale: la costruzione del dogma cristologico nei concili di Nicea e Costantinopoli. In quello di Nicea, l’imperatore non è solo colui che convoca e che segnala i temi da studiare e dibattere nell’aula conciliare, ma anche colui che suggerisce e preme perché vengano approvate le decisioni che vuole lui. Il dibattito, in certi momenti, non è teologico né scritturistico e neppure pastorale, ma nettamente politico: si tratta di una battaglia tra coloro che obbediscono e si schierano dalla parte dell’imperatore e coloro che osano dissentire (...). Costantino impone finalmente le proprie opinioni di fronte a vescovi senza una guida visibile, sconcertati, impegnati a realizzare un “concilio” senza averlo convocato e senza sapere bene cosa fare, senza controllare la situazione, sentendosi e sapendosi funzionari dello Stato, fortemente corteggiati come moralmente condizionati. Costantino presiede, dirige, preme e ratifica un Concilio che elabora un dogma cristologico, in quanto imperatore e senza essere neppure cristiano (...).
In ogni caso, dopo molte vicissitudini, la formula finale del Concilio di Calcedonia (anno 451), espressa in concetti totalmente estranei al NT e alla fede cristiana tradizionale neotestamentaria, corregge e completa con la parte umana la formula della fede cristologica di Nicea:
“Un solo e medesimo Cristo, Signore, Figlio unigenito, che noi dobbiamo riconoscere in due nature, senza confusione, senza mutamento, senza divisione, senza separazione. La differenza delle nature non è affatto negata dalla loro unione, ma piuttosto le proprietà di ciascuna sono salvaguardate e riunite in una sola persona e una sola ipostasi”.
I tempi erano così difficili - e probabilmente la formulazione ottenuta era pedagogicamente così poco felice, e forse non solo per il popolo - che si prese la decisione di “congelarla”, proibendo di alterarne la redazione, di modificarne le parole o, ancora meno, di tradurla in un altro ordine di concetti. E’ quanto darà il risultato che durerà per secoli: una formula teologica stereotipata e rigida, ritenuta intoccabile e sacra, l’allontanamento dalla quale, per minimo che fosse, produceva automaticamente l’accusa di eresia e - per molti secoli della storia della Chiesa - la condanna da parte dell’Inquisizione (...). Nessun altra formula è stata considerata in maniera tanto letterale, diretta e rigida, con tanto poco margine di ricorso all’interpretazione o alla “rilettura” (...). I testi fondamentali cristiani (principalmente le Scritture) sono stati studiati in tutti i loro strati redazionali, nei loro influssi e nelle loro debolezze, sono stati riconsiderati e re-interpretati, senza che in molti casi si sia raggiunta un’unanimità di criteri, neppure una certa armonia convergente tra le interpretazioni, e senza che queste difficoltà creassero troppi problemi. AI contrario, le formule del dogma cristologico sono li, nell’immaginario comune dei cristiani, intoccabili, rigide, inflessibili, senza analisi né riconsiderazione né, tanto meno, reinterpretazione possibile.
Oggi per gli storici e i teologi è evidentemente indifferibile l’introduzione di un coefficiente di ponderazione riguardo alla validazione dei concili cristologici in funzione di questi condizionamenti fondamentali da cui si sono visti toccati (...). Sta sorgendo tra gli storici e i teologi un consenso crescente sulla necessità di “riconsiderare” criticamente la validità e il vero significato di questa costruzione cristologica.
La domanda ha almeno un doppio versante: un aspetto storico e un altro teologico o epistemologico.
Storicamente si tratta di chiarire fino a che punto i concili cristologici, con tutti questi aspetti problematici a cui stiamo semplicemente accennando, riunirono le condizioni sociali minime di pace e stabilità per poter prendere decisioni realmente ponderate e realmente ecclesiali, fino a che punto vi furono le condizioni minime di libertà per rendere possibile una capacità di riflessione politicamente libera, tanto rispetto alle pressioni dell’impero quanto rispetto alle esigenze della trasformazione del cristianesimo in religione ufficiale dell’impero e religione di Stato che stavano condizionando incoscientemente l’istituzione ecclesiale.
Teologicamente o epistemologicamente la domanda è più complessa: fino a che punto la Chiesa aveva conoscenza teologica e biblica sufficiente delle fonti documentali e della tradizione della fede cristiana, non diciamo “come l’abbiamo oggi”, ma almeno libera da fraintendimenti fondamentali o dimenticanze inammissibili, Fino a che punto i risultati di questi concili nella loro forma e nel loro contenuto sono un riflesso dell’avvenimento stesso che stava vivendo la Chiesa, la sua trasformazione in religione di Stato. Fino a che punto devono essere riconsiderati e riletti nella prospettiva odierna della fede, in una visione che è ad una distanza abissale dalla situazione in cui si trovarono a muoversi gli improvvisati “padri conciliari” di quei primi “concili”
Proposta recente di revisione
Come abbiamo detto, questo punto del dogma cristologico è circondato da uno speciale timore reverenziale da parte dei teologi. Non c’è terreno dogmatico della fede cristiana che non sia stato rivisto e riconsiderato da diverse vie di approccio; al contrario, in ciò che riguarda il dogma cristologico, la fecondità teologica è chiaramente repressa. Presentiamo, malgrado ciò, a mo’ di esempio, una proposta teologica di revisione cristologica che è diventata famosa, elaborata proprio dal teologo leader nel paradigma del pluralismo in materia di teologia delle religioni,John Hick. (...) Hick affronta con una prospettiva storica l’evoluzione del pensiero su Gesù da parte della comunità dei suoi discepoli. Esiste un ampio accordo tra gli esegeti sul fatto che Gesù non rivendicò per sé l’attributo della divinità, né ebbe assolutamente la pretesa di essere Dio incarnato. Fino a 100 anni fa (e ancora oggi molto diffusamente nei settori non istruiti) si aveva la certezza che la fede in Gesù come Dio incarnato poggiasse sul suo stesso insegnamento esplicito: “Io e il Padre siamo una cosa sola”, “colui che vede me vede il Padre”, ecc. Oggi “difficilmente troveremo uno studioso del NT disposto a sostenere che i quattro casi di uso assoluto del “Io sono” che appaiono in Giovanni, o la maggior parte di altri usi, possano attribuirsi storicamente a Gesù” (Thatcher Adrian, Truly a Person, Truly God, Spck, Londres, 1990, 77) (...).
Hick studia l’uso dell’espressione “Figlio di Dio” nel mondo ebraico in cui visse Gesù e da cui sarebbe germogliato poi il NT. Questo linguaggio della filiazione divina era usato diffusamente e in vario modo in tutto il mondo antico ed era familiare ai contemporanei di Gesù. Di fatto, afferma Hick, sarebbe stato sorprendente che a Gesù non venisse applicata questa diffusa divinizzazione onorifica di figure religiose di prestigio. Hick si rifà in ciò a Geza Vermes: “L’espressione “Figlio di Dio” è sempre stata intesa metaforicamente nei circoli ebraici. Nelle fonti ebraiche, il suo uso non implica mai la partecipazione della persona così designata alla natura divina. Si può supporre con ogni sicurezza che, se l’ambito nel quale la teologia cristiana si è sviluppata fosse stato quello ebraico e non quello greco, non si sarebbe elaborata la dottrina dell’incarnazione come di fatto l’abbiamo”.
In ogni caso, per Hich, il punto determinante di questo processo è segnato dai concili cristologici di Nicea e Calcedonia. Uscendo dalle catacombe e volendo occupare lo spazio della religione ufficiale dell’impero, il cristianesimo si senti spinto a dialogare con urgenza con la cultura del momento. Doveva presentare le proprie credenze in termini filosofici accettabili tanto per la cultura di lingua greca che per se stesso. Doveva anche raggiungere un insieme unitario di espressioni della fede cristiana (...). L’eresia fondamentale - afferma - è stata sempre quella di trattare la metafora religiosa come metafisica letterale, che quello che era poesia è stato preso come prosa e quello che era metafora è stato interpretato come fosse metafisica greca (...).
Strettamente legata alla dottrina dell’incarnazione è quella della redenzione. La seconda persona della Trinità si incarna per assumere la missione di redimere il genere umano alla situazione di peccato in cui si trova, a causa della caduta della prima coppia umana nel peccato originale. Per Hick “l’idea della redenzione o riconciliazione è un inganno se presa in senso stretto, per quanto, evidentemente, acquisti un’importanza vitale se presa nel senso ampio in cui riconciliazione significa semplicemente salvezza. L’idea della redenzione in senso stretto scomparirà alla lunga tra i cristiani legati alla disciplina della riflessione”. (...) L’idea di una caduta reale, da cui sarebbe risultata una caduta e una colpa universali trasmesse in maniera ereditaria, è qualcosa che, almeno per i cristiani istruiti, risulta completamente impossibile da credere. “Se oggi crediamo che non si è mai verificata quella caduta umana da uno stato paradisiaco originale, perché allora correre il rischio di confonderci e di confondere gli altri parlando come fosse esistita?” (...).
Conclusione. Agire
Ricaviamo da quanto detto alcune conseguenze:
Deficienze gravi (inaccettabili?)
- L’ortodossia del dogma cristologico come è stato formulato, e soprattutto come poi è stato utilizzato in quanto criterio unificante di controllo, soffre di gravi deficienze, le principali delle quali sono:
a) il “cristo dogmatico” ivi contemplato è un Cristo senza Regno, un Cristo in cui si è persa la connessione con il Gesù storico, la sua vita, la sua Causa e la sua predicazione;
b) nel Cristo dogmatico si è verificata una “riduzione personalistica” del Regno di Dio: il Regno è stato concentrato nella sua persona, eludendo così il regno propriamente tale e il messaggio di Gesù, come pure la sua storia e la storia che è capace di sviluppare.
Non vale come criterio unico centrale di ortodossia
- Per quanto abbia occupato una posizione di assoluta priorità per molti secoli nella definizione dell’ortodossia cristiana, oggi sembra essere del tutto insufficiente per definirla e anche controproducente per esprimerla nella sua totalità come pure non necessaria a tutti quei cristiani e cristiane la cui cultura non abbia un’affinità con la cultura da cui sono tanto dipendenti queste formulazioni dogmatiche.
L’”altro” cristianesimo
- Il cristianesimo del Cristo dogmatico è un “altro cristianesimo”, un cristianesimo diverso dal cristianesimo del Vangelo del Regno di Dio e della sequela di Gesù. E’ un cristianesimo che riduce Cristo a una teoria astratta capace di legittimare il sistema di “cristianità” (unione religioso-politica della Chiesa con il sistema sociale di potere istituzionale), con evidenti prove del ruolo ideologico da esso giocato tanto nella “religione di Stato” in cui si trasformò il cristianesimo sotto l’impero romano quanto nella sua partecipazione agli imperialismi delle diverse nazionalità dell’”Occidente cristiano” verso il resto del mondo. (...) Il cristianesimo del Cristo dogmatico ha prodotto nella storia troppi cattivi frutti, che non possono provenire da un albero buono (...).
Credere in Gesù e credere come Gesù
- Come sottolinea lo stesso Vangelo, è molto più importante seguire Gesù, e “vivere e lottare per la causa di Gesù” che l’accettare intellettualmente nella fede alcune affermazioni teoriche relative al dogma cristologico. Di più: questa ortodossia senza quella prassi non serve a niente; quella prassi senza questa ortodossia salva. L’importante non è credere “in” Gesù, cosa facile, ma credere “come” Gesù (...).
Ellenismo prescindibile
- Bisogna riconoscere in modo più coerente il carattere marcatamente ellenistico della cultura in cui si è costruito il dogma cristologico niceo-calcedonense. Oltre a riconoscere e ad ammirare il valore di quella Chiesa nel suo tentativo di tradurre la fede cristiana nella cultura dominante del momento, bisogna riconoscere anche i gravi condizionamenti e gli errori in cui si è incorsi in tale tentativo, e bisogna riconoscere allo stesso tempo, in qualche modo, la caducità e la prescindibilità delle sue formule in contesti culturali estremamente diversi. Le categorie utilizzate, le preoccupazioni avvertite, le domande a cui si è data risposta sono parte in buona misura della cultura occidentale, da cui sono dispensati coloro che non sono occidentali o coloro che accedono perlomeno a una prospettiva di transculturalità. Allo stesso modo in cui quelle generazioni cristiane elaborarono in maniera creativa la propria riformulazione della fede in consonanza con la cultura estranea in cui toccò loro di vivere, così la nostra generazione ha oggi il dovere di non sentirsi prigioniera di alcune formule, per quanto venerabili siano, e di esercitare anch’essa la propria fedeltà creativa, invece di sentirsi obbligata a equilibrismi ermeneutici con l’illusione di prolungare la vita a formule di un altro tempo.
Reinterpretare la comprensione dell’Incarnazione
- Il Theologumenon, metafora, mito, simbolo dell’Incarnazione della seconda persona della Trinità in Gesù si è rivelato come un simbolo di una potenza straordinaria e di una virtualità onnipresente. Ma tutti i simboli religiosi corrono un pericolo quando sono intesi in un modo eccessivamente fisico e rigido, che va oltre la flessibilità propria di ogni simbolo. Nel simbolo dell’incarnazione sono stati introdotti elementi che lo deviano verso comprensioni deformate dello stesso. Un’intelligenza del “mistero” dell’Incarnazione che includa l’attribuzione al cristianesimo di un grado di assolutezza e di unicità rispetto a tutte le altre religioni è qualcosa che va oltre i limiti del contenuto stesso del mistero che questo simbolo veicola. Un’elaborazione teorica della comprensione dell’Incarnazione che si orienti, consapevolmente o inconsapevolmente, verso l’attribuzione di una preminenza o privilegio di elezione ad una razza, ad un popolo o ad una cultura, o persino ad una religione, è una costruzione teorica che si scontra con altri elementi del mistero divino, e che in ogni caso va oltre quello che la Rivelazione afferma quando è letta con una ermeneutica attualizzata (…)
- Si impone l’accettazione di un periodo di “decostruzione” di queste formule dogmatiche, accettando il fatto che esse partecipano della condizione comune del linguaggio religioso, sempre bisognoso di reinterpretazione ermeneutica, senza escludere la revisione del dogma. Ci sembra in ogni caso assai valida la proposta di Yve Congar - di fronte al recupero ecumenico - di aprire un periodo di “ri-ricezione” degli “scritti simbolici”, dei decreti conciliari o pontifici, cioè degli scritti normativi per la fede di ognuna delle Chiese, di cui esse si sono nutrite nel corso della loro storia. Ogni chiesa o confessione dovrebbe “ri-accogliere” i propri scritti normativi “per ricollocarli nell’insieme e nell’equilibrio della testimonianza della Scrittura”. Il dogma cristologico niceno-calcedonense entrerebbe in pieno in questa “ri-ricezione” che postulava Congar.
- Non è possibile oggi una rielaborazione cristologica piena, una revisione completa e soddisfacente dell’intero dogma cristologico. Stiamo semplicemente cominciando a riflettere a partite da sospetti che hanno trovato conferma e dalla rottura di alcune antiche sicurezze. Abbiamo bisogno di trovare “nuove risposte” alla sfida permanente della domanda “e voi, chi dite che io sia?”. Forse devono passare varie generazioni prima che si possa costruire o dare per costruita una nuova risposta. In effetti, “la situazione suscita questioni complesse e delicate, che conviene studiare alla luce della Tradizione cristiana e del Magistero della Chiesa, al fine di offrire ai missionari di oggi e di domani nuovi orizzonti nei loro contatti con le religioni non cristiane” (Evangelii Nuntiandi 53).
- In ogni caso, mentre continuiamo ad andare avanti, è chiaro che possiamo smarcarci da tutti questi presupposti teorici e da tutte le implicazioni ideologiche che la vecchia comprensione del dogma cristologico ha implicati negativamente nella storia. Come Gesù farebbe, possiamo e dobbiamo dialogare con le altre religioni, rigettando la vecchia pretesa di essere “l’unica vera religione”, offrendo con tutto l’amore e tutta l’umiltà quello che noi viviamo, avidi a nostra volta di scoprire quello che lo Spirito di Dio realizza in tutti i popoli e in tutte le religioni, per arricchirci anche con quello.