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Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Sabato, 04 Agosto 2007 21:10

La superbia (Luciano Manicardi)

di Luciano Manicardi

«Inizio di ogni peccato è La superbia» (Siracide 10,15 secondo La Vulgata). Questo versetto biblico ha contribuito alla tradizione per cui La superbia è all’origine di ogni male ed è, almeno a partire da Gregorio Magno, al primo posto nella lista dei vizi capitali. Primo anche perché sentito come peccato contro Dio che echeggia il “voler diventare come Dio” presente nel racconto delle origini dell’umanità (Genesi 3,5).

La superbia si manifesta in quattro modi: «Quando si pensa che il bene derivi da noi stessi; quando si crede che, se ci viene dato dall’alto, è per i nostri meriti; quando ci si vanta di avere quello che non si ha; quando, disprezzando gli altri, si aspira ad apparire gli unici dotati di determinate qualità»(Gregorio Magno, Moralia XXXIII, 6, 16)

Il Dio biblico sta nella domanda di redenzione, molto più che nelle eterne strutture dell'essere. Il contemplante riconoscimento della presenza dell'Armonia nel mondo è il sacro, la fede è la dolorosa consapevolezza dell'assenza dell'Armonia dal mondo.

Sabato, 04 Agosto 2007 20:37

I tamburi del profeta (Guido Ceronetti)

I tamburi del profeta

di Guido Ceronetti


Quando si fa più atroce la coscienza di essere in questo formicolante deserto cosi abbandonati, nazioni alla deriva, continenti oscurati, senza nessuno che guidi, che venga per salvare illuminando, mi ridà un poco di respiro pensare che Qualcuno, già domani, o nell'ora più nera, potrebbe anche sorgere, da questo fango stregato.

Chi? Un uomo, un inviato, un'incarnazione… Profeta, profetessa, santo, vergine, imperatore. Santa Giovanna, genio di guerra, miracolo di pace, eresiarca, Paracleto, Messia, non importa: purché venga dalla Luce, e la porti, e sia unto di olio sacro, uno che abbia la forza di rompere le prigioni della forza, di fermare l'empietà scientifica, e che porti la sua pietà per risuscitare la pietà: uno che sbaragli le leggi per stabilire la Legge, che ci prenda per mano, tutti, che a un cospicuo numero di carogne schiacci la testa e alle loro vittime la rialzi, che ci stacchi dal palo di questo rogo, che ci liberi da questa colossale trappola per topi che è la barbarie contemporanea.


Qualcuno che «non ciberà terra né peltro, / ma sapienza, amore et virtute » (Dante, Inf. I: anche lui, povero veggente angosciato, era in attesa di una Venuta) e per il quale valga in senso assoluto il dilexisti iustitiam et odisti iniqietatem (salmo 45, 8). Uno per cui «il fragore dei tamburi diventi l’annuncio della Legge» (quarto Editto su Roccia di Asoka) e che «con la sua maestà mantenga sull’esterno sentiero dell’ordine il mondo tutto» (Nitisara di Kamandaki), un difensore e un maestro, un legislatore e un oracolo…

Anche Machiavelli, deposta la tragica penna sul calamaio, aspettava: «acciò che l’Italia dopo tanto tempo vegga un suo redentore». Un cavaliere, annunciava Petrarca «pensoso più d’altrui che di se stesso»: sembra poco, no è un’enormità. Léon Bloy, tra gli irrespirabili cannoneggiamenti del 1916, aspettava Qualcuno che sarebbe dovuto venire inaspettato da un Estero inimmaginabile, uno che sarebbe stato il Portento personificato. Il lemma visionario lo definiva meglio in questa formula: «un riflesso della Gloria in una cloaca». Sarà così, se sarà.

Se aspetto anch'io qualcuno fuori dei momenti e dei giorni di inutile disperazione, è per fare qualcosa che non sia un fare, perché ogni fare pubblico è ormai indicibilmente satanico: tutto quel che si fa, anche il buono, finisce nello stesso pozzo avvelenato, da cui esce un vapore che ci fa ciondolare ubriachi di miasma, istupiditi. In profondo, è un’attesa da lager: ma è lì che siamo, in un lager, tanto gli oppressi dalla libertà come gli oppressi dall'oppressione. Da Brest a Vladivostok un Liberatore avrebbe un lavoro infinito da compiere per liberare.

***

Qualcuno che non sia inquadrabile da una telecamera. Nel tentativo di catturarne l’immagine, le telecamere dovrebbero incendiarsi. Per riscattare l'umanità bisogna sterminare tutto quel che condanna l'uomo a non essere che la propria ombra, immagine trasmissibile e impacchettabile, gelatina del Nulla. Bisogna abbandonare il teleschermo alle sole canaglie, alle nullità a cui non importa di rappresentare il Nulla: dall'apparire in quel luogo li si riconoscerà. L’uomo probo, l'uomo pio conserva per sé l'immagine che sposta l'aria, santuario dell'Abitatore ignoto: un certo grado di iconofobia è necessario alla purezza morale. Siamo in una pattumiera terrificante di immagini in movimento: le peggiori sono quelle che stanno lì, davanti a un tavolo, e parlano.

Dante chiamava il suo Atteso veltro: per esprimere la sublimità del suo concetto ha assunto l'immagine di un cane; il veltro dantesco e una divinità cinocefala. Infatti, un redentore d'uomini come può avere l'immagine disonorata dell'uomo?

Ci precipiteremmo fuori, nelle strade dove si ammucchierebbero questi ignobili attrezzi della nostra fine, automobili, televisori, calcolatori diventati repentinamente oggetti di illuminato disgusto, per andare dietro a uno che facesse fondere tutte le manette che portiamo attaccate alle tempie, avesse pure la testa di un cane. E tagliasse pure le teste delle guide false, delle guide criminali, dei carismatici usciti dal sottosuolo, di quelli che accendono, nei bambini messi in riga e in uniforme, nelle donne e nei religioso l'istinto omicida, la brama di estendere il deserto, di assassinare portatori di un passaporto. Ego repletus sum fortitudine spiritus Domini, il Veltro lo dice a se stesso, nell’ombra, non davanti al cameraman.

***

Non potrà essere la politica a farlo, e neppure, se sarà quel che deve essere, a disfarlo. La politica non genera bodhisattvas, né veltri, né redentori. La nostra appassionante sventura vuole che non generi neppure più dei politici. Ne sforna ancora, per antica abitudine, la polis anglo-americana, dove la funzione pubblica non è dissolvente, ma formatrice per chiunque la eserciti: nel resto del mondo siamo alle canaglie, ai mediocri, a qualche isolato impotente, ai funzionari di partito unico, ai dominatori di lugubri apparati stratocratici, ai paranoici e agli idrofobi.

L’uomo che ci vuole al momento giusto ha fatto la sua ultima apparizione nel 1958. In realtà la politica è un mestiere perduto, perché serve le modificazioni della Tecnica e va dietro alla Tecnica, che impugna la frusta sadica dell’Economia, come l’alcolista va dietro all’immagine della bottiglia che ha nascosto nell’armadio. Vorrei vederne uscire delle strutture ossee intellettuali e morali davanti a cui si arretrasse con rispetto e timore: ma già, allora, sconfineremmo nello spirto gentil che arriva vestito di ferro e fa le rose uscire dal mistero delle sue mani.

Mi conforta un pensiero di Tocqueville: «Ci sono momenti in cui il mondo somiglia a uno dei nostri teatri prima che si levi il sipario. Si sa che si sta per assistere ad un nuovo spettacolo. Si sentono i preparativi in scena; quasi tocchiamo gli attori, ma senza vederli, e ignoriamo che cosa si rappresenterà». Può darsi che la recita a cui stiamo per assistere sia lo stesso teatro che salta in aria insieme agli attori e al pubblico: tuttavia è bello che l’attesa di qualche nuovo e prodigioso evento ci divori.

Siamo qua, patriai tempore iniquo, né verrà Cesare a sciogliere, con la sua magica forza di Megalurgo, i nodi, una volta per tutte; immersi in una oscena farsa non osiamo fiatare, perché il diritto ci garantisce la parola, il crimine sghignazzante nell’ombra ce lo annulla, come il pugno del marinaio che turò la bocca alla Costituente russa per ordine di Lenin, che non era né Cesare né messia, ma un capo di fanatici in cui era agonizzante o spinta del tutto la legge morale.

Tuttavia aspettare qualcuno che sia in assoluto altro, uno Straniero, un Esiliato che abbia in comune con noi soltanto la forma umana, o neppure quella: la parola soltanto, la parola davanti a cui niente resiste, e la mano, ma guaritrice, esercitata a guarire toccando, è una interessante vendetta, un’ombra, se non la carne, di un rimedio, un modo per attenuare il dolore della piaga civile, per consolare il gemito insistente del cuore indecentemente oltraggiato.

Così ogni mattino mi dico: dovrà pur venire qualcuno, forse oggi stesso lo sapremo, scoprendo qualcosa di cambiato in una delle solite facce che s’incontrano, e venendo disperderà con un soffio, prima di ogni altra cosa, questa verminaia terra di poteri senza legge che ci intortiglia. E che si muoia aspettando, davanti al sipario che non si alza, mentre le ore passano: morire aspettando un redentore che non viene è un migliore morire che vivere senza averne neppure l’idea, il desiderio, la speranza.

È vero che aspettare una salvezza esteriore non è ortodossamente filosofico; ma è raro che, nelle tremende ore di questo transito tra i viventi, vita, morte, amore e filosofia non viaggino clamorosamente sconnesse. Forse il momento più felice della vita di Cristo fu quello in cui una prostituta si mise a ungerlo con begli unguenti. Aspettare è un unguento, e il lampo che ci abbaglia misteriosamente sostiene.

Mercoledì, 18 Luglio 2007 01:04

Per leggere il Messale Romano (Silvano Birboni)

Un nuovo commento a quattro mani uscito dalla penna di Rinaldo Falsini e di Angelo Lameri offre ancora l’occasione di ripercorrere la storia e il contenuto dottrinale e rituale dei riti della liturgia. Una lettura guidata, completa e aggiornata, che cerca di individuare la mens che sta dietro alle rubriche e alle ultime modifiche del Messale per favorire celebrazioni eucaristiche corrette e pastoralmente efficaci.

Una nuova domanda di etica
per frenare il neoliberalismo

di Giannino Piana

Sono tante le vicende che, in questi ultimi anni in Italia (ma non soltanto), hanno reso evidente l’esistenza di una profonda crisi del capitalismo con effetti devastanti per l’intera comunità: dai casi Cirio e Parmalat fino a quello americano della Enror (e l’elenco potrebbe continuare) siamo di fronte a disastrosi fallimenti, che obbligano a riflettere seriamente sulle cause che li hanno provocati e sulla necessità di individuare in quali nuove direzioni camminare. A farne le spese sono infatti, in larga misura, lavoratori dipendenti (operai in particolare), che vedono improvvisamente messo in pericolo il loro posto di lavoro, e piccoli risparmiatori, ai quali viene sottratta una fonte (spesso non secondaria) di sostentamento.

In molti casi a determinare tali situazioni è la spregiudicatezza di singoli imprenditori, guidati da una sete irrefrenabile di guadagno e disposti a tutto pur di riuscire a emergere sul mercato. L’assenza di scrupoli morali e l’atteggiamento predatorio sono le ragioni di comportamenti (non infrequenti) che minano la credibilità del mondo imprenditoriale, non favorendo il reimpiego dei capitali e la stabilità lavorativa.

Ma, al di là dei comportamenti soggettivi, il problema assume contorni più vasti, che chiamano in causa il sistema in quanto tale e che reclamano soluzioni di portata più generale. Sussistono, infatti, risvolti strutturali, che impongono un ripensamento dell’economia in un orizzonte più ampio di quello della semplice ricerca del profitto; che esigono, in altre parole, un allargamento della riflessione ad altri parametri, che rivestono un’importanza sempre maggiore per il buon funzionamento dello stesso sistema economico. Del resto già nel 1988 Amartya Sen, premio Nobel per l’economia, sosteneva che «una globalizzazione che non consideri parametri come l’opportunità sociale, l’analfabetismo, l’aspettativa di vita, la salute, può solo creare problemi che non possono essere attribuiti alla globalizzazione in sé, ma alle politiche con cui essa si è coniugata». E’ questa la ragione per cui, a partire dagli anni ‘90, la crescita di un Paese non viene più valutata sulla sola base del Pil, ma con riferimento a un indice umano più globale, che tiene conto anche di fattori legati alla qualità della vita. Ed è per questo che le aziende devono andare oltre il puro bilancio finanziario e tendere alla definizione di un bilancio di sostenibilità, non solo ambientale ma anche (e soprattutto) umana.

Ciò che viene emergendo è dunque una rinascita, all’interno dell’economia, di domanda etica per ragioni anzitutto economiche, per correggere cioè i difetti, sempre più evidenti, di un mercato senza regole. Non mancano anche oggi coloro che sollevano (anche se in misura più limitata che per il passato) obiezioni riguardanti la difficoltà oggettiva di conciliare la finalità di lucro con altri scopi: si tratterebbe - secondo costoro - di un vero conflitto, in quanto l’attenzione ai fini sociali (e il loro effettivo perseguimento) porterebbe, inevitabilmente, a distruggere ricchezza. E questo, a maggior ragione, in un contesto di globalizzazione, dove la concorrenzialità allargata rende necessario, se si vuole rimanere sul mercato, un livello sempre maggiore di competitività, e perciò un processo di costante innovazione tecnologica, i cui costi vanno conteggiati nell’ambito del bilancio.

Per quanto non sottovalutabili, tali obiezioni non sono tuttavia incontestabili, soprattutto se si considera che l’economia non può limitarsi oggi - ce lo ricordano gli studiosi più seri - a valutare i risultati in base ai parametri tradizionali - livello di produttività raggiunto ed entità del profitto conseguito - ma deve introdurre altre variabili, quali la protezione dell’ambiente, la stabilità del lavoro e, in un contesto mondiale come l’attuale, la ricerca di nuovi equilibri tra Nord e Sud del mondo. L’appello all’etica è dunque tutt’altro che superfluo: essa è infatti necessaria per ristabilire una corretta mediazione tra efficienza produttiva e solidarietà sociale. E forse utile ricordare, in proposito, un’esperienza paradigmatica che ha avuto luogo nel nostro Paese, quella di Adriano Olivetti, che è riuscito a dar vita, sia pure in tempi diversi, a un sistema in cui ai risultati finanziari si è congiunto lo sforzo di costruire una comunità umana in un contesto ambientale sano. Non può essere proprio questo modello un importante riferimento per restituire all’economia la capacità di perseguire il fine che le appartiene, quello di essere cioè al servizio della vera promozione umana?


Mercoledì, 18 Luglio 2007 00:33

L’invidia (Luciano Manicardi)

di Luciano Manicardi

Tra i vizi capitali un posto particolare occupa l’invidia. La tradizione cristiana, fondandosi sul testo di Sap 2,24: “per l’invidia del diavolo la morte entrò nel mondo”, ne colse l’estrema pericolosità. Il primo atto di invidia, del diavolo nei confronti dell’uomo, ebbe effetti devastanti, e si rivelò contagioso: l’uomo, da invidiato divenne invidioso e la storia biblica è piena di casi di invidia e di figure di invidiosi.

Mercoledì, 18 Luglio 2007 00:26

A passo di danza contro la rassegnazione (g.f.)

(g.f.)


«Cerchiamo di cogliere i segni di novità che il Vangelo introduce nella trama del quotidiano»

Mercoledì, 18 Luglio 2007 00:21

La religione del Figlio (Giovanni Vannucci)

La religione del Figlio

di Giovanni Vannucci

Due simboli nella narrazione di Mt 14, 22-33 ci indicano che si tratta di un evento rivelatore: il monte ove Cristo passa la notte in preghiera, il mare sconvolto sulla cui superfìcie cammina impavido e sereno.

La montagna come luogo di incontro del cielo con la terra si trova in tutte le tradizioni religiose. In India troviamo il monte Meru, la cima più alta della terra, il centro di tutto l’universo; nell’Iran il monte Alborj, considerato il centro del mondo attorno al quale si muovono il sole e i pianeti; in Cina la montagna di giada ove cresce il pesco dell’immortalità; nell’Islam la montagna Kaf, che ha per base uno smeraldo che si estende a tutta la terra; un po’ ovunque alla montagna santa approdò l’arca del diluvio, l’arca di Noè si fermò sulla cima del monte Ararat, e da lì iniziò la seconda creazione dell’uomo.

Nelle regioni ove non esistono montagne vennero costruite delle colline artificiali, oppure i templi furono costruiti in forma di montagna: così in Babilonia le torri-tempio erano a forma conica a sette scaglioni raffiguranti i sette cieli; in Egitto la piramide era il centro di congiunzione del cielo con la terra e della terra con il cielo, la rampa che conduce alla sua cima simboleggiava l’ascesa della vita, dal verme all’uomo regale che domina tutti gli aspetti della natura.

Nella Bibbia numerose sono le montagne sacre: il Sinai il Garizim, l’Horeb, il monte di Sion, che è il fondamento della città santa, il monte Moriah; nel Nuovo Testamento il monte della trasfigurazione, il Tabor, il monte Calvario, il monte degli Ulivi, luogo dell’ascensione; nell’Apocalisse l’Agnello sta sul monte Sion (Ap 14, 1).

Il valore simbolico della montagna è stato usato ovunque nella cristianità; ogni volta che era possibile le chiese venivano costruite su delle alture. L’altare, la cui radice è altus, alto, quindi luogo alto, i cui gradini venivano, nell’antica liturgia, saliti dal sacerdote che recitava il salmo «ludica me», «manda la tua luce e la tua verità, esse mi condurranno sul tuo monte santo».

Il mare è simbolo di tutte le possibilità delle manifestazioni delle forme viventi e della loro distinzione. Nel pensiero biblico l’acqua, il mare, è l’elemento che contiene una vita tumultuosa, confusa, prodigiosamente ricca, feconda e tenebrosa. Su di essa lo Spirito di Dio compie la sua opera creatrice. Il mare è il simbolo dell’inconscio personale e collettivo, sotto le cui profondità insondabili son racchiusi la vita e i mostri. Il popolo ebraico, separandosi dallo spirito di massa delle popolazioni egiziane, attraversa con piede asciutto il mare, raggiunge cioè l’individuazione di se stesso come popolo, chiamato a vivere un suo preciso destino in mezzo agli altri popoli. Il passaggio del mar Rosso costituì la distinzione del popolo ebraico da quello egiziano, che venne sommerso e assorbito dall’onda marina; sul monte Sinai Mosè ricevette la Legge che avrebbe dato la forma religiosa, morale, sociale al popolo eletto.

Confrontando le figure di queste strutture simboliche, monte e mare, nella narrazione evangelica, possiamo osservare alcuni particolari che sottolineano l’aspetto specifico della religione del Figlio che con Gesù Cristo cominciava. Nell’esodo dall’Egitto è tutto un popolo che attraversa il mare senza esserne travolto; Mosè ascende sul monte insieme ad Aronne, mentre il popolo era alle sue falde. Nella nostra narrazione: Cristo,dopo aver rimandato la folla alle sue case e ordinato ai discepoli di andare nel mare con la barca, sale solo sul monte, e solo attraversa il mare in tempesta incontro ai discepoli sgomenti per la burrasca. Gesù è solo sul monte e sul mare, la folla sicura nelle sue case, i discepoli protetti dall’imbarcazione.

La solitudine eroica e feconda di Gesù Cristo, in questo episodio del monte e del mare, ci rivela la natura singolare e unica della religione del Figlio. Gli uomini non sono più chiamati, per vivere la loro aspirazione all’Assoluto, a unirsi in gruppi di popoli eletti o di Dio, a rifugiarsi in imbarcazioni che, sicure, attraversano il mare agitato dell’esistenza. Ma a sentire la propria vita personale come un’avventura iniziatica, un audace impegno di trasformazione del proprio essere, che li porta a de porre le sicurezze, le protezioni che cullano la personalità e a risvegliare la propria essenzialità divina, il proprio «io» vero, non nato dalla carne e dal sangue, non formato da idee di gruppo o di società, ma che è il principio e l’assoluto psichico, l’io cosciente che, nell’esperienza della religione del Figlio, tende a rifondersi con l’io cosciente di Cristo. «Siate in me come io sono nel Padre» (Gv 14, 20). «Non io vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2, 20).

L’io cosciente dell’uomo, per quanto piccolo sia, ha il potere di contenere e riflettere l’intero sole, Cristo, e il sole, Cristo, riflesso e contenuto negli altri frammenti dell’umanità. Chi vive la religione del Figlio affronta i rischi dell’inconscio personale e collettivo, ne attraversa le onde scomposte e violente con lucida coscienza, resa ardente dalla tensione verso uno scopo sovrumano: divenire il figlio di Dio, tendere verso la conoscenza di sé, dell’universo e di Dio, cercare la coscienza e la luce assoluta, evitare ogni passività dell’intelletto, ogni eccitazione passionale del corpo e dell’anima.

I discepoli nella barca, presi da passionale sgomento, sono incapaci di vedere con lucidità mentale e scambiano Cristo per un fantasma, e Pietro affonda per deficienza di quella fede che è propria dei figli di Dio. Le onde dell’inconscio, personale e collettivo, arretrano dove l’io cosciente, l’io cristico avanza. Solo nell’io cosciente e consapevole, nell’io costruito da virtù e intelletto, risiede la libertà di scelta e di orientamento; fuori di esso non vi è scelta di fronte ai vari stimoli delle forze inconsce personali e collettive. L’io cosciente e consapevole raggiunge il potere dei figli di Dio, potere di creare mentalmente, non di ripetere i pensieri pensati da altri; potere di esplicare il creato, di dominare le leggi della natura, di portare la pace nei flutti sconvolti del mare; potere di ricollegare la terra e il cielo.

(da Giovanni Vannucci, «La religione del Figlio», 19a domenica del tempo ordinario, Anno A; in Risveglio della coscienza, Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) CENS, Milano 1984, pp. 144-146).
Sabato, 30 Giugno 2007 02:05

Il sacerdozio universale dei laici

Il sacerdozio universale dei laici


Le traduzioni greche del testo ebraico dell’Antico Testamento (così la versione di Aquila), applicano il termine laikos, laico, non agli uomini ma alle cose. Per esempio un “viaggio laico”, una “terra laica”, il pane laico (1 Sam. 21,4) (bebelos, nei Settanta, laices panes nella Vulgata) sono le cose “profane” che non sono destinate al servizio del Tempio (1 Sam. 21, 5-6; Ez. 48, 15).

Il sogno di Dom Helder:
il grande giubileo della giustizia

di Marcelo Barros

Se dovessi presentarmi direi che io sono uno della "periferia del villaggio globale", anzi della periferia della periferia. Vengo, infatti da una regione-che-non-conta di un Paese, il Brasile, il cui governo, perfettamente ligio alle direttive del Centro, ha già deciso chi deve vivere e arricchirsi e chi deve morire.

Faccio parte di una comunità che si sforza di testimoniare e di annunciare che la vita può essere vissuta, pur tra le inevitabili contraddizioni, sotto il segno dell'alleanza, nella custodia e dedizione reciproca dei fratelli e delle sorelle. Come figura e anticipazione, nel suo piccolo, del Regno che viene.

Vorrei portare l'attenzione su una figura profetica del nostro tempo, che ha segnato la storia della Chiesa, la storia del mio Paese, la storia dei poveri del mondo ed anche la mia storia personale: Dom Helder Camara, scomparso nel settembre dello scorso anno. Credo valga la pena affrontare il discorso del Giubileo da questa angolazione, perché già qualche anno fa Dom Helder aveva avuto un'intuizione profetica in proposito.

Nel 1992, quando il mondo ricordava i 500 anni dalla conquista dell'America, Helder Camara, già arcivescovo emerito di Olinda e Recife, assieme ad altri pastori latino-americani, come Pedro Casaldaliga, Sèrgio Mendes Arceo, Samuel Ruiz, propose un Giubileo di grazia per il continente latino-americano e per il mondo intero. Doveva essere un Giubileo segnato dalla giustizia per i poveri, dalla riconciliazione tra le Chiese, dal dialogo tra le religioni e da un nuovo patto di convivenza dell'umanità con la terra.

Due anni dopo, fu il papa stesso che, riprendendo e rielaborando questa proposta, indisse il Giubileo dell'anno 2000. A sua volta Dom Helder tradusse la decisione del papa nell'ultima campagna della sua vita: "Per un anno 2000 senza miseria", uno slogan che riassume tutte le grandi operazioni che questo profeta ha lanciato.

Un Giubileo che rievangelizzi la stessa Chiesa

A Roma, in pieno Concilio, Camara riunì molti vescovi del Sud del mondo e alcuni dell'Europa. Con l'aiuto di teologi, come Congar, Chenou e altri, stilarono un documento profetico, nelle cui risoluzioni era detta la sostanza dell'impegno che intendevano assumere: "Noi, vescovi riuniti nel Concilio Vaticano II, rilevate le mancanze nella nostra vita di povertà secondo il Vangelo, [...] con umiltà e nella consapevolezza della nostra debolezza, ma anche con tutta la determinazione e con tutta la forza di cui Dio ci farà grazia, ci impegniamo a:

- cercare di vivere come la gente comune del nostro popolo, per quanto riguarda l'abitazione, l'alimentazione, i mezzi di trasporto e tutto ciò che ne deriva;

- rinunciare all'esibizione e alla realtà della ricchezza, quale si manifesta in special modo negli abiti (tessuti ricchi, colori sgargianti) e nelle insegne di materiale prezioso (oro e argento):

- non possedere beni mobili o immobili, né conti bancari a proprio nome, intestando tutto, in caso di necessità, a nome della diocesi o di opere sociali e benefiche;

- affidare ai laici l'amministrazione delle diocesi, affinché possiamo essere più pastori che amministratori;

- rifiutare che ci si rivolga a noi con nomi o titoli che richiamino l'idea di grandezza e di potere;

- evitare tutto ciò che negli atteggiamenti e nei rapporti sociali, possa apparire come privilegio e preferenza per i ricchi e i potenti;

- dare priorità al lavoro di evangelizzazione e con i più poveri" (cfr. Concilium, n. 4/1977, pp. 43-44).

Questo progetto, che segnò una generazione di pastori, indica un primo obiettivo per questo Giubileo: rievangelizzare la vita, cominciando dalla Chiesa e dalle sue strutture.

E si può ben dire che Helder Camara tradusse in pratica questo programma, in profondità. Mai abitò in un palazzo, né possedette un'automobile, né accettò di essere chiamato "eccellenza" e nemmeno con la forma di rispetto alla terza persona, ecc. Ma, soprattutto, non confuse mai la missione profetica di testimoniare e annunciare il Vangelo con il potere ecclesiastico.

In piena dittatura militare brasiliana, quando l'ottimismo dei primi anni '60 andò svanendo, Helder Camara lanciò l'Operazione Speranza. Questo progetto cominciò con la distribuzione delle terre che appartenevano alla Chiesa e con la formazione di comunità nelle quali i contadini gestivano la terra e i suoi prodotti collettivamente. L'Operazione Speranza fu un eccellente lavoro educativo, affrontò il tema della dignità dei poveri e la ricostruzione della speranza per chi si sentiva escluso.

Dom Helder sosteneva che se l'analisi della realtà viene fatta soltanto a partire dall'osservazione dei fatti, la diagnosi non potrebbe che essere molto pessimista. Ma, se nelle "lenti" con cui osserviamo, c'è l'opzione della fede e della speranza, anche nella notte più fonda sapremo sempre distinguere le prime avvisaglie dell'aurora. Oggi, più che mai, è necessario "ricostruire la speranza".

Gli anni '70 videro la delusione di molte attese che erano fiorite nel decennio precedente. In America Latina si spense la speranza recata dalla "teoria dello sviluppo", le dittature si rafforzarono e, anche a livello ecclesiale, si assistette a una svolta conservatrice. Dom Helder fu allontanato dalla segreteria della Cnbb (Conferenza dei Vescovi brasiliani), dal Celam (Conferenza dei Vescovi latino-americani) e, in seguito, dovette assistere, in molti casi, alla messa in discussione di ciò che aveva costruito dopo il Concilio. Fu allora che egli lanciò il grido: "In tutto il mondo esistono minoranze abramiche, capaci di sperare contro ogni speranza e nuotando controcorrente. Bisogna animarle e riunirle".

Penso che oggi, in Italia, gruppi di solidarietà con il Sud del mondo vivono questa vocazione di essere "minoranze abramiche". Progetti come la Banca Etica, il bilancio di giustizia e il mercato equo--solidale sono espressioni di questo cammino e, in questo senso, sono anticipazioni del grande Giubileo della giustizia che Dio desidera per il mondo.

"Per un 2000 senza miseria"

Da molto tempo Helder Camara parlava della campagna contro la miseria. La proponeva come obiettivo, perché si continuasse, nel contempo, a lavorare agli altri progetti che sono stati qui ricordati. Quando rinunciò all'esercizio dell'episcopato, continuò a vivere a Recife, seguendo da vicino tutto ciò che accadeva. Numerosi sacerdoti, laici impegnati e semplici contadini mantennero uno stretto legame con il loro vecchio vescovo. Dom Helder ascoltava tutti e, non di rado, piangeva senza dir nulla. Progressivamente anche il fisico venne segnato dalla sofferenza. Cominciò a rinunciare a viaggi e discorsi. A quanti incontrava non si stancava di ripetere il suo: "Per un 2000 senza miseria". E quando gli chiedevano in che modo, rispondeva: "Favorendo una cultura dell'austerità e della solidarietà".

Sfortunatamente, il mondo entra nell'anno 2000 in una situazione di povertà e di ingiustizia ancora più grave di quella di allora. Ma, certamente, le "minoranze abramiche" - che anche noi siamo chiamati ad essere - non lasceranno che questo Giubileo sia solo un evento ecclesiale o transitorio.

Il Giubileo, il Giubileo biblico, se vogliamo dire così, per chi lo vuole intendere - e dom Helder lo intese bene -, ci chiama a ritornare al sogno e al progetto di Dio, cominciando a correggere quanto di contrario ad esso non cessa di rendere disumana la nostra storia, le nostre società, le nostre relazioni, le nostre esistenze. "Con le poche forze che ancora ci restano, continuiamo la nostra lotta alla miseria, in ogni luogo in cui sia possibile. Vogliamo fare ciò con tutti voi". Facciamo nostro quest'invito. Da subito e per ogni anno a venire. Allora anche il Giubileo 2000 avrà più senso e, soprattutto, sarà sempre Giubileo.

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