Il simbolismo delle due città, quella di Dio e quella dell’uomo, ricalca da secoli il contrasto tra la trascendenza e la storia, l’utopia e la realtà, la tensione progettuale e la rassegnazione contingente. A partire dall’infuocata immaginazione dell’Apocalisse, anzi, l’opposizione tra la Gerusalemme celeste e la Babilonia imperiale diventa parabola anche dell’antitesi tra bene e male.
Ciò che noi oggi sperimentiamo nelle nostre città è l’impasto tra questi due modelli ma anche una diversa impostazione della sua stessa struttura. Alla precedente società cristallizzata in classi subentra oggi una città scomposta, aggettivo che può rimandare sia al disordine e alla frammentazione sia alla volgarità (essere scomposti). In una delle sue Città invisibili, quella di Marozia, Italo Calvino introduceva una città dei topi, cioè degli ultimi, dei sommersi, dei bassifondi sociali, che si oppone alla città delle rondini che veleggiano liberamente nei cieli della globalità, del nuovo progresso. O, in chiave più analitica, si potrebbe pensare alla distinzione introdotta da Michael Walzer nel suo saggio Sfere di giustizia: da un lato ci sono gli ateniesi, cioè i cittadini a pieno titolo, dotati di autonomia e libertà; dall’altro si raggruppano i meteci, gli stranieri tollerati ma privi della pienezza dei diritti, figli di un dio minore. Di fronte a questa scomposizione che divampa spesso in scompostezza si possono sviluppare e si sono sviluppate interminabili riflessioni di vario genere. Noi ci accontenteremo di una considerazione basata sul grande codice della nostra cultura, la Bibbia, che offre un’interessante geografia dell’anima della città. Si legge fin nelle prime pagine della Genesi che Caino “divenne costruttore di una città cha chiamò Enoch, dal nome del figlio” (4,17). Enoch è l’emblema del giusto che non si estingue nella morte ma è assunto nella comunione gloriosa con Dio: “Enoch camminò con Dio e non fu più perché Dio l’aveva preso con sé” (5,24). Eppure è proprio da lui che discende non solo la complessità della società stanziale urbana con gli artisti e gli artigiani ma anche lo spettro oscuro della violenza, incarnato da Lamech e dal suo terribile programma: “Uccido un uomo per una mia scalfittura e un ragazzo per un mio livido. Sette volte sarà vendicato Caino ma Lamech settantasette” (4,18 – 24). La città oscilla sempre, dunque, tra Enoch e Lamech, tra santità e violenza, bellezza e sfregio; è casta e peccatrice, Gerusalemme e Babilonia. È per questo che, anziché far riferimento alla pur necessaria utopia della Gerusalemme dell’Apocalisse, senza lacrime, morte, lutto, lamento e affanno (21,4), sorgente della speranza cristiana, noi terremo ora davanti agli occhi la Gerusalemme storica eppur trasfigurata, tormentata eppure costruttrice di pace, ingiusta ma capace di conversione, molteplice e diversificata ma anche unita in un comune ideale. È ciò che appare in uno dei più intensi “cantici delle ascensioni” al tempio di Sion e alla città santa, il Salmo 122 (...). Attraverso la molteplicità fraterna, la pace, la giustizia, il bene, la sicurezza, la fede, la città non è più scomposta ma compatta e unita. E non lo è nella semplice convivenza multiculturale, retta da equilibri spesso precari, delicati e instabili, bensì nell’assimilazione, nella comunione, nel dialogo, nell’incontro. Lo scrittore inglese del ‘600 Abraham Cowley, nel suo saggio Il giardino, affermava che “Dio fece il primo giardino e Caino la prima città”; Erskin Caldwell, nella sua famosa Via del tabacco (1932), ribadiva che “la vita della città non è stata creata da Dio”. Ma la Bibbia ci ripete che è possibile erigere una città in cui anche Dio abiti e, con lui, la pace e il bene.
(da Luoghi dell’infinito, n. 77)