I fondamenti teologici del dialogo
nell’ambito delle culture segnate dalla non-credenza
e dall’indifferenza religiosa
di Bruno Forte
1. Gli scenari del tempo
a) Il sogno della modernità e l’“assassinio del Padre”
La metafora della luce esprime nella maniera più intensa il principio ispiratore della modernità, l’ambiziosa pretesa della ragione adulta di comprendere e dominare ogni cosa. Secondo questo progetto - che sta alla base dell’Illuminismo in tutte le sue espressioni -comprendere razionalmente il mondo significa rendere l’uomo finalmente libero, padrone e protagonista del proprio domani, emancipandolo da ogni possibile dipendenza: l’“emancipazione” è il sogno che pervade i grandi processi di trasformazione storica dell’epoca moderna, nati a partire dal “secolo dei lumi” e dalla rivoluzione francese, dall’emancipazione delle classi sfruttate e delle razze oppresse a quella dei popoli del cosiddetto “terzo mondo”, a quella della donna nella varietà dei contesti culturali e sociali. Il sogno di un’emancipazione totale spinge l’uomo moderno a volere una realtà completamente illuminata dal concetto, in cui si esprima senza residui la potenza irradiante della ragione. Dove la ragione trionfa si alza il sole dell’avvenire: in tal senso si può dire che il tempo della modernità è il tempo della luce. L’ebbrezza dello spirito moderno sta precisamente in questa presunzione della ragione assoluta di poter vincere ogni oscurità e assorbire ogni differenza.
L’espressione compiuta di questa ebbrezza è l’“ideologia”: la modernità, tempo del sogno emancipatorio, è anche il tempo delle visioni totali del mondo, proprie delle ideologie. Esse tendono ad imporre la luce della ragione alla realtà tutta intera, fino a stabilire l’equazione fra ideale e reale: è inseguendo questa ambizione che le “grandi narrazioni” ideologiche tendono ad edificare una “società senza padri”, dove non ci siano rapporti verticali, ritenuti sempre di dipendenza, ma solo orizzontali, di parità e reciprocità. Il sole della ragione produce libertà e uguaglianza, e proprio così anche fraternità, egualitarismo fondato sull’unicità della luce del pensiero, che governa il mondo e la vita: “liberté, égalité, fraternité” sono il frutto del trionfo della ragione. La critica alla figura del “padre - padrone” sfocia così nella pretesa della radicale negazione di Dio: come non deve esserci in terra alcuna paternità che crei dipendenza, così non può esservi in cielo alcun Padre di tutti. Non ci sono “partners” divini, non c’è un altro mondo, c’è solo questa storia, quest’orizzonte: l’unica idea del divino che può restare dinanzi al tribunale della ragione adulta sembra quella di un Dio morto, insensato, inutile (“Deus mortuus, Deus otiosus”). L’assassinio collettivo del Padre si consuma nella convinzione che l’uomo dovrà gestirsi la vita da solo, costruendo il proprio destino soltanto con le proprie mani: le ideologie moderne, di destra o di sinistra, hanno inseguito la meta ambiziosa di emancipare gli abitatori del tempo in modo così radicale, da renderli da oggetto soggetto esclusivo della loro storia, al tempo stesso origine e meta di tutto ciò che accade.
Non si può negare che questo progetto sia grandioso e che tutti ne siamo in qualche misura eredi: chi vorrebbe vivere in una società che non sia passata attraverso il processo dell’emancipazione? E tuttavia, questo sogno ha prodotto anche effetti satanici: proprio a causa della sua ambizione totale l’ideologia diventa violenta. La realtà viene piegata alla forza del concetto: la “volontà di potenza” (F. Nietzsche) della ragione vuol dominare la vita e la storia per adeguarle al proprio progetto. Il sogno di totalità si fa inesorabilmente totalitario: il tutto - così come è compreso dalla ragione - produce totalitarismo. Non a caso, né per un semplice incidente di percorso, tutte le avventure dell’ideologia moderna, di destra come di sinistra, dall’ideologia borghese a quella rivoluzionaria, sfociano in forme totalitarie e violente. Ed è precisamente l’esperienza storica della violenza dei totalitarismi ideologici a produrre la crisi e il tramonto delle pretese della ragione moderna: “La terra interamente illuminata - affermano Max Horkheimer e Theodor W. Adorno all’inizio della loro Dialettica dell’Illuminismo - risplende all’insegna di trionfale sventura". (1) Il pensiero senza ombre si risolve in tragedia: lungi dal produrre emancipazione, genera dolore, alienazione e morte. La moderna “società senza padri” non genera figli più liberi e più uguali, ma produce dipendenze drammatiche da quelli che di volta in volta si offrono come i “surrogati” del padre: il “capo”, il “partito”, la “causa” diventano i nuovi padroni, e la libertà promessa e sognata si risolve in una massificazione dolorosa e grigia, sostenuta dalla violenza e dalla paura. L’assassinio collettivo del padre non ha impedito, insomma, la prolificazione di “padri - padroni” sotto mentite spoglie...
b) La società senza padri e il “secolo breve”
Il sogno di emancipare il mondo e la vita sembra dunque essersi infranto contro l’inaudita violenza che l’epoca dell’emancipazione ha prodotto, di cui sono segno eloquente le guerre, le pulizie etniche, i forni crematori, la Shoà e tutti i genocidi del nostro secolo, fino all’eccidio per fame che ogni giorno si consuma nel mondo. È questo il frutto della ragione adulta? Dove sono i cieli nuovi e le terre nuove che le grandi narrazioni ideologiche avevano promesso? Sta qui il dramma con cui si chiude il XX secolo: un dramma morale, una crisi di senso, un vuoto di speranza. Se per la ragione moderna tutto aveva senso all’interno di un processo totale, per il pensiero debole della condizione post-moderna - naufrago nel grande mare della storia dopo il fallimento delle presunzioni ideologiche - nulla sembra avere più senso. In reazione alle pretese fallimentari della ragione forte si profila un tempo di naufragio e di caduta: la crisi del senso diventa la caratteristica peculiare dell’inquietudine postmoderna. In questo tempo di “notte del mondo” (Martin Heidegger) ciò che trionfa sembra essere l’indifferenza, la perdita del gusto a cercare le ragioni ultime del vivere e del morire umano. Si profila così l’estremo volto del secolo che volge alla fine: il volto del nichilismo.
Il nichilismo non è l’abbandono dei valori, la rinuncia a vivere qualcosa per cui valga la pena di vivere, ma un processo più sottile: esso priva l’uomo del gusto di impegnarsi per una ragione più alta, lo spoglia di quelle motivazioni forti che l’ideologia ancora sembrava offrirgli. Ciò di cui si è più malati oggi è la mancanza di “passione per la verità”: questo è il volto tragico del post-moderno. Nel clima del nichilismo diffuso tutto cospira a portare gli uomini a non pensare più, a fuggire la fatica e la passione del vero, per abbandonarsi all’immediatamente fruibile, calcolabile col solo interesse della consumazione immediata. È il trionfo della maschera a scapito della verità: perfino i valori sono spesso ridotti a coperture da sbandierare per nascondere l’assenza di significato. L’uomo stesso sembra risolversi in una “passione inutile” (secondo la formula proposta con inquietante anticipo sulla fine dei mondi ideologici da Jean-Paul Sartre: “l’homme, une passion inutile”). Si potrebbe dire che la malattia più profonda dell’epoca che chiamiamo post_moderna sia la definitiva rinuncia a un padre-madre verso cui tendere le braccia dell’attesa, e dunque il non avere più la volontà o il desiderio di cercare il senso per cui valga la pena di vivere e di morire.
Orfani delle ideologie, si rischia di essere tutti più fragili, più tentati di chiudersi nella solitudine dei propri egoismi. È per questo che le società post-ideologiche stanno diventando sempre più “folle di solitudini”, in cui ognuno cura il suo interesse particolare secondo una logica esclusivamente egoistica e strumentale: di fronte al nulla del senso ultimo, ci si aggrappa all’interesse penultimo, alla cattura del possesso immediato. È questa la ragione del trionfo del consumismo più sfacciato, della corsa all’edonismo e all’immediatamente fruibile, ma è anche questo il motivo profondo dell’emergere e dell’affermarsi delle logiche settarie, etniche, nazionalistiche o regionalistiche, che si sono diffuse con inquietante virulenza nell’Europa di fine millennio. Quando non si hanno orizzonti grandi di verità, si affoga facilmente nella solitudine egoistica del proprio particolare e la società diventa arcipelago. Proprio questo processo mostra però come tutti abbiamo bisogno di un padre _ madre comune che liberi dalla prigionia della solitudine, che dia un orizzonte per cui sperare e amare: non un orizzonte violento, asfissiante com’era quello dell’ideologia, ma un orizzonte liberante per tutti, rispettoso di tutti.
Se dunque la “società senza padri” ha inseguito il sogno dell’emancipazione e per emanciparsi ha pensato di uccidere il padre, proprio il frutto amaro di un’emancipazione totalitaria e violenta e il vuoto che essa ha lasciato fa avvertire un nuovo bisogno di un padre_madre accogliente nella libertà e nell’amore. Non è certo la ricerca del padre_madre che sia il padre_partito, il padre-padrone, capo indiscusso e indiscutibile, o il padre-denaro, il padre_capitalismo, ma è la nostalgia di un padre_madre che fondino al tempo stesso la dignità di ogni persona, la libertà di tutti, il senso della vita. Ciò di cui c’è insomma soprattutto bisogno davanti all’indifferenza e alla mancanza di passione per la verità dell’epoca in cui ci troviamo è il volto del padre_madre nell’amore: è la nostalgia del Totalmente Altro, di cui Horkheimer e Adorno parlavano prevedendo la crisi delle ideologie. È la nostalgia del Volto nascosto, il bisogno di una patria comune che dia orizzonti di senso senza esercitare violenza. È quanto emerge dall’intera parabola dell’epoca moderna, dal trionfo della ragione illuministica, che tutto voleva abbracciare e spiegare con la sua luce, all’esperienza diffusa della frammentazione e del non-senso, seguita alla caduta degli orizzonti forti dell’ideologia. È il processo che ha caratterizzato il secolo XX, il cosiddetto “secolo breve” (“the Short Twentieth Century”: Eric Hobsbawm) (2) segnato dal trionfo e dalla crisi dell’ottimismo totalitario dei vari modelli ideologici.
La perdurante violenza, gli odi etnici, la cecità dei pregiudizi contro il diverso mostrano come forse troppo presto si sia voluto cantare il “requiem aeternam” delle ideologie e come esse si siano presa la rivincita rispuntando con tutta la virulenza dei loro meccanismi di autogiustificazione e di demonizzazione dell’altro nella sofferenza inflitta a popolazioni inerti, nel genocidio, nella propaganda delle parti contrapposte, nella vendetta terroristica. La metafora della “notte” sembra veramente la meno inadeguata ad esprimere la condizione presente, nonostante il ritorno delle ambizioni ideologiche tese a comprendere tutto col “lume” della ragione. Eppure, paradossalmente, è proprio da questa perdurante e conclamata negazione della fraternità fra gli umani che si leva più forte il grido del bisogno di una fraternità ritrovata, quale solo un padre-madre di tutti può fondare. Si profilano alcuni segnali di attesa: c’è una “nostalgia di perfetta e consumata giustizia” (Max Horkheimer), che si lascia riconoscere proprio nelle inquietudini del presente come una sorta di ricerca del senso perduto. Non si tratta d’“une recherche du temps perdu”, di un’operazione della nostalgia, ma di uno sforzo per ritrovare il senso al di là del naufragio, per riconoscere un orizzonte ultimo su cui misurare il cammino di tutto ciò che è penultimo e fondare eticamente la prassi. Si assiste ad una riscoperta dell’altro, constatando che il prossimo, per il solo fatto d’esistere, può essere ragione del vivere, perché è sfida a uscire da sé, a rischiare l’esodo senza ritorno dell’impegno d’amore per altri. Il nuovo interesse al più debole, specialmente allo straniero in fuga da situazioni di miseria e povertà d’ogni genere, la crescente coscienza delle esigenze della solidarietà a livello locale e universale, l’urgenza di una globalizzazione solidale, possono profilarsi - pur fra molte contraddizioni - come altrettanti segnali di questa ricerca del senso perduto.
Al tempo stesso, sembra affacciarsi una ritrovata nostalgia del Totalmente Altro, una sorta di riscoperta del sacroGaudium et Spes 31). Si intravede in queste parole il ruolo di una fondamentale mediazione paterna-materna, di una sorta di paternità-maternità del senso, che possa riscattare il futuro dalla caduta nel nulla e dalle sue seduzioni. L’Altro - fondamento ultimo delle ragioni del vivere e del vivere insieme - sembra offrirsi come l’oggetto della domanda più vera e profonda aperta dalla crisi del nostro presente, e la nostalgia del Suo volto nascosto sembra delinearsi come quella di un padre-madre che accolga tutti nell’amore... rispetto ad ogni rinuncia nichilista. Si risveglia un bisogno, che potrebbe definirsi genericamente religioso: bisogno di un orizzonte ultimo, di una patria che non siano quelli manipolanti e violenti dell’ideologia. Nelle forme più diverse si profila un “ritorno del Padre”, quantunque non sempre privo di ambiguità e perfino di nostalgie ideologiche. In realtà, se la crisi del moderno è fine delle presunzioni del soggetto assoluto, i segnali del suo superamento - al di là del nichilismo - vanno tutti in direzione di una riscoperta dell’Altro, che offra ragioni di vita e di speranza. Lo aveva intuito con singolare profondità il Concilio Vaticano II nell’affermare: “Legittimamente si può pensare che il futuro dell’umanità sia riposto nelle mani di coloro che saranno capaci di trasmettere alle generazioni future ragioni di vita e di speranza” ((Gaudium et Spes 31). Si intravede in queste parole il ruolo di una fondamentale mediazione paterna-materna, di una sorta di paternità-maternità del senso, che possa riscattare il futuro dalla caduta nel nulla e dalle sue seduzioni. L’Altro - fondamento ultimo delle ragioni del vivere e del vivere insieme - sembra offrirsi come l’oggetto della domanda più vera e profonda aperta dalla crisi del nostro presente, e la nostalgia del Suo volto nascosto sembra delinearsi come quella di un padre-madre che accolga tutti nell’amore...
2. Gli scenari del cuore
a) “Gettati verso la morte” o aperti al Mistero
La domanda che abita al centro del nostro cuore, quella che ci fa inquieti e pensosi, è la domanda dell’infinito dolore del mondo, l’interrogativo ineludibile della morte e della fine di tutto. Se non ci fosse la morte non ci sarebbe neanche il pensiero, tutto sarebbe una piatta eternità, almeno per la nostra limitata capacità di pensare: in questo senso, vivere è anche imparare a morire, educarsi a convivere con la sfida silenziosa, resistente e perseverante della morte. È inutile cercare evasioni o facili consolazioni nella presunzione epicurea di dire: “Quando ci sarà la morte io non ci sarò e finché io ci sono essa non c’è”. Queste parole sono inganno e apparenza, perché la morte non è solo l’ultimo destino o l’ultimo atto, ma è soprattutto una presenza che incombe ogni giorno della vita nella fragilità e nella caducità dell’esistere. Diversi per nascita, possibilità ed esperienze, gli abitatori del tempo sono solidali nella povertà, in quanto sono tutti allo stesso modo “gettati” verso la morte, inesorabilmente diretti verso il “vallo estremo”, avvolto dal silenzio. La vita pare risolversi nell’inesorabile viaggio verso le tenebre: perciò la fatica di esistere è impastata di malinconia e la dimora del tempo appare fasciata dall’abisso del nulla. È sulla vertigine del nulla che si affaccia la situazione emotiva dell’angoscia: sospeso sui silenzi della morte, l’essere umano si fa inquieto riguardo al suo destino.
La ripulsa del nulla suscita - come per contraccolpo - la potenza del domandare: l’uomo diventa domanda a se stesso, interrogativo davanti al quale si schiudono ambiguamente i sentieri di ciò che potrà essere o non sarà mai. Fedele compagna della vita si affaccia la domanda - evasa o accettata, nascosta o cercata - che la morte imprime come ferita nel più profondo del cuore umano. È così che il pensiero nasce dalla morte, la coscienza dalla passione di chi non s’arrende al finale trionfo del nulla. La lotta contro la morte si profila nelle domande che nascono nel cuore come ferite lancinanti, spesso improvvise o inattese: che ne sarà di me? che senso ha la mia vita? dove vado con il bagaglio delle mie pene, delle consolazioni e delle gioie? E quando avrò finalmente conquistato ciò che desidero, che cosa ancora potrò desiderare se non l’ultima vittoria, la vittoria sulla morte? Giunti a considerare il fondo verso cui andiamo, proprio da esso ci viene il bisogno di lottare per vincere l’apparente trionfo della morte. Proprio il fatto che la morte ci rende pensosi e che sentiamo il bisogno di dare significato alle opere e ai giorni è il segno che nel profondo del cuore i pellegrini verso la morte sono in realtà chiamati alla vita. Nel profondo del cuore si affaccia un’indistruttibile nostalgia del volto di Qualcuno, che accolga il nostro dolore e le lacrime, che redima l’infinito dolore del tempo. Quando siamo soli o disperati, quando nessuno sembra volerci più e noi stessi abbiamo ragioni per disprezzarci o rammaricarci di noi, ecco profilarsi in noi la nostalgia di un Altro che possa accoglierci e farci sentire amati al di là di tutto, nonostante tutto, vincendo l’ultimo nemico che è la morte. È quanto esprime Agostino, aprendo le Confessioni: “Fecisti cor nostrum ad te et inquietum est cor nostrum donec requiescat in te” - “Hai fatto il nostro cuore per Te ed è inquieto il nostro cuore finché non riposi in te”.
Nella domanda che ognuno si porta nel più profondo del cuore va dunque profilandosi l’immagine del padre-madre nell’amore, metafora per dire il bisogno di qualcuno cui affidarsi senza riserve, quasi un’àncora, un approdo dove far riposare la nostra stanchezza e il nostro dolore, sicuri di non essere rigettati nell’abisso del nulla. Questo bisogno dell’altro, che sia madre_padre accogliente, quest’attesa profonda, ciascuno può riconoscerla in sé, se solo ha il coraggio di non mascherarsi dietro le proprie presunte grandezze o difese. In quanto tale, la figura del padre-madre nell’amore è il grembo, la patria, l’origine in cui rimettere tutto ciò che noi siamo. Se nel profondo del cuore tutti siamo abitati dall’angoscia della sfida suprema della morte e se questo ci rende pensosi, allora l’immagine paterna-materna dell’amore accogliente è quella che più risponde a ciò di cui tutti abbiamo infinitamente bisogno.
b) Il rifiuto e l’attesa del Padre
Non possiamo allora non chiederci: perché, se questo è vero, sorge in tanti un rifiuto perfino viscerale della figura del padre? perché prima o poi nella vita tutti viviamo un momento di contestazione dell’immagine paterna-materna? Questa palese contraddizione tra il bisogno di un’accoglienza che vinca l’angoscia e il rifiuto di essa, può essere rischiarata dall’analisi del cuore umano: quante volte il rifiuto del padre nasce dal bisogno di affrancarsi da una dipendenza! Quante volte la paternità diventa possessività, schiavitù, dominio! Ecco allora che si profila la condizione drammatica, espressa dalla metafora dell’“assassinio del padre”. L’“assassinio del padre” è una sorta di gesto rituale, un atto volto ad affermare la propria indipendenza e autonomia. Esso è inseparabile dal senso dell’angoscia: se una delle cause profonde dell’angoscia è l’affacciarsi incombente della morte, eliminare la figura del padre_madre che ci accolga vuol dire esporsi ancor più radicalmente all’abbraccio del nulla. È come sperimentare un’infinita orfananza, accendendo di conseguenza ancor più acutamente la nostalgia del padre e della madre accoglienti nell’amore. Ne nasce un comportamento paradossale: da una parte fuggiamo dalla figura paterna-materna per essere liberi e indipendenti come il figliuol prodigo, che sceglie di avere le sue sostanze e gestirsi da solo la vita; dall’altra cresce in noi lo struggente bisogno di qualcuno che ci riveli il volto di un padre_madre nell’amore che non ci faccia sentire schiavi. Veramente abissale è il cuore dell’uomo e lacerante il peso delle sue contraddizioni!
Un padre_madre che ci ami rendendoci liberi è qualcuno che non sia il concorrente della nostra libertà, ma il fondamento di essa, la garanzia ultima della verità e della pace del nostro cuore: qualcuno che sani l’angoscia con la medicina dell’amore, ma sani anche la paura che abbiamo di perdere la nostra libertà facendoci sentire amati in un modo che non crei dipendenze. Di questo padre materno ha bisogno il cuore dell’uomo, assetato di un grembo che avvolga, custodisca e generi instancabilmente alla vita. La scelta che ne consegue è quella urgente e decisiva fra il vivere come pellegrini alla ricerca del Volto nascosto, lasciandoci guidare dalla mano paterna - materna dell’Altro, o il chiuderci nelle nostre paure e nelle nostre solitudini. La vita o è pellegrinaggio o è anticipazione della morte. O è passione, ricerca e quindi inquietudine, o è lasciarsi morire ogni giorno un po’, fuggendo in tutte le evasioni possibili di cui è malata la nostra società, utili per stordirsi e non porsi le domande vere. Occorre prendere una decisione: “Mi alzerò e andrò da mio padre!”. Occorre aprirsi all’ascolto e all’invocazione. È questa la scelta di cui hanno particolare bisogno le donne e gli uomini di quest’epoca post_moderna. Per aiutare i loro compagni di strada a fare questo passo i credenti dovranno essere i primi ad alzarsi e andare verso il Padre, ritornando sempre di nuovo a farsi pellegrini, vincendo la stanchezza e la frustrazione che a volte prende, specie quando sembra che non ci siano risultati. Il credente sa di non essere in questo mondo per vedere i frutti, ma per gettare il seme. Afferma Lutero: “Se anche sapessi che il mondo finirà domani, non esiterei a piantare un seme oggi”. Per chi crede in Dio l’importante non è il raccolto, l’importante è la semina: essa darà i suoi frutti a suo tempo quando e come Dio vorrà. Il no alla frustrazione deve unirsi allora al sì alla passione per la verità che porta a sollevare le vere domande del cuore degli uomini perché cerchino il Volto nascosto, il Volto del padre_madre nell’amore, senso della vita e speranza del mondo...
3. Per il dialogo fra fede e non credenza
Come può la rivelazione, compiutasi in Gesù di Nazaret, Signore e Cristo, parlare alla crisi prodotta dal tracollo delle false sicurezze dell’ideologia e alla dolorosa assenza di ragioni per sperare in grande, caratteristica del nichilismo post-moderno? Come possono credenti e non credenti incontrarsi e dialogare nella verità a partire dalle sfide degli scenari tracciati? La risposta a queste domande non può non segnalare come ai cristiani, impegnati a vivere ed operare in questo mondo in cambiamento, sia richiesto oggi più che mai di render ragione della speranza che è in loro, con dolcezza e rispetto per tutti (cf. 1 Pt 3,15). Sul piano personale ed ecclesiale ciò esige che essi siano discepoli dell’Unico, servi per amore e testimoni del senso nella sequela del loro Signore. Al tempo stesso, nel rapporto fra fede e non credenza - cui le avventure dell’ateismo moderno e l’inquietudine della post-modernità nichilista rendono particolarmente attenti - ciò richiede il superamento di ogni riduzione del cristianesimo a ideologia e la sincera attenzione all’altro in tutta la sua dignità, qualunque sia la sua convinzione. Si scopre così che l’ateo, il solo ateo che sia possibile concepire con radicale serietà, abita forse proprio nel cuore del credente, perché solo chi crede in Dio e ne ha fatto esperienza come del Padre - Madre accogliente nell’amore, può anche “sapere” che cosa sia la Sua negazione e quale infinito dolore comporti la Sua assenza. Il non credente, insomma, non è fuori di chi crede, ma in lui: e questo determina una peculiare caratterizzazione della stessa vita di fede, vissuta non nella presunzione del possesso, ma nella coscienza dell’umile e sempre nuovo bisogno di mettersi al servizio della verità, e di farlo non con avventure individuali, ma nell’indispensabile comunione della Chiesa dell’amore, suscitata e nutrita dallo Spirito.
a) L’ateismo di chi crede
Il credente è il prigioniero dell’Altro: proprio così egli può portare al pensiero la verità della fede, il lasciarsi far prigionieri dell’invisibile, non immediatamente disponibile e certo. Il credente perciò non ha un pensiero totalizzante, luminoso su tutto, ma vive in una sorta di pensiero notturno, carico di attesa, sospeso tra il primo e l’ultimo avvento, già confortato dalla luce che è venuta nelle tenebre e tuttavia ancora assetato di aurora. Il pensiero della fede, non ancora pienamente illuminato dal giorno che appartiene ad un altro tempo e ad un’altra patria, è tuttavia sufficientemente rischiarato per sostenere la fatica di conservare la fede: pensiero umile, appeso alla Croce, che è e resta nella notte del mondo il punto di riferimento del discepolo di Cristo, la stella della redenzione, la rivelazione del Dio accogliente nell’amore. A sua volta, il non credente, che abbia attraversato il guado della modernità, quando è veramente e fino in fondo tale, quando lo è, quindi, non per una semplice qualificazione esteriore, ma per le sofferenze di una vita che lotta con Dio senza riuscire a credere in Lui, vive in una medesima condizione di ricerca e di attesa. La non credenza non è la facile avventura di un rifiuto, che lasci l’uomo come l’ha trovato. La non credenza seria, pensosa, non negligente davanti alle domande vere, è sofferenza, passione di chi paga di persona l’amaro coraggio di non credere.
Non credere in maniera responsabile significa avvertire il lacerante dolore dell’assenza, sperimentando il senso di un’orfananza infinita, di un abbandono totale, quale solo la morte di Dio può creare nel cuore dell’uomo e nella storia del mondo. Perciò, il non credente pensoso, come il credente non negligente, lotta con Dio. “Mi religion es luchar con Dios”: secondo la confessione di Miguel de Unamuno, il testimone del “sentimiento tragico de la vida”, la religione sta tutta in questo “lottare con Dio”. E poiché, non di meno, “vivir es anhelar la vida eterna”, il vivere è inesorabilmente segnato dalla tragicità di dover sostenere l’impari lotta. È nel rispetto di questa dignità del non credere, emersa in tutta la sua luce dopo l’ubriacatura tragica dell’ateismo ideologico e della sua fine, che il credente è chiamato a interrogarsi sulla sua fede e, nella fede pensata, a trovare gli abissi del non credente che è in lui.
Questa compresenza di fede e non credenza è radicata nella stessa condizione umana: nel più profondo delle sue domande, di fronte all’ineludibile ferita del dolore e della morte, l’uomo non si presenta come qualcuno che sia arrivato alla meta, ma come un cercatore della patria lontana, che si lascia permanentemente interrogare, provocare e sedurre dall’orizzonte ultimo. L’uomo che si ferma, sentendosi padrone della verità, l’uomo per il quale la verità non è più Qualcuno, da cui essere sempre più profondamente posseduti, ma qualcosa da possedere, quell’uomo ha cancellato in se stesso non solo Dio, ma la propria dignità di essere umano. La condizione umana è una condizione esodale: l’uomo è in esodo, chiamato permanentemente a uscire da sé, a interrogarsi, in cerca di una patria, intravista, ma non posseduta, in cerca del Padre - Madre accogliente nell’amore... Se l’uomo è costitutivamente un pellegrino verso la vita, un “mendicante del cielo” (Jacques Maritain), la vera tentazione è per lui quella di fermare il cammino, di sentirsi arrivato, non più esule in questo mondo, ma possessore, dominatore di un impossibile “istante eterno”. L’illusione di sentirsi arrivati, il pretendersi soddisfatti, compiuti nella propria vicenda, è la malattia mortale.
Tutto questo vale analogamente per la via di Dio: anche nella vita della fede la grande tentazione è fermarsi. In quanto il cristiano è chiamato alla sequela della Croce, dove Dio ha parlato nella silenziosa e conturbante eloquenza della passione, egli è posto costantemente davanti alla grande scelta: crocifiggere le proprie attese sulla croce di Cristo o crocifiggere Cristo sulla croce delle proprie attese. Proprio così, la Croce è il vangelo della libertà, come mostra l’esodo di Gesù da sé di scelta in scelta, fino alla consegna dell’estremo abbandono! Nell’esperienza quotidiana della vita, come nel cammino della fede, l’uomo è chiamato alla libertà attraverso il prezzo doloroso della continua, ineludibile scelta, che lo pone sempre sulla soglia, sfiorato dalla vertigine dell’una o dell’altra possibilità radicale...
b) La fede come lotta, scandalo, resa
Nel suo permanente uscire da sé per lottare contro la morte e camminare verso la vita, l’uomo è stato raggiunto dalla Parola che viene dal Silenzio, da quel Dio, cioè, che - secondo la fede cristiana - “ha avuto tempo” per l’uomo. Dio esce dal suo eterno silenzio perché la nostra storia entri nel Silenzio della patria e vi dimori. L’incontro dell’umano andare e del divino venire, l’alleanza dell’esodo e dell’avvento è la fede. Essa è lotta e agonia, non il riposo di una certezza posseduta. Chi pensa di aver fede senza lottare, rischia di non credere in nulla. La fede è come l’esperienza di Giacobbe al guado dello Yabbok (cf. Gn 32,23-33): Dio è l’assalitore notturno, l’Altro che viene a te e lotta con te. Se tu non conosci così Dio, se Dio per te non è fuoco divorante, se l’incontro con Lui è per te tranquilla ripetizione di gesti sempre uguali senza passione d’amore, il tuo Dio non è più il Dio vivente, ma il Dio morto, il “Deus otiosus”. Perciò Pascal affermava che Cristo sarà in agonia fino alla fine del tempo: questa agonia è l’agonia dei cristiani, cioè la lotta di credere, di sperare, di amare, la lotta con Dio! Dio è altro da te, libero rispetto a te, come tu sei altro da Lui e libero rispetto a Lui. Guai a perdere il senso di questa distanza e, dunque, di questa sofferenza della non identità! Credere è “cor-dare”, secondo l’ingenua e bella interpretazione dei Medievali, un “dare il cuore” che implica la continua lotta con l’Alterità che non si lascia “risolvere” né “arrestare”. Dio è l’altro da te. Ecco perché il dubbio abiterà sempre la fede.
Solo per chi non sa questo è scandalosa la parola del Battista, che al tramonto della vita, evidentemente inquietato dal dubbio, manda a chiedere a Gesù: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attenderne un altro?” (Mt 11,3). Questa è la prova della fede: lottare con Dio, sapendo che Lui è l’Altro, che sfugge alle nostre certezze e non si lascia addomesticare dalle nostre pretese. Perciò la fede è scandalo: infinite sono le testimonianze di questo scandalo. San Giovanni della Croce lo presenta nella metafora ambivalente della “noche oscura”: “In una notte oscura / con ansie di amor tutta infiammata, / o felice ventura!, / uscii, né fui notata, / stando già la mia casa addormentata. / ... / Notte che mi guidasti! / oh, notte amabile più che l’aurora / oh, notte che hai congiunto / l’Amato con l’amata / l’amata nell’Amato trasformata". (3) La notte oscura è il luogo dello scandalo e il luogo delle nozze: Dio non si trova nella facilità del possesso di questo mondo, ma nella povertà della Croce, nella morte a se stessi, della notte dei sensi e dello spirito. È lì la gioia più grande! La tenebra è il luogo dell’amore, della fede come lotta e come scandalo: Cristo non è la risposta alle nostre domande. Cristo è anzitutto la sovversione di esse. E solo dopo averci portato nel fuoco della desolazione, egli diviene il Dio delle consolazioni e della pace.
Infine, la fede è resa: quando nella lotta capisci che vince chi perde e perdutamente ti consegni a Lui, quando ti arrendi all’assalitore notturno e lasci che la tua vita venga segnata per sempre da quell’incontro, allora la fede si fa abbandono, oblio di sé e gioia della consegna nelle braccia dell’Amato. La fede è affidarsi ciecamente all’Altro. “Tu mi hai sedotto, o Signore, ed io mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto forza e hai prevalso... Mi dicevo: ‘Non penserò più a lui, non parlerò più in suo nome!’ Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo” (Ger 20,7. 9). In queste parole di Geremia troviamo una testimonianza fra le più alte della resa della fede: egli è un uomo che ha vissuto la lotta con Dio, ma che lottando ha saputo conoscere la capitolazione dell’amore al punto da essere pronto a consegnarsi perdutamente a Lui. Così la fede diventa anche un approdo di bellezza e di pace. Non la bellezza che il mondo conosce, la seduzione di una verità totale, che spieghi tutto, ma la bellezza dell’Uomo dei dolori, la bellezza dell’Amore crocifisso, dell’offerta totale di sé al Padre e agli uomini.
Se la fede è tutto questo, se è inseparabilmente lotta, scandalo e resa, allora il credente non cercherà dei segni volgari che esibiscano la fedeltà del Dio in cui crede. Allora crederà in Lui anche quando la risposta alle domande vere del dolore umano resterà custodita nel Suo silenzio. Perciò, il credente è in fondo un ateo che ogni giorno si sforza di cominciare a credere e il non credente, che soffre dell’infinito dolore dell’assenza di Dio, è forse un credente che ogni giorno di nuovo si sforza di cominciare a non credere. Se il credente non vivesse ogni giorno lo sforzo di cominciare a credere, la sua fede non sarebbe altro che una rassicurazione mondana, una delle ideologie che hanno ingannato il mondo e determinato l’alienazione dell’uomo. Contro ogni ideologia, la fede va concepita e vissuta come un continuo convertirsi a Dio, un continuo consegnargli il cuore, cominciando ogni giorno, in modo nuovo, a vivere la fatica di credere, di sperare, di amare: perciò la fede è preghiera, e chi non prega non vivrà di fede! Ma se il credente è un ateo che ogni giorno si sforza di cominciare a credere, non sarà forse l’ateo, il non credente che ha attraversato le avventure della modernità e della sua crisi, un credente che ogni giorno vive la lotta inversa, e cioè la lotta di cominciare a non credere? Non l’ateo banale, ma chi vive la lotta con coscienza retta, chi, avendo cercato e non avendo trovato, patisce il dolore dell’assenza di Dio, non sarà questi fratello di chi crede?
Da qui derivano alcuni “no” e alcuni “sì” per il dialogo responsabile fra credenti e non credenti: il primo “no” è alla negligenza della fede, ad una fede indolente, statica, abitudinaria, fatta di intolleranza comoda, che si difende condannando perché non sa vivere la sofferenza dell’amore. A questo “no” si congiunge il “sì” ad una fede interrogante, anche dubbiosa, capace ogni giorno di cominciare a consegnarsi perdutamente all’altro, per vivere l’esodo senza ritorno verso il Suo Silenzio, dischiuso e celato nella Sua Parola. Da quanto detto viene però parimenti il “no” ad ogni ateismo banale, a ogni negazione ideologica di Dio e del mistero santo, come ne deriva il “sì” all’incessante ricerca del Volto nascosto, del Silenzio al di là della Parola, e della Parola crocifissa dove il Silenzio si apre accogliente alla ricerca del cuore. Forse, in questo tempo di penuria di speranze in grande più che mai la vera differenza non è tra credenti e non credenti, ma tra pensanti e non pensanti, tra uomini e donne che hanno il coraggio di vivere la sofferenza, di continuare a cercare per credere, sperare e amare, e uomini e donne che hanno rinunciato alla lotta, che sembrano essersi accontentati dell’orizzonte penultimo e non sanno più accendersi di desiderio e di nostalgia al pensiero dell’ultimo orizzonte e dell’ultima patria. Qualunque atto, anche il più costoso, è allora degno di essere vissuto per riaccendere in noi il desiderio della patria vera, e il coraggio di tendere ad essa, fino alla fine, oltre la fine...
Perciò il credente fa sua - anche a nome di chi non crede - la preghiera con cui Sant’Agostino chiude la più bella, la più pensata, forse la più tormentata delle sue opere, i quindici libri De Trinitate: “Signore mio Dio, unica mia speranza, fa’ che stanco non smetta di cercarTi, ma cerchi il Tuo volto sempre con ardore. Dammi la forza di cercare, Tu che ti sei fatto incontrare, e mi hai dato la speranza di sempre più incontrarTi. Davanti a Te sta la mia forza e la mia debolezza: conserva quella, guarisci questa. Davanti a Te sta la mia scienza e la mia ignoranza; dove mi hai aperto, accoglimi al mio entrare; dove mi hai chiuso, aprimi quando busso. Fa’ che mi ricordi di Te, che intenda Te, che ami Te!". (4) E, forse, per le stesse ragioni il non credente pensoso avverte il paradossale fascino dell’invocazione, cui non sa sottrarsi: “Concedici, o Signore, i paradisi del nulla, i giardini della tua primavera. Signore che fai della notte un mattino, il mattino che paghiamo con le monete luminose degli astri, astri della notte, guide degli erranti, degli erranti verso l’infinito: cos’è il cielo se non l’infinita via verso il nulla? Che è il nulla se non un ritorno, il tuo ritorno? Che è l’infinito se non un ritorno?". (5) Nell’inquietudine della domanda, la fede di chi crede può incontrarsi con l’invocazione di chi vorrebbe credere: sul fondamento della comune povertà e della comune ricerca, ma anche sull’ascolto dell’altro che abita nel più profondo di ciascuno dei partners dell’incontro, il dialogo fra credenti e non credenti si offre come una sfida fra le più alte ed arricchenti nelle culture segnate dalla non-credenza e dall’indifferenza religiosa, che sono in particolare quelle dell’Europa del nostro tempo postmoderno. Saremo pronti come credenti e come Chiesa a raccogliere questa sfida e a viverla senza paura, con spirito e cuore, fiduciosi nella fedeltà di Dio? Su questa domanda siamo chiamati a misurarci e a operare le scelte del nostro impegno nella sequela del Signore Gesù, come singoli e come Chiesa.
Note
1) M. Horkheimer - Th. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1966, 11.2) E. Hobsbawm, Il secolo breve, Rizzoli, Milano 1995. 199816.
3) S. Giovanni della Croce, Noche oscura, Strofe 1 e 5: “En una noche oscura, / con ansias, en amores inflamada, / ¡oh dichosa ventura!, / salí sin ser notada, / estando ya mi casa sosegada. / ... / ¡Oh noche que guiaste! / ¡Oh noche amable más que el alborada! / ¡Oh noche que juntaste / Amado con amada / amada en el Amado transformada!”.
4) De Trinitate, 15, 28, 51: PL 42,1098.
5) A. Emo, Le voci delle muse, a cura di M. Donà e R. Gasparotti, Marsilio, Venezia 1992, 75.