Ecumene

Giovedì, 14 Giugno 2007 01:08

A partire dalla tolleranza (Avery Dulles)

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LE RELAZIONI TRA LE RELIGIONI

A partire dalla tolleranza

di Avery Dulles

Le relazioni fra le varie religioni del mondo sono state spesso ostili, e in molti luoghi lo restano tuttora. Prendendo in mano un quotidiano, difficilmente possiamo evitare di imbatterci in articoli su conflitti fra ebrei e musulmani, fra musulmani e indù, fra indù e sikh o fra musulmani e bahai. In un qualche periodo storico ognuna di queste religioni si è scontrata con il cristianesimo. Il cristianesimo, da parte sua, ha ampiamente contribuito a tensioni e conflitti interreligiosi. I cristiani hanno perseguitato gli ebrei e hanno organizzato guerre sante contro i musulmani. In seno al cristianesimo vi sono state guerre micidiali, specialmente fra protestanti e cattolici, ma a volte anche con gli ortodossi. Scontri del genere continuano, ad esempio, in Irlanda del Nord, anche se non sarebbe giusto presentare la Chiesa cattolica come belligerante in questo conflitto, poiché le sue autorità hanno disapprovato la violenza da entrambe le parti.

Dal punto di vista americano, non siamo assolutamente interessati a una guerra contro l’islam. Il nostro paese è ospitale nei riguardi dei musulmani, che costituiscono oltre un milione della sua popolazione. Essi godono di una piena libertà di culto in tutto il Nord America e in tutta l’Europa occidentale. Una nuova crociata non sarebbe sostenuta da nessuna delle grandi potenze dell’Occidente e non avrebbe certamente la benedizione delle autorità religiose cristiane. Il nostro scontro con Osama bin Laden riguarda unicamente la sua politica della violenza, che non sembra accordarsi con i principi fondamentali del vero islam.

Da parte araba, la religione è un elemento presente, ma estremisti musulmani come bin Laden sembrano operare per fini culturali, politici, etnici ed economici più che puramente religiosi. Essi ce l’hanno con il potere degli Stati Uniti e dei loro alleati, che considerano arroganti e brutali. E, più profondamente, provano un senso di ripugnanza verso quella che ritengono essere la cultura dell’Occidente. Non ce l’hanno in primo luogo con il cristianesimo in quanto religione, quanto piuttosto e soprattutto con quella che considerano la perdita della religione in Occidente: il suo eccessivo individualismo, la sua pratica licenziosa della libertà, il suo materialismo, il suo consumismo improntato alla ricerca del piacere e del divertimento. Essi vedono in questa cultura edonistica una minaccia, poiché esercita una forte seduzione su molti giovani delle società tradizionalmente islamiche dell’Asia, dell’Africa e di altri continenti.

Se questa analisi è corretta, la globalizzazione potrebbe essere considerata la causa soggiacente al conflitto in Afghanistan. I moderni mezzi di trasporto e di comunicazione mettono a contatto culture che si sono sviluppate in modo relativamente autonomo nelle varie parti del mondo. L’incontro provoca una sorta di trauma culturale, specialmente in paesi che non sono passati attraverso quel graduale processo di industrializzazione e modernizzazione che è intervenuto in Occidente due secoli fa.

Ora i cristiani del Nord America e dell’Europa occidentale sono abituati ad avere rapporti con ebrei, musulmani, indù, buddhisti e membri di qualsiasi altra religione. Attualmente, in presenza di un’immigrazione su larga scala e di una generalizzata disponibilità dei moderni mezzi di comunicazione, nessuna religione può più pretendere di esercitare il proprio dominio esclusivo su una determinata regione e di proteggere i propri seguaci dal contatto con altre fedi. Piaccia o non piaccia, siamo in genere destinati a vivere in società religiosamente miste, comprendenti persone di varie fedi e anche persone che non praticano alcuna fede.

Perciò, dobbiamo discutere i modi in cui le varie religioni possono relazionarsi fra loro. Vorrei proporre una tipologia comprendente quattro possibili modelli: coercizione, convergenza, pluralismo e tolleranza.

Il primo modello, quello della coercizione, ha predominato nella maggior parte della storia umana. In molte epoche storiche le autorità politiche hanno voluto imporre un’unica religione nei territori sottoposti alla loro giurisdizione e costringere le popolazioni sottomesse ad adottare la religione del conquistatore. Per un certo periodo l’Impero romano ha accettato il pluralismo religioso, ma ben presto gli imperatori hanno cominciato a pretendere per sé onori divini. Così sono giunti a perseguitare quelle religioni, come il cristianesimo, che rifiutavano un tale culto. Quando l’Impero ha adottato il cristianesimo come religione ufficiale, gli imperatori hanno incominciato a imporre l’ortodossia cristiana e a perseguitare tutte le altre religioni, comprese le forme dissidenti del cristianesimo. Il modello di un’unica religione per uno stesso stato è rimasto il modello normativo anche dopo la Riforma e fin nella prima parte dell’epoca moderna. Le terribili guerre e persecuzioni del XVI e XVII secolo sono state in gran parte dovute all’idea che ogni stato doveva avere una sola religione, quella del suo sovrano (cuius regio eius religio).

In questa situazione, le guerre fra gli stati sono diventate spesso, sotto un altro aspetto, guerre fra religioni. Le crociate illustrano molto bene questa realtà. Pur essendo normalmente presentati come aggressori, in realtà gli europei hanno condotto in gran parte un’azione militare difensiva. Gli arabi e i turchi hanno conquistato la Siria, il Nord Africa e ampie aree del territorio europeo, fra cui il Portogallo, la Spagna, la Francia meridionale, regioni dell’Italia e della Svizzera in Occidente e i Balcani, l’attuale Iugoslavia e l’Ungheria in Oriente. L’avanzata delle forze musulmane ha comportato ovviamente la diffusione dell’islam in quanto religione e la loro ritirata ha comportato, il più delle volte, la cristianizzazione forzata dei territori da essi perduti, come si può vedere nel caso della Spagna del XV secolo, che ha espulso tutti gli ebrei e i musulmani che non accettavano di convertirsi al cristianesimo.

Nell’attuale situazione di «villaggio globale» è difficile mantenere il modello della coercizione. In seguito alle sanguinose «guerre di religione», l’Europa e gli Stati Uniti hanno imparato la lezione e si sono resi conto che i costi erano eccessivi. Dal punto di vista della teologia cristiana, il tentativo di convertire le persone con la spada è insostenibile. Protestanti e cattolici hanno imparato che l’adesione alla fede deve essere un atto libero e non imposto. I passati tentativi di costringere le persone a convertirsi sono serviti a screditare la religione e hanno favorito la diffusione dell’indifferentismo e di atteggiamenti a-religiosi.

Senza dubbio esistono ancora nel mondo governanti che cercano di imporre l’uniformità religiosa. Sono vicini molesti e vere minacce alla pace mondiale. Dal punto di vista cristiano, le loro politiche coercitive vanno disapprovate. Ritengo che con il passare del tempo riconosceranno che le loro politiche sono sbagliate. Infatti, come ho detto, dati i moderni mezzi di trasporto e di comunicazione, diventa molto difficile impedire lo sviluppo di varie comunità religiose in ogni regione del mondo. Anche se alcuni governi autoritari possano contrastare la penetrazione di altre fedi, come avviene attualmente in certe regioni musulmane, induiste e buddhiste, alla fine le barriere saranno sfondate e crolleranno. Presto o tardi le popolazioni che sono state costrette ad adottare la religione dei loro governanti chiederanno la libertà di seguire la propria coscienza e testimoniare le proprie autentiche convinzioni religiose.

Nonostante le battute d’arresto e le ricadute, l’onda della storia ha favorito la libertà religiosa. L’Unione sovietica non è riuscita a imporre la propria ideologia atea per più di settant’anni. La coercizione religiosa sopravvive solo in nazioni che sono giunte molto tardi alla modernità. Essa è promossa da estremisti che avvertono la necessità di ricorrere a misure disperate per salvare la propria concezione teocratica dello stato.

Il secondo modello di relazione fra le religioni è quello della convergenza. Convinti che l’impulso religioso è essenzialmente lo stesso in tutte le persone e in tutti i popoli, certi studiosi affermano che le religioni concordano negli aspetti essenziali e che le loro differenze sono solo esteriori. Negli anni settanta John Hick, fra gli altri, ha affermato che le religioni potevano accordarsi sulla base del teocentrismo e riconoscere che le loro differenze riguardo ai mezzi della salvezza erano culturalmente condizionate. (1) Ma il teocentrismo non è una piattaforma soddisfacente per il dialogo con molte religioni, che sono politeiste, panteiste o atee. Anche le religioni chiaramente teiste, come l’ebraismo, l’islam e il cristianesimo, non vogliono rinunciare alle loro convinzioni riguardo alla via per giungere a Dio, sia essa la legge di Mosé, il Corano o Gesù Cristo.

Perciò, abbandonando l’idea teocentrica della convergenza religiosa, vari studiosi hanno adottato recentemente quello che essi chiamano il modello «soteriocentrico». (2) Essi affermano che tutte le religioni concordano sul fatto che lo scopo della religione è dare la salvezza o la liberazione, che esse intendono in modi diversi, probabilmente a causa della varietà delle culture. E ritengono che mediante il dialogo sulla liberazione le religioni potrebbero superare le loro reciproche divisioni.

Queste teorie della convergenza partono dal presupposto che tutte le religioni, perlomeno nei tratti che le differenziano, sono costruzioni umane, incerti tentativi di esprimere il mistero sacro e trascendente che circonda l’esistenza umana. Ma questa teoria contraddice l’insegnamento ufficiale e l’identità storica delle religioni e incontra delle resistenze da parte delle persone autenticamente religiose, le quali affermano che la loro fede specifica è vera, anzi divinamente rivelata. I cristiani ritengono che dottrine centrali della loro fede, come la Trinità e l’Incarnazione, fanno parte della rivelazione e non possono essere sacrificate per conseguire una qualche ipotetica riconciliazione. Gli ebrei aderiscono appassionatamente alla legge di Mosé e alla tradizione rabbinica. I musulmani, da parte loro, considerano il Corano la rivelazione definitiva di Dio e vedono in Mohammed il maggiore e l’ultimo dei profeti. La soteriologia è un fattore di divisione, perché le religioni sono fortemente discordi sulla via della salvezza. Perciò, come rimedio alla disunione il soteriocentrismo non promette nulla di più del teocentrismo.

Il terzo modello d’incontro religioso è quello del pluralismo. Con questo termine non mi riferisco solo alla molteplicità delle religioni, ma all’idea che essa rappresenti una benedizione. Si afferma che ogni religione riflette determinati aspetti del divino. Questi aspetti sono tutti parzialmente veri, ma hanno bisogno di essere integrati e controbilanciati dagli elementi di verità che si trovano nelle altre religioni. La coesistenza di tutte le religioni cancella gli errori e supera i limiti di ciascuna di esse presa singolarmente. Come affermava nel IV secolo il retore Simmaco nella sua discussione con sant’Ambrogio: «È impossibile che ci si possa avvicinare a un mistero così grande percorrendo una sola strada». (3)

Questo approccio esercita un certo fascino sui relativisti, i quali affermano che la mente umana non può raggiungere la verità oggettiva e che la religione è espressione di sentimenti puramente soggettivi. Ma esso non convince i credenti ortodossi, i quali sostengono che le dottrine della propria religione sono oggettivamente e universalmente vere. Il cristianesimo sta e cade con l’affermazione che vi sono realmente tre persone in Dio e che la seconda, il Figlio eterno, si è incarnata in Gesù Cristo. I cristiani non hanno difficoltà a riconoscere l’esistenza di elementi di verità e di bontà in altre religioni, ma non smettono di insistere sulla necessità di trasmettere a tutti i popoli la rivelazione di Dio in Cristo. Allo stesso modo, gli ebrei e i musulmani impegnati considerano le loro religioni come divinamente rivelate e rifiutano ogni tentativo di porre tutte le religioni sullo stesso piano.

Naturalmente, questa risposta negativa non significa che i seguaci delle diverse religioni non abbiano nulla da imparare gli uni dagli altri. Il cristianesimo si è sviluppato lungo i secoli entrando in contatto con una grande varietà di filosofie e di religioni, che hanno permesso ai cristiani di scoprire nella loro fede implicazioni che altrimenti non avrebbero riconosciuto. Il cristianesimo cresce come un organismo che assume il cibo dall’ambiente in cui vive e lo assimila in se stesso. Non ammette la validità di dottrine e pratiche che contraddicono la sua auto-comprensione. Come vedremo fra poco, il dialogo può accrescere il reciproco rispetto delle diverse religioni, ma l’esperienza non offre alcun motivo per ritenere che esso induca a concludere che tutte le religioni sono ugualmente buone e vere. Sui punti in cui si contraddicono a vicenda, perlomeno una di esse deve essere errata.

E veniamo alla quarta opzione, quella che io chiamo della tolleranza. Tolleranza non equivale ad approvazione, anche se in genere comprende un qualche grado di approvazione. Noi tolleriamo cose che non riteniamo nemmeno accettabili, perché non riusciamo a eliminarle o perché la loro soppressione sarebbe in se stessa un male. Nel XVIII secolo, il principio della tolleranza – come viene espresso, ad esempio, da John Locke nella sua famosa Lettera sulla tolleranza – è stato generalmente accettato in molti paesi dell’Europa occidentale.

Quel principio ha giocato un ruolo fondamentale nell’esperimento americano della libertà ordinata. Nel nostro paese abbiamo avuto fin dall’inizio una grande varietà di denominazioni cristiane che si consideravano reciprocamente nell’errore. L’ordinamento politico americano non ha richiesto loro di approvare le reciproche dottrine e pratiche, ma ha preteso che rinunciassero a ogni iniziativa volta a costringere i membri di altre denominazioni a concordare con esse. Nel corso del tempo la scena religiosa è diventata sempre più varia. Oggi, essa contiene un numero molto maggiore di varietà di cristianesimo rispetto a quelle che erano presenti all’inizio. Inoltre, il paese ha accolto sulle sue coste moltissimi ebrei, musulmani, buddhisti e indù. E tuttavia, a parte qualche rara eccezione, tutti questi gruppi religiosi vivono pacificamente insieme, senza interferire nella dottrina, nella vita e nel culto degli altri. L’esperimento americano ha funzionato abbastanza bene, per cui può rappresentare un possibile modello per la comunità internazionale, che in questi tempi sta sperimentando le doglie del parto.

Anche se il termine «tolleranza» non ricorre molto nell’insegnamento ufficiale cattolico nel corso degli ultimi cinquant’anni, questo quarto modello è, a mio avviso, quello che corrisponde meglio alla dottrina del magistero. Nel 1953, in un importante discorso, Pio XII ha affermato che nella comunità mondiale che allora stava nascendo, la Chiesa cattolica non pretendeva di avere un posto privilegiato o di essere riconosciuta come religione istituita. Essa chiedeva unicamente che alle varie religioni fosse concessa la piena libertà di insegnare le proprie convinzioni e praticare la propria fede. (4) Nella dichiarazione Nostra aetate sulle religioni non cristiane e nella Dignitatis humanae sulla libertà religiosa, il concilio Vaticano II ha assunto questo modello come un modello adatto ai singoli stati-nazione.

Il concilio Vaticano II rinuncia espressamente al ricorso a ogni sorta di coercizione, sia essa fisica o morale, affinché altri entrino nella Chiesa cattolica. Esso insegna che si deve riconoscere e rispettare la libertà religiosa di tutti i cittadini e di tutte le comunità religiose, anche là dove l’ordinamento giuridico attribuisce uno speciale riconoscimento a una determinata religione (cf. Dignitatis humanae, n. 6; EV 1/1060). Per la pace della società civile e per l’integrità delle stesse religioni è essenziale promuovere un clima di reciproca tolleranza e reciproco rispetto.

A volte il concilio Vaticano II è stato frainteso, ritenendo che esso avesse adottato il modello pluralistico e rinunciato alle pretese esclusive del cristianesimo. (5) In realtà, il concilio ha insistito sull’unica verità della fede cattolica e sul dovere di tutti di cercare la vera religione e abbracciarla una volta trovata (cf. Dignitatis humanae, n. 1; EV 1/1043).

Il concilio Vaticano II ha proclamato una cristologia molto elevata. Ha insegnato che Dio ha costituito Cristo principio di salvezza per il mondo intero (cf. Lumen gentium, n. 17; EV 1/327) e che egli è «il fine della storia umana, il punto focale dei desideri della storia e della civiltà, il centro del genere umano, la gioia di ogni cuore, la pienezza delle loro aspirazioni» (Gaudium et spes, n. 45; EV 1/1464). Il Concilio cita Paolo, secondo cui il disegno dell’amore di Dio è quello di «ricapitolare tutte le cose in Cristo, quelle del cielo come quelle della terra» (Gaudium et spes, n. 45, che cita Ef 1,10; EV 1/1464).

In base alla sua alta cristologia, il concilio Vaticano II si è premurato di insistere sull’unica mediazione di Cristo e di sottolineare l’importanza permanente dell’attività missionaria. Riconoscendo in Cristo il redentore del mondo, il Concilio ha invitato i cristiani a diffondere il più ampiamente possibile il Vangelo. Non conoscere il Vangelo o negarlo equivarrebbe a trascurare o rifiutare il maggiore dono fatto da Dio all’umanità. Mediante il suo dinamismo interno, la Chiesa tende a diffondersi e ad accogliere nel suo grembo membri di ogni razza e nazione. Il decreto Ad genteshanno bisogno di Cristo, modello, maestro, liberatore, salvatore, vivificatore» (n. 8; EV 1/1107). sull’attività missionaria afferma che, avendo peccato ed essendo sprovvisti della gloria di Dio, tutti gli esseri umani «

Riguardo alle religioni non cristiane, il Concilio insegna che esse spesso contengono «semi del Verbo» e «raggi di quella divina verità che illumina ogni uomo», ma non insegna che queste religioni sono rivelate o che sono vie di salvezza o che possono essere accettabili alternative al cristianesimo. Naturalmente l’ebraismo detiene un posto speciale fra le religioni non cristiane, poiché la fede di Israele è il fondamento sul quale poggia il cristianesimo (cf. Nostra aetate, n. 4; EV 1/861ss). La Bibbia ebraica conserva un valore perenne in quanto parola di Dio divinamente ispirata e rivelazione di Dio al popolo eletto prima della venuta di Cristo (cf. Dei verbum, n. 14; EV 1/895).

Il Concilio è ben lungi dall’insegnare che le altre religioni sono prive di errori. Esso dichiara che «molto spesso gli uomini, ingannati dal maligno, hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e hanno scambiato la verità divina con la menzogna, servendo la creatura piuttosto che il Creatore (cf. Rm 1,21.25)... Perciò, per promuovere la gloria di Dio e la salvezza di tutti costoro, la Chiesa, memore del comando del Signore che dice: «Predicate il Vangelo a ogni creatura» (Mc 16,16), promuove con ogni cura le missioni» (Lumen gentium, n. 16; EV 1/326).

L’evangelizzazione, secondo l’Ad gentes, purifica i riti e le culture dei popoli «dalle scorie del male e [li] restituisce al suo autore, Cristo, che rovescia il regno del demonio e allontana la multiforme malizia del peccato» (n. 9; EV 1/1109). Queste espressioni significano che le altre religioni non sono assolutamente sostituti adeguati del cristianesimo. Ciò implica che sotto certi aspetti esse possono ostacolare la salvezza dei loro seguaci. In questa misura l’atteggiamento del Concilio nei loro riguardi è un atteggiamento che comporta approvazione limitata e tolleranza.

A volte si pretende che le convinzioni assolute, come ad esempio le affermazioni avanzate dalle sacre Scritture e dai concili a proposito di Gesù Cristo, generino oppressione e violenza. Credo che sia vero il contrario. I leader del movimento antischiavista del XIX secolo e del movimento dei diritti civili del XX secolo, nonché i grandi fautori della non violenza, sono stati generalmente uomini e donne dotati di una forte convinzione religiosa.

Chi non riconosce alcun assoluto morale non dispone di basi abbastanza solide per difendere i diritti umani e la dignità umana. Chi non sa con certezza se la soppressione di una vita innocente sia o meno incondizionatamente vietata, potrà addurre solo deboli motivazioni contro il genocidio e contro la massiccia strage di innocenti che avviene in tutto il mondo nelle cliniche in cui si pratica l’aborto. Ovviamente, è possibile che certe persone che si oppongono all’aborto possano, orientandosi in modo fuorviato, uccidere coloro che praticano l’aborto, ma casi del genere sono rari, e violano anch’essi i principi etici cattolici che vietano agli individui di farsi giustizia da soli.

I cristiani sono tolleranti nei riguardi delle altre religioni, non nonostante la loro assoluta certezza della rivelazione, ma in parte proprio a causa di essa. La rivelazione li assicura che Dio ha creato gli esseri umani a sua immagine come soggetti liberi e responsabili. Essa insegna anche che la fede è per sua natura un atto libero. La Dignitatis humanae afferma chiaramente che i cristiani devono rispettare il diritto e il dovere di tutte le persone di cercare la verità in campo religioso e di aderirvi una volta trovata. Ai credenti deve essere consentito di professare e praticare la propria religione, a patto che, così facendo, non contravvengano alle esigenze di un giusto ordine pubblico.

L’atteggiamento della tolleranza e dell’approvazione limitata, quando è reciproco, apre la strada a varie strategie che possono condurre a una coesistenza pacifica e amichevole. Vorrei ricordare, anzitutto, la strada della conoscenza. Normalmente i vari gruppi religiosi provano un sano stimolo a cercare di conoscere gli altri, incontrandosi nella vita reale e informandosi accuratamente gli uni sugli altri mediante lo studio e la lettura. In una società multireligiosa le persone dovrebbero essere educate non solo nella loro fede, ma anche, in qualche misura, nella fede delle persone con cui dovranno interagire. Tutti dovrebbero guardarsi da caricature basate sul pregiudizio e sull’ignoranza.

In secondo luogo, i gruppi possono impegnarsi insieme in alcuni programmi basati su un comune riconoscimento di valori morali fondamentali. Persone appartenenti a fedi diverse hanno delle opportunità di lavorare insieme su obiettivi quali la difesa della famiglia, i diritti dei migranti e dei rifugiati, la diminuzione della povertà e della fame, la prevenzione e la cura delle malattie, la promozione della pace a livello nazionale e internazionale, la tutela dell’ambiente. A causa della loro autorità sulla coscienza dei fedeli, i gruppi religiosi possono offrire forti motivazioni a sostegno di riforme in prospettiva umanitaria.

In terzo luogo, i gruppi possono testimoniare insieme le comuni convinzioni religiose e morali. Molte religioni concordano sull’importanza della preghiera e del culto. Esse incoraggiano la ricerca della santità e combattono contro vizi socialmente dannosi, quali l’ira, il furto, la disonestà, la promiscuità sessuale e l’alcolismo. In una società minacciata dall’egoismo e dall’edonismo, le voci concordi dei leader religiosi possono offrire un importante contribuito all’elevazione del livello della pubblica moralità.

In quarto luogo, in certe occasioni i vari gruppi possono pregare insieme e organizzare celebrazioni interreligiose. Due emblematiche espressioni di questa forma di approvazione limitata sono state le giornate di preghiera per la pace convocate dal papa Giovanni Paolo II nel 1986 e nel 1993. Dopo i terribili avvenimenti dell’11 settembre 2001 si sono tenuti a New York e in altre città molti incontri interreligiosi basati sulla preghiera e sulla riflessione silenziosa.

In quinto luogo, una necessità molto importante, spesso sottolineata dal papa Giovanni Paolo II, è quella della guarigione delle memorie. Basandosi fortemente sulla tradizione, la religione perpetua le esperienze passate della comunità di fede, compresi i suoi momenti di gloria, di sofferenza e di umiliazione. Le ferite inferte anche in un lontano o lontanissimo passato continuano a bruciare e ad alimentare l’ostilità. Se non si affrontano onestamente, le radici del risentimento avvelenano l’atmosfera, per cui si incolpano ingiustamente uomini e donne dei nostri giorni delle malefatte reali o immaginarie dei loro antenati. Per ristabilire l’amicizia, le comunità dovrebbero ripudiare i comportamenti attribuiti ai loro predecessori. È opportuno che esse chiedano perdono per ciò che possono aver fatto i loro predecessori e offrano perdono per le colpe che hanno patito le loro stesse comunità. Giovanni Paolo II ha coraggiosamente imboccato questa strada nei suoi rapporti con altre Chiese cristiane, con gli ebrei e con i musulmani. Queste espressioni di pentimento e di perdono sono un’importante azione interreligiosa.

In sesto luogo, a partire dal concilio Vaticano II, la Chiesa cattolica ha posto un forte accento sul dialogo teologico. Paolo VI ha istituito un segretariato speciale, che è diventato poi il Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso. (6) In questi dialoghi le parti si chiariscono reciprocamente le loro credenze, esplorano strade che permettano di poter vivere amichevolmente insieme, si arricchiscono con le reciproche concezioni e si sforzano di ridurre i disaccordi cercando elementi di convergenza. Questi dialoghi si sono dimostrati molto fruttuosi per il miglioramento delle relazioni fra le varie comunioni cristiane. Essi possono essere molto fruttuosi anche nel campo delle relazioni interreligiose.

Ma per quanto prezioso, il dialogo non è una panacea. Non ci si può aspettare di superare tutti i disaccordi. Dopo aver raggiunto concezioni condivise e aver stabilito delle convergenze, in genere le parti riconoscono che non è possibile raggiungere la piena unità mediante il solo dialogo. Le religioni sono saldamente ancorate a posizioni contrastanti, che non possono abbandonare senza sacrificare la propria identità. Anche se indubbiamente i cristiani possono sperare che i loro partner nel dialogo giungano a riconoscere Cristo come il salvatore del mondo, un tale risultato oltrepassa le attese e gli orizzonti del dialogo in quanto tale. Il dialogo è finalizzato a raggiungere gli accordi che le parti possono concludere nel quadro dei loro specifici impegni religiosi.

A volte si è affermato che il dialogo è un segno di debolezza, poiché implica incertezza circa l’adeguatezza delle proprie posizioni. A mio avviso, il dialogo è invece un segno di forza. Occorre molta sicurezza di sé per ascoltare pazientemente gli altri quando ci dicono perché pensano che abbiamo torto. È facile comprendere il motivo per cui i gruppi che non hanno riflettuto in profondità sulle motivazioni delle proprie credenze rifuggono da un dialogo per il quale non sono preparati.

Abusando del dialogo si possono fare certamente dei danni. Un errore sarebbe quello di trasformarlo in un’occasione di proselitismo, cercando di convertire alla propria fede i partner del dialogo. In questo modo si stravolgerebbe lo scopo del dialogo, che differisce dalla predicazione missionaria. L’errore opposto sarebbe quello di nascondere o rinunciare alle convinzioni del gruppo al quale si appartiene, suscitando così false attese. Naturalmente i partecipanti al dialogo non sono autorizzati a cambiare le dottrine delle loro comunità religiose.

Ma, condotto giustamente, il dialogo è una delle strade più promettenti per un crescente incontro fra le grandi religioni. Non bisogna cominciare dai temi più sensibili e discussi. In genere le parti faranno bene a cominciare dai temi sui quali si può sperare di raggiungere un buon livello di consenso. Nell’enciclica Ecclesiam suam Paolo VI suggeriva di scegliere come temi di conversazione (colloquium) interreligiosa ideali comuni, quali la libertà religiosa, la fratellanza umana, la buona cultura, la beneficenza sociale e l’ordinamento civile. (7)

È possibile dialogare anche su temi più direttamente religiosi, come ad esempio il valore della preghiera e la natura dell’esperienza mistica, che sembrano presentarsi in forme analoghe in varie tradizioni religiose. (8) Si potrebbero immaginare dialoghi molto fruttuosi sulla sofferenza e la felicità, la vita e la morte, la parola e il silenzio. Per i partecipanti il risultato più importante di questi incontri sarà quello di riuscire a conoscersi e a rispettarsi vicendevolmente. L’amicizia fra rappresentanti qualificati delle varie religioni può facilitare il superamento delle ostilità accumulate e a ristabilire la fiducia.

All’inizio del terzo millennio, il dialogo interreligioso non è un lusso. Insieme alle altre cinque strategie che ho raccomandato, esso può essere necessario per prevenire disastrose collisioni fra i principali gruppi religiosi.

Nella crisi attuale, le religioni hanno una grande opportunità di passi oltre l’ostilità e la violenza fra i popoli e promuovere la stima reciproca e una cordiale cooperazione. Ma la posta in gioco è alta. Se le varie comunità religiose rifiutano di adottare programmi di tolleranza e di impegnarsi in un dialogo rispettoso, si corre il grave rischio di ricadere nelle reciproche recriminazioni e nell’odio. Allora si abuserebbe ancora una volta della religione, come è avvenuto già tante volte in passato, per giustificare il conflitto e lo spargimento di sangue. Come ha affermato Giovanni Paolo II in relazione agli avvenimenti dell’11 settembre, «non dobbiamo permettere che ciò che è avvenuto approfondisca le divisioni. La religione non deve essere mai usata come una ragione per il conflitto». (9) I seguaci delle religioni devono essere in prima fila nella costruzione di un mondo nel quale tutti i popoli possano vivere insieme in pace e fratellanza.


Note

1) J. Hick, God and the Universe of Faiths, St. Martin Press, New York 1973; God has Many Names, Macmillan, London 1980. Una buona presentazione della posizione di Hick si trova in P.F. Knitter, No Other Name?, Orbis, Maryknoll (NY) 1985, 146-52 (ed. it. Nessun altro nome?, Queriniana, Brescia 1991).

2) Questa visione è espressa in P.F. Knitter, «Towards a Liberation Theology of Religions», in J. Hick, P.F. Knitter, The Myth of Christian Uniqueness: Towards a Pluralistic Theology of Religions, Orbis, Maryknoll (NY) 1987, 178-200 (ed. it. L’unicità cristiana: un mito? Per una teologia pluralista delle religioni, Cittadella, Assisi 1994).

3) Cf. A. Toynbee, Christianity among the Religions of the World, Scribner’s, 1957, 112.

4) Pio XII, allocuzione Ci riesce: AAS 45 (1953), 794-802, specialmente 797.

5) Nell’estate del 2000 la Congregazione per la dottrina della fede ha risposto a questo fraintendimento del concilio Vaticano II nella Dominus Iesus, una dichiarazione sull’unicità e l’universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa, Regno-doc. 17,2000,529ss.

6) Il card. Francis Arinze, presidente del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, ha pubblicato un piccolo ma prezioso volume intitolato Meeting Other Believers: The Risks and Rewards of Interreligious Dialogue, Our Sunday Visitor, Huntington Ind., 1997.

7) Paolo VI, Ecclesiam suam, 6.8.1964, n. 112; EE 7/819.

8) Autori come Bede Griffiths e Thomas Merton hanno descritto il modo in cui l’esperienza della preghiera mistica può essere un vincolo d’unione fra i membri delle diverse comunità religiose.

9) Parole pronunciate da Giovanni Paolo II il 23 settembre 2001 in Kazakistan.

Letto 2135 volte Ultima modifica il Sabato, 08 Settembre 2007 18:18
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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