In ricordo di P. Franco

Visualizza articoli per tag: Chiesa Ortodossa Russa

Coscienza e libertà (1Cor. 10, 23-33)
di Vladimir Zelinskij






Le parole che abbiamo ascoltato vengono ripetute già due volte nella stessa Lettera ai Corinzi, cosa che è rara in Paolo, famoso per l’eccezionale densità del suo messaggio. L’Apostolo dice ed insiste con un tono quasi solenne: Tutto è lecito. Ma non tutto è utile. Tutto è lecito! Ma non tutto edifica . Come mai un accento tanto forte è posto sull’opposizione fra queste due alternative della libertà umana? Per rispondere possiamo intraprendere strade che hanno prospettive diverse: quella storica, che riguarda soltanto l’epoca in cui la legge ebraica viene seguita dalla comunità giudeo-cristiana; oppure l’interpretazione umanistica e laica dei giorni nostri; o ancora, per ultima, una visione cristologica e spirituale. Il contenuto immediato del testo paolino è la proclamazione univoca e quasi trionfante della libertà di coscienza, direi anche del primato della coscienza nei confronti delle prescrizioni della legge in vigore. La mia coscienza, afferma Paolo, è autorevole per decidere da sola cosa si possa mangiare o meno. La mia coscienza ha diritto alla priorità davanti alle prescrizioni rituali che riguardano il cibo. Il cristiano è libero: Tutto ciò che è in vendita sul mercato, mangiatelo senza fare questioni per motivi di coscienza. Perché del Signore è la terra e tutto ciò che essa contiene .


  Già con quel versetto del salmo 23, conosciuto a memoria da quelli a cui si rivolge, l’Apostolo vuole dispensare la loro coscienza dagli scrupoli: Se la tua coscienza non è caricata dalla conoscenza della partecipazione al culto pagano - che è abominio per il Signore (Deut. 17,15) -, sei ormai libero! Se partecipo ad un culto pagano a mia insaputa, sono senza colpa e la mia coscienza è innocente; ma se il venditore mi dice che la carne in vendita è quella del sacrificio ad un altro dio, la mia coscienza è legata dal secondo comandamento. La coscienza è il giudizio interiore che funziona solo se la legge è conosciuta perché la sua vera ed autentica vocazione è rendere la grazia e fare tutto per la gloria di Dio. Questo è il senso immediato del testo che abbiamo ascoltato.


Ogni epoca, però, ascolta le parole della Scrittura con l’orecchio accordato dalla propria tonalità dominante. Il secolo in cui viviamo è più predisposto, almeno in Occidente, a sentire la prima parte dell’affermazione dell’Apostolo: la mia coscienza è la principale, se non l’unica padrona delle mie decisioni. Su tutto ciò che faccio decido solo io e le altre istanze devono rispettare le mie scelte! Tutto mi è lecito , scriviamo questa prima parte dell’affermazione paolina sulla magna carta della legge morale e religiosa. Non facciamo, però, una domanda semplice: “l’io” nel cui nome parla Paolo, chi è? E quell’io che noi siamo pronti a porre come unico padrone dei nostri atti cosa significa, nella bocca dell’Apostolo, cosa contiene? E la mia coscienza, nel contesto del suo discorso, cos’è?


Come concetto teologico la coscienza appare solo nel Nuovo Testamento. Certo, non si può dire che la coscienza sia stata scoperta solo con il cristianesimo. Credo che prima questo concetto fosse implicitamente incluso in quel centro corporale e spirituale dell’esistenza umana che la Bibbia chiama “cuore”. La coscienza è il cuore che pensa, che giudica – saggezza interiore, strumento della conoscenza di Dio, canale della Sua volontà, organo della glorificazione e del pentimento, luogo segreto della Sua legge. La Tua legge è nel profondo del mio cuore , dice il Salmo (40,9). Porrò la Mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore. Allora Io sarò il loro Dio ed essi il Mio popolo , professa Geremia (31,33). Ed io, credente, sono chiamato da Dio a conoscere questa legge nuova e personale, scritta nella profondità dello spirito umano, a conoscerla per viverla, e questa vita inizia con la coscienza, - la coscienza di cui parla San Paolo. La coscienza è la nuova lettura della legge nascosta nel mio cuore, messaggera del Signore che abita in me.


Incontriamo la parola coscienza già in alcune versioni greche del Vangelo di San Giovanni. Nel racconto sulla donna adultera, quando si dice che gli accusatori di quella moglie infedele se ne andarono uno per uno, in alcuni manoscritti leggiamo denunciati dalla propria coscienza . Proprio questa versione è inclusa anche nella traduzione russa alla quale sono abituato. Questo significa: la legge che prescrive la lapidazione deve essere sottomessa alla coscienza, al tribunale del cuore e davanti al suo giudizio, infatti, nessuno è innocente. Tale tribunale, con la voce di Dio all’interno, diventa il criterio più alto della fede stessa. La fede può essere falsa, incatenata dalla lettera che uccide, anzi piegata ad idolatria; la voce del giudizio che ascolta direttamente lo Spirito di Dio porta e manifesta la volontà del Signore. Questo è uno degli insegnamenti fondamentali del messaggio paolino, nato dalla sua storia personale, dal suo incontro fulminante con Cristo.


Sembra che quel fulmine abbia acceso non soltanto la fede del futuro Apostolo dei popoli, ma che abbia anche risvegliato o gettato la luce su tanti nuovi concetti teologici. Tutto o quasi tutto il messaggio di Paolo nasce dalla sua illuminazione, riflettuta ed intellettualmente sviluppata. Paolo predica Cristo raccontando anche di se stesso, della sua anima, e predicando crea o scopre l’universalità dell’incredibile avventura della propria anima. Ognuno di noi in qualche modo si può riconoscere, anche se in un grado infinitamente più debole, nella sua anima, nella sua coscienza, nella sua fede. Servo di Gesù Cristo, apostolo per vocazione, prescelto per annunziare il vangelo di Dio : così Paolo si presenta nella lettera ai Romani (1,1). In ogni sua lettera, in ogni riga, manifesta l’intimità della sua conoscenza personale del Dio incarnato e da lui incontrato nella persona di Gesù. Il centro del suo essere, il cuore è pieno di questo incontro e porta Cristo in sé. Se negli scritti dei Profeti il cuore è il luogo della presenza del Signore, la coscienza è il cuore che giudica e che pensa e confessa la propria fede.


Il cuore di San Paolo è “cristocentrico” e dal quel cuore nasce anche la sua teologia triadologica. L’incontro con Cristo dura tutta la sua vita e noi vediamo come in ogni sua lettera apostolica la scoperta di Cristo si riveste di un pensiero nuovo e sempre inaspettato. Ogni volta sembra che il pensiero paolino partorisca un Cristo nuovo. Ricordiamo questa famosa esclamazione dalla lettera ai Galati: Figlioli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché non sia formato Cristo in voi! (4,19). Ma la forma Christi è l’icona della nostra coscienza, l’immagine della nostra libertà e s’identifica con la libertà di Gesù. L’io di Paolo e di un qualsiasi cristiano è chiamato ad agire seconda la Sua volontà, a pensare e a conoscere le cose con il pensiero del Figlio di Dio.


Alla domanda del Libro della Sapienza e del profeta Isaia: “Chi infatti ha conosciuto il pensiero del Signore in modo da poterlo dirigere?”, san Paolo risponde: “Ora, noi abbiamo il pensiero di Cristo ” (1 Cor. 2,16), “Nos autem sensum Christi habemus ”, secondo la Vulgata. Proprio il pensiero di Cristo (νουν Χριστου), si trova anche alla base della nostra coscienza e della libertà umana. Ma il cuore che pensa e la coscienza, non sono forse la stessa cosa? Il “pensiero di Cristo ”, secondo Paolo, è il modo di sentire, di intendere, di vedere le cose come le vede e le vive Cristo stesso. La ragione che decide ciò che è lecito e ciò che è illecito, e “il Cristo che abita per la fede nei nostri cuori ” (Ef. 3,17) hanno in comune la sostanza e questa sostanza può essere chiamata “coscienza aperta allo Spirito Santo”, poiché è solo lo Spirito che ci dà la grazia di conoscere Dio.


Questo vuol dire che lo Spirito crede in noi, pensa in noi, giudica in noi: in altre parole, rappresenta Cristo in noi. Troviamo un’interpretazione interessante del concetto paolino della presenza di Cristo, in particolare del pensiero di Cristo, nella teologia di San Massimo il Confessore. Il “pensiero di Cristo che ricevono i santi” (cito dai suoi “Capitoli gnostici”) si situa nella visione trinitaria paolina con la presenza dello Spirito Santo, “in quanto guida di sapienza e di conoscenza” (II, 63) e con l’apertura verso il Padre, che “si trova naturalmente tutto intero indiviso, in tutta la Sua Parola” (II, 71).


“Il pensiero di Cristo..., dice il Confessore, non sopraggiunge per la privazione della nostra potenza intellettuale” (in altre parole, i nostri sensi conservano le loro forze naturali), ma “illuminando mediante la propria qualità la potenza del pensiero...”. La potenza del pensiero nella visione massimiana si trova nel suo logos. In altre parole, nell’idea o nel principio di ogni cosa o essere. Il logos costituisce la natura spirituale di qualsiasi creatura o la sua “struttura interiore”. Ma il simile, come diciamo spesso, è riconosciuto dal proprio simile, per il fatto che porta in sé la sua immagine - immagine capace di partecipare al suo “archetipo”, in questo caso al Logos come Seconda Persona della Santa Trinità. Qui non si tratta dell’analogia fra il divino e l’umano, ma del primo paradosso della conoscenza di Dio, che si realizza nel “pensiero di Cristo ”: in questo pensiero tutte le cose, nel loro logos, si riflettono ed è data la presenza di Cristo nella sua realtà ipostatica. Siamo chiamati ad entrare in questo pensiero, immergendoci nel mistero dell’Incarnazione.


“Il mistero dell’Incarnazione del Verbo, dice San Massimo, ha la fede, forza di tutti i segreti, e le figure della Scrittura e la scienza di tutte le creature visibili ed intelligibili ”(I, 66).


Proprio il mistero dell’Incarnazione, inteso nel senso espresso dal Confessore, lo troviamo nel concetto paolino della coscienza, il quale non può essere capito a fondo o interpretato in termini astratti o solo puramente umani. La coscienza conosce dall’interno il logos delle cose, perché il pensiero di Cristo si nasconde dietro qualsiasi opera creata. Perciò Paolo può esclamare nella Lettera ai Galati, non solo in senso mistico o spirituale, ma anche intellettuale e teologico: non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me (2.20). Anzi Cristo agisce nella mia coscienza, pensa con il mio pensiero. Tutto è lecito a Cristo, ma non tutto è utile al peccatore che coabita con Cristo. Tutto è lecito, ma non tutto ciò che è lecito mi porta a Dio. Il mio pensiero è libero, ma esso trova la sua autentica libertà solo nella sua sottomissione al Signore che abita nel mio cuore. La libertà non esiste come una cosa in sé, come concetto astratto. La libertà è un’espressione della persona umana, del pensiero umano, del peccato umano, della fede e dei sentimenti umani. Così Paolo nella lettera ai Filippesi esorta:


"Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, Il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la Sua uguaglianza con Dio; ma spogliò di se stesso, assumendo la condizione di servo (Fil. 2,5-8).


Cosa vuol dire spogliarsi di se stesso ? Rinunciare alla propria superbia - che si trova alla radice della nostra personalità, del nostro "io" e che cerca sempre la migliore posizione nel mondo, in quelli che hanno "come dio il loro ventre" (Fil. 3,19): il denaro, il potere, la sessualità, il successo, ma anche la stima degli altri, la buona reputazione, ecc., ed anche la libertà di cercare e di godere di questi beni terrestri. L'uomo è chiamato a "spogliarsi" di tutto questo, "assumendo la condizione di servo" di Dio - che porta all’estremo la nostra assimilazione al Cristo.


"Spogliarsi di se stesso" vuol dire sacrificare una parte di noi stessi, quella parte che forma, cimenta e salvaguarda la nostra identità in questo mondo decaduto e che ci "protegge" contro Dio e contro l’amore. "L'etica cristiana", se possiamo parlarne nella sua essenza, non è l'etica della legge ("tu devi comportarti così, tu non deve mangiare questa carne, ecc"), ma piuttosto l'etica della vocazione compresa dalla propria coscienza (tu sei chiamato all'amore che si manifesta nella tua vittoria su te stesso), - l’etica e la libertà della formazione di Cristo dentro di noi.


Nel nostro brano non si sta trattando soltanto della sovranità di un qualsiasi “io” laico o religioso, che può scegliere solo fra il lecito e l’illecito, ma della cosa più essenziale. Del legame più profondo dell’essere umano con il proprio Creatore, che chiama nella coscienza. Forse, è una cosa ovvia o banale nel discorso cristiano? Non è così semplice! Il problema del senso della libertà e la scelta della giusta libertà rimangono ancora una linea di demarcazione fra le diverse confessioni cristiane, divise sulla morale, sulla bioetica, sull’eutanasia, sulla tradizione, sulla pratica religiosa quotidiana della fede. Siamo divisi, dobbiamo ammetterlo, proprio sul concetto della libertà. Ciò che per noi non corrisponde al pensiero di Cristo è assolutamente lecito e legittimo per altri. Il brano paolino è davvero piccolo, ma è da questa radice che si dirama l’intero cespuglio dei problemi ecumenici di oggi. Per proseguire il nostro dialogo, bisogna conoscere non soltanto la formula della fede di un altro, ma anche il contenuto umano ed esistenziale dei fondamenti di questa fede, della sua coscienza, del suo pensiero di Cristo.


Ma c’è un pensiero in cui possiamo capirci, in cui siamo già uniti. Questo pensiero è l’appello paolino - così chiaro, così univoco - alla gratitudine. Il motivo del rendere grazie è all’origine dell’insegnamento di Paolo e dovrebbe essere anche l’origine della nostra ricerca comune, a volte ottimistica, ma a volte disperata, dell’unità. Ma l’unità stessa non è il dono di poter riunirsi per glorificare Dio con una sola voce, una sola coscienza, un solo pensiero ed unica libertà?
Pubblicato in Chiese Cristiane
Etichettato sotto
I viandanti di piccoli ponti
(il Centro di San Clemente a Kiev)

di Vladimir Zelinskij




 

I tanti anni di ricerca di una rapida e visibile unità ci hanno convinto che non esiste ancora un unico grande ponte che possa unire le due estremità del burrone che da mille anni separa l’Oriente dall’Occidente. Ma si può trovare o, piuttosto, costruire di nuovo dei piccoli ponti – se non ancora tra le Chiese storiche, almeno tra le persone, le culture, le iniziative, gli slanci dello spirito che cercano uno spazio comune nelle realtà divise. Uno di questi ponti porta il nome di San Clemente, papa e confessore della fede del I secolo, morto nel 101 (secondo la tradizione, martire) a Chersones sul Mar Nero. Nella stessa città, quasi 9 secoli dopo, ha ricevuto il battesimo il gran principe di Kiev San Vladimir, il quale ha trasportato a Kiev una parte delle reliquie del papa. Un’altra parte del corpo del Santo fu portata da San Metodio a Roma. Oggi, 19 secoli dopo la morte, San Clemente, presente nelle sue reliquie a Roma e a Kiev, può fare un lavoro – discreto, ma miracoloso – per la costruzione di quei piccoli legami di unità che a volte si mostrano più resistenti e duraturi di tanti ambiziosi progetti.

L’ultimo di questi miracoli è stata l’apertura del Centro “San Clemente” a Kiev l’8 dicembre scorso (proprio nel giorno del Santo, secondo il calendario giuliano e della festa dell’Immacolata per la Chiesa Cattolica). Il Centro è stato inaugurato da una parte dal cardinale Walter Kasper, presidente della Commissione Pontificia per l’unità dei cristiani e dall’altra, dall’arcivescovo di Poltava Filippo, presidente della Commissione per l’educazione religiosa, il catechismo ed il lavoro missionario della Metropolia ucraina del Patriarcato di Mosca. Questa iniziativa ha ricevuto il pieno appoggio e la benedizione anche dal capo della Chiesa Ucraina, il metropolita Vladimir Sabodan e del capo della Chiesa greco-cattolica in Ucraina, il cardinale Lubomir Husar.

“Con la vostra benedizione – ha detto il cardinal Kasper durante la sua omelia davanti al pubblico riunito nella sala – l’importante Centro ecumenico, come speriamo, sarà un punto di riferimento, per lo studio, il dialogo e l’incontro fraterno tra le Chiese. Sembra che questo sia un albero piccolo, ma con l’aiuto di Dio e con il vostro sostegno, esso potrà portare buoni frutti”.

Certo, l’apertura in un appartamentino di tre stanze a Kiev dove si trova il nuovo Centro, non è avvenimento che possa attirare l’attenzione dei grandi quotidiani in Occidente. Ma chi conosce dall’interno la situazione ecumenica nell’Est dell’Europa capisce che anche le piccole cose possono acquistare un significato simbolico. Prima di tutto è significativo il contesto storico di oggi, condizionato da due avvenimenti che non sono legati fra di loro. Il primo è l’incontro di Ravenna (dove la Chiesa Russa non ha partecipato) e nel quale si è fatto un grande passo verso la riscoperta della lingua comune del primo millennio cristiano. La lingua comune presto o tardi aprirà la strada anche alla piena comunione – e pur se il cammino sarà lungo e difficile, un passo importante è stato fatto. Un altro avvenimento o, meglio, processo – molto meno visibile per l’Occidente, che si sta svolgendo proprio nei nostri giorni – è “l’ucrainizzazione” graduale della Chiesa Russa in Ucraina. Processo che si esprime anche nella sua crescente indipendenza, se non canonicamente, di certo nella sua “linea” ecumenica e pratica. Davvero, bisogna avere un po’ di fantasia per immaginare nelle condizioni attuali che un cardinale della Chiesa Romana insieme al nunzio apostolico abbiano partecipato ad ogni azione comune – specialmente all’apertura comune del Centro ecumenico – con un arcivescovo ortodosso. Anzi, con il responsabile degli affari interni della Chiesa Ucraina, l’arcivescovo Mitrofan Yurchuk, accanto al nunzio apostolico Ivan Yurkovic, con il rettore dell’Università Cattolica di Lviv, Boris Gudziak ed il presidente dell’Università nazionale Pietro Mohila, Vyacheslav Briuchovetsky e con tanti altri. Basta ricordare la visita recente del patriarca Alessio in Francia, accolto con grande entusiasmo a Notre Dame di Parigi, ma sospettato in Russia dai fondamentalisti ortodossi per il “reato” di aver pregato per qualche istante insieme con i cattolici. I fondamentalisti non mancano, certo, anche in Ucraina, ma non sono loro a dare il là. Così l’ultimo Concilio della Metropolia Ucraina ha condannato senza mezzi termini la cosiddetta “Unione dei cittadini ortodossi”, il bastione dell’integralismo locale.

Il Centro di San Clemente, secondo il progetto del suo promotore e direttore Constantin Sigov, è destinato a costruire – attraverso gli incontri, le conferenze, i corsi teologici, i seminari – un altro ponte che possa mettere in comunicazione l’educazione nelle scienze umane con la formazione propriamente religiosa – la quale rappresenta il nucleo di ogni conoscenza autentica dell’uomo. Il Centro stesso è collegato al Campus Universitario Politecnico, la più importante fra le università ucraine. Tutti i paesi dell’Est europeo soffrono della totale mancanza del sapere più elementare in materia spirituale, a causa del vuoto lasciato in eredità dall’epoca sovietica.

Un altro scopo del Centro è la fondazione, in un futuro abbastanza vicino, di una nuova casa editrice, la “San Clemente”, la quale pubblicherà nella traduzione ucraina e russa degli agevoli volumetti (che presenteranno alcuni classici del pensiero teologico del nostro tempo). Una collana del tipo “Farsi un’idea”, dedicata proprio all’ambito del pensiero spirituale. Fra gli autori previsti ad essere pubblicati per primi: Yves Congar, Hans Urs von Balthasar, Jean Danielou, Tomas Spidlik, Enzo Bianchi ed altri ancora...

Ma lo scopo, se dobbiamo formularlo in una frase, è la creazione di un clima per la comunione, proprio nel suo senso originale di koinonia – oggi si potrebbe chiamare anche “ecumenismo nello spirito”. “Possa lo Spirito di Cristo risorto, - ha detto il cardinale Kasper durante l’apertura, - consentire al nostro cuore e alla nostra mente di recare i frutti dell’unità nelle relazioni tra le nostre Chiese, affinché possiamo servire insieme l’unità e la pace di tutta la famiglia umana. Possa lo stesso Spirito condurci alla piena espressione del mistero della comunione ecclesiale, che noi riconosciamo con gratitudine come un dono meraviglioso di Dio al mondo, un mistero la cui bellezza rifulge specialmente nella santità alla quale siamo tutti chiamati. Ed il centro di San Clemente dovrebbe diventare un segno di speranza”.

Nello stesso giorno durante il ricevimento a casa del metropolita Vladimir, il metropolita stesso ha fatto un brindisi per coloro che lavorano per l’unità. Il suo tono era sobrio, ma pieno di speranza. “Noi lavoriamo per l’unità, ma non riusciremo a fare tutto durante la nostra vita. Tuttavia il nostro lavoro sarà compiuto da coloro che attraverseranno i ponti costruiti da noi”.

Pubblicato in Chiese Cristiane
Etichettato sotto
Averincev: l’esperienza di costruire cultura
(seconda parte)

di Vladimir Zelinskij

(continua)

Capax Dei

Nella «gioia dell'iterazione» che stupì Mandel'štam, ossia nella gioia di aver trovato e riconosciuto i giacimenti della Sapienza o della Shekinah in una moltitudine di specie culturali, Averincev non si ripete, non si ferma nella sua ricerca, non celebra il passato per amore della sua canuta antichità. Prima sembrava che non si sarebbe mai deciso a uscire dai porti accoglienti e vastissimi della «sua» antichità, ma poi si è scoperto che si muoveva con altrettanta sicurezza anche sulla «nave della modernità». Si tratta non solo dell'attualità di nuovi temi, della pubblicistica, dove ha dato prova della sua dolce maestria, ma di qualcosa di infinitamente più essenziale, della modernità di se stesso, di ciò che nel dialogo con la Parola può essere chiamato «qui e ora». Egli pone questo tipo di dialogo alla base di ogni cultura che sia degna di questo nome.

Qui sta l’essenza della sua novità, della sua irripetibilità, del nuovo apporto di Averincev. Egli si rivolge alla Parola che «era in principio presso Dio». (Gv 1,2) non per ragionarci sopra o per descrivere l'esperienza che ne hanno fatto altri, ma per creare liberamente e stare semplicemente in essa. Non per chiarirla per sé ed erigere l'ennesimo monumento verbale alla propria interpretazione, ma per fermarsi stupito di fronte al suo mistero. Il mistero non consiste in qualcosa di inconcepibile o apofatico, ma in quella che egli stesso una volta ha chiamato «divinoumanità della parola», intendendo la semplice parola umana, piccolo mattone della cultura con cui la Sapienza si costruisce la casa. Il mistero sta nella stessa Discesa della Parola di Dio, che si incarna nel linguaggio umano, a volte spigoloso, dei testi sacri. Dietro a questo postulato classico può celarsi anche un altro significato, universale e mistico.

«Per questo esso ha il diritto dl affermare che per logica interna di questo stesso miracolo, nella parola umana può essere contenuto l'incontenibile Verbo divino; che la parola umana, come tende bene la formula latina, è capax Dei. In realtà, per far ciò la parola umana deve superare se stessa, oltrepassare i propri limiti, restando puramente umana ma trasformandosi anche in qualcosa di più che umano». (20)

Capax Dei, è il dono alla parola umana reso possibile dall'incarnazione, il cui riflesso d'ora in avanti sta in tutte le parole umane, le quali possono respingere questa capacità di «irradiare Dio», o accoglierla, cercando di essere illuminate da Lui. La Parola si è fatta carne in Gesù di Nazaret, e questo avvenimento, unico nella storia dell'uomo, non può non riflettersi (oppure velarsi) in tutte le parole umane. E non solo nelle parole, ma in tutti gli atti umani che portano il logos, si tratti di una forma d'arte o di una qualunque nostra azione. La scoperta di Averincev, una delle sue scoperte, sta nell'aver percepito e confermato, avvalendosi di una moltitudine di esempi, questa irrinunciabile responsabilità di cui è investito ogni uomo dell'era cristiana. Essere capax Dei significa essere capaci di esprimere, sia pure con i propri mezzi stentati, la presenza di Dio tra gli uomini, o Shekinah, Sapienza, Buona Novella, che hanno bisogno del nostro linguaggio, sia esso parola, immagine o gesto. Non è da molto che abbiamo cominciato a ripetere con devozione il pensiero di padre Pavel Florenskij sull'origine della cultura dal culto, intendendo il culto prevalentemente come liturgia e non lasciando alla cultura contemporanea altro diritto di sopravvivenza se non quello di riprodurre forme liturgiche di culto, innanzitutto pittoriche o plastiche. Non c'è dubbio che alla base della cultura creata da Avetincev stia proprio il culto, perché in essa la parola umana afferma la propria capacità di accogliere la presenza di Dio, che prende dimora nella nostra gloria, nella casa costruita dalle nostre mani, e la costruzione di questo tempio è la vocazione di ognuno di noi.

«Padre, il cui nome è segreto»

«Sapere molte cose come abbiamo ricordato non insegna ad avere intelligenza», tuttavia, l'intelletto può utilizzare le sue molte conoscenze per renderle un luogo di preghiera. Tutti sanno che il fumo che si spande lentamente e si dissolve, il profumo dell'incenso, la ieraticità di un gesto possono in qualche modo aiutarci a comprendere l’icona. Le permettono di manifestarsi in noi, quasi tracciassero la via al nostro sguardo che si apre al mistero, nascosto e al tempo stesso svelato in un'immagine che per i nostri occhi potrebbe sclerotizzarsi in un'iconostasi o spegnersi in un museo. Ma ecco che con questi gesti, come con la terra o con le nostre conoscenze, si può impastare quel «fango» che Gesù mise sugli occhi al cieco nato.

Un tempo le opere di Averincev mi sembravano solo una ricca collezione di icone, raccolte ovunque e appese avendo come criterio solo il capriccio del collezionista. Un po' alla volta, questo ammasso di inutili capolavori a cui stavo di fronte si è trasformato per me nella chiesa della Sofia, veramente ornata di una moltitudine di immagini meravigliose, che tutte assieme dovevano rivelare, rinnovare, insegnare a vedere l'unica vera icona: quella della Sapienza o del Nome. E questo Nome ripetono a modo loro tutte le immagini sacre, gli affreschi, le vetrate, gli stucchi. Allineandosi in un'unica schiera, in un ordine che si forma spontaneamente o consapevolmente, queste opere tracciano al Nome la via verso i nostri occhi, le nostre orecchie, il nostro intelletto, la nostra conoscenza. E in loro - o attraverso di loro - il Nome in qualche modo compie il suo annuncio. Tutta la cultura di Averincev, ponderosa ma al tempo stesso agile e dinamica, diventa un atto di culto raffinato, ricercato, ma pienamente ortodosso, una celebrazione davanti all'icona del Nome di Dio. Nome che si fa chiaro nel denso fumo delle parole umane che esce dal turibolo. Questa densità permette al Nome di manifestarsi e al tempo stesso gli consente di restare inosservato. Perché nella sua profondità il nome di Dio coincide con il silenzio, il silenzio a sua volta esige verginità e pace. Forse, per la mia durezza d'orecchio, non riuscirei a sentire bene il silenzio dei testi di Sergej Averincev se non mi venissero in aiuto le sue poesie.

«Padre, come nella debolezza infantile,
alle sorgenti del verbo,
siano le parole nostre grevi,
riempite fino all'orlo di silenzio». (21)

Le sue parole sulla debolezza non sono pronunciate a caso. Solo un uomo che ha sperimentato con tanta finezza e profondità la forza della parola in sé e negli altri, in molti dei suoi confratelli che con lui rendono culto alla Sapienza e servono la Shekinah, sa meglio di chiunque altro cosa significhi la debolezza infantile, che si impadronisce delle parole quando cerchiamo di avvicinarci per loro tramite «alle sorgenti del verbo». Il mistero dell'icona del Nome o della Parola di Dio non si pronuncia con un linguaggio qualsiasi, ma piuttosto si rivela nell'immanenza, nel silenzio, nella preghiera.

«Preghiamo Te, Parola,
che eri in principio presso Dio,
che pronunci senza linguaggio
i silenzi della Sua profondità…» (22)

Ma prima ancora di aver sentito questi splendidi versi, ho capito che i numerosi linguaggi di Averincev, pieni fino all'orlo del «sapere molte cose», portano in sé le profondità del silenzio, proprio di quel silenzio in cui ogni uomo può al meglio percepire, capire e accogliere l'altro. Infatti, tutti i nostri linguaggi possono servire come frammenti di un Nome colmo fino all'orlo di silenzio, del silenzio che custodisce questo nome segreto, nel quale ci è dato di salvarci.

«Dio, il cui nome è segreto,
dà ogni parola per vedere
nel nero della nostra morte,
nell'oro della Tua gloria,
come una pietra splendente e dura,
sfaccettata in losanghe di luce,
cinta da tutti i lati
dalla guardia del silenzio». (23)

Il segreto o il «modello» di Averincev

Quello che sto cercando di esprimere in queste righe non è affatto il panegirico di una certa persona. Francamente, non posso soffrite il culto della personalità sotto qualsiasi forma, anche se si trattasse di personalità eccezionali, e umili nella loro eccezionalità, come Sergej Averincev, poiché «non a noi, non a noi, ma al Tuo nome» (Sal 115, 1) bisogna rendere ogni culto, ogni commemorazione. L'«arcipelago Averincev», per quanto sia notevole e interessante di per Sé, lo è ancora di più come modello «operativo» che organizza o crea cultura, e in questa sua funzione può essere applicato a ciascuno. Anche se non abbiamo al nostro attivo mille isole popolate di nomi rari e lingue astruse, ma ne abbiamo solo cinque o sei; anche se non è un mare di associazioni a ribollite nella nostra memoria e le icone si contano sulla punta delle dita e sono tutte copie delle copie, non è questo ultimamente l'essenziale. Essenziale è Colui «il Cui Nome è nascosto», e tutto ciò che in noi si raccoglie, si struttura attorno a questo Nome e lo serve. Essenziale è il riflesso e il silenzio del Nome in noi. Ogni atto culturale, ogni conoscenza che assimiliamo non può essere vuota per l'anima, inutile per il Nome, vana per la Parola, impenetrabile alla Luce che ci ha toccato. Ciò che è riuscito ad Averincev può benissimo capitare a chiunque, qualunque sia il suo lavoro, per quanto modesto sia il posto che occupa nell'arcipelago della cultura, dove coscientemente o meno vive ogni uomo di questa terra. Perché cultura, in sostanza, significa anzitutto edificare la personalità attorno al Nome di Dio.

La sostanza del successo culturale non sta nelle proporzioni grandiose, ma nel grado di illuminazione interiore che si possiede, che promana dal silenzio del verbo, dalla totalità con cui lo si serve. Tutti possiamo diventare «degli Averincev» in quello che facciamo, nella nostra esistenza, poiché la sostanza dell'opera di Averincev sta nell'aprire le finestre alla luce, nel riempite le parole della Parola e le conoscenze del Nome, proteggendole con la vigile «sentinella del silenzio». Proprio in questo saper raccogliere e trasmettere il silenzio con le sue numerose conoscenze, sta uno dei segreti di Averincev. Sono cose che non si imparano da nessun libro e da nessun manuale, poiché ognuno deve trovare da solo la strada verso questo silenzio, con le proprie conoscenze e le parole, senza imitare nessuno, senza idolatrare nessuno, senza seguire nessuno, ma solo volgendosi verso il modello e mettendosi in ascolto del mistero del Nome in se stesso. La cultura può diventare la lingua di questo nome, e al tempo stesso ogni tentativo di edificare la cultura, ogni forma in cui la si serve può portare a noi qualcosa di ignoto, che non si è ancora rivelato ma che può rivelarsi solo in un uomo concreto. Un uomo che è nato ed è stato mandato nel mondo proprio per accendere, con la sua piccola luce umana, la Luce che ci ha illuminato, per illuminare e benedire con segni umani il Nome che si nasconde nel silenzio. Poiché anche in questo consiste la predicazione del Vangelo che Gesù ha comandato.

Nel Vangelo di Matteo c'è una frase che può suscitare perplessità in molti. Parlando dell'avvicinarsi del giudizio finale e della Seconda Venuta, Cristo profetizza: «Non avrete finito di percorrere le città di Israele, prima che venga il Figlio dell'uomo» (Mt 10,23). Mi è sempre parso che noi cristiani abbiamo appena cominciato a percorrere «le città di Israele», che il Vangelo non sia ancora stato predicato fino in fondo, che il nome segreto di Dio non abbia trovato neppure una minima parte dei nomi umani in cui deve incarnarsi, che la Parola non abbia ancora svelato tutta la sua stupefacente novità e immediatezza, che la sua pienezza sia ancora ben lontana dall'essersi riversata in tutti i recipienti e i contenitori umani che avrebbe dovuto riempite, che il sacro mistero della Trinità non abbia ancora raccolto, non sia ancora riuscito a chiamare tutti coloro che ad esso partecipano e del quale sono servitori, che le «città di Israele» disseminate nella nostra storia e nelle nostre culture, nel nostro futuro, non solo non siano state percorse, ma nemmeno scoperte...

Nel cammino verso queste città, iniziato ancora una volta, come ai tempi degli apostoli, in un'epoca di persecuzioni e di sordità, Sergej Averincev è diventato uno dei più energici e instancabili pellegrini.

Post scriptum.
La vocazione della persona e l'ora della morte

Avevo incominciato a scrivere di Averincev quand'era ancora vivo, anche se da alcuni mesi era alle soglie e come attirato dalla morte. Sussisteva la speranza, ancorché flebile, che sarebbe restato fra noi, che sarebbero tornati la sua voce, la sua parola, il calore speciale del suo pensiero. Ma il 21 febbraio 2004 è mancato.

È morto alle soglie della vecchiaia. La «possente vecchiaia evangelica», come diceva l'Achmatova, sembrava essergli stata promessa ma non gli è stata data. Rozanov chiamava la vecchiaia «l'età metafisica». Finito il lavoro nel mondo, si intreccia una «conversazione» silenziosa con l'altro. Quell'età per lui non è venuta, anche se sappiamo che tutta la vita di Averincev è trascorsa in pratica nell'età metafisica. Eppure, nonostante l'importanza di tutto ciò che ha fatto, sembrava che l'«acme» della sua vita non si fosse ancora manifestato appieno, ma si stesse appena approssimando negli ultimi anni. La vita se n'è andata, ed è rimasto un certo pensiero divino su una persona (ed è questo che giunge all'orecchio del nostro cuore), una persona di proporzioni tali da non trovare posto nel solo passato. Il passato dell'uomo entra in dialogo con noi, noi vi partecipiamo nel presente, e qualcun altro dopo di noi anche nel futuro. Ecco io vorrei raccontare come la figura, la vita, la personalità di Averincev si iscrivono nel futuro, come il suo riflesso tocca anche noi. I necrologi sono già stati scritti. L'offerta o il risveglio della vera memoria ancora non è iniziata.

Durante il periodo della sua lunga agonia Avetincev era diventato una persona cara, certamente non solo all'autore di queste righe. Si aveva l'insistente impressione che la morte, o meglio la vita, avesse un suo disegno segreto, e si cercava tormentosamente di svelare quale. Ma ora è morto, è entrato nell'esperienza della morte, come diceva l'indimenticabile padre Sergej Želudkov, e questo transito ci ha lasciato una sensazione di quiete e di luce. Come se fosse tornato chiaro non solo cosa è stato Sergej Averincev (cos'ha fatto, detto, rivelato, come ci ha sorpresi), ma che cosa sarà, cosa dirà, come ci sorprenderà nella sua vecchiaia promessa ma non realizzata, che ancora troverà il modo di farsi sentire nella maturità o giovinezza di altri.

Del resto, questa sensazione è nata ben prima della sua dipartita. Due anni e mezzo fa, prima di lasciare una conferenza sulla patristica a Vienna, cui ebbi l'onore di partecipare assieme a lui, mi diede da leggere durante il viaggio la sua traduzione del Vangelo di Luca. Cominciai a leggerla sul treno, la lessi dalla prima riga all'ultima senza mai interrompermi. L'autenticità linguistica di questo testo mi assorbì totalmente. Non c'era una sola parola che trafiggesse per la sua «inverosimiglianza», per l'infedeltà allo spirito e alla lettera dell'annuncio evangelico. Incominciai a paragonarlo. Non osai rivolgermi al testo greco per scarsità di conoscenze (naturalmente il livello di Averincev era tale, che a nessuno sarebbe venuto in mente di cercare gli errori). Paragonai il russo col russo. La traduzione sinodale, da qualsiasi parte la si guardasse, è e resta un grande avvenimento delle nostre belle lettere, anche se ci limitassimo alla storia della letteratura. E tuttavia questo avvenimento non può diventate la norma legislativa della nostra lingua religiosa da due secoli a questa parte fino al giorno in cui «non ci sarà più il tempo». Non si tratta del fatto che la lingua si sviluppa, poiché questo movimento può anche non essere avvertibile dalle nostre profondità liturgiche. Ma lo sviluppo della lingua recepisce anche le nuove forme o strade del pensiero, comprese quelle che portano a Dio, che gravitano attorno al mistero di Dio nell'uomo, e che è impossibile indirizzare una volta per tutte in un determinato senso verbale univoco. Ma ciò nonostante, la nuova forma linguistica deve esprimere in modo nuovo esattamente il tipo di linguaggio che parla soltanto «l'interno del cuore», che non vive nel tumulto della politica, delle ansie quotidiane, delle notizie gridate o dei romanzi letti nel metro, ma nella bellezza «di un'anima incorruttibile piena di mitezza e di pace» (cfr 1Pt 3,4). Ed ecco che questa bellezza si è dischiusa nel Vangelo di Averincev, che suona «alto e chiaro» (sono parole di Žukovskij), con l'autenticità con cui l'eterno si fissa nel temporale.

Sicuramente l’opera di traduzione, pur nella sua ricchezza (oltre a due Vangeli, il Libro di Giobbe, i Salmi, come pure i Padri siriaci e greci, Platone, Aristotele, Hesse, Brentano...), rappresenta soltanto la periferia di ciò che è rappresentato dal nome di Averincev. Ma quando si tratta della traduzione di testi sacri, cioè della Parola che ci parla di Dio e lo manifesta dentro il nostro cuore, ci vuole ben più che una solida conoscenza distillata da antiche erbe, ben più che talento, discrezione, finezza, orecchio per le sfumature verbali, insomma tutto ciò di cui Sergej Averincev era riccamente dotato, qui ci vuole anche mitezza e bellezza d'animo. Bisogna essere mediatori e scomparire in questo servizio. Bisogna servire «non nobis, sed nomini Tuo», ma bisogna farlo in modo che questo servizio al nome diventi allo stesso tempo un nostro servizio, che si compia in noi. Soltanto con questi talenti ci si poteva misurare col problema dei problemi della Chiesa russa, quello della lingua liturgica. Non è questo il luogo per intavolare il discorso. Ma a molti - e non a me solo - era chiaro che se c'era qualcuno in grado di provarci questo era Averincev. Chi altri - e chiedo scusa a chi non conosco - poteva vantarsi di unire in sé il tesaurus della memoria storica e la semplicità di fede, il lavoro di cesello sulla parola e la percezione della sua potenza che l'uomo non può contenere, un'insolita delicatezza e una finissima abilità, una umiltà non affettata e l'audacia? Chi se non lui, che era dotato di un orecchio assoluto per la poesia, e poeta lui stesso, maestro di retorica nel senso antico e originario del termine, uomo di preghiera capace di trattare liturgicamente ogni singola parola, sarebbe potuto diventare il nuovo mentore dei russi, quello che la nostra Chiesa attende ma non vuole accettare, che rifiuta ma allo stesso tempo invoca silenziosamente? Chi altro avrebbe saputo trovare le parole con cui poter pregare e gioire, ed esprimere quella pienezza umana dell'anima per cui uno è in grado di capire l'altro senza perdere la consapevolezza della propria persona? Chi saprebbe trovare una lingua totalmente «pura davanti a Dio» come davanti a se stesso, condividendo la patria della lingua con quanti Dio ha scelto come suoi e nostri contemporanei?

L'uomo non è più tra noi, ma la sua vocazione rimane.

Un'eredità interiore

La «cultura di Averincev», se guardiamo ai suoi libri, ai suoi articoli disseminati dovunque, si è sviluppata contemporaneamente da numerose fonti. Chi avrebbe potuto riconoscere nel giovane filologo già dottissimo, che scriveva della poetica antico-russa o della vivacità storica della categoria del genere, il poeta che si teneva appartato e componeva inni appassionati all'Annunciazione? Volendo abbracciare in un solo sguardo tutto ciò che ha scritto, dai primi articoli fino agli ultimi lavori (anche se non ci sono tante persone capaci di assimilare in uno sguardo tutto questo), nasce la sensazione di uno sviluppo, di un cammino interiore che ha avuto le sue tappe, la sua specifica logica dell'anima. Molto schematicamente (dato che un breve discorso commemorativo non può essere uno studio) questa logica si potrebbe tracciare come il cammino da un problema di critica letteraria all'autore stesso, dall'uomo-scrittore all'uomo segreto del cuore, immerso in Dio, dall'uomo segreto al Nome che in lui è stato posto e che in lui canta; ma fermiamoci qua.

Nell'introduzione al libro Poeti, Averincev scrive: «Più che cercate di farli "miei", volevo piuttosto io stesso farmi "loro", perché il simile, secondo la vecchia massima, riconoscesse il proprio simile; perché essi stessi fossero non soltanto per il mio intelletto, ma anche per la mia emozione, ancora più interessanti dell'emozione in quanto tale per se stessa. Il mio scopo era di coinvolgere la mia soggettività nel processo della conoscenza però con l'intenzione che in questo processo essa avesse a "morire", Non spetta a me giudicate quando il mio proposito sia stato almeno in parte coronato da successo, o quando sia decisamente fallito. Di un fatto sono sicuro: i poeti dei quali ho scritto non sono stati per me un pretesto per dire qualcosa "al riguardo". Per me non sono mai stati altro che se stessi, vale a dire qualcosa di incomparabilmente più interessante di tutto ciò ch'io avessi da dire su di loro». (24)

Noi lettori siamo pronti a rispondere concordemente in coro: «Ci è riuscito, assolutamente». L'autore, tuttavia, vede meglio di chiunque. Evidentemente, è rimasto qualcosa oltre la parola, che lui sentiva più fortemente, che tormentava lui e non noi. Parlare di fallimento non è affatto una forma di riverenza letteraria, ma un normalissimo processo creativo, quando dietro ad ogni frase conclusiva cresce immediatamente una montagna di cose non dette fino in fondo, non partorite; una montagna di cose pensate, mature, che premono sulla porta serrata del nostro discorso, ma che questo non è ancora pronto ad accogliere. Averincev è stato capace di fare «suoi», «nostri», ma anche più propriamente «loro» una schiera delle migliori menti creative, tanto che questa stessa capacità è diventata la sua ricchezza, la sua ascesi, un’opera nel più rigoroso senso ecclesiale, e infine il suo testamento. Quello che ha fatto resterà con noi. Ma con noi resterà anche ciò che non ha detto fino in fondo, ciò che andava maturando ed era maturo in lui, ma è stato interrotto dalla morte.

Cerco una parola, ma le parole sembrano troppo logore, sfilacciate per riuscire a trasmettere l'inesprimibile. Forse la parola più precisa e meno inadeguata è la parola «sapienza», la sapienza in senso biblico, la sapienza della semplicità decantata, limpida, profonda. La «possente vecchiaia evangelica» è frutto della sapienza. Negli ultimi anni in Averincev era affiorata un’intonazione nuova, nient’affatto da maestro ma piuttosto da discepolo, era l'intonazione di una persona che ha cominciato a elargirsi, a mettersi in comune con gli altri. Parlava molto in pubblico, partecipava a molti convegni, scriveva introduzioni a libri altrui, con la sua stupefacente capacità di aprirsi agli altri era diventato un maestro anche nella pubblicistica. Quello che non gli era stato possibile da giovane - per banali motivi di censura - si era poi rivelato necessario, tempestivo ed estremamente richiesto nella maturità. In un certo senso, questo sapiente servizio al tempo e al mondo per un uomo del rango di Averincev era in parte un sacrificio, ma un sacrificio portato con letizia, che lo aveva entusiasmato (ed era diventato alla fine «la morte totale effettiva»). Molti hanno avuto e hanno qualcosa da dire, ma la parola di Averincev era intrisa di una particolare forza pacificante, rivestita della tacita potenza e fortezza di quella pace dell'anima che così tragicamente mancava e manca al mondo russo. Quando si leggono i suoi commenti degli ultimi anni a questo o quel fatto di cronaca, non si può fare a meno di notare che sono espressi con una chiarezza ideale. Non solo riusciva a cogliere il nocciolo della questione, ma trovava anche la giusta intonazione per poter discorrere del fatto. Ricordo ora l'articolo Noi e i nostri vescovi, ieri e oggi. Moltissimo era già stato scritto sull'argomento (ahimè, anche dall'autore di queste righe), ma di tutto questo forse è rimasto fissato non sulla sabbia ma sulla pietra solo quanto ha scritto lui, Averincev. In lui giustizia e misericordia non si contestano a vicenda ma si congiungono, si fondono insieme dando origine a qualcosa di organico, autentico. I suoi articoli sul matrimonio - una predicazione attuale e opportuna -, sul futuro del cristianesimo in Europa, sul contesto europeo dei dibattiti russi, sulla Parola divina e quella umana, sul cristianesimo nel XX secolo, sulla poesia di Ol'ga Sedakova; articoli frammisti a versi spirituali, rappresentano l'ultimo Averincev maturo, dal quale non si vuole, è difficile separarsi.

La sapienza di Averincev, che in qualche modo balenava in lui pur senza aver ancora raggiunto piena espressione, consisteva nella capacità, per dirla con Deržavin, di «conversar di Dio con sobrietà cordiale» e di dire la verità, anche quella più austera, con un sorriso buono, chiaro, quasi inerme.

L'attesa della morte

Chiudo con un osservazione personale. A chi scrive queste note è capitato di incontrare Averincev a Mosca, all'inizio degli anni ‘70 (il defunto Boris Šragin gli aveva fatto una visita di buon vicinato e mi aveva portato con sé), ma un vero rapporto e anche una certa amicizia - nonostante la differenza che corre fra le nostre persone e il nostro livello - sono nati fra noi soltanto vent'anni dopo. Non potrò dimenticare le nostre passeggiate per Roma nei primi anni '90. Ricordo in particolare il Lungotevere dove dei vecchi olmi toccano l'acqua con le fronde, formando una galleria verde sopra la testa. Una sera d'estate la sua fisionomia si stagliava sulle fronde verdi, e sembrava che la sua voce sommessa suonasse in armonia con il fruscio delle foglie.

Il giorno dopo la nostra passeggiata andammo in San Pietro. Non c'erano celebrazioni, in quel momento la chiesa era tutta dei turisti. Poco discosto dalla statua del primo degli apostoli, interrompendo d'un tratto il discorso su Vjačeslav Ivanov, Averincev si mise a recitare la sua Preghiera per l'ultima ora. Con una voce non sussurrata ma ferma, chiara, come di chi professa qualcosa che certamente si avvererà, e a cui il cuore è preparato da tempo:

Preghiera per l’ultima ora

Quando la Morte riderà di me
come colei che ride ultima e fiaccherà
le membra ad una ad una

Sia con me la Tua Forza

Quando il pensiero sprofonderà ottuso
quando la volontà si perderà
quand'io più non saprò il mio nome

Sia con me il Tuo Nome

Quando verrà la fine dei discorsi
e la lingua così loquace un tempo
s'impietrirà nell'afasia della tomba

Sia con me la Tua Parola

Quando passerà l'apparenza
che il veggente vedeva in piena luce
e la superbia del non essere
nuda apparirà

Colma di Te il mio vuoto.

Cercate di penetrare questa pienezza e questa economia di parole, di guardar dentro l'uomo che le ha udite. Non viene voglia di pregare non solo con lui, non solo per lui, ma lui stesso?

(fine)

Note


20) S. Averincev, Parola divina e parola umana, in «La Nuova Europa», n. 2, 196, p. 15.

21) Ibidem, Molitva o slovach, cit., p. 8.

22) Ibidem.

23) Ibidem, p. 9.

24) S. Averincev, Dieci poeti. Ritratti e destini, cit., p. 9.

Pubblicato in Chiese Cristiane
Etichettato sotto
Averincev: l’esperienza di costruire cultura
(prima parte)

di Vladimir Zelinskij


A Natalija Petrovna Averinceva

Nell’introdurre questa riflessione sui Sergej Averincev, penso innanzitutto alle sue poesie. Poesie che si vorrebbe chiamare «preghiere come gigli del campo», dal titolo che il monaco Kiprian Kern diede al suo libro sulla poesia liturgica, nella quale le parole, come steli di fiori, si piegano lievemente sotto il peso leggero, incorporeo, della preghiera.

Oh Dio, le parole fuggono
dalla fragile dimora dell'uomo
al nostro sentimento carnale
misteriosamente indifferenti;
staccandosi dalla mano, cominciano a vagare.
Come cani randagi ululano:
meglio è per loro ritornare a Te,
stringersi al Tuo sacrario. (1)

«Il deserto è fiorito come un giglio del campo, o Signore», si dice nell'Irmologion. (2) Quando si pensa all'ambiente, al terreno da cui è germogliato il «fenomeno Averincev», l'immagine del deserto «fiorito» come un giglio del campo si affaccia spontaneamente alla memoria. Certo, l'ululato di cani randagi è ciò che meno si percepisce nelle sue parole. Siamo piuttosto di fronte alla figura di un pentimento non retorico, perché le sue parole, staccatesi dalla mano, invece di vagare si tuffano in profondità alla ricerca di tesori nascosti nelle navi affondate e, raggiunti lì, li ripuliscono dalle alghe e dal fango... Le parole di Averincev sembrano custodire il profumo di quelle profondità, emanano la dolce antichità e il tepore degli altari sui quali si è appena estinto il fuoco dei greci che offrivano sacrifici, hanno la fragranza dei mari e degli stretti che un tempo Odisseo attraversò tornando in patria...

«Di molti uomini le città vide e conobbe la mente». (3)

La strada di Averincev, che si può seguire passando in rassegna le città che ha percorso e i luoghi che ha «visto», è sempre via del ritorno al «sacrario» attraverso la preghiera.

La chiave di Eraclito

Qualsiasi esperienza creativa può essere esaminata in diverse «chiavi», che a buon diritto prendiamo in prestito dagli autori più impensati. Da lungo tempo cerco di sciogliere l'enigma di Averincev usando la «chiave di Eraclito». Mi si è impresso nella memoria un frammento del pensatore greco, che è rimasto, come tutto in lui, oscuro e inesplicabile: «sapere molte cose non insegna ad avere intelligenza: l'avrebbe altrimenti insegnato a...» (fr. 40), e seguono i nomi degli oppositori di Eraclito: Esiodo, Pitagora e altri.

Negli anni in cui il nome di Averincev si sussurrava tra le élite delle biblioteche, tra un pubblico di pochi detti, sulle riviste letterarie, io, dissociandomi dall'atmosfera snob dei circoli esclusivi, usavo il verso di Etaclito proprio contro questo orgoglioso portatore o, come credevo, trasmettitore di nozioni inutili. Le conoscenze che Averincev aveva accumulato, allora come oggi, colpivano gli occhi invidiosi e stupefatti degli ascoltatori con il loro luccichio che a me, chissà perché, ricordava il luccichio delle monete di cui aveva fatto incetta il cavaliere avaro. (4) Neofita degli anni ’70, guardavo non senza ironia i giovani cercatori di Dio che come mosche sciamavano attorno al piatto colmo del miele vischioso dell'erudizione che si chiamava «lezione di Averincev», e ricordavo, forse fuori luogo, le parole evangeliche sul mercante che aveva venduto tutte le proprie ricchezze per quell'unica perla preziosa… In poche parole, «sapere molte cose non insegna ad avere intelligenza..», dove per me l'«intelligenza», il logos, il giglio era solo quella conoscenza interiore che sboccava nel Verbo che era in principio presso Dio e in principio presso l'uomo, e in confronto alla quale tutto il resto sembrava un ammasso di cocci.

Cos'era dunque quella conoscenza interiore che non desiderava riconoscersi in nessuna nozione esteriore? Sembrava una forza che agiva nelle cose, che si opponeva al caos delle molte istruzioni inutili sulla cultura e sul mondo, era l'essenza più intrinseca della realtà, l'«aletheia», secondo l'interpretazione di Martin Heidegger del frammento 16 di Eraclito, ossia la verità che emerge dal mistero in cui l'essere si rivela all'uomo. Questa verità non si può raggiungere con nessuna archeologia della conoscenza o dotta digressione culturale. Infatti, la cultura ci può accecare con i riflessi dell'individualità umana che si è staccata dal Verbo di Dio. Anche oggi molti la pensano così, contrapponendo la cultura non tanto alla Parola, quanto al culto, e considerandola come qualcosa di notoriamente inutile, che distoglie dall'«aletheia» della vita della Chiesa, dall'«unico necessario» della preghiera. Come se l'ampiezza e la varietà dei paesaggi culturali servissero solo ad attutire la voce dell'intelletto o del logos che parla in noi, a offuscare la luce del mistero che procede dal logos, dal Verbo, e dalla fede che di esso è partecipe.

Mi sono tanto dilungato a parlare di queste cose, proprio perché oggi non la penso più così. La mia protesta contro la freddezza delle «enciclopedie viventi» era in questo caso superficiale, e non teneva conto del «silenzio del Verbo» di Averincev, che può celarsi persino nella disciplina più prolissa e ramificata. Ma, dopo aver ascoltato una volta «la pienezza che non ha nome» (Vjačeslav Ivanov) e che sta dietro a questo silenzio, non ho più potuto separarmi dalla sua ricchezza, disseminata e nascosta nei testi di Averincev, esteriormente sovrabbondanti di reminiscenze culturali; non ho più potuto staccarmi da ciò che fin dall'inizio era colmo dell'intenso dialogo della preghiera, dialogo che cresce dallo stupore che si comunica agli ascoltatori.

Così che, se proprio dobbiamo «misurare» l'armonia con il metro dell'algebra e Averincev con il metro di Eraclito, visto che da qui siamo partiti, oggi come oggi preferirei un altro frammento, il 54, che dice: «L'armonia nascosta vale più di quella che appare».

E finalmente sono arrivato a ricostruire questa armonia nascosta mettendo insieme la moltitudine di frammenti, di isole, sulle quali è disseminata la galassia delle scienze di Averincev. Poiché «la forza materiale [anche quando si tratta della “materia" del pensiero – V. Z.] permette al significato spirituale di realizzarsi

L'arcipelago Averincev

Konstantin Sigov, nella sua postfazione alla raccolta Sofia-Logos, ha definito, con un'espressione felice, questa miscellanea come un arcipelago, «un viaggio universale della conoscenza dalla A alla Z». (6) Ma la «A» in Averincev si trova dappertutto: nei greci, dai quali aveva cominciato, negli antichi bibliofili russi, ai quali era approdato, nell'acatisto alla Madre di Dio, di cui ci ha aiutato a scoprire la saggezza, nei Padri della Chiesa, dai quali non si è mai separato, in Vladimir Solov'ëv, che è diventato suo confratello, in Anna Achmatova, Marina Cvetaeva, in Vjačeslav Ivanov e in altri poeti ed eterni compagni di viaggio, in Walter Benjamin, Rilke, Tralk, Jung, Maritain, in molti altri che sono stati suoi compagni dicammino o, piuttosto, amici... e in tantissime altre diverse esperienze.

Ma con tutto ciò Averincev non è diventato affatto un prontuario ambulante, una sorta di enciclopedia della cultura mondiale. Se esaminiamo con attenzione la traiettoria del suo pensiero, all'apparenza ridondante ma al tempo stesso vivace e lieve, sentiremo che la sua «A», la sua «archè», sta prima della nascita delle parole, si trova «alle sorgenti del verbo», come dirà in seguito.

Nata dalla contemplazione, la sua parola segue il proprio «ciclo», per rifluire poi verso la fonte da cui era partita. È proprio questa fonte, ancora tutta da scoprire, che ci attira e ci affascina. Forse perché in ognuno dei suoi compagni di viaggio Averincev cerca un complice e un confratello, depositario come lui del segreto della sapienza che si è costruita una casa, o almeno un'abitazione fragile e provvisoria, in un certo destino, in un verso particolare e nel silenzio che vi si cela. E tutta questa pienezza del silenzio-conoscenza viene affidata ad ogni lettore attento di Averincev. Qualunque testo di Averincev noi prendiamo, è sempre un capolavoro di dialogo umano ben riuscito, ben realizzato (come dice Marina Cvetaeva: «l'anima si è realizzata»). (7) Un capolavoro che, per usare una delle sue parole preferite, «evoca» persone e concetti, che a loro volta prendono vita e fioriscono nella preghiera. I «protagonisti» di queste opere ci mostrano la loro faccia illuminata, rischiarata dalla luce del cuore che cade su ognuna delle isole dell'«arcipelago Averincev». personalità) diventa fitto e ricco di contenuto, poiché la sua propria voce si fonde con la voce dell'altro senza coprirla, dandole modo di esprimersi pienamente e creando così materia sonora per la Sapienza, la cui voce è sempre polifonica.

La chiave di Mandel'štam

«Solo un russo poteva rivelare questo Occidente, più concentrato e concreto dello stesso Occidente storico», (8) scriveva Mandel'štam di Čaadaev, ma forse queste parole si possono applicare, a maggior ragione, anche ad Averincev.

Non a caso abbiamo ricordato uno dei poeti a lui più familiari, nel quale è facile trovare una moltitudine di sentieri verbali che ci possono condurre anche al fenomeno Averincev. Cercare e trovare vie come queste, spesso impensate, che portino dall'uno all'altro è uno dei suoi segreti stilistici. «Oggetti piuttosto lontani l'uno dall'altro», secondo la definizione di poesia di Lomonosov, ma collegabili tra loro, creano un effetto di compattezza, densità e concretezza storica. Proprio questa compattezza costituiva una sorta di opposizione della parola in anni in cui ci si poteva impantanare nelle parole putrefatte e mummificate come in una fetida palude. Oggi, se ci voltiamo indietro a guardate la palude di ieri (da cui tutti, chi più, chi meno, allora siamo passati), non vi troviamo le impronte di Averincev.

«Dai nemici della parola emana un impuro sentore caprino che avverto quasi fisicamente», scriveva Mandel'štam nel 1921 nel saggio La parola e la cultura. (9)Questa può essere considerata la definizione più esatta dell'epoca che di lì a poco avrebbe ucciso lo stesso poeta. Negli anni in cui il giovane Sergej Averincev aveva appena incominciato a tessere i suoi rapporti sopraffini con la parola, il sentore caprino non era più quello della morte, almeno di quella fisica, ma era così pesante, asfissiante e onnipresente da sembrare ormai a tutti da tempo la normale atmosfera umana. Quando non era rimasto più neppure un barlume di speranza che un giorno tutto questo lezzo si sarebbe dissipato, Averincev aveva trovato il modo di respirate quell'aria diversa, che, a quanto pareva, era stata spazzata via alcuni decenni prima. Aveva trovato il modo non tanto di parlare, ma semplicemente di respirare senza assorbire con i polmoni i miasmi della palude, evitando però di atteggiarsi ad acerrimo nemico del «sentire caprino» (questa resistenza eroica troppo spesso si è rivelata, ahimè, fatale proprio al profumo diverso e sublime che avremmo voluto difendere).

Dapprima in modo piuttosto intuitivo, ma poi, penso, in piena coscienza, decise di avere a che fare solo con i primi cittadini della repubblica dei pensatori e dei poeti, che sapeva scoprire in modo così infallibile. Penso che la sua stessa erudizione sia nata non dall'avidità di accumulare nozioni alla rinfusa, ma dal bisogno di amicizia, proprio di quell'amicizia che nella lingua ellenica si chiama philia: da qui la sua philo-logia, philo-sophia, che in Averincev non sono materie e discipline, ma stati di un'anima amica, che ama. «E il mare e Omero, tutto è mosso dall'amore»; (10) ricordiamo ancora una volta Mandel'štam, poiché è come se il mare di Averincev con le sue isole fosse attraversato dalla tiepida Corrente del golfo... Non su tutte le isole sono vissuti eroi che gli sono ugualmente cari, congeniali, compartecipi delle sue scoperte, tuttavia non si trova mai in lui un tono tagliente, che assieme agli errori mozzi via tutta la personalità dell'altro. Il metodo di Averincev è la finezza d'orecchio, da cui nasce anche il dialogo, un dialogo così aperto all'interlocutore, così disposto a comprenderlo, che è come se questa comprensione impedisse all'autore stesso di pronunciarsi. Spesso ci tocca andare a scovare il suo pensiero in testi che parlano d'altro, e perciò non è facile tracciare un confine tra ciò in cui c'è tutto lui, e ciò dove lui non c'è più per niente, ma ha lasciato il posto a un altro misterioso, che secondo Tjutčev «hanno accolto i beati dei come un convitato alla festa». (11)

«Lo afferra la profonda gioia dell'iterazione, una gioia che dà il capogiro», (12) secondo le parole di Mandel'štam, poiché Averincev sa e ama ritrovare se stesso in qualsiasi interlocutore. Per questo è rimasto straordinariamente libero dalla logorroica frenesia dell'ego che si è impadronita di tutti, in particolare all'inizio dell'epoca della libertà; è rimasto libero dall’estasi di lavare in pubblico i panni sporchi del proprio «io». Le sue isole si richiamano l'una con l'altra, si invitano a fuochi notturni, segnali, messaggi d’amicizia, poiché alla base risuona sempre la stessa notizia, ma ogni volta in modo diverso, in cento diverse interpretazioni, saggi e versi. «I versi», dice Mandel’štam, «vivono di un'immagine interiore, di quel sonoro calco della forma che precede la poesia scritta», (13) e noi vediamo come questa immagine interiore, maturata in Averincev, viene da lui intuita e creata poeticamente in modo instancabile nei suoi amici e interlocutori. Questa immagine interiore che egli trova dappertutto, perché vive in primo luogo dentro di lui, si chiama «Sapienza».

Sofia, Shekinah, (14) Parola

Averincev promuove sempre il suo lettore, lo introduce da pari in una cerchia scelta, sebbene non proprio ristretta, di amici fidati, e chiunque egli inviti non può fare a meno di seguirlo, anche se può capitare che non si senta del tutto a proprio agio alle sue latitudini.

Ne è un esempio il modo in cui ci invita ad andare in pellegrinaggio alla Sofia. «Personalmente mi sembra impossibile pronunciare il nome della città di Kiev», ha affermato all'inizio della lezione all'Accademia Mogiliana, quando gli è stato conferito il titolo di professore Honoris causa, «senza pensare al suo santissimo Palladio, che porta il nome di cattedrale di Santa Sofia». (15) Il costrutto «a me personalmente» sottolinea, a quanto pare, la soggettività di chi parla, che si scusa un po' con gli ascoltatori per questo «io», sbucato fuori in modo importuno. Tuttavia, in questo preambolo si sente già la dolce autorevolezza, che non deriva dal carattere (poiché sarebbe difficile trovare una persona più delicata), ma che nasce dall'atmosfera di culto, nella quale noi, seguendo i passi dell'autore, ci prepariamo a entrare. Ed ecco che l'ascoltatore o il lettore si mette già in viaggio per l'«arcipelago Averincev» salpando da un porto chiamato «santissimo Palladio» e portandosi dietro come provvista un po' di questa santità. «L'argomento di questo saggio è ristretto e al tempo stesso ampio fino ad essere inesauribile», (16) così inizia un altro, precedente saggio sulla Sofia, ed ecco che, cominciando dall'abside della chiesa di Kiev, il filo del suo pensiero-narrazione si immerge in profondità, scende verso le proprie radici, che affondano in Proclo e Platino, in Omero e nell'Edda Antica, (17) e in molte altre opere e autori. La Sapienza chiama Averincev da ogni luogo, e così sembra che il suo viaggio non debba finire mai, ma è proprio questa la peculiarità della famosa sensibilità universale dell'anima slava, di Dostoevskij o, a maggior ragione, di Puškin, che impone delle soste per rispondere a ogni richiamo. Se vogliamo fare un paragone, il metodo e la ragione occidentali ci trascinano dal punto A al punto B come a rimorchio, senza perdersi in inutili digressioni che portano lontano, senza librarsi in alto, senza tuffarsi in profondità, e, normalmente, il punto d’arrivo ci è noto fin dall'inizio. Nella navigazione di Averincev, invece, è importante la stessa cordialità della risposta, un indugiare lungo la via che talvolta sembra del tutto ingiustificato, un particolare che improvvisamente affiora alla memoria e viene portato in offerta a un altare invisibile, e magari è proprio quello a diventare il punto d'arrivo segreto. «La sapienza si è costruita una casa» (Pr9,1), ma in Averincev questa costruzione avviene sotto i nostri occhi: solo un lettore del tutto sprovveduto può non accorgersi di essere finito senza volerlo in questa casa, e per di più non dall'esterno come «osservatore culturale», ma dall'interno, come chi partecipa a un culto nel quale si sente coinvolto.

Lasciamo stare le isole sulle quali la Sapienza ha lasciato traccia di sé, e approdiamo alla Bibbia, alla Parola, poiché in fin dei conti proprio a questo continente ci conduce il nostro autore-Odisseo, Mi perdonino i lettori per la libera interpretazione, ma la Parola in questo testo di Averincev nasce dalla Shekinah, dalla presenza sacra, dalle manifestazioni di Dio nel mondo, che secondo l'interpretazione audace dell'autore si presenta come un Suo alter ego moltiplicato. E l'alter ego di Dio è proprio la Sapienza, definita nel libro di Gesù figlio di Sira «un'emanazione della potenza di Dio, un effluvio genuino della gloria dell'Onnipotente» (Sap 7,25).

La Shekinah non solo ci illumina, è presente o prende dimora in noi (come dice la preghiera allo Spirito Santo), il suo ruolo in Averincev è più attivo: la Shekinah raccoglie come un uccello sotto le ali ciò che da essa nasce, ciò che ne è illuminato. Essa «plasma» l'agire umano, nell'arte, nella costruzione della società, nella preghiera. «Raccogliendo i corpi cosmici in un universo ordinato, raccogliendo i pensieri degli uomini in un cosmos intellettuale disciplinato, la Sapienza raccoglie anche terre, città e paesi in uno Stato sacro centralizzato. Perché anche lo Stato è la sua “casa”». (18)

Mi permetto di fare un'analogia arrischiata: il «cosmos intellettuale» di Averincev nasce dall’unione dei molti corpi, frammenti e volti «culturali» in cui si è imbattuto come per caso, senza un progetto premeditato, ma che sono divenuti, solo grazie a un'intuizione nata prima dei testi, una sorta di edificio di culto, di Stato della saggezza, di reame delle scoperte, di società degli amanti della sapienza; certo, una sapienza puramente umana, che si compone in unità in un grandioso affresco. Nell'«intellettualismo sacro» della Sofia di Averincev la sacralità sembra ben nascosta dietro l'intellettualismo, ma via via che i suoi testi si moltiplicano e si arricchiscono di contenuto spirituale, possiamo constatare come essa si fa sentire sempre più apertamente. Si fa sentire direttamente come professione della vera fede sua, di Averincev.

Infatti, si può professare la propria fede anche così: raccontando delle ricchezze che la ragione, illuminata dalla fede stessa, ha accumulato. «Credere in un unico Dio», dice Averincev del metropolita Ilarion, autore del Sermone sulla legge e la grazia, - ma forse avrebbe potuto a buon diritto applicare anche a sé queste parole -, «non solo è più santo, ma anche più intelligente, ed è più intelligente proprio perché è più santo». (19) Del resto, Averincev non avrebbe mai detto di sé nulla di simile, e, vista la sua umiltà, non lo avrebbe nemmeno pensato. Eppure ha individuato sperimentalmente questa legge, e se non è stato lui a scoprirla, comunque l'ha dimostrata secondo nuove modalità, riconducendo all'intelletto tutto ciò che la santità e la contemplazione della Shekinah o della Sapienza gli avevano rivelato, e raccogliendo i tesori dell'intelletto, tutta la memoria degli incontri, delle conversazioni, dei dialoghi e dei richiami nella santità della conoscenza che aveva scoperto per la nostra epoca.

(continua)

Note

1) S. Averincev, Molitva o slovach (Preghiera per le parole), in: Idem, Stinchi duchovnye (Versi spirituali), Kiev 2002, pp. 8-9.

2) Cit. da: Archimandrita Kiprian (Kern), Kriny molitvennye (Poesie come gigli del campo, Mosca 2002, p. 13. L’Irmologion è un libro liturgico della tradizione bizantina, che contiene i testi delle parti cantate di tutti gli uffici.

3) Omero, Odissea, Torino 1981, p. 3.

4) Allusione a protagonista dell’omonima tragedia di Puškin (1830).

5) S. Averincev, Slovo-Logos (Parola-Logos), Kiev 2000, p. 234.

6) Ibidem, p. 423.

7) M. Cvetaeva, Zoloto moich volos (L’oro dei miei capelli), in: Idem, Sobranie sočinenij v semi tomach (Opere in sette volumi), Mosca 1994, vol. 2, p. 149.

8) O. Mandel’štam, Slovo i kul’tura. K stat’e e «Čaadaev» (La parola e la cultura. Per l’articolo «Čaadaev»), Mosca 1987, p. 267. Tr. it. In: S. Averincev, Dieci poeti. Ritratti e destini, La Casa di Matriona, Milano 2001, pp. 187-188 e in: O. Mandel’štam, La quarta prosa, Bari 1967, p. 109.

9) Ibidem, p. 40; tr. it. in: O. Mandel’štam, La quarta prosa, p. 40.

10) O. Mandel’štam, Betonica. Gomer. Tugie parusa (Insonnia. Omero. Vele spiegate), in: Idem, Sobranie sočinenij (Opere), New York 1955, pp. 76-77.

11) F. Tjutčev, Ciceron (Cicerone), testo russo e trad. it. in: Idem, Poesie, Milano 1993, pp. 130-131.

12) O. Mandel’štam, Slovo i kul’tura, p. 41. tr. it. in: Idem, La quarta prosa, p. 42.

13) Ibidem, p. 42; tr. it. in: La quarta prosa, p. 44.

14) Il termine Shekinah indica la divinità immanente, la presenza di Dio nel mondo.

15) S. Averincev, Slovo-Logos (Parola-Logos), Kiev 2000, p. 6.

16) S. Averincev, K ujasneniju smysla nadpisi nad konchoj central’noj apsidy Sofii Kievskoj (Per comprendere il senso dell’iscrizione sulla conca dell’abside centrale della Sofia di Kiev), in: Drevnerusskoe iskusstvo i chudožestvennaja kul’tura domongol’skoj Rossii (Arte antico-russa e cultura figurativa della Russia premongolica), Mosca 1972, p. 25.

17) L’Edda Antica, o Edda Poetica, considerata la prima opera della letteratura germanica, è attribuita al monaco cristiano Saemund che operò in terra vichinga. La sua stesura risale all’800 d. C.

18) S. Averincev, K ujasneniju smysla nadpisi nad konchoj central’noj apsidy Sofii Kievskoj, p. 42.

19) Ibidem, pp. 42-43.

Pubblicato in Chiese Cristiane
Etichettato sotto
La riscoperta innocenza della creazione

di Vladimir Zelinskij




La decisione della Commissione Teologica Internazionale presentata nel documento “La speranza della salvezza per i bambini che muoiono senza Battesimo” ha un significato più largo di questa promessa. Si tratta infatti di una svolta all’interno della Chiesa Cattolica, avvenuta, a dire il vero, già da tempo nel popolo dei fedeli e rivestita adesso di una sua espressione dottrinale. Infatti la certezza della pena eterna - non solo per i bambini, ma per tutti o quasi - oggi sembra incompatibile con il nostro umanesimo. Ciò che meno di un secolo fa era un’incrollabile pietra della fede oggi non è più così e questo cambiamento - che prima di trovare la sua formula teologica si svolge in maniera spontanea e irreversibile - ha un grande senso ecumenico. Quale? Certo, la dottrina del peccato originale nella sua versione agostiniana, se non è posta in ombra, è messa nel contesto di una nuova e sorprendente visione. La speranza della salvezza per gli esseri innocenti (cioè, della pienezza della vita con Dio) presuppone prima di tutto l’innocenza del mondo appena uscito dalle mani di Dio e ci fa pensare alla grazia propria dell’atto della creazione. Ogni membro della famiglia umana, creato ad immagine di Dio, è formato dalla Parola, custodisce l’impronta della Parola su di sé. La luce che illumina ogni uomo che viene nel mondo non può essere completamente cancellata, soprattutto nei piccoli soltanto concepiti o nati da poco. La Chiesa ortodossa non ha mai fatto un riferimento esplicito alla dannazione eterna degli innocenti non battezzati, evitando di interpretare in senso giuridico le parole di Cristo sull’impossibilità di vedere il Regno di Dio per tutti coloro che non sono rinati dall’acqua e dallo Spirito (nel contesto dell’incontro con Nicodemo si può pensare che si tratti di persone adulte) e preferendo mantenere per questo mistero un fiducioso silenzio. La fede orientale, piuttosto intuitivamente che concettualmente, segue il pensiero di San Gregorio di Nissa: “La beatitudine sperata appartiene agli esseri umani per natura…”.

Ma una fede che sopprime la pena non perde, forse, il suo sale? Una salvezza garantita per tutti e gratis non uccide il dramma della libertà ineliminabile dal messaggio cristiano? Lo scivolamento verso un cristianesimo che ha dimenticato l’inevitabilità della tragica scelta dell’uomo che può ribellarsi contro il suo Salvatore produrrebbe un grande svuotamento del lieto messaggio annunciato ai poveri, agli oppressi, ai prigionieri del peccato. Nella Chiesa orientale l’innocenza della creazione è unita al timore di Dio, al senso di colpa nei confronti della purezza profanata della propria anima. Non si nasconde qui - nell’esperienza vissuta insieme, nel riconoscimento reciproco del nucleo della fede - una strada che porta all’unità della Chiesa? Anche senza grande visite o accordi storici.

Pubblicato in Chiese Cristiane
Etichettato sotto
Venerdì, 01 Febbraio 2008 00:06

Essere ortodosso in Occidente (Vladimir Zelinskij)

Essere ortodosso in Occidente

di Vladimir Zelinskij




Il tema che mi è stato proposto non solo non si potrebbe esprimere nel quarto d'ora che mi è stato accordato, ma neppure in quella che è la mia lingua madre. “Essere ortodosso in Occidentecome argomento, forse, corrisponde perfettamente allo spazio di un quarto d'ora, ma tutto quello che può essere abbracciato dalle parole russe “byt' pravoslavnym na Zapade” [essere ortodosso in Occidente] basterebbe a scrivere un libro intero “di fredde osservazioni della mente e dolenti note del cuore” (Puškin). La differenza tra la frase italiana e il suo legnoso calco russo è simile alla differenza tra la russa “confessione di un cuore ardente” (Dostoevskij) e la conferenza cortesemente distaccata, che si mantiene entro precisi argini. Tuttavia lo stile del nostro discorso spesso ne condiziona la sostanza e perciò, se vogliamo mantenerci fedeli al tema, dobbiamo trovare una via intermedia, che operi un compromesso fra queste due tonalità, esprimendo in russo un'esperienza italiana, vissuta tra due realtà e per lo meno in due lingue.

Com'è noto la terra d'esilio - esprimiamo con questo elevato termine puškiniano la strana sensazione di strappo fisico dal nostro stesso passato - ci condanna a tornare in noi. Per questo “essere ortodosso in Occidente” prima di tutto ha voluto dire per me cercare di esserlo di nuovo, tornare all'ortodossia ricco di una nuova esperienza, compiere un pellegrinaggio interiore “nel paese d'Oriente” (Hesse) pur restando in Occidente, mantenendo contatti quotidiani, culturali, amicali e spesso di preghiera con la Chiesa cattolica. E questo mio ritorno non ha voluto dire in alcun modo dissociarsi dalla nuova esperienza occidentale, ma ricercare la comune origine spirituale. Poiché in questa origine, ortodossia e cattolicesimo rimangono nel profondo, nonostante tutto ciò che li divide, rivolti l'uno verso l'altra, direi che segretamente si cercano. Segretamente, perché nessuna delle due parti ancora si rende conto del bisogno che ha.

Innanzitutto, come ben sappiamo, le due Chiese confessano se stesse negli stessi identici termini, proclamando di essere una, santa, conciliare o cattolica, basata sulla comune eredità apostolica. E questo rivendicare un'unica verità indivisibile, ferme restando le sue diverse interpretazioni, crea ad un tempo il terreno per un secolare conflitto e per una riconciliazione nell'unica fede, riconciliazione che dobbiamo ancora scoprire o meglio lasciare che si rinnovi, come può rinnovarsi un icona in risposta alle preghiere umane. Anche per questo non bisogna parlare della necessità di trovare una verità comune, quanto della necessità di un nuovo incontro nella verità eterna che “da tempo è stata trovata” (Goethe), ma che si cela sotto la coltre delle nostre tradizioni e neanche in primo luogo delle tradizioni ma delle forme, delle ombre storiche e confessionali che una Chiesa getta sull'altra.

Tuttavia la divisione tra Oriente e Occidente non corre solo tra le diverse forme della verità ma anche, per dirla con le parole di Buber, “tra due tipi di fede”, che naturalmente, oltre al fondamento dogmatico, ne hanno anche uno umano. L’Occidente visto da Oriente, così come l'Oriente visto in proiezione da Occidente manifestano spesso il nostro segreto desiderio di guardare l'altro come vorremmo vederlo, o meglio, il desiderio di non guardarlo affatto, a seconda che lo consideriamo con simpatia o con ostilità. La libertà che è esplosa in Oriente - e non parlo solo della Russia - ha dato via libera a questi desideri ed oggi si sono delineate per lo meno due immagini “ortodosse” di Europa, che continuano a respingersi l'una l'altra.

In un caso l'immagine ortodossa dell'Europa si leva come un baluardo per respingere l'ininterrotta aggressione occidentale contro l'ortodossia. È una sorta di linea Maginot psicologica posta a salvaguardare l'ultimo sostegno dell'autentica pietà, mentre quest'ultima, più si sente dolorosamente circondata da ogni lato più si spinge verso l'alto, arrivando ormai fino al cielo, anzi “nel più alto dei cieli”, per suddividerlo in settori, quello aperto per noi, e quello chiuso per gli altri. È pur vero che l'Europa e l'America, in certi casi, servono da spauracchio preso a prestito da agitare davanti al nemico di casa, e la stessa parola Occidente non è altro che il simbolo della tentazione occidentalista, che agisce e corrode oppure che si accinge a rinnovare l'ortodossia dal di dentro. Capita che l'antiecumenismo più sfegatato in Oriente, anche se si atteggia a san Giorgio che uccide il drago, possa tranquillamente instaurare rapporti amichevoli e persino cordiali col drago, che gli renda visita nella sua stessa tana in Occidente, e arrivi persino a fargli dono dei propri libelli anti-drago. In realtà, il mostro cattolico, per quanto astuto e ostile possa essere, resta per chi lo combatte un oggetto di scarso interesse; del resto anche la diaspora ortodossa in Occidente spesso lo considera un vicino seccante e poco simpatico (che per di più occupa tutto lo spazio a disposizione) e gli volta le spalle. Di conseguenza, nella prospettiva dell'unità, l'antiecumenismo ortodosso freddo e rigido qui in Europa è ben peggiore e senza rimedio degli anatemi orientali. Ma qui si aprirebbe un altro discorso.

Esiste, a dire il vero, anche un'altra immagine ecumenica, o piuttosto antiantiecumenica dell'Occidente che ha solide radici in Oriente, immagine che parte più o meno consapevolmente dal presupposto che il cattolicesimo sia appunto l'ortodossia ideale, tornata finalmente al Vangelo, liberatasi dallo spirito mercantile moscovita, dalla pesantezza imperiale, dall'iraconda intolleranza da Avvakum e dall'abbietta adulazione untuosa. Ricordo come si crea quest'immagine in base alla mia esperienza personale, ma ora so anche che le Chiese ideali non si edificano cercando di eliminare con un'operazione mentale determinati difetti della propria Chiesa, poiché la strada dell'unità non incomincia dalle nostre proiezioni, ma deve prendere corpo organicamente dal terreno, dallo spazio spirituale in cui sussistiamo.

UNA CHIESA RIDOTTA A MUSEO

Ma se l’Oriente, nei riguardi dell'Occidente, come dice Blok, “scruta, scruta e scruta, con odio e con amore”, l'Occidente, dal canto suo, spesso incapace persino di immaginare un tale ribollire di sentimenti, prende le distanze dall'Oriente, posto che vogliamo chiamare convenzionalmente con questo nome l'ortodossia, con una scelta più conciliante, più amichevole e soprattutto più astuta. L'Occidente non costruisce baluardi, però circonda l'Oriente con una sorta di recinto invisibile ma impenetrabile, alle cui porte sta scritto “museo delle credenze orientali”. Su queste porte fa bella mostra di sé la chiesa di San Basilio, imponente come un lustro samovar, copiato dai dépliant turistici. E dietro al San Basilio-samovar incomincia subito quello che io chiamo “la più vieta Zagorsk” (perché, bene o male, in Occidente hanno assimilato il concetto che la Lituania e la Georgia non fanno più parte della Russia, ma quasi nessuno ce la fa a pronunciare il nome della “Lavra della Trinità di san Sergio”).

A Zagorsk dunque (nella Lavra vera e propria o più o meno là attorno), le lampade davanti alle icone tremolano in modo così intimo e misterioso, il popolo canta così a lungo, in modo incomprensibile ma tanto, tanto devoto, che sembra venuto fuori dritto dalla santa Rus'; insomma qui spira, scintilla e alita quello che è definito dalla misteriosa parola spiritualità. La spiritualità (non troveremmo un termine analogo che sia adeguato nell'uso linguistico russo) viene spesso concepita come una sorta di lusso orientale un po' eccessivo nella vita cristiana normale; è questa spiritualità che si mette in mostra e si onora talvolta proprio come un reperto del museo di Zagorsk.

Qualche volta, non avendo sottomano il famoso popolo o un bel pellegrino vecchio stile, mi invitano come massimo esperto di Zagorsk che c'è in circolazione, ai più svariati incontri e conferenze per sentirsi raccontare in quindici minuti che là a Zagorsk le vicende ecumeniche, la riconciliazione tra le Chiese e l'amore per tutta l'umanità stanno andando a gonfie vele. Chissà perché ogni volta, dopo queste conferenze, mi vien voglia di controproporre un mio tema non troppo conciliante però tipicamente zagorskiano e discutere, ad esempio, dei chiari, sinistri e indiscutibili segni della venuta dell'anticristo in questo mondo, oppure della cerimonia per accogliere nell'ortodossia un eretico e secondo quale Rituale scacciare da lui i demoni. Il tentativo di disfarsi dell'Occidente tradisce una specie di reazione di difesa dell'Oriente, il quale continua a pensare, per quanto si cerchi di farlo ricredere, che l'altro lo voglia rendere totalmente uguale a sé. In compenso in Occidente si coltiva viceversa la molteplicità più rigogliosa, la dissimiglianza, l'insistita orientalità di tutto ciò che non è Occidente, e nel complesso, si ammette con assoluta tranquillità che le fedi debbono essere tante, che sono tutte “belle e buone”, e che ognuno può averne una sua personale.

Ricordo che la redattrice di una famosa rivista, una signora praticante e colta, nel commissionarmi un articolo sull'ortodossia mi ha chiesto con estrema benevolenza di spiegare ai lettori, i quali “non sanno assolutamente nulla”, che differenza passa tra la mia religione e il cristianesimo. Nella sua domanda non c’era nessun sottinteso complesso di superiorità cattolica, ma piuttosto la coscienza che tutte le religioni sono buone e quelle orientali, nella loro stranezza, sono ancor meglio; ma ammetto che ogni volta, davanti a questo genere di interesse verso l'ortodossia, mi viene da rispondere come il Mancino leskoviano (1): “Che differenza? Semplice: che i nostri libri contro i vostri sono più grossi, e che abbiamo anche le icone fatte dalla mano di Dio, e le teste che stillano tomba, e i monaci veggenti, e i Zosima di Dostoevskij, e i pope col barbone...”. Fate del Mancino un dottore in teologia e la sua risposta diventerà esattamente come quella che si aspettano da me, basta solo aggiungere un pizzico di ecumenismo dolciastro. Infatti la benevolenza occidentale verso il museo di Zagorsk, mi par di capire, deriva in sostanza da una segreta, strettissima parentela con l'intolleranza di Zagorsk; che l'una e l'altra usino maniere ben differenti è evidente, ed ha il suo peso, ma per quel che concerne l'unità cristiana non sono di alcuna utilità.

IL RICHIAMO PROFONDO DELL'UNITÀ

Essere ortodosso in Occidente, se non ti vuoi seppellire da solo in un ghetto dorato e non scegli di stare in un perenne stato di guerra fredda con l'Occidente, vuol dire sentire ogni tanto che la tua ortodossia non solo è chiusa a sette mandate dietro alle spesse mura della vera Zagorsk, costruite contro gli eterodossi, ma è anche difesa da un'ampia cancellata da museo, dietro alla quale si trovano diverse “riserve religiose”, comprese le più esotiche e le più intolleranti.

Tuttavia, questa mentalità è resa un tantino retrograda dal fatto che prende in considerazione un'immagine del mondo che sta scomparendo a vista d'occhio. Per questo l'Occidente, se parliamo delle masse popolari, della gente della strada, non si accorge affatto dell'ortodossia che ha in casa, non dico del mosaico delle più diverse Chiese nazionali, ma appunto della fede che è già nata, che ha messo radici e intende svilupparsi qui. All'ortodossia si trova un posto solo nella “riserva indiana”, russa, greca o romena che sia. Del resto, la maggioranza dei parrocchiani e tutti i sacerdoti del Patriarcato di Mosca in Italia, tanto per fare un esempio, ormai sono di nazionalità italiana; tra i monaci del Monte Athos si possono trovare anche giovani francesi; le Chiese ortodosse locali (ovvero la diaspora ortodossa) crescono a poco a poco ma costantemente negli Stati Uniti, in Inghilterra, in Finlandia, in Polonia, eccetera. Io sono in corrispondenza con un predicatore carismatico ortodosso del Kenya; ad ascoltarlo, a vedere nelle foto la popolazione locale che prega genuflessa davanti a un icona della Madre di Dio, viene involontariamente da pensare: guarda dov'è andata a finire la Santa Rus'. La vecchia geografia confessionale cambia ogni giorno e la fede della Chiesa bizantina, estinta da tempo immemorabile, dopo tutti gli uragani e i turbini che l'hanno colpita nel nostro secolo (e che non l'avevano risparmiata neppure nei secoli precedenti), ha manifestato all'improvviso un’insolita vivacità e inaspettatamente, contro la propria volontà e quasi inosservata, si è diffusa per i sei continenti. E penso che l'esistenza di un’ecumene ortodossa sia un bene non soltanto per l'ortodossia stessa, ma anche per il mondo cristiano che la circonda e che interagisce con essa, dato che dopo l'epoca delle escursioni nei musei dell'ecumenismo che le Chiese si sono scambiate fino ad ora, incomincia finalmente il tempo di un autentico scambio di doni.

Esattamente allo stesso modo, non si può non vedere che il nascere e il diffondersi del cattolicesimo nell'Oriente ortodosso è un processo altrettanto irreversibile ed organico, forse parzialmente forzato, ma certo non totalmente impiantato dall'esterno. Il cosiddetto cattolicesimo russo, e sottolineo questo aggettivo, affonda le sue radici non solo in personalità come Čaadaev e Solov'ëv, come Leonid Fëdorov e il vescovo Varfolomej Remov, ma anche nella persona di padre Sergij Bulgakov, benché questi, dopo il suo improvviso avvicinamento a Roma, continuò poi a polemizzare con essa per tutta la vita. Il fatto è che la cattolicità (kafoličnost', come diciamo noi rifacendoci al greco), o universalità, è il tema o piuttosto uno dei temi dell'anima religiosa russa. L’impulso spontaneo di padre Sergij Bulgakov, che trova espressione nell'opera Alle mura di Chersoneso, anche se ripudiato e rimosso subito dopo, ha messo a nudo meglio di qualsiasi altra cosa, per un istante ma con chiarezza penetrante, questa aspirazione all'universalità, o la “ricerca universale della verità” che talvolta si nasconde nell'anima ortodossa, in quella russa in particolar modo, anche se spesso ne viene scacciata come una “tentazione dell'Occidente”. E si troveranno sempre degli uomini, in terra ortodossa, che si comporteranno come se non avessimo mai litigato e non cercassimo cospirazioni esterne, per i quali questa ricerca della cattolicità-universalità e della “Città Nuova” prenderà le forme di un pellegrinaggio spirituale e confessionale dalla Terza Roma alla Prima.

D'altro canto, in Occidente non fa che crescere il numero delle persone che, nelle proprie confessioni occidentali sente la mancanza della viva tensione al mistero, della sacralità, della tradizione, dell'opera della preghiera, della ricchezza simbolica. Esiste una particolare nostalgia dell'ortodossia anche nell'anima cattolica (quella protestante, in particolare di tendenza fondamentalista, in questo senso è un po' più corazzata), esiste una passione che non è solo per il museo religioso e le esposizioni di icone, ma per la sorgente spirituale da cui nasce l'icona, per la quale si compie l'Eucaristia, da cui cresce tutta la struttura ascetica e spiritualizzatrice della Chiesa orientale. E questo interesse ha sotto di sé un fondamento eucaristico. Se qualche anno fa avrei potuto percepire solo intuitivamente questa sete e questa ricerca reciproca fra le nostre Chiese-sorelle, ora la mia sensazione ha trovato conferma nell'esperienza del rapporto con una moltitudine di cattolici, sacerdoti e laici, non soltanto in Italia. Essere ortodosso in Occidente vuol dire portare in sé l'esperienza e l'annuncio che la divisione in confessioni su base nazionale ha fatto il suo tempo, che il mondo cerca una Chiesa universale o plerodossa, come dice Vjačeslav Ivanov, aperta al mistero di Dio e al mistero dell'uomo, dove una non può sussistere senza l'altra.

E tuttavia, se in un caso questo mistero fa di tutto per seppellirsi dietro alle mura di Zagorsk (sia in senso letterale che figurato), nell'altro spesso si desacralizza in quel culto sconfinato e addirittura fanatico dell'uomo che sotto i nostri occhi si fa religione. La tolleranza e l'interesse per l'ortodossia come oggetto da museo, di cui ho parlato, ha alle spalle un fondamento filosofico ben preciso, anche se non sempre consapevole. Lo si potrebbe esprimere con la formula con la quale Reinhold Niebuhr una volta ha cercato di definire la sostanza del protestantesimo liberale americano: “un Dio senza ira conduce un uomo senza peccato in un Regno di Dio senza giudizio, tramite un Cristo senza croce”. In questa religione senza spigoli tutto assume le forme della cultura e del folclore, e la cultura stessa porta in sé la propria salvezza e la propria forma di religiosità. In tale religiosità l'uomo talvolta si permette, senza tanti complimenti, di giudicare e decidere di cose di cui non sempre ha il diritto e la capacità di giudicare e decidere. A questo punto incomincia una fede personale, che non saprei se si possa ancora chiamare cristiana.

SENTIRE IL DRAMMA DELLA DIVISIONE

Per finire vorrei raccontarvi una storia tipica, che mi ha alquanto sorpreso. Nella scuola frequentata da mio figlio l'insegnante di religione ha trattato, come si usa dire, il tema della morte. E ha deciso di prendere come esempio la storia di un ragazzo drogato, con spiccate doti d'artista, che è vissuto nella nostra città ed è morto un paio d'anni fa di Aids. Dopo aver raccontato della sua morte, ha chiesto agli alunni di dieci-undici anni di scrivere una poesia. E tutti i bambini dal primo all'ultimo, ispirati dal suo racconto e toccati dal mistero della morte che si era un po' rivelato loro, anche se non come una cosa terribile ma familiare, hanno scritto dei versi su questo Fabio. La cosa sorprendente è che la maggioranza ha scritto delle poesie non brutte (poi sono state pubblicate e donate al padre del pittore), dimostrando che persino nell'anima di calciatori sfegatati, quali sono quasi tutti i bambini italiani, ancora albergano dei rivoli di poesia. Queste poesie sono state lette sul palcoscenico, messe in musica e dotate di coreografia. Fra l'altro tutte le poesie, in base al tema assegnato, non parlavano del Fabio che era vissuto recentemente ma di quello che vive adesso, nell'aldilà. I bambini, per lo più provenienti da normali famiglie cattoliche, ci avevano messo tutto quello che pensavano dell'aldilà, quello che gli hanno insegnato a scuola, a casa, al catechismo, e cioè che dopo la tomba c'è un paradiso fantastico, allegro, dove si sta bene, e Fabio in special modo. Qualsiasi accenno di riflessione inquietante o anche serena veniva spazzata via dalla censura scolastica. In questa visione non c'era il minimo posto né per la preghiera, né per il suffragio, e neppure per qualche dubbio sulla gloria celeste e la pace eterna preparate per tutti e per ciascuno, al punto che poteva persino nascere il desiderio di non fermarsi troppo in questa vita per correre subito dietro al defunto, cantando e ballando. A dire il vero, qualcosa che assomigliava a una preghiera si è sentito, tuttavia non era una preghiera per Fabio ma a Fabio; nella scena finale, tutti insieme (si era arrivati a una vera e propria messa in scena teatrale) i ragazzi, presisi per mano, gridavano verso il cielo: Fabio sei il nostro fiore, il nostro sole, la nostra cometa, la nostra fonte di luce, Fabio sei tu il nostro azzurro!.

In sostanza, se con la bocca dei lattanti e della povera maestra, nel nostro caso, non è affermata tutt'intera la verità, forse questa risuonerà allora per bocca del presidente della Società teologica italiana il quale, nella presentazione di un suo libro sulla Chiesa, ha esordito chiedendosi a cosa serva la Chiesa se comunque sono già tutti salvati senza eccezione. Risposta: perché esiste la via regale, ampia, mentre ci sono sentieri e viottoli d'ogni tipo, e comunque, alla fine, tutte le strade portano al cielo. Sarebbe troppo bello, ho pensato io, e la mia testarda memoria ortodossa mi ha richiamato immediatamente alcune citazioni del Vangelo, il quale non è altrettanto indulgente al riguardo e non afferma assolutamente che la via più ampia ci porta sempre dove vogliamo. Se la Chiesa viene strappata dal contesto della salvezza (che sarebbe per tutti indistintamente), allora effettivamente per quanto ancora sarà necessaria? Per contro, nelle ultime pubblicazioni ortodosse di stretta osservanza che ho portato da Mosca e tengo in biblioteca, non si fa che ribadire con accanita esultanza, con gusto direi, il concetto che la sola idea dell'apocatastasi (cioè che l'inferno e le sue pene potranno un giorno, dopo un tempo interminabile, avere fine) è chiaramente demoniaca, e che l'ecumenismo è di per sé l'eresia delle eresie, che va colpito da anatema, e che al di fuori della vera Chiesa si spalanca la geenna, dove non si può neppur pensare alla salvezza... Da una parte una crescente e diffusa insensibilità verso il “mistero dell'iniquità” che opera nel mondo e nell'uomo, e dall'altra quasi l'ossessione delle tenebre che incominciano subito, senza alcuna gradualità, oltre il cerchio magico dell'ortodossia da noi tracciato...

Essere ortodosso in Occidente vuol dire sentire il continuo richiamo di voci che non si sentono l'una l'altra; vuol dire sentire sulla pelle e nello spirito la differente temperatura spirituale e confessionale di due mondi religiosi che non confluiscono l'uno nell'altro. Vuol dire scoprire di nuovo, non solo nelle ricerche ma nel profondo del cuore, quello che si chiama “il dramma della divisione”, che non è affatto tolto ma solo leggermente anestetizzato dalle facili fraternizzazioni e dall'ecumenismo ufficiali. La drammaticità di questa divisione consiste nel fatto che gli attori stessi, nella gran maggioranza, in sostanza non sentono alcuna divisione; le loro verità, a dispetto del bisogno e della nostalgia reciproci, stanno rinchiuse nelle loro corazze protettive, e ciascuno conserva la propria ricchezza, la propria memoria, l'unica visione del mondo giusta, che è la sua. E se una di queste verità ha trattenuto fermamente in sé le parole “quanto al peccato, alla giustizia e al giudizio” (Gv l6,8) sul destino di ogni singola anima che sta davanti a Dio, l'altra, almeno nelle intenzioni iniziali, si fonda sulla concezione dell'unità sostanziale, ontologica del genere umano, raccolto e redento da Cristo. E tuttavia, la differenza di misura e il contrasto nel modo di interpretare e di vivere queste verità in “Occidente” e in “Oriente” (temo non mi bastino le virgolette per sottolineare l'assoluta convenzionalità di questa distinzione geografica) confermano appunto che prima o poi questi due mondi dovranno intersecarsi come i due bracci della croce del Signore; che alla fine dei conti non potranno fare a meno di incontrarsi e di ritrovarsi nel mistero comune, nell'annuncio comune e nel calice condiviso.

Nota

1) Protagonista dell’omonimo racconto di Leskov (Levša). La citazione parafrasa comicamente dei lughi comuni della devozione ortodossa.

Pubblicato in Chiese Cristiane
Etichettato sotto
Sabato, 29 Dicembre 2007 23:17

L’icona della natività (Vladimir Zelinskij)

L’icona della natività

di Vladimir Zelinskij


Se la fede cristiana è l’invisibile dono di Dio al cuore dell’uomo, l’icona è il dono visibile ai suoi occhi. Un teologo russo l’ha chiamato “la contemplazione a colori”. Si può chiamarla anche “l’evento a colori”, che unisce in sé il tempo e l’eternità. L’incarnazione del Signore e la Sua nascita, insieme con la Sua Risurrezione, sono gli eventi vissuti e contemplati fin dall’inizio con gli occhi della fede. Ogni icona è il frutto della contemplazione, ma anche dell'esperienza reale dell’avvenimento.

L’icona della Natività è l’immagine del mondo redento e salvato, avvolto nella bellezza. Tutto è già compiuto e nello stesso tempo si trova nell’attesa. La Madre di Dio è al centro, sdraiata; la Sua figura esprime la meditazione secondo le parole di Lc 2,54: «Maria, meditava tutte queste cose serbandole nel Suo cuore». Questa meditazione, secondo il concetto ortodosso, è l’immagine della memoria sacra della Chiesa, la Tradizione. Maria sembra guardare verso di noi. Il Bambino accanto è collocato in una mangiatoia molto singolare, poiché ha la stessa forma del Sepolcro nel quale egli verrà calato: già alla nascita viene indicato quale sarà il cammino di Gesù di Nazareth. Tutti gli altri: gli angeli, i magi, Giuseppe, le donne, anche la montagna rappresentano un modello del mondo appena creato, ma anche il mondo della nuova terra e del nuovo cielo. Ogni dettaglio ha il suo significato: i magi a cavallo sono il simbolo dell’umanità alla ricerca del Paradiso perduto, gli angeli sono gli adoratori del Verbo incarnato, la grotta è il simbolo dell’inferno vinto. Ma le fasce del Bambino hanno la forma delle bende funebri. San Giuseppe sembra immerso nei dubbi e davanti a lui sta il diavolo nelle sembianze di un pastore, che lo tenta. La stella raffigura la discesa della Gloria sulla terra e si divide in tre, raffigurazione delle tre Persone Divine.

La Natività. Icona della scuola di Andrej Rublev, secolo XV, proveniente dalla iconostasi della chiesa di san Nicola di Gostinopol'e (Novgorod). Collezione Ambroveneta, Vicenza.

Pubblicato in Chiese Cristiane
Etichettato sotto
Giovedì, 13 Dicembre 2007 00:07

Educare all'unità (Vladimir Zelinskij)

Educare all'unità

di Vladimir Zelinskij



La lettura del documento di Ravenna sulle conseguenze ecclesiologiche e canoniche della natura sacramentale della Chiesa riaccende una speranza quasi spenta in questi ultimi anni: che i due continenti cristiani, divisi da circa mille anni, sono ancora capaci di parlare la quasi dimenticata lingua della comunione. Se possiamo riconciliare i concetti di autorità e di conciliarità, di diversità e di cattolicità e mettere al centro l’eucarestia come manifestazione della koinonia, sembrerebbe che un accordo definitivo non possa essere così lontano. A questi 46 punti di Ravenna aggiungiamone ancora una decina (o otto per scongiurare la cifra emblematica del 1054, anno dello scisma) e le campane d’Oriente e d’Occidente annunceranno il ritorno – o la riscoperta? – dell’unità perduta. Quell’annuncio sarà accompagnato da grandi visite e da celebrazioni solenni. E poi? Temo che il giorno dopo i problemi cadranno come una valanga di pietre e potranno subito seppellire questo fragilissimo albero dell’unità, coltivato nella serra delle commissioni teologiche.

Si può ragionare insieme sulla bellezza di alcuni concetti teologici, come la responsabilità del Popolo di Dio per il patrimonio della fede, ma quel patrimonio - ahimé! - porta anche il grande peso della divisione millenaria. Il peso ha una sua dogmatica e una sua sensibilità. La Tradizione per cui il popolo è responsabile, si scrive e si vive con due t – maiuscola e minuscola – e non c’è una frontiera netta fra di loro. La resistenza all’Occidente fa parte della mentalità orientale (non di tutti, naturalmente) e questa parte è diventata molto più attiva dopo l’occidentalizzazione forzata che è seguita al crollo del comunismo all’Est. Quella mentalità non è mai invitata a firmare i documenti comuni. Forse – e questa è solo una suggestione – la delegazione russa ha lasciata il tavolo delle trattative anche per non essere coinvolta in decisioni che il popolo, dietro le sue spalle, non avrebbe accettato.

Alcuni diranno che la presa di decisioni così impegnative come il ritorno all’unità chiederebbe l’approvazione del Grande Concilio panortodosso (una bella idea, ma poco fattibile). Altri affermeranno che tutti questi ecumenisti delle commissioni miste siano degli uniati e dei criptocattolici che vanno scomunicati. I più radicali si staccheranno dalle Chiese per formarne delle proprie, quelle vere, seppure minuscole. Poiché nessuna firma ed anche nessuna autorità potrà costringere il popolo ortodosso ad accettare cose che si è abituato di considerare come inaccettabili. Ravenna ha compiuto un passo reale nel dialogo cattolico-ortodosso, ma affinché i prossimi passi siano decisivi, bisogna saper non solo formare, ma educare all’unità. Questa educazione dei cuori deve essere reciproca. La presidenza nell’amore di Roma - quando non è puramente onorifica - potrebbe fare i miracoli. Anche in Oriente.

Pubblicato in Chiese Cristiane
Etichettato sotto
Lunedì, 19 Novembre 2007 21:55

Due Chiese, una Verità (Vladimir Zelinskij)

Due Chiese, una Verità

di Vladimir Zelinskij



Il documento della Congregazione per la Dottrina della Fede - che ribadisce che soltanto la Chiesa cattolico-romana può essere pienamente identificata con la Chiesa di Cristo - è come una piccola scossa che dalle profondità dell’oceano provocherà delle grandi ondate. In campo protestante non si è fatta attendere una gelida tempesta, in cui si può sentire il sapore dell’offesa. Dopo tanti anni di dialogo ecumenico, noi non abbiamo neanche meritato di chiamarci “Chiesa”? Di nuovo Roma si è mostrata per ciò che è sempre stata! Questa identità confermata, invece, ha portato un’inattesa soddisfazione per la Chiesa ortodossa, anche se la sua “carenza” - la mancanza di comunione con il successore di Pietro - è chiaramente indicata. Secondo l’ecclesiologia ortodossa, infatti, il carisma del Pescatore appartiene ad ogni vescovo in quanto capo della Chiesa locale e in comunione con gli altri vescovi. Il primato assoluto, anche giuridico, del vescovo di Roma è solo il frutto dello sviluppo storico. Due tradizioni, quella romana e quella ortodossa, sono in discussione, ma il principio della fedeltà alla Tradizione rimane un terreno comune. L’Ortodossia sottolinea la deviazione occidentale dall’eredità del primo millennio ed insiste affermando che la riscoperta di questa eredità sarebbe la principale condizione per il ritorno all’unità. Nel documento della Congregazione non è espresso un atteggiamento in qualche modo simile?

“Secondo la dottrina cattolica, mentre si può rettamente affermare che la Chiesa di Cristo è presente e operante nelle Chiese e nelle Comunità ecclesiali non ancora in piena comunione con la Chiesa cattolica grazie agli elementi di santificazione e di verità che sono presenti in esse…”. Questa affermazione la si può capire così: la Chiesa Cattolica può sussistere in incognito tra le pecore degli altri ovili e l’unità deve manifestarsi attraverso la scoperta della sua presenza nascosta. Ma davvero è diversa questa posizione dall’appello: “tornate al primo millennio quando eravamo uniti, ritrovate la Tradizione patristica che voi avete abbandonato”? La Chiesa ortodossa non ha mai smesso di parlare di sé, non come “venerabile Chiesa orientale”, ma come unica e santa Chiesa di Cristo. E quando due (?) Chiese con la stessa pretesa di verità, entrano in dibattito, entrambe sono chiamate a fare ulteriori, approfondite ricerche nella Tradizione, con un orecchio aperto a ciò che oggi lo Spirito dice alle Chiese. Nessun ortodosso contesta il primato di Pietro, ma “l’infallibilità papale” era davvero voluta da Cristo? E tutti gli altri dogmi che ci dividono non sono stati introdotti in modo unilaterale, senza chiedere l’opinione dell’Oriente come se non ci fosse? La chiarezza da parte della Chiesa Romana è una sfida: ci si può anche voltare facendo finta che niente sia successo… Ma si può anche rispondere con una riflessione nuova sulla nostra enorme ricchezza condivisa.

Pubblicato in Chiese Cristiane
Etichettato sotto
Domenica, 21 Ottobre 2007 17:42

Il Vangelo in Alaska (Michail Oleosa)

LA STORIA
Il Vangelo in Alaska

di p. Michail Oleosa

Pubblichiamo un estratto della relazione su «San German di Nuovo Valamo e l’evangelizzazione degli aleuti di Kodjak» tenuta a Bose durante il Convegno ecumenico del 2006.

Dopo decenni di esplorazioni e contatti commerciali, gli uomini di frontiera incominciarono ad avventurarsi nei territori degli aleuti, gli indigeni dell’arcipelago di Kodjak nell’Alaska centro-meridionale. Nel 1784 un massacro di centinaia di nativi segnò l’inizio del sistematico sfruttamento della regione da parte della Compagnia russa d’America. All’avamposto commerciale fu associata una missione monastica, che al sovrintendente locale, Aleksandr Baranov, dovette sembrare una vera e propria intrusione. Gli aleuti avevano infatti intuito che questi uomini vestiti di nero li difendevano dai soprusi dei mercanti russi. I monaci, accusati d’incitamento alla ribellione, furono arrestati e allontanati.

A Kodjak rimase padre German. Costretto a ritirarsi nella foresta, il monaco si costruì un piccolo eremo, dove col tempo diede vita a una scuola per i bambini aleuti, iniziando un dialogo di amore e reciproca conoscenza, che conquistò il cuore degli indigeni. La vita religiosa degli aleuti è incentrata sul rispetto del potere spirituale, il Sua, che anima tutte le cose viventi e custodisce l’armonia cosmica. Se l’equilibrio tra uomini e animali è turbato, ci sono gli sciamani che, dopo un viaggio iniziatico nell’oltretomba, ricompongono la disarmonia.

Quando la figlia del prete di Kodjak si ammalò, fu proprio padre German a inviarle uno sciamano perché la guarisse. Aveva intuito che la fede cristiana non era la distruzione o la sostituzione delle antiche tradizioni spirituali degli aleuti, ma il loro compimento. La liturgia ortodossa affiancava le antiche cerimonie religiose che celebravano e ringraziavano il Sua, la forza vitale presente in ogni creatura, ma Cristo stesso è la Vita! I Sua sono Gesù che offre se stesso per la vita del mondo, sono i Lógoi, derivati da Cristo-Logos, di cui parla Massimo il Confessore. Cristiano è infatti «colui che, ovunque guardi, vede Cristo e gioisce in lui» (A. Schmemann). Proprio questa visione aveva permesso ai monaci di presentare il cristianesimo quale compimento di tutto ciò che è buono, vero, onesto e bello nella cultura aleuta, facilitandone il passaggio alla fede cristiana.

Più di trentacinque anni fa mi capitò di leggere la Vita di German a una scolaresca di bambini aleuti. «Tutte queste cose le sappiamo!», si lamentavano. Ma quando arrivai alla fine della biografia, furono sbalorditi. « È morto?!», chiesero. «Sì, è detto qui: “Padre German morì il 13 dicembre 1834”». «Impossibile! - esclamarono -. I nostri genitori e i nostri nonni lo conoscono!».

A loro modo, i bambini avevano ragione. Padre German è vivo in Cristo e con Cristo, e anche in mezzo al suo popolo.

(da Mondo e Missione, gennaio 2007)

Pubblicato in Chiese Cristiane
Etichettato sotto

Search