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Domenica, 13 Aprile 2008 19:13

Averincev: l’esperienza di costruire cultura - seconda parte (Vladimir Zelinskij)

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Averincev: l’esperienza di costruire cultura
(seconda parte)

di Vladimir Zelinskij

(continua)

Capax Dei

Nella «gioia dell'iterazione» che stupì Mandel'štam, ossia nella gioia di aver trovato e riconosciuto i giacimenti della Sapienza o della Shekinah in una moltitudine di specie culturali, Averincev non si ripete, non si ferma nella sua ricerca, non celebra il passato per amore della sua canuta antichità. Prima sembrava che non si sarebbe mai deciso a uscire dai porti accoglienti e vastissimi della «sua» antichità, ma poi si è scoperto che si muoveva con altrettanta sicurezza anche sulla «nave della modernità». Si tratta non solo dell'attualità di nuovi temi, della pubblicistica, dove ha dato prova della sua dolce maestria, ma di qualcosa di infinitamente più essenziale, della modernità di se stesso, di ciò che nel dialogo con la Parola può essere chiamato «qui e ora». Egli pone questo tipo di dialogo alla base di ogni cultura che sia degna di questo nome.

Qui sta l’essenza della sua novità, della sua irripetibilità, del nuovo apporto di Averincev. Egli si rivolge alla Parola che «era in principio presso Dio». (Gv 1,2) non per ragionarci sopra o per descrivere l'esperienza che ne hanno fatto altri, ma per creare liberamente e stare semplicemente in essa. Non per chiarirla per sé ed erigere l'ennesimo monumento verbale alla propria interpretazione, ma per fermarsi stupito di fronte al suo mistero. Il mistero non consiste in qualcosa di inconcepibile o apofatico, ma in quella che egli stesso una volta ha chiamato «divinoumanità della parola», intendendo la semplice parola umana, piccolo mattone della cultura con cui la Sapienza si costruisce la casa. Il mistero sta nella stessa Discesa della Parola di Dio, che si incarna nel linguaggio umano, a volte spigoloso, dei testi sacri. Dietro a questo postulato classico può celarsi anche un altro significato, universale e mistico.

«Per questo esso ha il diritto dl affermare che per logica interna di questo stesso miracolo, nella parola umana può essere contenuto l'incontenibile Verbo divino; che la parola umana, come tende bene la formula latina, è capax Dei. In realtà, per far ciò la parola umana deve superare se stessa, oltrepassare i propri limiti, restando puramente umana ma trasformandosi anche in qualcosa di più che umano». (20)

Capax Dei, è il dono alla parola umana reso possibile dall'incarnazione, il cui riflesso d'ora in avanti sta in tutte le parole umane, le quali possono respingere questa capacità di «irradiare Dio», o accoglierla, cercando di essere illuminate da Lui. La Parola si è fatta carne in Gesù di Nazaret, e questo avvenimento, unico nella storia dell'uomo, non può non riflettersi (oppure velarsi) in tutte le parole umane. E non solo nelle parole, ma in tutti gli atti umani che portano il logos, si tratti di una forma d'arte o di una qualunque nostra azione. La scoperta di Averincev, una delle sue scoperte, sta nell'aver percepito e confermato, avvalendosi di una moltitudine di esempi, questa irrinunciabile responsabilità di cui è investito ogni uomo dell'era cristiana. Essere capax Dei significa essere capaci di esprimere, sia pure con i propri mezzi stentati, la presenza di Dio tra gli uomini, o Shekinah, Sapienza, Buona Novella, che hanno bisogno del nostro linguaggio, sia esso parola, immagine o gesto. Non è da molto che abbiamo cominciato a ripetere con devozione il pensiero di padre Pavel Florenskij sull'origine della cultura dal culto, intendendo il culto prevalentemente come liturgia e non lasciando alla cultura contemporanea altro diritto di sopravvivenza se non quello di riprodurre forme liturgiche di culto, innanzitutto pittoriche o plastiche. Non c'è dubbio che alla base della cultura creata da Avetincev stia proprio il culto, perché in essa la parola umana afferma la propria capacità di accogliere la presenza di Dio, che prende dimora nella nostra gloria, nella casa costruita dalle nostre mani, e la costruzione di questo tempio è la vocazione di ognuno di noi.

«Padre, il cui nome è segreto»

«Sapere molte cose come abbiamo ricordato non insegna ad avere intelligenza», tuttavia, l'intelletto può utilizzare le sue molte conoscenze per renderle un luogo di preghiera. Tutti sanno che il fumo che si spande lentamente e si dissolve, il profumo dell'incenso, la ieraticità di un gesto possono in qualche modo aiutarci a comprendere l’icona. Le permettono di manifestarsi in noi, quasi tracciassero la via al nostro sguardo che si apre al mistero, nascosto e al tempo stesso svelato in un'immagine che per i nostri occhi potrebbe sclerotizzarsi in un'iconostasi o spegnersi in un museo. Ma ecco che con questi gesti, come con la terra o con le nostre conoscenze, si può impastare quel «fango» che Gesù mise sugli occhi al cieco nato.

Un tempo le opere di Averincev mi sembravano solo una ricca collezione di icone, raccolte ovunque e appese avendo come criterio solo il capriccio del collezionista. Un po' alla volta, questo ammasso di inutili capolavori a cui stavo di fronte si è trasformato per me nella chiesa della Sofia, veramente ornata di una moltitudine di immagini meravigliose, che tutte assieme dovevano rivelare, rinnovare, insegnare a vedere l'unica vera icona: quella della Sapienza o del Nome. E questo Nome ripetono a modo loro tutte le immagini sacre, gli affreschi, le vetrate, gli stucchi. Allineandosi in un'unica schiera, in un ordine che si forma spontaneamente o consapevolmente, queste opere tracciano al Nome la via verso i nostri occhi, le nostre orecchie, il nostro intelletto, la nostra conoscenza. E in loro - o attraverso di loro - il Nome in qualche modo compie il suo annuncio. Tutta la cultura di Averincev, ponderosa ma al tempo stesso agile e dinamica, diventa un atto di culto raffinato, ricercato, ma pienamente ortodosso, una celebrazione davanti all'icona del Nome di Dio. Nome che si fa chiaro nel denso fumo delle parole umane che esce dal turibolo. Questa densità permette al Nome di manifestarsi e al tempo stesso gli consente di restare inosservato. Perché nella sua profondità il nome di Dio coincide con il silenzio, il silenzio a sua volta esige verginità e pace. Forse, per la mia durezza d'orecchio, non riuscirei a sentire bene il silenzio dei testi di Sergej Averincev se non mi venissero in aiuto le sue poesie.

«Padre, come nella debolezza infantile,
alle sorgenti del verbo,
siano le parole nostre grevi,
riempite fino all'orlo di silenzio». (21)

Le sue parole sulla debolezza non sono pronunciate a caso. Solo un uomo che ha sperimentato con tanta finezza e profondità la forza della parola in sé e negli altri, in molti dei suoi confratelli che con lui rendono culto alla Sapienza e servono la Shekinah, sa meglio di chiunque altro cosa significhi la debolezza infantile, che si impadronisce delle parole quando cerchiamo di avvicinarci per loro tramite «alle sorgenti del verbo». Il mistero dell'icona del Nome o della Parola di Dio non si pronuncia con un linguaggio qualsiasi, ma piuttosto si rivela nell'immanenza, nel silenzio, nella preghiera.

«Preghiamo Te, Parola,
che eri in principio presso Dio,
che pronunci senza linguaggio
i silenzi della Sua profondità…» (22)

Ma prima ancora di aver sentito questi splendidi versi, ho capito che i numerosi linguaggi di Averincev, pieni fino all'orlo del «sapere molte cose», portano in sé le profondità del silenzio, proprio di quel silenzio in cui ogni uomo può al meglio percepire, capire e accogliere l'altro. Infatti, tutti i nostri linguaggi possono servire come frammenti di un Nome colmo fino all'orlo di silenzio, del silenzio che custodisce questo nome segreto, nel quale ci è dato di salvarci.

«Dio, il cui nome è segreto,
dà ogni parola per vedere
nel nero della nostra morte,
nell'oro della Tua gloria,
come una pietra splendente e dura,
sfaccettata in losanghe di luce,
cinta da tutti i lati
dalla guardia del silenzio». (23)

Il segreto o il «modello» di Averincev

Quello che sto cercando di esprimere in queste righe non è affatto il panegirico di una certa persona. Francamente, non posso soffrite il culto della personalità sotto qualsiasi forma, anche se si trattasse di personalità eccezionali, e umili nella loro eccezionalità, come Sergej Averincev, poiché «non a noi, non a noi, ma al Tuo nome» (Sal 115, 1) bisogna rendere ogni culto, ogni commemorazione. L'«arcipelago Averincev», per quanto sia notevole e interessante di per Sé, lo è ancora di più come modello «operativo» che organizza o crea cultura, e in questa sua funzione può essere applicato a ciascuno. Anche se non abbiamo al nostro attivo mille isole popolate di nomi rari e lingue astruse, ma ne abbiamo solo cinque o sei; anche se non è un mare di associazioni a ribollite nella nostra memoria e le icone si contano sulla punta delle dita e sono tutte copie delle copie, non è questo ultimamente l'essenziale. Essenziale è Colui «il Cui Nome è nascosto», e tutto ciò che in noi si raccoglie, si struttura attorno a questo Nome e lo serve. Essenziale è il riflesso e il silenzio del Nome in noi. Ogni atto culturale, ogni conoscenza che assimiliamo non può essere vuota per l'anima, inutile per il Nome, vana per la Parola, impenetrabile alla Luce che ci ha toccato. Ciò che è riuscito ad Averincev può benissimo capitare a chiunque, qualunque sia il suo lavoro, per quanto modesto sia il posto che occupa nell'arcipelago della cultura, dove coscientemente o meno vive ogni uomo di questa terra. Perché cultura, in sostanza, significa anzitutto edificare la personalità attorno al Nome di Dio.

La sostanza del successo culturale non sta nelle proporzioni grandiose, ma nel grado di illuminazione interiore che si possiede, che promana dal silenzio del verbo, dalla totalità con cui lo si serve. Tutti possiamo diventare «degli Averincev» in quello che facciamo, nella nostra esistenza, poiché la sostanza dell'opera di Averincev sta nell'aprire le finestre alla luce, nel riempite le parole della Parola e le conoscenze del Nome, proteggendole con la vigile «sentinella del silenzio». Proprio in questo saper raccogliere e trasmettere il silenzio con le sue numerose conoscenze, sta uno dei segreti di Averincev. Sono cose che non si imparano da nessun libro e da nessun manuale, poiché ognuno deve trovare da solo la strada verso questo silenzio, con le proprie conoscenze e le parole, senza imitare nessuno, senza idolatrare nessuno, senza seguire nessuno, ma solo volgendosi verso il modello e mettendosi in ascolto del mistero del Nome in se stesso. La cultura può diventare la lingua di questo nome, e al tempo stesso ogni tentativo di edificare la cultura, ogni forma in cui la si serve può portare a noi qualcosa di ignoto, che non si è ancora rivelato ma che può rivelarsi solo in un uomo concreto. Un uomo che è nato ed è stato mandato nel mondo proprio per accendere, con la sua piccola luce umana, la Luce che ci ha illuminato, per illuminare e benedire con segni umani il Nome che si nasconde nel silenzio. Poiché anche in questo consiste la predicazione del Vangelo che Gesù ha comandato.

Nel Vangelo di Matteo c'è una frase che può suscitare perplessità in molti. Parlando dell'avvicinarsi del giudizio finale e della Seconda Venuta, Cristo profetizza: «Non avrete finito di percorrere le città di Israele, prima che venga il Figlio dell'uomo» (Mt 10,23). Mi è sempre parso che noi cristiani abbiamo appena cominciato a percorrere «le città di Israele», che il Vangelo non sia ancora stato predicato fino in fondo, che il nome segreto di Dio non abbia trovato neppure una minima parte dei nomi umani in cui deve incarnarsi, che la Parola non abbia ancora svelato tutta la sua stupefacente novità e immediatezza, che la sua pienezza sia ancora ben lontana dall'essersi riversata in tutti i recipienti e i contenitori umani che avrebbe dovuto riempite, che il sacro mistero della Trinità non abbia ancora raccolto, non sia ancora riuscito a chiamare tutti coloro che ad esso partecipano e del quale sono servitori, che le «città di Israele» disseminate nella nostra storia e nelle nostre culture, nel nostro futuro, non solo non siano state percorse, ma nemmeno scoperte...

Nel cammino verso queste città, iniziato ancora una volta, come ai tempi degli apostoli, in un'epoca di persecuzioni e di sordità, Sergej Averincev è diventato uno dei più energici e instancabili pellegrini.

Post scriptum.
La vocazione della persona e l'ora della morte

Avevo incominciato a scrivere di Averincev quand'era ancora vivo, anche se da alcuni mesi era alle soglie e come attirato dalla morte. Sussisteva la speranza, ancorché flebile, che sarebbe restato fra noi, che sarebbero tornati la sua voce, la sua parola, il calore speciale del suo pensiero. Ma il 21 febbraio 2004 è mancato.

È morto alle soglie della vecchiaia. La «possente vecchiaia evangelica», come diceva l'Achmatova, sembrava essergli stata promessa ma non gli è stata data. Rozanov chiamava la vecchiaia «l'età metafisica». Finito il lavoro nel mondo, si intreccia una «conversazione» silenziosa con l'altro. Quell'età per lui non è venuta, anche se sappiamo che tutta la vita di Averincev è trascorsa in pratica nell'età metafisica. Eppure, nonostante l'importanza di tutto ciò che ha fatto, sembrava che l'«acme» della sua vita non si fosse ancora manifestato appieno, ma si stesse appena approssimando negli ultimi anni. La vita se n'è andata, ed è rimasto un certo pensiero divino su una persona (ed è questo che giunge all'orecchio del nostro cuore), una persona di proporzioni tali da non trovare posto nel solo passato. Il passato dell'uomo entra in dialogo con noi, noi vi partecipiamo nel presente, e qualcun altro dopo di noi anche nel futuro. Ecco io vorrei raccontare come la figura, la vita, la personalità di Averincev si iscrivono nel futuro, come il suo riflesso tocca anche noi. I necrologi sono già stati scritti. L'offerta o il risveglio della vera memoria ancora non è iniziata.

Durante il periodo della sua lunga agonia Avetincev era diventato una persona cara, certamente non solo all'autore di queste righe. Si aveva l'insistente impressione che la morte, o meglio la vita, avesse un suo disegno segreto, e si cercava tormentosamente di svelare quale. Ma ora è morto, è entrato nell'esperienza della morte, come diceva l'indimenticabile padre Sergej Želudkov, e questo transito ci ha lasciato una sensazione di quiete e di luce. Come se fosse tornato chiaro non solo cosa è stato Sergej Averincev (cos'ha fatto, detto, rivelato, come ci ha sorpresi), ma che cosa sarà, cosa dirà, come ci sorprenderà nella sua vecchiaia promessa ma non realizzata, che ancora troverà il modo di farsi sentire nella maturità o giovinezza di altri.

Del resto, questa sensazione è nata ben prima della sua dipartita. Due anni e mezzo fa, prima di lasciare una conferenza sulla patristica a Vienna, cui ebbi l'onore di partecipare assieme a lui, mi diede da leggere durante il viaggio la sua traduzione del Vangelo di Luca. Cominciai a leggerla sul treno, la lessi dalla prima riga all'ultima senza mai interrompermi. L'autenticità linguistica di questo testo mi assorbì totalmente. Non c'era una sola parola che trafiggesse per la sua «inverosimiglianza», per l'infedeltà allo spirito e alla lettera dell'annuncio evangelico. Incominciai a paragonarlo. Non osai rivolgermi al testo greco per scarsità di conoscenze (naturalmente il livello di Averincev era tale, che a nessuno sarebbe venuto in mente di cercare gli errori). Paragonai il russo col russo. La traduzione sinodale, da qualsiasi parte la si guardasse, è e resta un grande avvenimento delle nostre belle lettere, anche se ci limitassimo alla storia della letteratura. E tuttavia questo avvenimento non può diventate la norma legislativa della nostra lingua religiosa da due secoli a questa parte fino al giorno in cui «non ci sarà più il tempo». Non si tratta del fatto che la lingua si sviluppa, poiché questo movimento può anche non essere avvertibile dalle nostre profondità liturgiche. Ma lo sviluppo della lingua recepisce anche le nuove forme o strade del pensiero, comprese quelle che portano a Dio, che gravitano attorno al mistero di Dio nell'uomo, e che è impossibile indirizzare una volta per tutte in un determinato senso verbale univoco. Ma ciò nonostante, la nuova forma linguistica deve esprimere in modo nuovo esattamente il tipo di linguaggio che parla soltanto «l'interno del cuore», che non vive nel tumulto della politica, delle ansie quotidiane, delle notizie gridate o dei romanzi letti nel metro, ma nella bellezza «di un'anima incorruttibile piena di mitezza e di pace» (cfr 1Pt 3,4). Ed ecco che questa bellezza si è dischiusa nel Vangelo di Averincev, che suona «alto e chiaro» (sono parole di Žukovskij), con l'autenticità con cui l'eterno si fissa nel temporale.

Sicuramente l’opera di traduzione, pur nella sua ricchezza (oltre a due Vangeli, il Libro di Giobbe, i Salmi, come pure i Padri siriaci e greci, Platone, Aristotele, Hesse, Brentano...), rappresenta soltanto la periferia di ciò che è rappresentato dal nome di Averincev. Ma quando si tratta della traduzione di testi sacri, cioè della Parola che ci parla di Dio e lo manifesta dentro il nostro cuore, ci vuole ben più che una solida conoscenza distillata da antiche erbe, ben più che talento, discrezione, finezza, orecchio per le sfumature verbali, insomma tutto ciò di cui Sergej Averincev era riccamente dotato, qui ci vuole anche mitezza e bellezza d'animo. Bisogna essere mediatori e scomparire in questo servizio. Bisogna servire «non nobis, sed nomini Tuo», ma bisogna farlo in modo che questo servizio al nome diventi allo stesso tempo un nostro servizio, che si compia in noi. Soltanto con questi talenti ci si poteva misurare col problema dei problemi della Chiesa russa, quello della lingua liturgica. Non è questo il luogo per intavolare il discorso. Ma a molti - e non a me solo - era chiaro che se c'era qualcuno in grado di provarci questo era Averincev. Chi altri - e chiedo scusa a chi non conosco - poteva vantarsi di unire in sé il tesaurus della memoria storica e la semplicità di fede, il lavoro di cesello sulla parola e la percezione della sua potenza che l'uomo non può contenere, un'insolita delicatezza e una finissima abilità, una umiltà non affettata e l'audacia? Chi se non lui, che era dotato di un orecchio assoluto per la poesia, e poeta lui stesso, maestro di retorica nel senso antico e originario del termine, uomo di preghiera capace di trattare liturgicamente ogni singola parola, sarebbe potuto diventare il nuovo mentore dei russi, quello che la nostra Chiesa attende ma non vuole accettare, che rifiuta ma allo stesso tempo invoca silenziosamente? Chi altro avrebbe saputo trovare le parole con cui poter pregare e gioire, ed esprimere quella pienezza umana dell'anima per cui uno è in grado di capire l'altro senza perdere la consapevolezza della propria persona? Chi saprebbe trovare una lingua totalmente «pura davanti a Dio» come davanti a se stesso, condividendo la patria della lingua con quanti Dio ha scelto come suoi e nostri contemporanei?

L'uomo non è più tra noi, ma la sua vocazione rimane.

Un'eredità interiore

La «cultura di Averincev», se guardiamo ai suoi libri, ai suoi articoli disseminati dovunque, si è sviluppata contemporaneamente da numerose fonti. Chi avrebbe potuto riconoscere nel giovane filologo già dottissimo, che scriveva della poetica antico-russa o della vivacità storica della categoria del genere, il poeta che si teneva appartato e componeva inni appassionati all'Annunciazione? Volendo abbracciare in un solo sguardo tutto ciò che ha scritto, dai primi articoli fino agli ultimi lavori (anche se non ci sono tante persone capaci di assimilare in uno sguardo tutto questo), nasce la sensazione di uno sviluppo, di un cammino interiore che ha avuto le sue tappe, la sua specifica logica dell'anima. Molto schematicamente (dato che un breve discorso commemorativo non può essere uno studio) questa logica si potrebbe tracciare come il cammino da un problema di critica letteraria all'autore stesso, dall'uomo-scrittore all'uomo segreto del cuore, immerso in Dio, dall'uomo segreto al Nome che in lui è stato posto e che in lui canta; ma fermiamoci qua.

Nell'introduzione al libro Poeti, Averincev scrive: «Più che cercate di farli "miei", volevo piuttosto io stesso farmi "loro", perché il simile, secondo la vecchia massima, riconoscesse il proprio simile; perché essi stessi fossero non soltanto per il mio intelletto, ma anche per la mia emozione, ancora più interessanti dell'emozione in quanto tale per se stessa. Il mio scopo era di coinvolgere la mia soggettività nel processo della conoscenza però con l'intenzione che in questo processo essa avesse a "morire", Non spetta a me giudicate quando il mio proposito sia stato almeno in parte coronato da successo, o quando sia decisamente fallito. Di un fatto sono sicuro: i poeti dei quali ho scritto non sono stati per me un pretesto per dire qualcosa "al riguardo". Per me non sono mai stati altro che se stessi, vale a dire qualcosa di incomparabilmente più interessante di tutto ciò ch'io avessi da dire su di loro». (24)

Noi lettori siamo pronti a rispondere concordemente in coro: «Ci è riuscito, assolutamente». L'autore, tuttavia, vede meglio di chiunque. Evidentemente, è rimasto qualcosa oltre la parola, che lui sentiva più fortemente, che tormentava lui e non noi. Parlare di fallimento non è affatto una forma di riverenza letteraria, ma un normalissimo processo creativo, quando dietro ad ogni frase conclusiva cresce immediatamente una montagna di cose non dette fino in fondo, non partorite; una montagna di cose pensate, mature, che premono sulla porta serrata del nostro discorso, ma che questo non è ancora pronto ad accogliere. Averincev è stato capace di fare «suoi», «nostri», ma anche più propriamente «loro» una schiera delle migliori menti creative, tanto che questa stessa capacità è diventata la sua ricchezza, la sua ascesi, un’opera nel più rigoroso senso ecclesiale, e infine il suo testamento. Quello che ha fatto resterà con noi. Ma con noi resterà anche ciò che non ha detto fino in fondo, ciò che andava maturando ed era maturo in lui, ma è stato interrotto dalla morte.

Cerco una parola, ma le parole sembrano troppo logore, sfilacciate per riuscire a trasmettere l'inesprimibile. Forse la parola più precisa e meno inadeguata è la parola «sapienza», la sapienza in senso biblico, la sapienza della semplicità decantata, limpida, profonda. La «possente vecchiaia evangelica» è frutto della sapienza. Negli ultimi anni in Averincev era affiorata un’intonazione nuova, nient’affatto da maestro ma piuttosto da discepolo, era l'intonazione di una persona che ha cominciato a elargirsi, a mettersi in comune con gli altri. Parlava molto in pubblico, partecipava a molti convegni, scriveva introduzioni a libri altrui, con la sua stupefacente capacità di aprirsi agli altri era diventato un maestro anche nella pubblicistica. Quello che non gli era stato possibile da giovane - per banali motivi di censura - si era poi rivelato necessario, tempestivo ed estremamente richiesto nella maturità. In un certo senso, questo sapiente servizio al tempo e al mondo per un uomo del rango di Averincev era in parte un sacrificio, ma un sacrificio portato con letizia, che lo aveva entusiasmato (ed era diventato alla fine «la morte totale effettiva»). Molti hanno avuto e hanno qualcosa da dire, ma la parola di Averincev era intrisa di una particolare forza pacificante, rivestita della tacita potenza e fortezza di quella pace dell'anima che così tragicamente mancava e manca al mondo russo. Quando si leggono i suoi commenti degli ultimi anni a questo o quel fatto di cronaca, non si può fare a meno di notare che sono espressi con una chiarezza ideale. Non solo riusciva a cogliere il nocciolo della questione, ma trovava anche la giusta intonazione per poter discorrere del fatto. Ricordo ora l'articolo Noi e i nostri vescovi, ieri e oggi. Moltissimo era già stato scritto sull'argomento (ahimè, anche dall'autore di queste righe), ma di tutto questo forse è rimasto fissato non sulla sabbia ma sulla pietra solo quanto ha scritto lui, Averincev. In lui giustizia e misericordia non si contestano a vicenda ma si congiungono, si fondono insieme dando origine a qualcosa di organico, autentico. I suoi articoli sul matrimonio - una predicazione attuale e opportuna -, sul futuro del cristianesimo in Europa, sul contesto europeo dei dibattiti russi, sulla Parola divina e quella umana, sul cristianesimo nel XX secolo, sulla poesia di Ol'ga Sedakova; articoli frammisti a versi spirituali, rappresentano l'ultimo Averincev maturo, dal quale non si vuole, è difficile separarsi.

La sapienza di Averincev, che in qualche modo balenava in lui pur senza aver ancora raggiunto piena espressione, consisteva nella capacità, per dirla con Deržavin, di «conversar di Dio con sobrietà cordiale» e di dire la verità, anche quella più austera, con un sorriso buono, chiaro, quasi inerme.

L'attesa della morte

Chiudo con un osservazione personale. A chi scrive queste note è capitato di incontrare Averincev a Mosca, all'inizio degli anni ‘70 (il defunto Boris Šragin gli aveva fatto una visita di buon vicinato e mi aveva portato con sé), ma un vero rapporto e anche una certa amicizia - nonostante la differenza che corre fra le nostre persone e il nostro livello - sono nati fra noi soltanto vent'anni dopo. Non potrò dimenticare le nostre passeggiate per Roma nei primi anni '90. Ricordo in particolare il Lungotevere dove dei vecchi olmi toccano l'acqua con le fronde, formando una galleria verde sopra la testa. Una sera d'estate la sua fisionomia si stagliava sulle fronde verdi, e sembrava che la sua voce sommessa suonasse in armonia con il fruscio delle foglie.

Il giorno dopo la nostra passeggiata andammo in San Pietro. Non c'erano celebrazioni, in quel momento la chiesa era tutta dei turisti. Poco discosto dalla statua del primo degli apostoli, interrompendo d'un tratto il discorso su Vjačeslav Ivanov, Averincev si mise a recitare la sua Preghiera per l'ultima ora. Con una voce non sussurrata ma ferma, chiara, come di chi professa qualcosa che certamente si avvererà, e a cui il cuore è preparato da tempo:

Preghiera per l’ultima ora

Quando la Morte riderà di me
come colei che ride ultima e fiaccherà
le membra ad una ad una

Sia con me la Tua Forza

Quando il pensiero sprofonderà ottuso
quando la volontà si perderà
quand'io più non saprò il mio nome

Sia con me il Tuo Nome

Quando verrà la fine dei discorsi
e la lingua così loquace un tempo
s'impietrirà nell'afasia della tomba

Sia con me la Tua Parola

Quando passerà l'apparenza
che il veggente vedeva in piena luce
e la superbia del non essere
nuda apparirà

Colma di Te il mio vuoto.

Cercate di penetrare questa pienezza e questa economia di parole, di guardar dentro l'uomo che le ha udite. Non viene voglia di pregare non solo con lui, non solo per lui, ma lui stesso?

(fine)

Note


20) S. Averincev, Parola divina e parola umana, in «La Nuova Europa», n. 2, 196, p. 15.

21) Ibidem, Molitva o slovach, cit., p. 8.

22) Ibidem.

23) Ibidem, p. 9.

24) S. Averincev, Dieci poeti. Ritratti e destini, cit., p. 9.

Letto 1827 volte Ultima modifica il Mercoledì, 21 Maggio 2008 01:28
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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