Averincev: l’esperienza di costruire cultura
(prima parte)
di Vladimir Zelinskij
A Natalija Petrovna Averinceva
Nell’introdurre questa riflessione sui Sergej Averincev, penso innanzitutto alle sue poesie. Poesie che si vorrebbe chiamare «preghiere come gigli del campo», dal titolo che il monaco Kiprian Kern diede al suo libro sulla poesia liturgica, nella quale le parole, come steli di fiori, si piegano lievemente sotto il peso leggero, incorporeo, della preghiera.
Oh Dio, le parole fuggono
dalla fragile dimora dell'uomo
al nostro sentimento carnale
misteriosamente indifferenti;
staccandosi dalla mano, cominciano a vagare.
Come cani randagi ululano:
meglio è per loro ritornare a Te,
stringersi al Tuo sacrario. (1)
«Il deserto è fiorito come un giglio del campo, o Signore», si dice nell'Irmologion. (2) Quando si pensa all'ambiente, al terreno da cui è germogliato il «fenomeno Averincev», l'immagine del deserto «fiorito» come un giglio del campo si affaccia spontaneamente alla memoria. Certo, l'ululato di cani randagi è ciò che meno si percepisce nelle sue parole. Siamo piuttosto di fronte alla figura di un pentimento non retorico, perché le sue parole, staccatesi dalla mano, invece di vagare si tuffano in profondità alla ricerca di tesori nascosti nelle navi affondate e, raggiunti lì, li ripuliscono dalle alghe e dal fango... Le parole di Averincev sembrano custodire il profumo di quelle profondità, emanano la dolce antichità e il tepore degli altari sui quali si è appena estinto il fuoco dei greci che offrivano sacrifici, hanno la fragranza dei mari e degli stretti che un tempo Odisseo attraversò tornando in patria...
«Di molti uomini le città vide e conobbe la mente». (3)
La strada di Averincev, che si può seguire passando in rassegna le città che ha percorso e i luoghi che ha «visto», è sempre via del ritorno al «sacrario» attraverso la preghiera.
La chiave di Eraclito
Qualsiasi esperienza creativa può essere esaminata in diverse «chiavi», che a buon diritto prendiamo in prestito dagli autori più impensati. Da lungo tempo cerco di sciogliere l'enigma di Averincev usando la «chiave di Eraclito». Mi si è impresso nella memoria un frammento del pensatore greco, che è rimasto, come tutto in lui, oscuro e inesplicabile: «sapere molte cose non insegna ad avere intelligenza: l'avrebbe altrimenti insegnato a...» (fr. 40), e seguono i nomi degli oppositori di Eraclito: Esiodo, Pitagora e altri.
Negli anni in cui il nome di Averincev si sussurrava tra le élite delle biblioteche, tra un pubblico di pochi detti, sulle riviste letterarie, io, dissociandomi dall'atmosfera snob dei circoli esclusivi, usavo il verso di Etaclito proprio contro questo orgoglioso portatore o, come credevo, trasmettitore di nozioni inutili. Le conoscenze che Averincev aveva accumulato, allora come oggi, colpivano gli occhi invidiosi e stupefatti degli ascoltatori con il loro luccichio che a me, chissà perché, ricordava il luccichio delle monete di cui aveva fatto incetta il cavaliere avaro. (4) Neofita degli anni ’70, guardavo non senza ironia i giovani cercatori di Dio che come mosche sciamavano attorno al piatto colmo del miele vischioso dell'erudizione che si chiamava «lezione di Averincev», e ricordavo, forse fuori luogo, le parole evangeliche sul mercante che aveva venduto tutte le proprie ricchezze per quell'unica perla preziosa… In poche parole, «sapere molte cose non insegna ad avere intelligenza..», dove per me l'«intelligenza», il logos, il giglio era solo quella conoscenza interiore che sboccava nel Verbo che era in principio presso Dio e in principio presso l'uomo, e in confronto alla quale tutto il resto sembrava un ammasso di cocci.
Cos'era dunque quella conoscenza interiore che non desiderava riconoscersi in nessuna nozione esteriore? Sembrava una forza che agiva nelle cose, che si opponeva al caos delle molte istruzioni inutili sulla cultura e sul mondo, era l'essenza più intrinseca della realtà, l'«aletheia», secondo l'interpretazione di Martin Heidegger del frammento 16 di Eraclito, ossia la verità che emerge dal mistero in cui l'essere si rivela all'uomo. Questa verità non si può raggiungere con nessuna archeologia della conoscenza o dotta digressione culturale. Infatti, la cultura ci può accecare con i riflessi dell'individualità umana che si è staccata dal Verbo di Dio. Anche oggi molti la pensano così, contrapponendo la cultura non tanto alla Parola, quanto al culto, e considerandola come qualcosa di notoriamente inutile, che distoglie dall'«aletheia» della vita della Chiesa, dall'«unico necessario» della preghiera. Come se l'ampiezza e la varietà dei paesaggi culturali servissero solo ad attutire la voce dell'intelletto o del logos che parla in noi, a offuscare la luce del mistero che procede dal logos, dal Verbo, e dalla fede che di esso è partecipe.
Mi sono tanto dilungato a parlare di queste cose, proprio perché oggi non la penso più così. La mia protesta contro la freddezza delle «enciclopedie viventi» era in questo caso superficiale, e non teneva conto del «silenzio del Verbo» di Averincev, che può celarsi persino nella disciplina più prolissa e ramificata. Ma, dopo aver ascoltato una volta «la pienezza che non ha nome» (Vjačeslav Ivanov) e che sta dietro a questo silenzio, non ho più potuto separarmi dalla sua ricchezza, disseminata e nascosta nei testi di Averincev, esteriormente sovrabbondanti di reminiscenze culturali; non ho più potuto staccarmi da ciò che fin dall'inizio era colmo dell'intenso dialogo della preghiera, dialogo che cresce dallo stupore che si comunica agli ascoltatori.
Così che, se proprio dobbiamo «misurare» l'armonia con il metro dell'algebra e Averincev con il metro di Eraclito, visto che da qui siamo partiti, oggi come oggi preferirei un altro frammento, il 54, che dice: «L'armonia nascosta vale più di quella che appare».
E finalmente sono arrivato a ricostruire questa armonia nascosta mettendo insieme la moltitudine di frammenti, di isole, sulle quali è disseminata la galassia delle scienze di Averincev. Poiché «la forza materiale [anche quando si tratta della “materia" del pensiero – V. Z.] permette al significato spirituale di realizzarsiL'arcipelago Averincev
Konstantin Sigov, nella sua postfazione alla raccolta Sofia-Logos, ha definito, con un'espressione felice, questa miscellanea come un arcipelago, «un viaggio universale della conoscenza dalla A alla Z». (6) Ma la «A» in Averincev si trova dappertutto: nei greci, dai quali aveva cominciato, negli antichi bibliofili russi, ai quali era approdato, nell'acatisto alla Madre di Dio, di cui ci ha aiutato a scoprire la saggezza, nei Padri della Chiesa, dai quali non si è mai separato, in Vladimir Solov'ëv, che è diventato suo confratello, in Anna Achmatova, Marina Cvetaeva, in Vjačeslav Ivanov e in altri poeti ed eterni compagni di viaggio, in Walter Benjamin, Rilke, Tralk, Jung, Maritain, in molti altri che sono stati suoi compagni dicammino o, piuttosto, amici... e in tantissime altre diverse esperienze.
Ma con tutto ciò Averincev non è diventato affatto un prontuario ambulante, una sorta di enciclopedia della cultura mondiale. Se esaminiamo con attenzione la traiettoria del suo pensiero, all'apparenza ridondante ma al tempo stesso vivace e lieve, sentiremo che la sua «A», la sua «archè», sta prima della nascita delle parole, si trova «alle sorgenti del verbo», come dirà in seguito.
Nata dalla contemplazione, la sua parola segue il proprio «ciclo», per rifluire poi verso la fonte da cui era partita. È proprio questa fonte, ancora tutta da scoprire, che ci attira e ci affascina. Forse perché in ognuno dei suoi compagni di viaggio Averincev cerca un complice e un confratello, depositario come lui del segreto della sapienza che si è costruita una casa, o almeno un'abitazione fragile e provvisoria, in un certo destino, in un verso particolare e nel silenzio che vi si cela. E tutta questa pienezza del silenzio-conoscenza viene affidata ad ogni lettore attento di Averincev. Qualunque testo di Averincev noi prendiamo, è sempre un capolavoro di dialogo umano ben riuscito, ben realizzato (come dice Marina Cvetaeva: «l'anima si è realizzata»). (7) Un capolavoro che, per usare una delle sue parole preferite, «evoca» persone e concetti, che a loro volta prendono vita e fioriscono nella preghiera. I «protagonisti» di queste opere ci mostrano la loro faccia illuminata, rischiarata dalla luce del cuore che cade su ognuna delle isole dell'«arcipelago Averincev». personalità) diventa fitto e ricco di contenuto, poiché la sua propria voce si fonde con la voce dell'altro senza coprirla, dandole modo di esprimersi pienamente e creando così materia sonora per la Sapienza, la cui voce è sempre polifonica.
La chiave di Mandel'štam
«Solo un russo poteva rivelare questo Occidente, più concentrato e concreto dello stesso Occidente storico», (8) scriveva Mandel'štam di Čaadaev, ma forse queste parole si possono applicare, a maggior ragione, anche ad Averincev.
Non a caso abbiamo ricordato uno dei poeti a lui più familiari, nel quale è facile trovare una moltitudine di sentieri verbali che ci possono condurre anche al fenomeno Averincev. Cercare e trovare vie come queste, spesso impensate, che portino dall'uno all'altro è uno dei suoi segreti stilistici. «Oggetti piuttosto lontani l'uno dall'altro», secondo la definizione di poesia di Lomonosov, ma collegabili tra loro, creano un effetto di compattezza, densità e concretezza storica. Proprio questa compattezza costituiva una sorta di opposizione della parola in anni in cui ci si poteva impantanare nelle parole putrefatte e mummificate come in una fetida palude. Oggi, se ci voltiamo indietro a guardate la palude di ieri (da cui tutti, chi più, chi meno, allora siamo passati), non vi troviamo le impronte di Averincev.
«Dai nemici della parola emana un impuro sentore caprino che avverto quasi fisicamente», scriveva Mandel'štam nel 1921 nel saggio La parola e la cultura. (9)Questa può essere considerata la definizione più esatta dell'epoca che di lì a poco avrebbe ucciso lo stesso poeta. Negli anni in cui il giovane Sergej Averincev aveva appena incominciato a tessere i suoi rapporti sopraffini con la parola, il sentore caprino non era più quello della morte, almeno di quella fisica, ma era così pesante, asfissiante e onnipresente da sembrare ormai a tutti da tempo la normale atmosfera umana. Quando non era rimasto più neppure un barlume di speranza che un giorno tutto questo lezzo si sarebbe dissipato, Averincev aveva trovato il modo di respirate quell'aria diversa, che, a quanto pareva, era stata spazzata via alcuni decenni prima. Aveva trovato il modo non tanto di parlare, ma semplicemente di respirare senza assorbire con i polmoni i miasmi della palude, evitando però di atteggiarsi ad acerrimo nemico del «sentire caprino» (questa resistenza eroica troppo spesso si è rivelata, ahimè, fatale proprio al profumo diverso e sublime che avremmo voluto difendere).Dapprima in modo piuttosto intuitivo, ma poi, penso, in piena coscienza, decise di avere a che fare solo con i primi cittadini della repubblica dei pensatori e dei poeti, che sapeva scoprire in modo così infallibile. Penso che la sua stessa erudizione sia nata non dall'avidità di accumulare nozioni alla rinfusa, ma dal bisogno di amicizia, proprio di quell'amicizia che nella lingua ellenica si chiama philia: da qui la sua philo-logia, philo-sophia, che in Averincev non sono materie e discipline, ma stati di un'anima amica, che ama. «E il mare e Omero, tutto è mosso dall'amore»; (10) ricordiamo ancora una volta Mandel'štam, poiché è come se il mare di Averincev con le sue isole fosse attraversato dalla tiepida Corrente del golfo... Non su tutte le isole sono vissuti eroi che gli sono ugualmente cari, congeniali, compartecipi delle sue scoperte, tuttavia non si trova mai in lui un tono tagliente, che assieme agli errori mozzi via tutta la personalità dell'altro. Il metodo di Averincev è la finezza d'orecchio, da cui nasce anche il dialogo, un dialogo così aperto all'interlocutore, così disposto a comprenderlo, che è come se questa comprensione impedisse all'autore stesso di pronunciarsi. Spesso ci tocca andare a scovare il suo pensiero in testi che parlano d'altro, e perciò non è facile tracciare un confine tra ciò in cui c'è tutto lui, e ciò dove lui non c'è più per niente, ma ha lasciato il posto a un altro misterioso, che secondo Tjutčev «hanno accolto i beati dei come un convitato alla festa». (11)
«Lo afferra la profonda gioia dell'iterazione, una gioia che dà il capogiro», (12) secondo le parole di Mandel'štam, poiché Averincev sa e ama ritrovare se stesso in qualsiasi interlocutore. Per questo è rimasto straordinariamente libero dalla logorroica frenesia dell'ego che si è impadronita di tutti, in particolare all'inizio dell'epoca della libertà; è rimasto libero dall’estasi di lavare in pubblico i panni sporchi del proprio «io». Le sue isole si richiamano l'una con l'altra, si invitano a fuochi notturni, segnali, messaggi d’amicizia, poiché alla base risuona sempre la stessa notizia, ma ogni volta in modo diverso, in cento diverse interpretazioni, saggi e versi. «I versi», dice Mandel’štam, «vivono di un'immagine interiore, di quel sonoro calco della forma che precede la poesia scritta», (13) e noi vediamo come questa immagine interiore, maturata in Averincev, viene da lui intuita e creata poeticamente in modo instancabile nei suoi amici e interlocutori. Questa immagine interiore che egli trova dappertutto, perché vive in primo luogo dentro di lui, si chiama «Sapienza».
Sofia, Shekinah, (14) Parola
Averincev promuove sempre il suo lettore, lo introduce da pari in una cerchia scelta, sebbene non proprio ristretta, di amici fidati, e chiunque egli inviti non può fare a meno di seguirlo, anche se può capitare che non si senta del tutto a proprio agio alle sue latitudini.
Ne è un esempio il modo in cui ci invita ad andare in pellegrinaggio alla Sofia. «Personalmente mi sembra impossibile pronunciare il nome della città di Kiev», ha affermato all'inizio della lezione all'Accademia Mogiliana, quando gli è stato conferito il titolo di professore Honoris causa, «senza pensare al suo santissimo Palladio, che porta il nome di cattedrale di Santa Sofia». (15) Il costrutto «a me personalmente» sottolinea, a quanto pare, la soggettività di chi parla, che si scusa un po' con gli ascoltatori per questo «io», sbucato fuori in modo importuno. Tuttavia, in questo preambolo si sente già la dolce autorevolezza, che non deriva dal carattere (poiché sarebbe difficile trovare una persona più delicata), ma che nasce dall'atmosfera di culto, nella quale noi, seguendo i passi dell'autore, ci prepariamo a entrare. Ed ecco che l'ascoltatore o il lettore si mette già in viaggio per l'«arcipelago Averincev» salpando da un porto chiamato «santissimo Palladio» e portandosi dietro come provvista un po' di questa santità. «L'argomento di questo saggio è ristretto e al tempo stesso ampio fino ad essere inesauribile», (16) così inizia un altro, precedente saggio sulla Sofia, ed ecco che, cominciando dall'abside della chiesa di Kiev, il filo del suo pensiero-narrazione si immerge in profondità, scende verso le proprie radici, che affondano in Proclo e Platino, in Omero e nell'Edda Antica, (17) e in molte altre opere e autori. La Sapienza chiama Averincev da ogni luogo, e così sembra che il suo viaggio non debba finire mai, ma è proprio questa la peculiarità della famosa sensibilità universale dell'anima slava, di Dostoevskij o, a maggior ragione, di Puškin, che impone delle soste per rispondere a ogni richiamo. Se vogliamo fare un paragone, il metodo e la ragione occidentali ci trascinano dal punto A al punto B come a rimorchio, senza perdersi in inutili digressioni che portano lontano, senza librarsi in alto, senza tuffarsi in profondità, e, normalmente, il punto d’arrivo ci è noto fin dall'inizio. Nella navigazione di Averincev, invece, è importante la stessa cordialità della risposta, un indugiare lungo la via che talvolta sembra del tutto ingiustificato, un particolare che improvvisamente affiora alla memoria e viene portato in offerta a un altare invisibile, e magari è proprio quello a diventare il punto d'arrivo segreto. «La sapienza si è costruita una casa» (Pr9,1), ma in Averincev questa costruzione avviene sotto i nostri occhi: solo un lettore del tutto sprovveduto può non accorgersi di essere finito senza volerlo in questa casa, e per di più non dall'esterno come «osservatore culturale», ma dall'interno, come chi partecipa a un culto nel quale si sente coinvolto.
Lasciamo stare le isole sulle quali la Sapienza ha lasciato traccia di sé, e approdiamo alla Bibbia, alla Parola, poiché in fin dei conti proprio a questo continente ci conduce il nostro autore-Odisseo, Mi perdonino i lettori per la libera interpretazione, ma la Parola in questo testo di Averincev nasce dalla Shekinah, dalla presenza sacra, dalle manifestazioni di Dio nel mondo, che secondo l'interpretazione audace dell'autore si presenta come un Suo alter ego moltiplicato. E l'alter ego di Dio è proprio la Sapienza, definita nel libro di Gesù figlio di Sira «un'emanazione della potenza di Dio, un effluvio genuino della gloria dell'Onnipotente» (Sap 7,25).
La Shekinah non solo ci illumina, è presente o prende dimora in noi (come dice la preghiera allo Spirito Santo), il suo ruolo in Averincev è più attivo: la Shekinah raccoglie come un uccello sotto le ali ciò che da essa nasce, ciò che ne è illuminato. Essa «plasma» l'agire umano, nell'arte, nella costruzione della società, nella preghiera. «Raccogliendo i corpi cosmici in un universo ordinato, raccogliendo i pensieri degli uomini in un cosmos intellettuale disciplinato, la Sapienza raccoglie anche terre, città e paesi in uno Stato sacro centralizzato. Perché anche lo Stato è la sua “casa”». (18)
Mi permetto di fare un'analogia arrischiata: il «cosmos intellettuale» di Averincev nasce dall’unione dei molti corpi, frammenti e volti «culturali» in cui si è imbattuto come per caso, senza un progetto premeditato, ma che sono divenuti, solo grazie a un'intuizione nata prima dei testi, una sorta di edificio di culto, di Stato della saggezza, di reame delle scoperte, di società degli amanti della sapienza; certo, una sapienza puramente umana, che si compone in unità in un grandioso affresco. Nell'«intellettualismo sacro» della Sofia di Averincev la sacralità sembra ben nascosta dietro l'intellettualismo, ma via via che i suoi testi si moltiplicano e si arricchiscono di contenuto spirituale, possiamo constatare come essa si fa sentire sempre più apertamente. Si fa sentire direttamente come professione della vera fede sua, di Averincev.
Infatti, si può professare la propria fede anche così: raccontando delle ricchezze che la ragione, illuminata dalla fede stessa, ha accumulato. «Credere in un unico Dio», dice Averincev del metropolita Ilarion, autore del Sermone sulla legge e la grazia, - ma forse avrebbe potuto a buon diritto applicare anche a sé queste parole -, «non solo è più santo, ma anche più intelligente, ed è più intelligente proprio perché è più santo». (19) Del resto, Averincev non avrebbe mai detto di sé nulla di simile, e, vista la sua umiltà, non lo avrebbe nemmeno pensato. Eppure ha individuato sperimentalmente questa legge, e se non è stato lui a scoprirla, comunque l'ha dimostrata secondo nuove modalità, riconducendo all'intelletto tutto ciò che la santità e la contemplazione della Shekinah o della Sapienza gli avevano rivelato, e raccogliendo i tesori dell'intelletto, tutta la memoria degli incontri, delle conversazioni, dei dialoghi e dei richiami nella santità della conoscenza che aveva scoperto per la nostra epoca.(continua)
Note
1) S. Averincev, Molitva o slovach (Preghiera per le parole), in: Idem, Stinchi duchovnye (Versi spirituali), Kiev 2002, pp. 8-9.
2) Cit. da: Archimandrita Kiprian (Kern), Kriny molitvennye (Poesie come gigli del campo, Mosca 2002, p. 13. L’Irmologion è un libro liturgico della tradizione bizantina, che contiene i testi delle parti cantate di tutti gli uffici.
3) Omero, Odissea, Torino 1981, p. 3.
4) Allusione a protagonista dell’omonima tragedia di Puškin (1830).
5) S. Averincev, Slovo-Logos (Parola-Logos), Kiev 2000, p. 234.
6) Ibidem, p. 423.
7) M. Cvetaeva, Zoloto moich volos (L’oro dei miei capelli), in: Idem, Sobranie sočinenij v semi tomach (Opere in sette volumi), Mosca 1994, vol. 2, p. 149.
8) O. Mandel’štam, Slovo i kul’tura. K stat’e e «Čaadaev» (La parola e la cultura. Per l’articolo «Čaadaev»), Mosca 1987, p. 267. Tr. it. In: S. Averincev, Dieci poeti. Ritratti e destini, La Casa di Matriona, Milano 2001, pp. 187-188 e in: O. Mandel’štam, La quarta prosa, Bari 1967, p. 109.
9) Ibidem, p. 40; tr. it. in: O. Mandel’štam, La quarta prosa, p. 40.
10) O. Mandel’štam, Betonica. Gomer. Tugie parusa (Insonnia. Omero. Vele spiegate), in: Idem, Sobranie sočinenij (Opere), New York 1955, pp. 76-77.
11) F. Tjutčev, Ciceron (Cicerone), testo russo e trad. it. in: Idem, Poesie, Milano 1993, pp. 130-131.
12) O. Mandel’štam, Slovo i kul’tura, p. 41. tr. it. in: Idem, La quarta prosa, p. 42.
13) Ibidem, p. 42; tr. it. in: La quarta prosa, p. 44.
14) Il termine Shekinah indica la divinità immanente, la presenza di Dio nel mondo.
15) S. Averincev, Slovo-Logos (Parola-Logos), Kiev 2000, p. 6.
16) S. Averincev, K ujasneniju smysla nadpisi nad konchoj central’noj apsidy Sofii Kievskoj (Per comprendere il senso dell’iscrizione sulla conca dell’abside centrale della Sofia di Kiev), in: Drevnerusskoe iskusstvo i chudožestvennaja kul’tura domongol’skoj Rossii (Arte antico-russa e cultura figurativa della Russia premongolica), Mosca 1972, p. 25.
17) L’Edda Antica, o Edda Poetica, considerata la prima opera della letteratura germanica, è attribuita al monaco cristiano Saemund che operò in terra vichinga. La sua stesura risale all’800 d. C.
18) S. Averincev, K ujasneniju smysla nadpisi nad konchoj central’noj apsidy Sofii Kievskoj, p. 42.
19) Ibidem, pp. 42-43.